Era questa la mentalità dominante un secolo fa. Poi la svolta nel 1910 in un congresso alla Sorbona
Manfredi Alberti*
Cento anni fa, tra il 18 e il 21 settembre 1910, in un anfiteatro della Sorbona, si svolse un congresso internazionale dedicato al tema della disoccupazione. L'evento parigino aveva già alle spalle un precedente, il congresso del 1906 organizzato dalla Società Umanitaria di Milano, il primo nel suo genere. Entrambi i consessi internazionali contribuivano a sottolineare l'esistenza del problema dei lavoratori disoccupati, e avevano l'obiettivo di mettere in relazione un gruppo di specialisti della materia capaci di predisporre strumenti di contrasto al fenomeno.
All'inizio del Novecento l'idea che la disoccupazione fosse un fenomeno involontario e non il frutto di una scarsa propensione al lavoro era ancora un'acquisizione recente e precaria. Se oggigiorno, in tempo di crisi economica, appare normale parlare di disoccupazione (nonostante la sua definizione a livello statistico sia controversa e le proposte avanzate per contrastarla siano divergenti), c'è stata una fase della storia del capitalismo durante la quale il problema dei senza lavoro, sconfinando nel più ampio tema del pauperismo, non era percepito come un fenomeno degno di particolare attenzione e di cui la collettività e i pubblici poteri dovessero farsi pienamente carico. Lo dimostra anche l'evoluzione della lingua, dal momento che fino a buona parte dell'Ottocento il termine "disoccupato", tradizionalmente usato in contesti estranei rispetto a quello dell'economia politica, poteva anche assumere il significato di "ozioso" o "nullafacente". E' il caso di ricordare che lo stesso Marx, il primo ad analizzare compiutamente il fenomeno dell'eccedenza della forza-lavoro all'interno del modo di produzione capitalistico, non usava il termine tedesco corrispondente a disoccupazione (Arbeitslosigkeit), ma si avvaleva piuttosto di varie espressioni, tra cui "sovrappopolazione relativa" ed "esercito industriale di riserva".
Nei dibattiti di inizio Novecento, a fronte di un'ortodossia economica incapace di rendere conto della possibilità di uno squilibrio permanente nel mercato del lavoro, la definizione del concetto di disoccupato rimaneva ancora incerta e controversa. A tutto questo si univa anche, non a caso, la mancanza di una regolare indagine statistica sul fenomeno.
Gli storici che hanno affrontato il tema della scoperta della disoccupazione come problema sociale (in Italia Maria Grazia Meriggi, in un recente volume già recensito su queste colonne, in Francia Christian Topalov), individuano nel periodo a cavallo fra Otto e Novecento la fase di elaborazione della nuova categoria di lavoratore disoccupato. Questo processo si affiancò ai primi tentativi di rilevamento statistico regolare della disoccupazione e allo studio di provvedimenti capaci di contrastarla, contribuendo alla formazione delle prime forme embrionali di stato sociale.
Un vero e proprio dibattito internazionale sulla disoccupazione si sviluppò a partire dalla depressione degli anni Novanta dell'Ottocento. Diversi congressi internazionali da allora cominciarono a prendere in esame il problema, seppure in modo marginale. Con il congresso milanese del 1906 e poi con quello di Parigi del 1910 la disoccupazione cominciò a diventare oggetto di incontri internazionali interamente dedicati al tema.
Tra i notabili, i riformatori e i rappresentanti del movimento operaio che presero parte a queste iniziative di respiro internazionale non mancavano le divergenze sul significato da attribuire alla disoccupazione: se i più moderati interpretavano quest'ultima come un fatto naturale e tipico di ogni società, il fronte più radicale, per lo più a partire da posizioni socialiste, individuava l'origine del male nella formazione economica capitalistica, intravedendo nel superamento di quest'ultima la soluzione definitiva del problema. Ma nonostante la pluralità dei punti di vista, già in occasione del congresso di Milano del 1906 veniva definitivamente messa da parte la vecchia lettura moralistica della disoccupazione, intesa come colpa individuale o come inclinazione all'ozio. In altri termini, veniva per la prima volta riconosciuto il carattere involontario della condizione del disoccupato.
La Conférence internationale du chômage del 1910 fu convocata su iniziativa del belga Louis Varlez e del francese Max Lazard, entrambi esponenti di quella che è stata definita la "nebulosa riformatrice" dell'epoca. Vi presero parte ventisette paesi, per lo più rappresentati da delegazioni ufficiali. La maggior parte dei partecipanti erano specialisti della materia: statistici, giuristi, economisti, funzionari pubblici, parlamentari, sindacalisti. Vi partecipò anche William Beveridge, il quale era allora su posizioni ben più tradizionali rispetto a quelle che avrebbe assunto nel secondo dopoguerra.
