lunedì 12 luglio 2010

O la borsa o la vita...

La cesura

Roberta Fantozzi
Le scelte assunte in queste settimane a livello europeo e nel nostro Paese non appartengono all'ordinaria amministrazione. Nemmeno a quell'"ordinaria amministrazione" che negli anni passati, manovra dopo manovra, attacco dopo attacco, ha eroso i diritti del lavoro e le protezioni dello stato sociale. Segnano una cesura: oltre il dato quantitativo, oltre l'entità dei tagli pure pesantissimi. Nascondono sotto il carattere dell'ineluttabilità e dell'oggettività, scelte destinate a infilare l'Europa in un vicolo cieco tra i più gravi della sua storia.
La crisi manifestatasi nel 2007 e poi esplosa nel 2008 con il fallimento della Lehman Brothers ha per un breve periodo messo sotto accusa la speculazione finanziaria, denunciato le collusioni e i conflitti di interessi delle agenzie di rating, posto in dubbio le certezze su cui si è costruito, negli anni della globalizzazione liberista, il senso comune sulle virtù taumaturgiche del mercato. Seppure in maniera episodica e certo non egemone a livello di massa, è ripreso un dibattito sugli intrecci tra la finanziarizzazione dell'economia e i meccanismi di fondo del modello di accumulazione. Sotto accusa sono finiti i processi di deregolazione e privatizzazione, la crescita delle disuguaglianze esito della pressione che quei processi hanno ovunque esercitato sul lavoro, la finanziarizzazione dell'economia come modalità attraverso la quale si è garantita la riproducibilità del sistema, in un regime di bassi salari e alta precarietà. Persino istituzioni come l'Ocse hanno messo in circolazione studi che aprivano quantomeno una discussione sugli esiti delle politiche neoliberiste, mostrando la crescita delle disuguaglianze che ha segnato gli ultimi 30 anni e sostenendo che «l'unico approccio sostenibile per ridurre la diseguaglianza è di intervenire per bloccare la soggiacente disparità tra redditi da lavoro e da capitale», facendo in modo «che le persone siano in grado di lavorare e percepiscano stipendi sufficienti per il proprio sostentamento», sostenendo il ruolo redistributivo dei servizi pubblici, scuola e sanità in primis. E ancora pochi mesi fa l'annuale Rapporto sullo Stato Sociale 2010 poteva affermare, come si potesse «ritenere che tra le conseguenze reali, teoriche e d'opinione suscitate da questa crisi ci sia una valorizzazione dello stato sociale che inverte la tendenza affermatasi negli ultimi due-tre decenni». Oggi tutto questo è archiviato. La vicenda greca, lo stato di "emergenza", è stato usato come un "colpo di spugna", prima di tutto nella costruzione del senso comune, nell'individuazione di "chi e che cosa" sia responsabile della più grave crisi del dopoguerra. Non conta che il debito che si è andato accumulando nei bilanci degli stati, derivi prevalentemente dai salvataggi del sistema finanziario, dalla iniezione gigantesca di liquidità a un sistema bancario, che l'ha usata in larga parte non per finanziare l'economia reale ma per acquistare titoli di stato, contribuendo per questa via alla caduta del Pil, alla conseguente diminuzione delle entrate e dunque all'ulteriore incremento del debito pubblico. Oggi sul banco degli imputati non si trovano la speculazione finanziaria e le politiche neoliberiste, ma la spesa pubblica per quel che resta del sistema di welfare. C'è qualcosa di osceno, di moralmente scandaloso nella richiesta di "condividere i sacrifici" che viene oggi avanzata. Certo non è una novità, non trattandosi che della riproposizione delle politiche che hanno segnato i decenni alle nostre spalle. Ma la novità è che tutto questo avviene dopo il cortocircuito di quelle politiche. L'Unione Europea a lungo rimasta inerte e in stallo nella crisi, ora ha scelto. Non la strada di contrastare gli attacchi speculativi e avviare un'inversione di tendenza nelle proprie politiche economiche, ma di far diventare, nella sostanza, politica dell'Unione, la costituzionalizzazione tedesca dell'obiettivo dello 0,35% del deficit pubblico sul Pil.

E le conseguenze di questa scelta non sono "ordinaria amministrazione". I 120 miliardi di tagli annunciati a livello continentale dai vari Paesi, avviteranno l'economia in una spirale recessiva sempre più grave, i tagli non serviranno per ridurre l'indebitamento ma distruggeranno quel che resta del welfare europeo: i sistemi pensionistici, sanitari, formativi. A queste manovre ne seguiranno altre. Dentro un processo che segna un radicale, regressivo salto di qualità.
In questo contesto si colloca la manovra del governo Berlusconi, che radicalizza le politiche portate avanti dalla destra sin dal suo insediamento. Accanto a provvedimenti di rara ferocia e disumanità, come quelli che vengono assunti nei confronti delle persone con disabilità, sta una direzione di marcia ben precisa, che non contrasta con il carattere "improvvisato" della manovra. Una direzione di marcia che dovremmo essere in gradi di disvelare, smontando l'operazione evidente del governo di costruirsi un consenso, nella contrapposizione tra lavoratori in primis. Non si tratta solo di difendere, come va fatto e con forza, il lavoro pubblico. Si tratta di mostrare che l'attacco ai lavoratori pubblici è un attacco al lavoro e alla contrattazione tout court. Perché dopo che si sono bloccati i contratti nel pubblico, si è disdettato quanto già pattuito, non si può fare altrettanto nel privato, sempre ovviamente in nome dell'emergenza? Perché dopo che si è allungata l'età pensionabile delle donne nel pubblico impiego, in nome dell'equiparazione, non si dovrebbe fare altrettanto nel privato? Marcegaglia plaude e ringrazia, mentre Marchionne è intento a distruggere ogni conquista e ogni diritto, riscrivendo la Costituzione sul campo, a partire dalla fame di lavoro del Sud. Così come si tratta di mostrare che i tagli alle regioni e agli enti locali, al pubblico impiego, lo strazio che si sta facendo della scuola pubblica, segneranno un'imbarbarimento complessivo della società. L'ulteriore negazione dei diritti: alla salute e all'assistenza, alla conoscenza, alla dignità del lavoro e della vita. La conoscenza della manovra, dei dati che segnano strutturalmente la straordinaria iniquità della società italiana, su cui proviamo a dare un contributo con questo Speciale, sono per noi uno strumento per organizzare il conflitto. Quello da costruire in Italia, con lo sciopero generale del 25 e per lo sviluppo di un movimento di lotta assai più incisivo di quanto non sia sin qui avvenuto. Quello da costruire in un Europa, dove occorrerebbe uno sciopero continentale, un progetto di alternativa incarnato in conflitti reali. Per essere all'altezza di quanto sta avvenendo. Di un attacco che va fermato, in nome del diritto del lavoro e anche della democrazia, incompatibile, nelle forme in cui l'abbiamo conosciuta, con i processi di radicale gerarchizzazione sociale che si stanno preparando.

