Da giorni infuria sui giornali la polemica tra critici e sostenitori dell'autore di "Gomorra"
Giuseppe Prestipino
La mafia è una "famiglia" allargata. Già nelle sue lontane origini la mafia, quella siciliana in specie, era stata una specie di organo informale incaricatosi di amministrare la "giustizia", di raddrizzare i torti, punendo i presunti colpevoli e difendendo, a suo modo, i deboli (se "sudditi" devoti). Questo "nobile" compito si tramanda ancora, debitamente ammodernato, fermo restando che la colpa per antonomasia, quella espiata con la pena di morte, è il tradimento o l'infedeltà intesa come il non tener fede ai patti giurati (altro simulacro macabro della logica contrattualistica, del "contratto sociale").
La mafia è un potere spietato, ma a suo modo convinto che i suoi siano fini di bene e perciò giustifichino i mezzi più crudeli. Un potere sorretto dalla diffusa opinione che, in Sicilia, l'autorità politica non sia mai esistita o sia stata sempre un corpo estraneo (una dominazione straniera). Il potere autoctono della mafia si sostituisce al potere politico e a quello giudiziario (incapace di fare giustizia) per una sorta di ispirazione divina o per una missione da compiere con spavalda modestia. Perciò può, di volta in volta, ignorare il potere politico e giudiziario o combatterlo, scegliendovi le vittime designate, o anche venire a patti con quello, per condurre a buon fine i propri affari illeciti. In un libro di Salvo Palazzolo e del magistrato Michele Prestipino ( Il codice Provenzano , Laterza, Roma-Bari, 2007) sono trascritti i "pizzini" del capo-mafia Bernardo Provenzano contenenti gli ordini, i consigli, le raccomandazioni, i ringraziamenti rivolti a gregari, complici, fiancheggiatori, protettori. La scrittura è in cifra, per sviare le eventuali indagini, le sgrammaticature sono di un uomo che non ha ultimato le scuole elementari, ma a suo modo esprime una cultura antica e moderna insieme, con una sua "arte di governo". Sembra un'anomalia il controllo economico-politico a carattere "globale" esercitato dal piccolo rifugio sperduto detto "Montagna dei Cavalli" nella Sicilia più nascosta e più desolata. Ma il continuo intercalare o suggellare le frasi con «Nostro Signore Gesù Cristo» e con altre invocazioni o con altri ringraziamenti alla divina Grazia o alla divina Provvidenza, non credo che sia soltanto un ricorso a metafore per designare altri e più terreni protettori o intermediari. No, il personaggio vuol essere un "Uomo della Provvidenza" in piena regola e, anche quando ordina il male, vi è costretto a fin di Bene o per scongiurare un male maggiore. In altre parole, egli esprime con la sua epistolare rozzezza il bisogno di una politica come etica, di fronte alla nudità etica della politica odierna. Si scaglia contra gentiles . In un personaggio come il Provenzano la massima secondo la quale il fine giustifica i mezzi ci fa pensare a un "gesuita moderno", a un tentativo di rivincita religiosa sul terreno obbligato sul quale si muove l'avversario di ogni religione, oltremondana o laica che sia. Sono dunque sintomatiche, nelle missive (nei "pizzini") di Provenzano e dei suoi interlocutori, le ricorrenti invocazioni al «Buon Dio» o al «volere di Dio», all'«adorato Signore Gesù Cristo» o alla protezione «del Signore». Sono sintomatiche le notizie fornite dagli inquirenti sui preti confessori occulti, sui rosari trovati in ogni angolo di un rifugio e sulla inseparabile Bibbia, della quale il padrino leggeva soprattutto il Vecchio Testamento, sulle giustificazioni della figlia del mafioso Lipari: «sono cresciuta in ambienti molto cattolici, e mi hanno insegnato: onora il padre e la madre». Gli autori del libro commentano: «non doveva essere solo finzione» e scrivono che, tra i fedelissimi, il nome di Provenzano «evocava già santità».
