mercoledì 26 marzo 2008

Moqtada al Sadr

La parabola del giovane imam: dai fasti del 2003 alle battaglie intestine
Vita, lotte e miracoli
di Moqtada al Sadr
il Masaniello di Najaf

Paola Gasparoli*
18 giugno 2003, venerdì giorno di sermoni. Moqtada al Sadr sceglie la moschea di Najaf, città santa sciita, per presentarsi ufficialmente sul palcoscenico iracheno. Condanna l'occupazione, chiama "fantocci" i membri del Consiglio di Governo creato dall'allora governatore americano Lewis Paul Bremer III, annuncia la nascita della sua milizia: l'Esercito del Mahdi.
In ottobre dalla sua moschea a Kufa annuncia la nascita di un governo ombra. Non se ne farà nulla ma fornirà l'occasione per il primo scontro, 13 ottobre a Kerbala, con le milizie sostenitrici del Grande Ayatollah Al Sistani, massima autorità dell'islam sciita, che a differenza di quello sunnita è organizzato gerarchicamente. Le ragioni non sono solo politiche: in palio il controllo dei luoghi santi sciiti e delle entrate finanziarie che ne derivano. Moqtada comincia così la sua ascesa attirando a sé giovani, disoccupati, sbandati, sciiti delusi dalla politica dei partiti religiosi entrati nel Consiglio di Governo, sciiti che non perdonano la promessa tradita degli Usa nella guerra del 1991 di sostenerli se si fossero sollevati contro Saddam. Il suo bacino principale è Thawra l'enorme quartiere proletario sciita subito ribattezzato Sadr City. Già alla fine del 2003 i suoi miliziani cominciano a dettare i comportamenti del "buon musulmano e della buona musulmana". A farne le spese, oltre le donne, sono i proprietari di negozi di alcolici, spesso curdi e cristiani; i parrucchieri da donna e quelli da uomo se fanno tagli alla occidentale; i negozi di musica e dvd.
Ma sono gli attacchi all'occupazione e l'appoggio alla resistenza armata che gli permettono di ingrossare le sue fila. L'aiuto più grande arriva dalla decisione statunitense di chiudere il suo giornale, arrestare un suo luogotenente accusandolo insieme allo stesso Sadr dell'assassinio del Grande Ayatollah Abd al-Majid al-Khoi avvenuto il 10 aprile 2003 davanti alla moschea di Najaf. Assassinio che ha creato un vuoto politico-religioso aprendo le porte alla divisione e alla lotta per il potere tra le componenti sciite irachene. La reazione è immediata. Sono migliaia i sostenitori vestiti di nero e fascetta verde alla fronte che riempiono le strade di Kut, Kerbala, Najaf. A Baghdad marciando da Sadr City raggiungono il centro dove vengono caricati, ricacciati nella loro roccaforte e attaccati dalle forze statunitensi per tre giorni.
Siamo a marzo del 2004. Il 5 aprile le sue parole «terrorizzate il vostro nemico perché non possiamo rimanere in silenzio di fronte alle loro violazioni» passano di bocca in bocca. Sono i giorni del primo attacco a Falluja e il Mahdi combatte al fianco dei fratelli sunniti. Lo scontro diretto con le truppe statunitensi è solo rimandato. Il 5 agosto Moqtada invita a sollevarsi contro gli occupanti. Il campo di battaglia principale è Najaf orfana di Al Sistani a Londra per problemi di cuore. Tre settimane di battaglia condotta anche all'interno del cimitero uno dei luoghi più antichi e sacri per gli sciiti, dove ognuno di loro vorrebbe essere sepolto.
