Emiliano Brancaccio Economista, docente all'Università del Sannio
Vittorio Bonanni
Emiliano Brancaccio, classe 1971, economista, è ricercatore e docente di Fondamenti di Economia politica e di Economia del lavoro presso l'Università del Sannio, a Benevento. E' uno dei principali interlocutori di Liberazione sulle grandi questioni economiche nazionali e internazionali e dunque un suo parere sulla crisi economica e finanziaria che sta investendo l'Irlanda è fondamentale per capire che cosa sta esattamente avvenendo.
Difficile capire le ragioni della crisi in Eire. Quando gli stessi fatti si sono verificati in Grecia il governo di Atene era stato considerato responsabile per i troppi "privilegi" dei quali godevano, o avrebbero goduto, i lavoratori ellenici. Insomma, troppo stato sociale avrebbe causato la bancarotta. Ma come spieghiamo che lo stesso è avvenuto a Dublino dove sono state adottate politiche restrittive fatte di tagli e di contenimento del debito?
Per i pasdaran del capitalismo senza freni l'Irlanda ha rappresentato un esempio da seguire. Debito pubblico irrisorio, stato sociale minimo, tutela del lavoro inesistente e invece una politica di abbattimento delle tasse sulle imprese e di deregolamentazione finanziaria. Questa politica per un certo tempo ha generato una bolla speculativa con tassi di sviluppo piuttosto alti. Ma anche un enorme indebitamento del settore privato. L'esplosione della crisi globale ha reso questo debito in larga misura inesigibile. E' questo il motivo principale per cui gli speculatori si sono scatenati. Adesso il governo irlandese cerca di metterci una pezza scaricando le insolvenze dei privati sul debito pubblico e chiede aiuto all'Europa e al Fmi in cambio di misure draconiane che colpiranno in primo luogo i lavoratori.
Ma in questo modo la crisi non si risolve....
Anzi si aggrava. Ricordo che nel giugno scorso abbiamo pubblicato la "Lettera degli economisti", sottoscritta da oltre 250 studiosi. La "Lettera" ci dice che la crisi economica globale iniziata nel 2008 trova una delle sue cause scatenanti in una contraddizione sociale tra i tentativi di reprimere progressivamente le capacità di spesa del lavoro e al tempo stesso di aumentare il grado di sfruttamento del lavoro. Questa contraddizione genera una crisi di realizzo che rischia di aggravarsi proprio a causa di politiche restrittive che ancora una volta ricadono sul lavoro. Il problema è che tali politiche sono sostenute da un coacervo di interessi al momento prevalenti, che si riflettono soprattutto nel modo in cui il paese-guida della zona dell'euro, cioè la Germania, ha deciso di interpretare e sfruttare la crisi.
Unicamente a proprio vantaggio mi sembra....
Il punto è che l'economia tedesca gode di un grado di organizzazione e di centralizzazione dei capitali molto alto, che genera forte crescita della produttività. A ciò si aggiunge una politica tedesca di contenimento della spesa e dei salari in rapporto alla produttività. Questa combinazione ha consentito ai capitali tedeschi di penetrare nei mercati esteri più deboli, e ha fatto sì al tempo stesso che la Germania comprasse poco accumulando crediti verso gli altri paesi europei, i quali invece si sono corrispondentemente indebitati. Questa profonda asimmetria all'interno della Unione europea, nella crisi globale che stiamo attraversando, alimenta una ulteriore contraddizione di tipo territoriale, dagli esiti potenzialmente distruttivi.
Che idea c'è dietro questa ulteriore contraddizione?
La visione che prevale nell'establishment tedesco è che il riequilibrio tra i vari paesi europei deve restare interamente a carico dei paesi debitori, i quali dovranno riaggiustare la loro posizione attraverso l'abbattimento dei salari e delle capacità di spesa. Ma questa linea accentua e non corregge gli squilibri, poiché tra l'altro determina ritmi di sviluppo ancor più sbilanciati tra i paesi. Per cui evidentemente la Germania riesce a risalire un po' la china della crisi mentre gli altri entrano in una situazione di crisi strutturale, che può diventare irreversibile. Il rischio è quello di una vera e propria desertificazione produttiva delle aree periferiche dell'Unione europea e processi migratori ancor più intensi verso le aree centrali. Ma in fondo questo pericolo viene messo in conto da chi mira a fare dell'Europa una sorta di "grande Germania", con il capitale accentrato in mani tedesche e i paesi periferici che fungono da meri azionisti di minoranza e fornitori di manodopera a basso costo.
Come si esce da questa situazione?
Molti si augurano che esca fuori una "borghesia illuminata" che rimetta in sesto le cose. La storia tuttavia ci insegna che "i lumi" in genere scaturiscono dal conflitto sociale, in particolare dal pungolo del movimento operaio.
Venendo all'Italia, anche qui la crisi economica potrebbe costringerci a seguire le indicazioni del Consiglio europeo che il prossimo 15 dicembre potrebbe "consigliare" una manovra pesantissima per il nostro Paese. E con un governo traballante. Che cosa dobbiamo aspettarci?
Mi auguro che il 15 dicembre,
quale che sia lo status del governo in carica quel giorno, l'Italia dica con chiarezza "no" a una eventuale stretta europea sulla gestione del nostro debito pubblico. Dire "no" è senz'altro possibile. La Lettera degli economisti offre una traccia per una linea di indirizzo alternativa. Del resto, uscire dalla linea di recessione e di repressione sociale in cui si è infilata l'Unione europea richiede oggi una netta presa di posizione da parte delle autorità dei paesi periferici. Soprattutto gli eredi della tradizione del movimento operaio devono capire che in Europa questo è il tempo della dialettica politica, non della vuota retorica.
Liberazione 25/11/2010, pag 2
Nessun commento:
Posta un commento