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Antipopolare e classista…

L'entità dichiarata della manovra aggiuntiva su 2011- 2012 è di 24 miliardi e 965 milioni di euro, 48.338 miliardi delle vecchie lire. In realtà la manovra è assai più pesante, se si aggiunge il mancato rinnovo del contratto del pubblico impiego, non contabilizzato nella manovra che vale secondo le stesse stime del governo 6,5 miliardi nel triennio, e l'intervento sulle pensioni delle donne. La manovra si aggiunge alla finanziaria triennale varata dal governo subito dopo il suo insediamento. Quella finanziaria era già intervenuta pesantemente sulle regioni e gli enti locali, la scuola e l'università, il pubblico impiego. Di questo si darà conto voce per voce. Quello che intanto si può osservare è che l'Italia, che non ha dovuto, diversamente da altri paesi, compiere operazioni di salvataggio del sistema bancario, ha già perseguito una linea di tagli. Le politiche fatte dal governo Berlusconi in sostanza hanno anticipato quello che a livello europeo tutti i paesi si stanno apprestando a fare, con l'annuncio di manovre di tagli per oltre 120 miliardi di euro complessivi. Gli esiti delle politiche fatte nel nostro paese sono una dimostrazione del fatto che politiche restrittive, che comprimono ulteriormente i consumi, oltre che socialmente inique, non servono affatto per l'obiettivo dichiarato di ridurre l'indebitamento. Il deficit e il debito sono infatti in rapporto al Pil. Se per la contrazione dei consumi il Pil diminuisce, se diminuiscono le entrate fiscali per effetto della recessione economica, deficit e debito salgono. E' così che in Italia, senza interventi di salvataggio del sistema bancario e con una politica di tagli alla spesa, deficit e debito sono cresciuti, passando dal 2,7% nel 2008 al 5,3% nel 2009 per quel che riguarda il deficit e dal 106,1% nel 2008 al 115,1% nel 2009 per quel che riguarda il debito. La scelta che i paesi europei stanno facendo in sostanza avviterà l'economia del continente in una spirale recessiva sempre più grave, i tagli non serviranno per ridurre l'indebitamento ma distruggeranno quel che resta del welfare europeo, i sistemi pensionistici, sanitari, formativi.
La manovra del governo Berlusconi, in questo quadro si distingue per l'ispirazione radicalmente antipopolare e classista che la anima. Non un euro viene chiesto a chi ha redditi più alti. Niente è previsto sulle rendite finanziarie tassate la metà della aliquota più bassa sul lavoro. Niente sui grandi patrimoni. Ricordiamo che il nostro paese secondo i dati Bankitalia e secondo le analisi Ocse, è stato uno dei paesi in cui maggiormente sono cresciute le disuguaglianze negli ultimi vent'anni ed ha oggi una distribuzione della ricchezza particolarmente iniqua: solo 2 milioni 380mila famiglie italiane (il 10% del totale), infatti, posseggono il 44,5% della ricchezza netta complessiva. Di contro, il 50% delle famiglie italiane (le più povere) ne detengono appena il 9,8%.
Ricordiamo che siamo in un paese che ha già perso oltre 700mila posti di lavoro dal 2008 e continua a perderli, con un milione e mezzo di persone coinvolte dalla cassa integrazione, con il tasso di disoccupazione giovanile più alto d'Europa.