La città vive giorni disperati. Sarà solo il rientro di Al Sistani a fermare i combattimenti costringendo Moqtada al tavolo della trattativa. Sadr comincerà la sua ambigua partita politica giostrandosi tra gli interessi di palazzo, la lotta per il controllo a Baghdad e nel sud ricco di petrolio e la sua base fortemente anti-americana e sempre più antisunnita grazie alla strategia statunitense di portare allo scontro interno gli iracheni e di rompere l'alleanza tra resistenza sunnita e sciita nella preparazione del secondo grande attacco di novembre a Falluja.
Il banco di prova saranno le elezioni del gennaio del 2005 che da una parte Moqtada rifiuterà e dall'altra riuscirà a far eleggere suoi rappresentanti al parlamento ottenendo tre ministeri. Intanto il Mahdi s'ingrossa: nel 2003 le voci parlavano di un migliaio di miliziani ora le stime parlano di 15-20mila uomini, ma le cifre in Iraq sono sempre un mistero. Il 2006 è l'anno dello scontro interno. L'attentato alla moschea sciita di Samarra scatena le violenze settarie e la battaglia per il controllo di Baghdad è senza limiti raggiungendo livelli di violenza e brutalità inimmaginabili. Il Mahdi sarà tra i protagonisti aggiungendosi alle operazioni degli squadroni della morte del ministero degli interni composte dalle Badr Forces, milizie del Consiglio Supremo della Rivoluzione Islamica (ora Consiglio Supremo Islamico Iracheno) partito sciita al governo con a capo Al Hakim. Tutti pagheranno un prezzo altissimo. Le zone miste verranno omogeneizzate. Interi quartieri cambieranno composizione. I sunniti perdono la battaglia per la capitale dalla quale fuggono in migliaia.Esecuzioni, torture, rapimenti, attacchi militari, esplosioni. Le milizie di Moqtada non aspettavano altro e la sua zona di influenza si espanderà andando ben oltre Sadr City.
Stessa tragedia in altre città del paese. Intanto giornalmente gli attentati mietono centinaia di vittime, così come aumentano quelli contro le forze multinazionali. La situazione diventa insostenibile e gli americani cambiano strategia: innalzano muri intorno ai quartieri considerati rifugio sicuro per miliziani, combattenti e terroristi; iniziano l'operazione surge (giugno 2007) dispiegando 30mila soldati più 20mila uomini dell'esercito iracheno; assoldano milizie sunnite con l'incarico di ripulire i quartieri dalla componente quedista; si accordano con leader tribali sunniti dando vita al Consiglio del Risveglio (Sahwa) e sembra tentino, senza successo, una "sahwa sciita" anti-Moqtada identificato come il peggiore dei mali. Gli spazi di manovra militare e politica diminuiscono e come spesso accade il momento di massima espansione corrisponde al più critico e pericoloso da gestire. Il Mahdi non è mai stato facile da controllare.
Ripetuti gli episodi di disubbidienza e non rispetto degli ordini, capi militari sollevati dall'incarico se ne vanno con miliziani e armi dando vita a squadroni indipendenti. Gli stessi sostenitori si lamentano di rapine, sfratti, ricatti, rapimenti, estorsioni, violenze, esecuzioni sommarie da parte di sedicenti sadristi che per la prima volta nella loro vita hanno potere e possibilità di forti guadagni. Iniziano scontri tra milizie sadriste, le divisioni interne si moltiplicano. La forza di Moqtada sta nell'appoggio popolare se lo perde si gioca il potere e il futuro politico che per i religiosi sciiti si basa sullo studio della religione all'interno di scuole riconosciute la più importante delle quali è l' Hawsa di Najaf. Nell'agosto del 2007 scoppiano violenti combattimenti nella città santa di Kerbala tra il Mahdi e le Badr Forces.