La riforma di Provenzano, dopo le efferatezze di Riina, era anche in una «rinnovata identità religiosa costruita ad arte», con una componente di ipocrisia per «camuffare» ben altri interessi? Non credo. Il padrino si nascondeva in un luogo prossimo alla Montagna dei Cavalli. Il suo voleva essere invece una imitazione del "discorso dalla Montagna"? A un prete più severo nei confronti della mafia il padrino chiede, sorpreso: «Ma dove sta scritto questo peccato?»; e quando Giovanni Paolo II aveva tuonato contro la mafia, Antonino Cinà sentenzia: è stato «pesante verso i siciliani in generale». Non omertà nei silenzi dei complici catturati e nel loro addossarsi colpe altrui, ma avversione morale contro ogni tradimento, fino al suicidio in carcere di chi non ha più scampo di fronte alla giustizia penale? I boss e i loro affiliati sono «samurai liberisti», «kamikaze dei clan», come afferma Roberto Saviano, in Gomorra ? Nella «lettera di un ragazzino rinchiuso in un carcere minorile» a Napoli, lettera consegnata a un prete, è scritto: «Voglio avere supermercati, negozi, fabbriche, voglio avere donne […]. E poi voglio morire. Ma come muore uno vero, uno che comanda veramente. Voglio morire ammazzato». «Le buone opere erano gli affari». Potrei congetturare che il cattolicissimo capo mafia, sempre fiducioso nella «Divina Provvidenza», si riaccostava di fatto a quell'«etica protestante» che Weber aveva associato al capitalismo della prima modernità: il buon esito negli affari, negli affari di ogni sorta, sarebbe la prova terrena della Grazia celeste e della predestinazione alla Salvezza. E gli affari si fanno o si procurano spesso secondo dottrine protezioniste con deliberata infrazione della libera concorrenza. Non più o non più soltanto traffico di stupefacenti. I nuovi affari, nel regno di Provenzano, sono affari aggiornati: a imitazione dell'alta finanza, per l'intermediazione tra grandi potentati e per la compartecipazione azionaria in grandi imprese "pulite", specie se appaltatrici di lavori pubblici. Secondo il vicequestore Ninni Cassarà, successivamente assassinato, si realizzava «in Cosa Nostra, come accade negli Stati Uniti, il passaggio dalle ‘illegittimate activities' alla ‘legittimate industries'» e si rinnovellava il transito di capitali dalla Sicilia ad Atlantic City e verso altri centri oltreoceano. Punizioni erano comminate ad amministratori disonesti come a ladruncoli abusivi (punizioni post factum se non potevano essere preventive). Erano e sono tuttora consuetudine delle Cosche la composizione pacifica di contrastanti pretese o interessi, le raccomandazioni, i favori, in specie procurando occupazione ai giovani anche in barba alle graduatorie pubbliche, i consigli paterni nelle «questioni di cuore», la protezione della donna, la disciplina della vita privata per la serenità familiare, perché la famiglia è «la cellula fondante» ed è un obbligo la difesa dei diritti della persona. Il capo mafioso suole e vuole essere considerato «maestro di vita». Tali doveri facevano parte dei compiti di supplenza nei confronti di uno Stato senza luce etica e di una giustizia pubblica considerati o assenti o paralizzati da una lentezza esasperante. Il "pizzo" non è che una tassa necessaria per far funzionare quello Stato parallelo; una tassa che ha le sue regole morali (non può essere riscossa oltremisura né da esattori diversi nello stesso frangente). Perché il governo mafioso, come ogni buon governo, deve basarsi sul consenso dei governati. E anche nel fare giustizia il massimo risultato dev'essere ottenuto con il minimo mezzo. Il fine giustificava i mezzi anche nelle infiltrazioni dissimulanti persino sentimenti "antimafia".