1. La controriforma degli Enti Locali: tutti i tagli a Regioni, Comuni, Province
La manovra si configura come vera e propria contro-riforma degli Enti Locali: i tagli poderosi dei trasferimenti sono un attacco ai diritti dei cittadini a partire dai più deboli e sono un colpo irreversibile all'autonomia degli enti, in particolare al ruolo dei Comuni come "enti di prossimità", vicini ai bisogni e possibili luoghi di pratiche partecipative. Nella manovra, infatti, si definisce un inasprimento del "patto di stabilità" che prevede sia il taglio dei trasferimenti sia maggiori sanzioni per gli enti inadempienti; per le Regioni a statuto ordinario si prevede un taglio di 4.000 milioni di euro per il 2011 e 4.500 per il 2012; per le Regioni a statuto speciale meno 500 milioni per il 2011 e meno 1.000 per il 2012; per i Comuni meno 1.500 per il 2011 e meno 2.500 per il 2012; per le Province meno 300 milioni per il 2011 e meno 500 per il 2012. A questa cifra di ben 14,8 miliardi nel prossimo biennio vanno aggiunti gli effetti del taglio già deciso con la precedente finanziaria triennale: per il 2011 vanno sommati 1.800 milioni per i Comuni, 98 per le province, 1.500 per le Regioni.
Con questi numeri gli Enti Locali non sono in grado di chiudere i bilanci, a meno di non dover subire un ricatto: o si tagliano i servizi sociali (asili nido, refezione scolastica, assistenza agli anziani ed alle persone con disabilità, sostegno ai minori a rischio, inclusione dei più deboli a partire dai migranti ecc.), magari diminuendone qualità ed estensione universalistica o si aumentano le tariffe dei pubblici servizi(tassa rifiuti,occupazione suolo, trasporti, edilizia pubblica ecc.) magari tentando di privatizzarli (l'esatto opposto di quello che chiedono le centinaia di migliaia di cittadini che hanno firmato il referendum per l'acqua pubblica) o si vende ai privati il patrimonio strategico, oggi rimpinguato dal cosiddetto federalismo demaniale, in un processo che porterà ad un nuovo attacco al territorio e alle risorse naturali. Oppure, inevitabilmente, si è costretti a sforare il patto di stabilità subendone le sanzioni successive. Sanzioni che hanno effetti pesantissimi non tanto per la vita amministrativa degli enti, ma per la vita dei cittadini: sanzioni inasprite nel decreto prevedendo l'integrale recupero da parte dello Stato delle somme eccedenti il patto nel successivo trasferimento (finora si tagliava al massimo il 5%), limite agli impegni di spesa, blocco del ricorso agli indebitamenti anche per gli investimenti, divieto di procedere ad assunzione di personale a qualsiasi titolo ecc. Ed è probabile che alcuni enti locali facciano la richiesta di poter aumentare le addizionali Irpef e Irap. L'effetto della manovra, determina - secondo una ricerca dell'Anci-Ifel pubblicata dal Sole 24 Ore - una riduzione media della spesa dei Comuni del 10%, con un'incidenza maggiore per i Comuni che hanno fatto più investimenti e spese negli anni scorsi ( si calcola per Torino, anche per effetto degli investimenti per le Olimpiadi invernali, un taglio di oltre il 17% ) e la previsione fondata che oltre il 50% dei Comuni non sarà in grado di rispettare i vincoli. Gli stessi tagli alle Regioni (vedi Sole 24 ore del 9 giugno 2010) per oltre il 10% su trasporto locale, incentivi alle imprese, edilizia residenziale pubblica, ambiente, lavoro, agricoltura, determineranno ulteriori mancati trasferimenti a Comuni e Province, e danni ai cittadini più deboli ed alle piccole imprese. I tagli agli enti locali sono dunque un attacco durissimo alle condizioni di vita dei più deboli, soprattutto ai lavoratori a reddito fisso, ai precari ed ai disoccupati e svelano con evidenza la natura antipopolare e di classe della manovra.
Si evidenziano tutte le conseguenze della scelta sciagurata di aver approvato il ddl Calderoli, sul federalismo fiscale, e di averlo approvato prima del cosiddetto Codice delle Autonomie - che langue in Parlamento da oltre due anni - che dovrebbe definire le funzioni proprie dei Comuni, delle Province e delle Regioni e l'esigibilità dei diritti costituzionali per tutti i cittadini, a partire dal sociale e dalla sanità. I tagli della manovra affermano un federalismo non solo non solidale ma apertamente in contrasto con il Titolo V della Costituzione: diritti e servizi non saranno garantiti "in maniera appropriata ed universale" in tutti i territori in maniera uniforme.
Del tutto demagogica è infine la propagandata sforbiciata ai costi della politica a livello di enti locali. La manovra attuale non si configura affatto come taglio ai costi impropri della politica a livello locale ed infatti nella relazione tecnica il comma 5 dell'art. 5 non prevede economia per i saldi nazionali e quindi evidenzia la falsità del risparmio; la verità è che la manovra è piuttosto un attacco alla risorsa della democrazia elettiva dei Consigli.
Emblematico a tal riguardo è il taglio del gettone di presenza per i Consigli circoscrizionali e municipali (poche centinaia di euro al mese nelle grandi città) già con le precedenti Finanziarie limitati ai soli capoluoghi di provincia ed alle città superiori ai 100.000 abitanti.
Il contrasto alla manovra dovrà mettere in campo sia l'iniziativa dei Consigli e delle associazioni - Anci, Upi, Lega Autonomie -,sia l'organizzazione di forme di disobbedienza civile e di "scioperi alla rovescia" dei cittadini e degli operatori per far funzionare meglio i servizi che si vorrebbero tagliare, sia il rilancio della campagna contro la privatizzazione dei servizi pubblici locali, valorizzando il consenso popolare della raccolta di firme per l'acqua pubblica.

2. I tagli alle pensioni
E' necessario sgombrare il campo dall'idea che in Italia la spesa per le pensioni sia superiore alla media europea. Secondo i dati Eurostat l'incidenza della spesa pensionistica sul Pil è del 13,8 per cento nell'Europa a 27, del 14,1 per cento nell'Europa a 15. La spesa previdenziale italiana, se il confronto viene fatto su dati omogenei, è inferiore a quella dell'Europa a 15. Il dato italiano passa al 17 per cento del Pil per due motivi. Perché in essa vengono impropriamente conteggiate sia l'indennità di fine rapporto, sia interventi per il contrasto alla disoccupazione come i prepensionamenti. E perché la spesa pensionistica è conteggiata al lordo delle ritenute fiscali, che mentre in alcuni paesi come la Germania non esistono e in altri come la Francia sono bassissime, in Italia sono pesanti con un prelievo fiscale sulle pensioni pari al 2,4 per cento del Pil. Va inoltre ricordato che nel 2009, come ormai avviene da diversi anni il bilancio dell'Inps, presentato a fine aprile, si è chiuso con un attivo di 7,9 miliardi nonostante un numero crescente di lavoratori con contribuzione ridotta o nulla. L'attivo di bilancio in realtà nasconde grandi iniquità perché sono i fondi dei lavoratori dipendenti, dei parasubordinati, e il fondo per le "prestazioni temporanee" (cassa integrazione, disoccupazione, malattia) che, con un attivo di quasi 20 miliardi, coprono i passivi dei fondi dei dirigenti d'azienda (-3 miliardi), degli artigiani, commercianti e coltivatori (-9 miliardi) e del clero. In sostanza sono i lavoratori dipendenti che pagano buona parte delle pensioni di dirigenti, commercianti, clero, mentre gli avanzi complessivi del bilancio Inps vengono incamerati dal bilancio dello stato! Va ricordato inoltre che l'Inps vanta crediti accertati e non riscossi verso le aziende per 30 miliardi, mentre l'evasione contributiva è stimata in 50 miliardi annui.
Va anche ricordato che il 45,9 per cento delle pensioni non raggiunge i 500 euro al mese e un ulteriore 26 per cento ha assegni tra i 500 e i 1.000 euro, con pensioni inferiori in media del 30 per cento per le donne. Le pensioni non sono agganciate alla dinamica delle retribuzioni e sono erose dall'aumento del costo della vita.
In questo contesto in cui sarebbe prioritario aumentare le pensioni più basse e porsi fin d'ora il problema di come garantire una pensione dignitosa ai lavoratori che andranno in pensione con l'andata a regime del sistema contributivo, soprattutto le lavoratrici e i lavoratori precari, il governo con la manovra fa un'operazione opposta. Con l'obiettivo di continuare ad usare gli attivi dell'Inps per il bilancio dello Stato e quello più generale di rendere talmente incerte le garanzie della previdenza pubblica da spingere verso quei fondi pensione che nella crisi hanno dimostrato all'opposto tutta la loro inaffidabilità, secondo il disegno di privatizzazione del welfare esplicito nel Libro Bianco del Governo. La manovra prevede un aumento dell'età di pensionamento. Sia per quel che riguarda le pensioni di vecchiaia che per le pensioni di anzianità, il diritto alla pensione, a partire dal gennaio 2011, scatta 12 mesi dopo la maturazione dei requisiti per i lavoratori dipendenti, 18 mesi dopo per i lavoratori autonomi e per chi accede alla totalizzazione dei periodi assicurativi. Si stimano "risparmi" di 6,5 miliardi al 2013, in buona parte derivanti dal posticipo delle pensioni di vecchiaia per i lavoratori dipendenti, un provvedimento che colpirà soprattutto le donne che sono quelle che più accedono al trattamento di vecchiaia, non riuscendo a raggiungere i requisiti contributivi per l'anzianità.