Moqtada non aveva dato l'ordine, è imperativo riprendere il controllo e la decisione è presa: congelamento di tutte le attività dell'Esercito del Mahdy per sei mesi, scaduti e rinnovati il 22 febbraio scorso. Non solo. Moqtada non reagisce all'arresto di suoi miliziani. Le aree sotto il suo controllo diminuiscono. Alcune sedi vengono perquisite. Ma nonostante le richieste della base l'ordine non cambia. Le mele marce le lascia volentieri alla repressione americana e irachena, sono coloro che non ubbidendo causano l'erosione del suo consenso che rimane comunque alto. In compenso chiede ed ottiene la liberazione di Hakim al-Zamili, uno dei suoi uomini di punta e del generale di brigata Hamed al-Shimari, ex capo della sicurezza del ministero della sanità, arrestati con l'accusa di abuso della loro posizione per facilitare esecuzioni settarie.
Arriviamo così all'annuncio shock dell' 8 marzo: «Molti dei miei compagni più stretti hanno lasciato per ragioni terrene, alcuni di loro vogliono essere indipendenti», scrive Sadr in un comunicato diffuso a Najaf. «Questo non significa che non ci siano seguaci leali… Molti che ritenevamo fossero buoni seguaci non stanno ascoltando i loro leader religiosi… e sono coinvolti in conflitti politici… Giuro di vivere con voi e fra voi. Io sono parte di voi. Non cambierò, a meno che morte non ci separi... Il fatto che la presenza degli occupanti continui mi ha spinto ad assumere questo isolamento. E' un modo per esprimere la mia protesta…Non sono ancora riuscito a liberare l'Iraq e a renderlo una società islamica. Non so chi sia responsabile di questo fallimento o di questa incapacità io, la società, o entrambi?… La presenza dell'occupante e il fatto di non aver liberato l'Iraq, nonché la disobbedienza di molti e il fatto che abbiano deviato dalla retta via, mi hanno spinto all'isolamento per protesta…». E aggiunge che vuole obbedire al desiderio del padre e continuare gli studi religiosi, tornerà quando riterrà interessante farlo. E qui sta la strategia futura di Sadr. Moqtada non ha studiato e nella tradizione sciita questo gli impedisce di diventare un riferimento religioso e politico importante. Ha potuto presentarsi come leader solo grazie alla storia della sua famiglia. Suo padre era il Grande Ayatollah Mohammed Sadiq Al-Sadr assassinato nel 1999 e simbolo della resistenza sciita al regime. Lo zio era il Grande Ayatollah Sayed Mohammed Baqir Al-Sadr fondatore negli anni '50 del partito Dawa al Islamya tutt'ora esistente, benché diviso in quattro fazioni, e al governo.
Senza queste credenziali gli sarebbe stato molto difficile agire e non avrebbe avuto una sua moschea. L'appoggio popolare di oggi derivante dalle condizioni in cui versa il paese sa che non basterà. Senza la "laurea religiosa" rischia di non avere un ruolo importante nell'Iraq di domani dove dovrà far dimenticare anche gli orrori delle esecuzioni settarie. Altro neo il suo cambio di rapporti con l'Iran che lo ha armato e finanziato nell'ultimo periodo e dove si ritiene si sia ritirato con altri fedeli che sembra stiano frequentando corsi di addestramento, strategia e organizzazione militare. Neo perché uno dei leit motiv della sua propaganda era la sua indipendenza dall'ingombrante vicino a differenza dei suoi avversari Al Hakim e Al Sistani. Se ne avvantaggia al Fadhila che si ispira al padre di Moqtada rivendicando di essere l'unico partito sciita non filo iraniano. Si pensa al domani, ma l'oggi incalza. I fedelissimi di Moqtada faticano a tenere la base e allora si conferma la tregua ma si dà semaforo verde: rispondete se attaccati. In perfetto stile Moqtada.
*Osservatorioiraq