Non si comprende nulla delle vecchie e nuove mafie, se non si mette nel conto quel principio di compensazione per il quale, quanto più la nuova civiltà smarrisce ogni ispirazione etica, o etico-politica, tanto più fatalmente si insinua tra le sue smagliature il vecchio-nuovo di chi vuol farsi autore o portatore di una legge ferrea, di un'organizzazione "politica" forte e ramificata, ma sempre eticamente connotate pur nel loro, almeno apparente, anacronismo di legge e di politica maledette. Ma eticità e dignità sono una cosa sola. Ebbene, chi appartiene a una cosca camorristica e, più ancora, chi ne è il capo deve far salva, e anche ostentare, una sua dignità sui generis . Secondo Saviano, Cosimo Di Lauro, prima che i carabinieri lo arrestino, ha cura di azzimarsi, di lisciare i capelli. «Indossa un dolcevita scuro e un impermeabile nero». Deve mostrarsi fiero e spavaldo davanti alla gente, davanti alle telecamere. Concepisce «la vita come uno spazio dove poter conquistare tutto al rischio di perdere ogni cosa». «La logica dell'imprenditoria criminale, il pensiero dei boss coincide col più spinto neoliberismo. Le regole dettate, le regole imposte, sono quelle degli affari, del profitto, della vittoria su ogni concorrente».
Alessandro Dal Lago e altri hanno biasimato Saviano con motivazioni anche sociologiche e politiche. I critici e i difensori di Saviano hanno piena facoltà di disputare se egli è di destra o di sinistra, se scrive cattivi romanzi o buona cronistoria, se è sordo o sensibile al più vasto e ponderoso contesto capitalistico nel quale la camorra si inserisce come fenomeno marginale o invece funzionale. A me preme sottolineare, da un lato, le tendenze eversive (o intrinsecamente "criminali") di un capitalismo globale che, con i suoi Marchionne o con il suoi Tremonti, ricattando il lavoro, lo opprime mentre sopprime etica pubblica, diritti costituzionali e libertà personali; dall'altro lato, la concorde-discorde ridislocazione di mafie e camorre in quel consesso di più grandi poteri devastanti, accompagnata tuttavia da una restaurazione (terroristica) del sacro e dei vincoli patriarcali, ostentati come rifiuto dell'odierno "relativismo" ultra-secolarizzato.
Liberazione 20/06/2010, pag 12
Giuseppe Prestipino
La mafia è una "famiglia" allargata. Già nelle sue lontane origini la mafia, quella siciliana in specie, era stata una specie di organo informale incaricatosi di amministrare la "giustizia", di raddrizzare i torti, punendo i presunti colpevoli e difendendo, a suo modo, i deboli (se "sudditi" devoti). Questo "nobile" compito si tramanda ancora, debitamente ammodernato, fermo restando che la colpa per antonomasia, quella espiata con la pena di morte, è il tradimento o l'infedeltà intesa come il non tener fede ai patti giurati (altro simulacro macabro della logica contrattualistica, del "contratto sociale").
La mafia è un potere spietato, ma a suo modo convinto che i suoi siano fini di bene e perciò giustifichino i mezzi più crudeli. Un potere sorretto dalla diffusa opinione che, in Sicilia, l'autorità politica non sia mai esistita o sia stata sempre un corpo estraneo (una dominazione straniera). Il potere autoctono della mafia si sostituisce al potere politico e a quello giudiziario (incapace di fare giustizia) per una sorta di ispirazione divina o per una missione da compiere con spavalda modestia. Perciò può, di volta in volta, ignorare il potere politico e giudiziario o combatterlo, scegliendovi le vittime designate, o anche venire a patti con quello, per condurre a buon fine i propri affari illeciti. In un libro di Salvo Palazzolo e del magistrato Michele Prestipino ( Il codice Provenzano , Laterza, Roma-Bari, 2007) sono trascritti i "pizzini" del capo-mafia Bernardo Provenzano contenenti gli ordini, i consigli, le raccomandazioni, i ringraziamenti rivolti a gregari, complici, fiancheggiatori, protettori. La scrittura è in cifra, per sviare le eventuali indagini, le sgrammaticature sono di un