L'accelerazione dell'aumento dell'età pensionabile per le donne
Il governo a luglio scorso era già intervenuto sulle pensioni con due provvedimenti: legando l'età pensionabile all'aspettativa di vita certificata dall'Istat a partire dal 2015 e innalzando l'età pensionabile per le donne del pubblico impiego con un intervento scadenzato che avrebbe portato ai 65 anni nel 2018. Ora si introduce l'aumento secco dell'età pensionabile già al 2012. L'innalzamento dell'età pensionabile per le donne è un'ingiustizia mascherata dall'"obbligo" che deriverebbe dalle norme europee. In realtà l'articolo 7 della direttiva 79/7 del 1978 sull'attuazione "del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale" lascia agli stati la definizione dell'età di pensione. Ma i diversi governi Berlusconi, nel contenzioso che si è protratto per anni con l'Europa, non hanno fatto valere né la volontarietà della scelta per le donne di andare anticipatamente in pensione, né il fatto che l'Inpdap non è un sistema previdenziale di un ordine professionale, ma è a tutti gli effetti paragonabile all'Inps per i dipendenti pubblici e come tale soggetto al diritto pubblico e alle deroghe accordate dalla Unione Europea. E' palese l'ingiustizia sostanziale. La vita delle donne, particolarmente in Italia, è segnata in maniera gravissima da un insieme di fattori negativi, tanto materiali quanto culturali e simbolici. Siamo tra gli ultimi in Europa per occupazione femminile con meno di una donne su due che lavora, con differenziali di carriera e retributivi medi intorno al 20 per cento. Sulle donne si scarica il peso doppio lavoro, produttivo e riproduttivo - più di 5 ore di media al giorno per il lavoro domestico e di cura contro un'ora e mezzo degli uomini - sia in ragione della cultura sessista ancora prevalente, sia per il sottofinanziamento e l'inadeguatezza dello stato sociale.

Invalidità civile: colpiti i meno tutelati
Gli invalidi civili sono coloro ai quali sia stata accertata una riduzione della capacità lavorativa. La demagogica guerra ai cosiddetti "falsi invalidi" trova la sua concretizzazione nell'articolo 10 della manovra. Dal primo giugno 2010 si innalza dal 74 per cento all'85 per cento la soglia minima per l'ottenimento dell'assegno mensile di assistenza, tagliando fuori da questo istituto "veri invalidi". Il risparmio reale che ne deriva risulta esiguo (nella relazione tecnica previsti 10, 30, 40 milioni rispettivamente nel 2011, 2012, 2013) e sproporzionato rispetto ai danni che provocherà a persone già poco tutelate dal sistema di welfare italiano. Infatti, secondo la nuova disposizione l'assegno mensile di euro 256,67 non verrà più erogato, anche in presenza di un reddito inferiore ai 4.408,95 annui e dell'iscrizione alle liste di collocamento, tra gli altri, a persone con sindrome di down (75 per cento), sordomute (80 per cento) e amputate di arto superiore (75-80 per cento). Persone che, per lo stigma dell'improduttività, sono già esclusi dal mondo del lavoro e dai processi di inclusione sociale. Insomma, un duro colpo alle condizioni di vita di coloro che già subiscono, e subiranno, la riduzione quantitativa e qualitativa di servizi e prestazioni sociali sui territori a causa dei tagli a Regioni e Comuni previsti sempre in questa manovra, che vanno a sommarsi a quelli attuati nelle precedenti finanziarie.

3. La manovra sul Pubblico Impiego
La manovra attacca frontalmente il Pubblico Impiego. Lo fa cercando di contrapporre i lavoratori privati a quelli pubblici. E' tanto più necessario dunque comprendere che in realtà questo attacco per un verso è un attacco alla contrattazione in quanto tale, e perciò a tutti i lavoratori, ed è inoltre unito ai tagli a Regioni ed Enti Locali, un attacco al welfare, cioè ai diritti di tutti i cittadini che vengono erogati dai servizi pubblici.

Il nuovo attacco alla contrattazione. Stipendi da fame
La manovra stabilisce che non ci sarà rinnovo contrattuale per il triennio 2010-2012. Che i rinnovi contrattuali per il biennio 2008-2009 non potranno determinare aumenti retributivi superiori al 3,2 per cento e che questo si applica retroattivamente anche ai contratti stipulati prima dell'entrata in vigore della manovra, rendendo nullo quanto diversamente pattuito. Che in ogni caso il trattamento economico di ogni singolo dipendente (!) per gli anni 2011-2012-2013, compresa la contrattazione accessoria, non può superare quello dell'anno 2010. La stima dei "risparmi" del mancato rinnovo fatta da parte del governo è pari a 6,5 miliardi nel triennio, per tutto il comparto del Pubblico impiego, scuola compresa. Altre stime del costo del rinnovo del contratto, sempre secondo l'accordo separato, sono di 8,5 miliardi.
Da un punto di vista economico, questo significa un attacco gravissimo alla condizione di vita dei lavoratori pubblici, che diversamente da quanto afferma il governo hanno già pagato un conto salatissimo. Lo stipendio medio di un dipendente pubblico è di 1200 euro al mese, né è vero che i redditi dei dipendenti pubblici contrattualizzati siano cresciuti più degli altri. Con il blocco degli aumenti contrattuali, per fare un esempio, un infermiere perderà al 2012 circa 3mila euro cumulati.
Da un punto di vista contrattuale, si blocca il rinnovo della contrattazione nazionale, di quella integrativa, si disdetta quanto già contrattato. Non è solo grave in sé, è un precedente che potrà essere usato anche nei settori privati, ovviamente in nome dell'emergenza. Ed è gravissimo il riferimento alla condizione individuale che isola ogni singolo lavoratore.

Il blocco del turn-over e il licenziamento dei precari. Un attacco al lavoro e al welfare
Viene reiterato il blocco del turn over con la possibilità di assumere solo una persona ogni cinque uscite. Il che significa circa 90mila nuove assunzioni in meno l'anno, fino al 2014. Si dimezzano le risorse per i contratti a tempo determinato, i co.co.co., i lavoratori interinali ecc. Secondo la Ragioneria Generale, questi lavoratori nel 2008 sarebbero stati circa 210mila. Più di 100mila precari quindi saranno mandati a spasso. Tutto questo avrà effetti pesantissimi non solo su chi subirà direttamente questi provvedimenti ma su tutti i cittadini, diminuendo la capacità di dare risposte ai bisogni sociali.

