Libri e testimonianze sugli ultimi giorni dell'intellettuale tedesco morto settanta anni fa
Sergio Garufi
Quello dei pellegrinaggi letterari è un fenomeno sempre più diffuso ma relativamente recente. Lo si potrebbe spiegare col fatto che nelle moderne società borghesi secolarizzate il senso del sacro ha assunto nuove forme, più consone a una visione del mondo insofferente a dottrine antiquate e a rigide precettistiche morali. A una trascendenza declinante si va così sostituendo un culto per l'estetico che ai suoi adepti esige soltanto di prestar fede a una sorta di indistinto numinoso, offrendo in cambio più o meno analoghi benefici. Un lessico comune (la vocazione, l'ispirazione), dei contenuti occulti, dei feticci da idolatrare, il certificato di superiore nobiltà d'animo e l'illusione dell'immortalità per chi vi si consacra; il tutto dispensato da una casta di chierici accademici strutturata in modo simile alle gerarchie ecclesiastiche. I luoghi di culto sono a volte le stesse chiese: concentrati di pittura, scultura e architettura sublimi, o i grandi musei, visitati con prona devozione alla stregua di templi dell'arte. Per la letteratura il discorso è leggermente diverso. I suoi santi e i suoi martiri condussero una vita meno associata, furono monadi esiliate nella loro irriducibile singolarità, e l'aura smarrita nell'opera, a causa della sua riproducibilità tecnica, la si può rinvenire nelle tracce mnestiche della biografia del loro artefice. Ecco perché le mete dei pellegrinaggi letterari sono soprattutto le tombe degli scrittori, dove sostare in raccoglimento, o addirittura le case in cui vissero. Riguardo ai cimiteri, una guida preziosa è il libro dell'olandese Cees Nooteboom, intitolato appunto Tumbas, che ne ripercorre parecchie, da quella di Cervantes fino a quella di Susan Sontag. Per quanto concerne le abitazioni invece, non mancano le agenzie di viaggio specializzate che promettono soggiorni a pagamento nelle stanze d'hotel occupate da Hemingway o da Kafka, ma le baedeker consigliabili sul tema sono per lo più divise per ambito geografico, tanto che in genere il seguace di un autore specifico preferisce affidarsi al fai-da-te. Parigi in questo senso è la capitale mondiale. Quasi ogni strada ostenta la propria lapide commemorativa, e non è raro il caso che in alcuni punti la memoria storica addirittura si sovrapponga, così che il medesimo appartamento in rue Lepic 98 sia visitato sia dai discepoli di Louis Ferdinand Céline, come il luogo in cui scrisse nel 1932 il Viaggio al termine della notte, che dagli ammiratori di Dalida, curiosi di fotografare il posto in cui la cantante si ammazzò cinquant'anni dopo. Qualche sospetto sulle reali intenzioni di questi fedeli resta, e non solo per l'atteggiamento predatorio con cui inquadrano nel mirino quelle memorie storiche, ma anche per come sfoderano il taccuino nero d'ordinanza. Lì si palesa la natura ostile del pellegrinaggio artistico, nutrito dalla speranza, non priva di malizia, di scovare lo scrittore nel suo più prosaico e indifeso succedaneo: la casa in cui visse. Armati delle migliori intenzioni, per carità, e tuttavia armati, anche se solo di un taccuino (non a caso "d'ordinanza", in quanto strumento poliziesco, e "sfoderato" in quanto strumento d'offesa). Che non fosse un'attività del tutto innocente lo esplicitò pure Brock Clarke, nel romanzo Case di scrittori del New England: la guida del piromane (Einaudi), in cui il protagonista manda a fuoco l'abitazione di Emily Dickinson. Forse perché un vero pellegrinaggio letterario, al pari di quello religioso, ha da essere innanzitutto faticoso e penitenziale, se non altro per scontare il peccato di aver ignorato o vilipeso, quando era in vita, il valore di quell'artista. «L'umanità si difende dal genio negandolo e se ne sbarazza riconoscendolo», diceva saggiamente Camillo Sbarbaro. Walter Benjamin, il pensatore ebreo tedesco che impersonò come pochi altri questa sentenza, e di cui i giorni scorsi ricorreva il settantenario del suo suicidio in terra di Spagna, potrebbe essere l'occasione giusta. Vittima sacrificale della barbarie nazista, ma prima ancora della miopia intellettuale degli ambienti accademici che, salvo rare eccezioni, ne ostacolarono la carriera non comprendendo la profondità del suo approccio comparatistico, Benjamin visse per molti anni in miseria e fu infine costretto a fuggire varcando clandestinamente i Pirenei. Giunto la notte del 25 settembre 1940 a Portbou, il primo villaggio catalano dopo il confine, fu arrestato con la promessa di essere riconsegnato il giorno seguente alla Gestapo, in quanto sprovvisto dei documenti necessari per espatriare dalla Francia. Lì, in una modesta pensione a pochi metri dal mare, per evitare l'internamento in un lager decise di suicidarsi ingerendo della morfina. Grazie a numerose testimonianze su quelle drammatiche ore finali, come quella di Lisa Fittko (La via dei Pirenei, Manifestolibri) o i resoconti dei suoi compagni di viaggio raccolti nel saggio a cura di Carlo Saletti (Fine terra, Ombre corte), oggi è possibile ripercorrere fedelmente come in un trekking tutte le stazioni della via crucis benjaminiana. La route Lister, il lungo e impervio sentiero che valicava le montagne parallelamente alla strada ufficiale, rappresenta l'ultimo e il più doloroso dei suoi Passages. Forse non fu un caso che l'intellettuale europeo che più di ogni altro coltivò un'autentica vocazione interdisciplinare, l'inclassificabile sempre in movimento da un ambito culturale a un altro, si sia tolto la vita proprio quando fu bloccato a una frontiera. I confini sono metafore gerarchiche, vengono concepiti per escludere, per mettere al bando. Oggi che quelle barriere non esistono più, sarebbe giusto omaggiare in questo modo chi, come lui, incarnò «la bellezza e la purezza dell'insuccesso».
Liberazione 06/11/2010, pag 8
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