uomo che non ha ultimato le scuole elementari, ma a suo modo esprime una cultura antica e moderna insieme, con una sua "arte di governo". Sembra un'anomalia il controllo economico-politico a carattere "globale" esercitato dal piccolo rifugio sperduto detto "Montagna dei Cavalli" nella Sicilia più nascosta e più desolata. Ma il continuo intercalare o suggellare le frasi con «Nostro Signore Gesù Cristo» e con altre invocazioni o con altri ringraziamenti alla divina Grazia o alla divina Provvidenza, non credo che sia soltanto un ricorso a metafore per designare altri e più terreni protettori o intermediari. No, il personaggio vuol essere un "Uomo della Provvidenza" in piena regola e, anche quando ordina il male, vi è costretto a fin di Bene o per scongiurare un male maggiore. In altre parole, egli esprime con la sua epistolare rozzezza il bisogno di una politica come etica, di fronte alla nudità etica della politica odierna. Si scaglia contra gentiles . In un personaggio come il Provenzano la massima secondo la quale il fine giustifica i mezzi ci fa pensare a un "gesuita moderno", a un tentativo di rivincita religiosa sul terreno obbligato sul quale si muove l'avversario di ogni religione, oltremondana o laica che sia. Sono dunque sintomatiche, nelle missive (nei "pizzini") di Provenzano e dei suoi interlocutori, le ricorrenti invocazioni al «Buon Dio» o al «volere di Dio», all'«adorato Signore Gesù Cristo» o alla protezione «del Signore». Sono sintomatiche le notizie fornite dagli inquirenti sui preti confessori occulti, sui rosari trovati in ogni angolo di un rifugio e sulla inseparabile Bibbia, della quale il padrino leggeva soprattutto il Vecchio Testamento, sulle giustificazioni della figlia del mafioso Lipari: «sono cresciuta in ambienti molto cattolici, e mi hanno insegnato: onora il padre e la madre». Gli autori del libro commentano: «non doveva essere solo finzione» e scrivono che, tra i fedelissimi, il nome di Provenzano «evocava già santità».
La riforma di Provenzano, dopo le efferatezze di Riina, era anche in una «rinnovata identità religiosa costruita ad arte», con una componente di ipocrisia per «camuffare» ben altri interessi? Non credo. Il padrino si nascondeva in un luogo prossimo alla Montagna dei Cavalli. Il suo voleva essere invece una imitazione del "discorso dalla Montagna"? A un prete più severo nei confronti della mafia il padrino chiede, sorpreso: «Ma dove sta scritto questo peccato?»; e quando Giovanni Paolo II aveva tuonato contro la mafia, Antonino Cinà sentenzia: è stato «pesante verso i siciliani in generale». Non omertà nei silenzi dei complici catturati e nel loro addossarsi colpe altrui, ma avversione morale contro ogni tradimento, fino al suicidio in carcere di chi non ha più scampo di fronte alla giustizia penale? I boss e i loro affiliati sono «samurai liberisti», «kamikaze dei clan», come afferma Roberto Saviano, in Gomorra ? Nella «lettera di un ragazzino rinchiuso in un carcere minorile» a Napoli, lettera consegnata a un prete, è scritto: «Voglio avere supermercati, negozi, fabbriche, voglio avere donne […]. E poi voglio morire. Ma come muore uno vero, uno che comanda veramente. Voglio morire ammazzato». «Le buone opere erano gli affari». Potrei congetturare che il cattolicissimo capo mafia, sempre fiducioso nella «Divina Provvidenza», si riaccostava di fatto a quell'«etica protestante» che Weber aveva associato al capitalismo della prima modernità: il buon esito negli affari, negli affari di ogni sorta, sarebbe la prova terrena della Grazia celeste e della predestinazione alla Salvezza. E gli affari si fanno o si procurano spesso secondo dottrine protezioniste con deliberata infrazione della libera concorrenza. Non più o non più soltanto traffico di stupefacenti. I nuovi affari, nel regno di Provenzano, sono affari aggiornati: a imitazione dell'alta finanza, per l'intermediazione tra grandi potentati e per la compartecipazione azionaria in grandi imprese "pulite", specie