Il taglio ai Ministeri
Il taglio indiscriminato del 10 per cento alla spesa dei Ministeri, che peserà complessivamente per 3,5 miliardi, concorrerà alla riduzione dei servizi per i cittadini. Questo provvedimento non va confuso con la riduzione di spese ingiustificabili, come quelle sulle auto blu, tagliate decisamente troppo poco a fronte dello scandalo di un parco auto di 629.120 unità, quasi 10 volte quello degli Stati Uniti.

Scuola e ricerca. Attacco al futuro
Per quel che riguarda la scuola i nuovi provvedimenti si aggiungono a quanto previsto nella 133 che ha ridotto i finanziamenti complessivi per 8 miliardi nella scuola e 1,5 miliardi all'Università. Ricordiamo che già prima dei tagli della 133 la spesa complessiva dell'Italia per l'istruzione era in rapporto al Pil 2 punti percentuali inferiore alla media europea.
Già a causa di quella manovra, 25mila persone hanno perso il posto di lavoro nel 2009 secondo i dati dello stesso governo (18mila docenti e 7mila Ata) e 40mila lo perderanno nel 2010 (25mila docenti e 14mila Ata). I posti di lavoro persi al 2011 saranno complessivamente 150mila. In aggiunta al mancato rinnovo del contratto, la manovra prevede per il prossimo triennio, anche il blocco degli scatti maturati. La stima di perdita salariale media annua è di 2800 euro.
Tutto questo si ripercuote ovviamente in una conseguente riduzione della pensione, particolarmente grave per chi sta totalmente nel sistema contributivo. La perdita, tra stipendio e pensione, stimabile per chi entra oggi in servizio è di 95mila euro complessivi. I dipendenti della scuola saranno anche penalizzati dal passaggio dalla buonuscita al Tfr a partire dal 2011. A questo si aggiungono il taglio di 55 milioni annui per le spese di funzionamento ordinario, il taglio del 50 per cento delle risorse per la formazione del personale; il 10 per cento di tagli delle spese per le spese intermedie (cancelleria ecc.).
Il taglio del 50 per cento dei finanziamenti statali a tutti gli enti pubblici peserà anche sulla ricerca con conseguenze sul personale al momento difficilmente quantificabili, ma sicuramente pesanti, in particolare per i precari. Anche il taglio lineare del 10 per cento ai bilanci di tutti i ministeri peserà sulla voce "ricerca", diminuendo i trasferimenti agli Enti. La soppressione di diversi enti di ricerca in molti casi si configura come un attacco all'autonomia della ricerca in settori delicati. Inoltre, per centinaia di precari che non saranno riassorbiti negli organici delle amministrazioni alle quali sono demandate le funzioni degli enti soppressi, scatterà il licenziamento automatico. Stessa sorte per migliaia di ricercatori precari, tanto nelle università che negli enti di ricerca, per effetto del blocco del turnover e delle pesanti limitazioni imposte dal decreto alla spesa per il personale. Complessivamente si perderebbero almeno 30mila posti. Si dimezzano anche le spese per missioni internazionali, compromettendo la partecipazione dei nostri ricercatori a progetti internazionali.

Diritto alla salute sempre meno garantito
Gli effetti della manovra si abbattono anche sulla sanità pubblica. In due anni il budget si riduce di oltre 2 miliardi di euro: 1 miliardo nel 2011, di cui 418 milioni di contenimento della spesa del personale e 600 milioni per i farmaci; 1 miliardo e 132 milioni nel 2012, di cui sempre 600 milioni per i farmaci. Il blocco del turn over e il dimezzamento dei precari colpiscono anche il sistema sanitario. Si potrà sostituire solo un medico ogni cinque che vanno in pensione, causando la diminuzione di circa 12mila unità in due anni e il conseguente riduzione del 10 per cento delle prestazioni mediche erogate ai cittadini. La riduzione di personale sarà di 156mila addetti nel triennio, 20mila i precari licenziati. Questo comporterà la messa in discussione del diritto alla salute dei cittadini. La manovra interviene sulle regioni in regime di commissariamento per il debito, che nel caso di non rispetto del piano di rientro (con tasse al massimo e ticket generalizzati) vedranno il rischio di un sostanziale blocco dei trasferimenti. Sul fronte della spesa farmaceutica rischia di essere estremamente penalizzante per i cittadini il fatto che, se il medico generico prescrive un farmaco in regime di brevetto, la differenza di prezzo con il farmaco generico dovrà essere pagata direttamente dal paziente anche se è in regime di esenzione. Va ricordato, inoltre, che il decreto appena emanato, che contiene i su citati provvedimenti, è solo una parte della manovra complessiva che si prospetta con altri provvedimenti legislativi, che colpiranno ulteriormente la sanità pubblica. Tra questi ne ricordiamo tre, gravissimi: il primo è la nuova normativa sulla governance sanitaria con la liberalizzazione dell'intramoenia e ulteriori spazi di privatizzazione; il secondo riguarda la declassificazione di interventi oggi eseguiti in day surgery o day hospital, derubricati in prestazioni ambulatoriali e quindi deprivati di assistenza post chirurgica o post specialistica; il terzo stravolge e cancella alcuni interventi sanitari oggi in regime di livelli essenziali di assistenza, togliendo alle Regioni il riconoscimento e la relativa copertura economica, aprendo quindi la via a porre a totale carico del paziente i costi di questi interventi. E' sempre più evidente che il governo Berlusconi lavori ad un taglio generale in sanità che lo stesso ministro Fazio indicava in circa 10 - 11 miliardi nel biennio. L'insieme di misure rientra pienamente nel disegno del governo di smantellare lo stato sociale per proseguire il percorso di sviluppo del "pilastro" privato nei servizi sanitari, sociosanitari e sociali.