Partendo dai risultati del congresso milanese del 1906, a Parigi si discusse soprattutto dell'indagine statistica sul mercato del lavoro e di quelli che all'epoca erano i principali rimedi ritenuti validi contro la disoccupazione: lo sviluppo degli uffici di collocamento e la diffusione dello strumento assicurativo. Al termine del congresso venne istituita l'Association internationale pour la lutte contre le chômage, un organismo permanente di carattere privato, capace tuttavia di mantenere diversi legami con le istituzioni pubbliche. Questa associazione sarebbe stata attiva fino alle soglie della prima guerra mondiale, che da molti punti di vista avrebbe segnato una svolta.
La Grande guerra, attraverso le esigenze di mobilitazione industriale, aprì la strada all'intervento diretto dello Stato sia nell'organizzazione della produzione, sia nella gestione dei rapporti fra le parti sociali. Nel 1919 nacque in seno alla Società delle Nazioni l'Organizzazione internazionale del lavoro, un'istituzione deputata allo studio di tutte le questioni attinenti al lavoro, tra cui la disoccupazione. Dopo la guerra, inoltre, si affermò in molti paesi una gestione diretta dello Stato tanto dell'assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione, quanto del collocamento della manodopera.
Il nuovo equilibrio economico e sociale del primo dopoguerra non sarebbe durato molto. Di lì a pochi anni la crisi del '29 avrebbe determinato l'emergere del dramma della disoccupazione di massa, a cui gli stati avrebbero reagito in tempi diversi attraverso un massiccio intervento nell'economia. Solo dopo il secondo conflitto mondiale nel mondo occidentale si sarebbe aperta la fase del pieno riconoscimento del diritto al lavoro, sancito in vari modi in molte carte costituzionali, e si sarebbe perseguito l'obiettivo del pieno impiego, alla luce dell'insegnamento keynesiano.
Perché rievocare un evento remoto come il congresso parigino del 1910? In una certa misura volgere lo sguardo a quella stagione della storia del capitalismo consente di guardare al presente da un'angolazione diversa. Gli anni che stiamo vivendo, infatti, se paragonati a quella fase preistorica dell'evoluzione del concetto di disoccupazione, sembrano caratterizzati da un processo alla rovescia, alla fine del quale quello che rischia di profilarsi è un offuscamento del dramma della disoccupazione come fenomeno essenzialmente involontario.
Tra Otto e Novecento l'affermazione della nozione di disoccupazione involontaria ebbe come presupposti da un lato il pieno sviluppo dei rapporti capitalistici, l'avvio dell'industrializzazione, il processo di urbanizzazione, la scomparsa della pluriattività e la diffusione di processi produttivi più regolari; dall'altro l'affermazione del movimento operaio e del sindacato, ovvero di quei soggetti in grado di imporre il riconoscimento della disoccupazione come fenomeno indipendente dalla buona volontà dei singoli, distinto dall'oziosità e dal tradizionale pauperismo.
Oggi, specularmente, la maggiore flessibilità dei processi produttivi, la diffusione di rapporti di lavoro precari e lo smantellamento dei diritti dei lavoratori rischiano di rendere sempre più problematica la vecchia definizione di lavoratore disoccupato, inteso come colui che suo malgrado risulta privo di un impiego stabile e a tempo pieno. Complice un indebolimento del movimento dei lavoratori e delle sue rappresentanze politiche, dopo anni di egemonia culturale neoliberista, attualmente viviamo per molti aspetti la restaurazione di alcuni elementi della fragile condizione del lavoratore di inizio Novecento. Al di là delle profonde differenze relative al diverso grado di sviluppo capitalistico, anche oggi, come allora, le diverse tipologie di lavoro precario e le ridotte forme di tutela fanno sì che la distinzione fra lavoratore occupato e disoccupato appaia talvolta incerta, e che la scarsità di opportunità lavorative sia spesso interpretata come il frutto di un mancato adattamento alle condizioni del mercato. Queste trasformazioni, insieme a un progressivo abbandono dell'obiettivo del pieno impiego, sembrano influire anche sulle statistiche ufficiali che, come molti hanno già sottolineato, tendono a sottostimare il disagio occupazionale.
La ricostruzione del percorso seguito dall'inizio del Novecento a oggi mostra che la disoccupazione, come tutti i fenomeni sociali, è un prodotto storico, e come tale si trasforma tanto nelle sue dinamiche reali, quanto nelle forme della sua rappresentazione. Perché un tema come quello della disoccupazione sia posto al centro del dibattito pubblico sono certamente necessarie alcune precondizioni di ordine strutturale, relative alla fase dello sviluppo capitalistico. Ma è altrettanto determinante l'esistenza di un'organizzazione dei lavoratori e di un soggetto politico in grado di imporre il tema all'ordine del giorno e di proporre validi strumenti di contrasto.
*università di Firenze
Liberazione 11/11/2010, pag 7
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