se appaltatrici di lavori pubblici. Secondo il vicequestore Ninni Cassarà, successivamente assassinato, si realizzava «in Cosa Nostra, come accade negli Stati Uniti, il passaggio dalle ‘illegittimate activities' alla ‘legittimate industries'» e si rinnovellava il transito di capitali dalla Sicilia ad Atlantic City e verso altri centri oltreoceano. Punizioni erano comminate ad amministratori disonesti come a ladruncoli abusivi (punizioni post factum se non potevano essere preventive). Erano e sono tuttora consuetudine delle Cosche la composizione pacifica di contrastanti pretese o interessi, le raccomandazioni, i favori, in specie procurando occupazione ai giovani anche in barba alle graduatorie pubbliche, i consigli paterni nelle «questioni di cuore», la protezione della donna, la disciplina della vita privata per la serenità familiare, perché la famiglia è «la cellula fondante» ed è un obbligo la difesa dei diritti della persona. Il capo mafioso suole e vuole essere considerato «maestro di vita». Tali doveri facevano parte dei compiti di supplenza nei confronti di uno Stato senza luce etica e di una giustizia pubblica considerati o assenti o paralizzati da una lentezza esasperante. Il "pizzo" non è che una tassa necessaria per far funzionare quello Stato parallelo; una tassa che ha le sue regole morali (non può essere riscossa oltremisura né da esattori diversi nello stesso frangente). Perché il governo mafioso, come ogni buon governo, deve basarsi sul consenso dei governati. E anche nel fare giustizia il massimo risultato dev'essere ottenuto con il minimo mezzo. Il fine giustificava i mezzi anche nelle infiltrazioni dissimulanti persino sentimenti "antimafia".
Non si comprende nulla delle vecchie e nuove mafie, se non si mette nel conto quel principio di compensazione per il quale, quanto più la nuova civiltà smarrisce ogni ispirazione etica, o etico-politica, tanto più fatalmente si insinua tra le sue smagliature il vecchio-nuovo di chi vuol farsi autore o portatore di una legge ferrea, di un'organizzazione "politica" forte e ramificata, ma sempre eticamente connotate pur nel loro, almeno apparente, anacronismo di legge e di politica maledette. Ma eticità e dignità sono una cosa sola. Ebbene, chi appartiene a una cosca camorristica e, più ancora, chi ne è il capo deve far salva, e anche ostentare, una sua dignità sui generis . Secondo Saviano, Cosimo Di Lauro, prima che i carabinieri lo arrestino, ha cura di azzimarsi, di lisciare i capelli. «Indossa un dolcevita scuro e un impermeabile nero». Deve mostrarsi fiero e spavaldo davanti alla gente, davanti alle telecamere. Concepisce «la vita come uno spazio dove poter conquistare tutto al rischio di perdere ogni cosa». «La logica dell'imprenditoria criminale, il pensiero dei boss coincide col più spinto neoliberismo. Le regole dettate, le regole imposte, sono quelle degli affari, del profitto, della vittoria su ogni concorrente».
Alessandro Dal Lago e altri hanno biasimato Saviano con motivazioni anche sociologiche e politiche. I critici e i difensori di Saviano hanno piena facoltà di disputare se egli è di destra o di sinistra, se scrive cattivi romanzi o buona cronistoria, se è sordo o sensibile al più vasto e ponderoso contesto capitalistico nel quale la camorra si inserisce come fenomeno marginale o invece funzionale. A me preme sottolineare, da un lato, le tendenze eversive (o intrinsecamente "criminali") di un capitalismo globale che, con i suoi Marchionne o con il suoi Tremonti, ricattando il lavoro, lo opprime mentre sopprime etica pubblica, diritti costituzionali e libertà personali; dall'altro lato, la concorde-discorde ridislocazione di mafie e camorre in quel consesso di più grandi poteri devastanti, accompagnata tuttavia da una restaurazione (terroristica) del sacro e dei vincoli patriarcali, ostentati come rifiuto dell'odierno "relativismo" ultra-secolarizzato.
Liberazione 20/06/2010, pag 12
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