4. Fisco. L'improbabile lotta all'evasione e il rischio di un nuovo condono. Senza redistribuzione
La manovra prevede il contrasto all'evasione fiscale e contributiva. Viene previsto nel biennio 2011 e 2012 un risultato aggiuntivo di 7,7 miliardi (la cifra ricorrente sulla stampa di 9,4 miliardi comprende altre voci che non hanno a che vedere con l'evasione).
Un fatto di per sé evidentemente positivo, se non fosse per due problemi.
Il primo è quello di non essere collegato a nessuna politica strutturale di redistribuzione a favore dei ceti più deboli, non essendo finalizzata ad abbassare il prelievo su salari e pensioni più bassi, ma solo a "fare cassa".
Il secondo è che questa cifra pare difficilmente raggiungibile con gli strumenti messi in campo, tanto più dopo aver alimentato in questi anni la logica dell'evasione e dei condoni. Lo sbandierato risultato della lotta all'evasione nell'ultimo anno, risulta infatti per 5,6 miliardi il frutto del famigerato "scudo fiscale"che ha permesso il rientro in Italia di 104,5 miliardi di capitali illecitamente trasferiti all'estero da persone fisiche ed imprese, con un prelievo del 5%, irrisorio a fronte di prelievi sul lavoro mai inferiori al 23%. Un intervento che se fosse avvenuto con le misure adottate da altri paesi, con aliquote maggiori, avrebbe comportato entrate superiori ai 40 miliardi. Non solo si sono premiati i grandi evasori, ma le modalità dell'intervento hanno consentito di coprire riciclaggio e attività criminali.
Riteniamo questa parte della manovra inefficace ed improbabile. Gli strumenti normativi messi in campo sono: 1) la partecipazione premiale dei Comuni al 33% dell'accertato, ma senza strumenti nuovi come l'effettivo decentramento del catasto, che viene fermato per ricentralizzare il censimento delle "case invisibili"che rischia di generare un nuovo condono edilizio, di cui già si discute nella maggioranza parlamentare; 2)la comunicazione telematica delle fatture sopra i 3mila euro all'agenzia delle entrate; 3) l'introduzione del "contrasto di interessi"in forma così limitata da prevedere solo 100 milioni; 4) il redditometro, strumento non nuovo e dimostratosi inefficace nel contenzioso; 5) la concentrazione della riscossione nell'accertamento e la preclusione di ogni autocompensazione in presenza di un debito su ruoli definitivi; 6)una timida aliquota aggiuntiva sulle stock options, che dovrebbe produrre solo 21 milioni; 7) l'incrocio fra i dati Inps e quelli dell' Agenzia delle Entrate per contrastare l'evasione totale contributiva e fiscale sul lavoro dipendente dal quale si prevedono solo 300 milioni, avendo in questi anni la destra smantellato tutte le strutture di controllo a partire dagli ispettorati del lavoro. Nella stessa manovra si dà un nuovo colpo alle ispezioni, sia attraverso la riduzione del personale conseguenza del blocco generalizzato del turn over nel pubblico impiego, sia con la norma che proibisce a tutto il personale, compreso quello ispettivo, di utilizzare il mezzo proprio, indispensabile per raggiungere cantieri spesso inaccessibili con i mezzi pubblici.
E' invece incredibile che due misure che possono essere efficaci e significative come il limite alla circolazione del contante alla soglia, pur altissima di 5mila euro, per favorire la tracciabilità, e le disposizioni antifrode ed antiriciclaggio, nella manovra non vengono neanche "cifrate": cioè non si prevede - per ammissione del Governo stesso - nessuna nuova entrata da queste misure, che ripropongono, seppur in maniera annacquata, analoghe misure portate all' approvazione dal Ministro Visco durante l'ultimo Governo Prodi.
E' nostra convinzione, dunque, che per raggiungere il saldo previsto, nei prossimi mesi rispunterà la logica del condono, cioè l'esatto opposto di ogni politica di equità e di lotta all'evasione fiscale.
La politica fiscale complessivamente intesa, con questa manovra e con la politica più generale del governo, non ha niente a che vedere con una riforma fiscale strutturale che abbia un segno redistributivo e di sostegno alla domanda.
Ricordiamo la particolare iniquità del sistema fiscale italiano: il primato europeo, dopo la Grecia, di un'evasione stimata in oltre 130 miliardi di imposte evase per un'imponibile di oltre 350 (120 la stima ufficiale dell'Agenzia delle Entrate); la tassazione delle rendite finanziarie al 12,5% contro il 23% della prima aliquota Irpef; l'assenza di ogni patrimoniale, a fronte della sperequazione delle ricchezze prima ricordate. L'esito che questo produce fa sì l'80% del gettito fiscale complessivo (imposte dirette, indirette, contributi) sia a carico di lavoratori e pensionati. Quelli che sono nuovamente chiamati a pagare.

La Bolkestein del fisco
Sul versante fiscale, la manovra contiene altri due provvedimenti significativi, più per l'idea di società che il governo persegue, che per il loro concreto impatto immediato. Il primo riguarda la possibilità di istituire un tributo per le imprese avviate nel Sud dopo l'entrata in vigore della manovra, che può ridurre o azzerare l'Irap. La possibilità sarà scarsamente usata stanti i tagli del patto di stabilità e l'impossibilità per le regioni di privarsi di queste entrate. Ma la strada su cui ci si incammina, quella del federalismo fiscale, è la possibile rincorsa alla tassazione al ribasso delle imprese per attrarle in un territorio, squilibrando ulteriormente il prelievo fiscale e i poteri a favore dell'impresa.
La seconda misura è una vera e propria Bolkestein del fisco. Si prevede che "alle imprese residenti in uno Stato membro dell'Unione Europea diverso dall'Italia che intraprendono in Italia nuove attività economiche, nonché ai loro dipendenti e collaboratori, si può applicare, in alternativa alla normativa tributaria italiana, la normativa tributaria vigente in uno degli Stati membri dell'Unione Europea". Dunque ogni impresa europea potrebbe scegliersi la normativa settoriale più favorevole, di più: ogni impresa italiana potrebbe andare a "risiedere" altrove per poter fare altrettanto. La norma è chiaramente incostituzionale e sostanzialmente inapplicabile, ma rilevatrice del sogno del Governo e degli interessi che rappresenta: l'impresa sovrana assoluta, libera da ogni vincolo, si tratti dei diritti del lavoro o della legislazione degli stati. Il neoliberismo tradotto in norma.


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Le fonti:

Decreto Legge 31 maggio 2010, n. 78, "Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica"; Relazione tecnica al Decreto; Banca d'Italia, "La ricchezza delle famiglie italiane 2008"; Growing Unequal. Income Distribution and Poverty in Oecd Countries, Rapporto Ocse ottobre 2008; Rapporto sullo Stato sociale 2010 a cura di F. R. Pizzuti, novembre 2009; Relazione annuale dell'Inps, aprile 2010; Rapporto semestrale Aran, giugno 2010; Rapporto Anci-Ifel sulla riduzione media della spesa dei Comuni, giugno 2010.

Speciale allegato al numero in edicola di "Liberazione" a cura di Roberta Fantozzi, Antonio Ferraro, Marco Nesci, Vito Meloni, Raffaele Tecce
In collaborazione con l'Area assistenti di redazione

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«Le politiche restrittive di bilancio ci portano dritti dove vogliono gli speculatori»

Emiliano Brancaccio docente di Economia politica all'Università del Sannio

R. F.
Le misure varate da tutti i governi europei sono state giustificate dalla necessità di contrastare gli attacchi speculativi. A due anni di distanza dall'esplosione della grande crisi, quali sono le misure effettivamente assunte a livello globale per contrastare la speculazione? E negli Usa e in Europa?
Per quel che riguarda l'adozione di strumenti coordinati a livello internazionale, come la Tobin Tax, questi sono sempre rimasti lettera morta. Nell'ultimo ventennio però sono stati adottati, in diverse aree del mondo, provvedimenti nazionali di contrasto alle speculazioni. Ricordo ad esempio le misure del governo della Malesia adottate durante la crisi del sud-Est Asiatico. Si tratta di soluzioni ritenute piuttosto efficaci dalla letteratura scientifica. Esse consistono in vincoli sui movimenti di capitale che disincentivano i continui afflussi e deflussi di capitali speculativi in un paese e quindi rendono la bilancia dei pagamenti più stabile, e con essa anche i redditi e l'occupazione, che altrimenti sarebbero sottoposti a oscillazioni tremende. Anche in Cile, alcuni anni fa, sono stati adottati validi provvedimenti di controllo dei capitali. Viceversa Stati Uniti e Unione Europea, nemmeno dopo l'esplosione della crisi, hanno assunto scelte significative in questa direzione. Del resto essi sono stati a lungo non vittime ma beneficiari dei processi speculativi, dato che i grandi operatori che speculano partivano da Ue e Usa, facendo poi il bello e il cattivo tempo nel resto del mondo. Ora però c'è una novità: la crisi e la speculazione colpiscono il centro del sistema. Questo potrebbe cambiare le cose.

E' possibile battere la speculazione con provvedimenti come la proibizione delle vendite allo scoperto di titoli di Stato e l'acquisizione da parte della Bce, in caso di attacco speculativo, dei titoli di stato messi sul mercato? La clausola della "sterilizzazione" non rischia di vanificare quest'ultimo intervento?
Il fatto che gli attacchi speculativi ora si rivolgano al cuore piuttosto che alle periferie del mondo, sta producendo i primi segnali di un cambiamento delle scelte politiche. Il governo tedesco ha già varato il divieto di vendite allo scoperto. Il che significa in sostanza bloccare un meccanismo per cui, con pochissime risorse, si fanno scommesse su volumi ingentissimi di capitali. Ed è positivo che la Bce si disponga a remare contro gli speculatori, acquisendo i titoli sottoposti ad attacco. Ma l'intervento della Bce, che è stato assai tardivo nella vicenda greca, è anche ambiguo, proprio poiché essa dichiara di voler fare anche "sterilizzazione". Cioè per ogni tot euro che immette nel circuito monetario quando compra i titoli, ne ritira altrettanti tramite compravendite di segno contrario, il tutto allo scopo di mantenere invariata la massa monetaria. In realtà la Bce dovrebbe assumersi la responsabilità di dire "da che parte sta". Essa cioè non può pretendere di contrastare gli speculatori e al tempo stesso mantenere invariata la massa monetaria. In questa ambiguità si percepisce una esitazione, e questa può aizzare gli speculatori.

Quali sono gli altri interventi che si possono assumere?
Come giustamente osservano alcuni tecnici del Fondo monetario internazionale, è probabile che americani ed europei si vedranno costretti a seguire l'esempio cinese. Si dice dentro l'Fmi che "i cinesi se la ridono", perché dopo anni di critiche alla Cina ma anche all'India perché questi Paesi non si piegavano al "pensiero unico" e insistevano nel voler controllare rigidamente i movimenti di capitali e le transazioni finanziarie, ora rischiamo di dover chiedere loro consigli tecnici su come ripristinare i meccanismi di controllo. I Paesi che si sono tenuti lontano dall'orgia liberista diventano un esempio da seguire per fare argine contro la speculazione.

Qual è la situazione dell'Italia?
E' assolutamente necessario che si assumano provvedimenti urgenti, poiché gli attacchi speculativi sono solo all'inizio e perché l'Italia è tutt'altro che immune. La situazione italiana si presta agli attacchi speculativi, perché l'Italia ha fatto registrare la caduta del reddito più pesante a livello europeo nel 2009. La speculazione può scommettere sul fatto che in questa situazione sia sempre più difficile il rimborso dei debiti assunti, non solo pubblici ma anche privati. Per questo andrebbero subito varati provvedimenti che proibiscano le vendite allo scoperto, come ha fatto la Germania, ma andrebbero anche istituite imposte che disincentivino le transazioni finanziarie a breve e bisognerebbe pure introdurre forme di controllo dei movimenti dei capitali come fece la Malesia. Sarebbe senz'altro meglio se questi provvedimenti fossero assunti a livello europeo, ma se questo non avviene, vanno comunque assunti in Italia. Invece..

Invece…
Invece, la tesi secondo cui le politiche di bilancio restrittive bloccano la speculazione è priva di fondamento. In realtà queste politiche ci stanno portando ad una deflazione da debiti, cioè ad una tale caduta dei redditi reali da rendere effettivamente i debiti inesigibili, cioè ci stanno portando dritti dove vogliono andare gli speculatori. Questa politica non è semplicemente frutto di errori. Essa riflette gli interessi del grande capitale, che pensa di uscire dalla crisi libero dai vincoli dei diritti del lavoro, con meno concorrenza per l'elevatissima mortalità delle imprese, e magari con nuove occasioni di investimento create dai processi di privatizzazione del welfare.

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Per un'alternativa nelle politiche fiscali

Contrasto all'evasione e patrimoniale

Alessandro Santoro Roberto Romano
La manovra predisposta dal governo sul biennio 2011-12 vale quasi 25 miliardi, di cui 12 per il 2011. In realtà la manovra è significativamente più pesante se consideriamo il mancato rinnovo contrattuale del pubblico impiego.
Tra maggiori e minori spese si incide per quasi 15 miliardi nel biennio 2011-12, di cui quasi 8 miliardi nel 2011. Il peso principale della manovra cade sul reddito delle persone per un valore pari a quasi 4 miliardi per la voce previdenza, 3.600 miliardi per il blocco dei contratti pubblici (2011-12), 750 miliardi per riduzione del costo del personale sanitario. Inoltre, gli enti locali (Comuni e Regioni) saranno soggetti a tagli sul triennio prossimi a 14 miliardi di euro, ripartiti in meno 8.500 miliardi per le Regioni, meno 1.500 miliardi per le Regioni a statuto speciale, meno 800 miliardi per le Province e meno 4 miliardi per i Comuni, al netto della riduzione della spesa farmaceutica di 1.200 miliardi sul biennio.
La manovra interviene anche sulla previdenza pubblica su più di un fronte. Il risparmio legato alla manovra correttiva sul triennio (2011-13) è pari a 6.500 miliardi, senza contare l'accelerazione dell'innalzamento dell'età pensionabile delle donne nel pubblico impiego a 65 anni a partire dal 2016. Sostanzialmente i tagli alla spesa previdenziale sono comparativamente più accentuati di quelli realizzati per gli enti locali o ministeri. Se già il sistema previdenziale ci consegnava un futuro di assegni al sotto la linea della povertà, con questa riforma consegneremo alle prossime generazioni almeno un 35% di "pensionati" poveri. Senza considerare che già all'interno del sistema previdenziale i versamenti in attivo del lavoro "parasubordinato" finanzia le casse del lavoro autonomo e di altre partite importanti.
Il taglio "lineare" del 10% delle spese ministeriali contribuisce ai saldi finanziari per 3.500 miliardi che concorreranno alla riduzione dei servizi come il taglio alle Regioni, Comuni e Province.
Dal lato delle entrate troviamo dei provvedimenti di buon senso, quando viene ripristinata la tracciabilità dei pagamenti e l'abbassamento della soglia per i pagamenti in contante: il primo provvedimento attiene alle fatture online sopra i 3.000 euro, con i secondi si abbassa la soglia da 12.500 a 5.000 euro, unitamente al rafforzamento del redditometro (accertamento sintetico). In complesso, il gettito dei provvedimenti classificabili come anti-evasivi dovrebbe arrivare a 6 miliardi nel 2011: si tratta di un'importante inversione di tendenza, ma è molto difficile che gli importi effettivi raggiungano questa cifra.
Ciò spinge a ragionare sulle possibili alternative. Limitando l'attenzione alle entrate, ne menzioniamo due. In primo luogo, occorre fare di più sul fronte dell'evasione dell'Iva, l'imposta più evasa in assoluto, proseguendo sulla linea (timidamente) intrapresa alla fine dell'anno scorso, con il blocco delle compensazioni generalizzato (quantomeno) quando si tratti di compensazioni orizzontali, cioè con imposte diverse dall'Iva. Ciò perché l'attuale sistema si configura come un vero e proprio bancomat dell'evasione fiscale, consentendo all'evasore che non ha dichiarato il proprio fatturato di utilizzare il credito Iva sulle merci acquistate per non pagare altri acquisti.
Un intervento di questo tipo potrebbe probabilmente consentire un incremento delle entrate e una riduzione del fabbisogno dai 3 ai 5 miliardi di euro annui.
In una prospettiva più di medio periodo, va reintrodotta nel nostro Paese, speriamo finalmente liberi da ostracismi ideologici, la discussione sull'imposta patrimoniale, vista come una forma di imposta sostitutiva delle imposte sui redditi, sia da capitale finanziario sia da capitale immobiliare. L'imposta patrimoniale offre indubbi vantaggi sia sul piano dell'efficienza e della stabilità macroeconomica, perché il gettito viene reso indipendente dal fluttuare dei valori di borsa, sia sul piano dell'equità, perché il patrimonio è distribuito in modo più iniquo rispetto al reddito. Ciò non significa, tuttavia, che alla progressività dell'imposta sul reddito si debba rinunciare, riducendo il numero delle aliquote o addirittura ricorrendo ad una flat tax come talvolta viene proposto addirittura da esponenti del Pd, perché i redditi da lavoro non sono tutti uguali, e sarebbe assurdo privilegiare i top manager pubblici e privati con questo tipo di politica. Il problema, casomai, consiste nel disegno dell'imposta che, per alcuni aspetti, dovrebbe essere sostitutiva di prelievi esistenti (per esempio, quello sulle rendite finanziarie, ma anche la tassazione ai fini Irpef per la parte residuale e l'Ici sui beni immobili strumentali) e per altri potrebbe essere aggiuntiva. Recentemente il Fmi ha stimato che l'adeguamento dell'imposizione patrimoniale ai livelli medi di un insieme di Paesi di riferimento porterebbe l'Italia ad un gettito di circa 15 miliardi di euro, ovvero 1 punto di Pil. Sia da un punto di vista qualitativo, sia da un punto di vista quantitativo, quindi, un'imposizione patrimoniale (in parte sostitutiva, in parte integrativa di imposte esistenti) costituisce un'alternativa di sicuro interesse.

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Quello che la manovra non taglia. Cinque interventi per una manovra di pace e eco-sostenibile

La spesa militare
I 71 programmi di ammodernamento e riconfigurazione dei sistemi d'arma ipotecano la spesa militare Italiana fino al 2026. E sanciscono la trasformazione del nostro esercito in un esercito di aggressione, contro quanto disposto dall'articolo 11 della Costituzione. Di seguito "pillole" di interventi per ridurre la spesa e rispettare l'articolo 11.

- 15 miliardi per l'acquisto dei 131 cacciabombardieri F135 capaci di trasportare ordigni nucleari (nel triennio della manovra il costo è di 2,5 miliardi.).
- 600 milioni il costo della missione in Afghanistan nel 2010.
- La riduzione del numero dei componenti delle Forze Armate, che ammontano oggi a oltre 180.000 unità.

Il taglio delle Grandi Opere, ambientalmente devastanti, economicamente insostenibili.
- 6,3 miliardi di euro per il Ponte sullo Stretto, gran parte dei quali a carico dello Stato.
- La tratta ferroviaria ad Alta Velocità Torino-Lione, il cui costo al netto dei contributi europei, e dunque a carico dello Stato è di 15 miliardi di Euro.

Le Auto-Blu
La manovra interviene in maniera irrisoria, Eppure qui si dovrebbe davvero andar giù duro. Le inchieste giornalistiche parlano di circa 630.000 auto blu, quasi 10 volte quelle degli Stati Uniti, e stimano i costi in 21 miliardi annui.

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Liberazione 15/06/2010, inserto, pag 13,14,15,16

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