Liberazione 26/03/2008

sabato 22 marzo 2008

Google sites

http://www.google.com/intl/en/sites/

mercoledì 19 marzo 2008

Cosa c'entra l'indipendenza del Kosovo con il petrolio del Kurdistan iracheno?

Dalle "bombe umanitarie" di Clinton alle crociate di Bush, come Washington ha sfruttato le sue guerre per controllare il pianeta Cosa c'entra l'indipendenza del Kosovo
con il petrolio del Kurdistan iracheno?

Sabina Morandi
Non bisogna essere esperti di geopolitica per capire che l'indipendenza unilaterale del Kosovo ha ben poco a che fare con la democrazia o con i diritti delle minoranze oppresse. Non è chiaro però per quale motivo la Nato abbia compiuto questo passo sapendo perfettamente che avrebbe potuto creare un pericoloso precedente per tutte le minoranze oppresse del pianeta e che sarebbe stata una grave provocazione nei confronti di Mosca, storica alleata dei serbi. In realtà, come spiega Pepe Escobar dalle pagine on line di Asia times , la saga del Kossovo ha a che fare con due cose molto importanti: la rete degli oleodotti e le 737 basi Usa dislocate nel pianeta. Per farla breve si può dire che, fin dal 1999, la politica balcanica di Washington ruoti tutta intorno all'oleodotto trans-balcanico (Ambo) e a Camp Bondsteel, la più grande e lussuosa base statunitense in Europa. Insomma, dall'imperialismo umanitario di Clinton alla guerra al terrore di Bush, la musica è sempre la stessa: Washington decide in base ai propri interessi e al resto del mondo non resta che raccogliere i cocci.
Non piacerà agli amici dei Clinton ma, in realtà, Belgrado e Baghdad hanno parecchio in comune. I 78 giorni di bombardamento massiccio della Jugoslavia che, nel ‘99, avrebbero dovuto sloggiare il "nuovo Hitler" (Slobodan Milosevic) sono stati il modello del bombardamento "colpisci e terrorizza" con cui, nel 2003, si sarebbe dovuto cacciare un altro "nuovo Hitler" (Saddam). Clinton ha demonizzato i serbi e utilizzato la Nato per aggirare la mancanza del mandato dell'Onu esattamente come ha fatto Bush nel 2003. Clinton ha attaccato l'ex Jugoslavia per espandere la Nato ai confini dell'ex Unione Sovietica, Bush ha attaccato l'Iraq per conquistare l'accesso agli ultimi grandi giacimenti. In entrambi i casi la militarizzazione e il controllo egemonico sono l'obiettivo delle operazioni e, in entrambi i casi, i risultati sono stati simili: la Jugoslavia è stata devastata, frammentata, balcanizzata e riordinata etnicamente in tanti mini-stati facilmente controllabili; l'Iraq è stato devastato, frammentato e spinto verso la pulizia etnica su base settaria e religiosa.
Secondo Hillary Clinton l'indipendenza del Kosovo è un trionfo della democrazia e «un successo della politica estera americana». Questo nuovo Stato "modello" riconosciuto solo da Usa, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia, secondo Vladimir Ovtchinky, criminologo ed ex capo degli uffici russi dell'Interpol durante gli anni '90, è «uno Stato mafioso nel cuore dell'Europa». Lo governa Hashim Thaci, ex-comunista che, dopo aver abbracciato il socialismo nazionalista, divenne uno dei capi più giovani dell'Uck (l'esercito di liberazione del Kossovo) guadagnandosi il soprannome di "Serpente". Fu Madeleine Albright, allora Segretaria di Stato, a sdoganare il Serpente attribuendogli «il più radioso futuro» fra i kossovari che «lottano per la democrazia». Albright, oggi consulente per la politica estera di Hillary, non si fece problemi a finanziare un gruppo considerato una sorta di al-Qaeda balcanica specializzata in narcotraffico. Con il sostegno dell'intelligence statunitense e britannica, l'Uck venne addestrato dalle forze speciali di Londra mentre istruttori turchi e afgani (pagati dalla Cia) fornivano rudimenti sulle tecniche di guerriglia. Nel 1994 arrivò in Albania perfino bin Laden, e pare che al-Qaeda abbia ancora solide connessioni in loco.
Sul quotidiano russo Ogoniok , Ovtchinky racconta come i clan kosovari abbiano guadagnato il controllo del traffico di oppio e di eroina dall'Afghanistan e il Pakistan attraverso i Balcani fino all'Europa occidentale. Dalla fine degli anni Novanta parte dei proventi del narcotraffico (circa 750 milioni euro) sono stati utilizzati per comprare armi mentre il business del contrabbando si andava diversificando. Secondo l'Interpol e l'Europol, allargando i propri "interessi" anche al traffico di migranti e alla prostituzione su larga scala, le mafie kosovare hanno incassato non meno di 7,5 miliardi di euro solo fra il 1999 e il 2000. Pare che la mafia kosovara sia ormai così potente da indurre Come scrive Escobar: «Il coro autodefinitosi "comunità internazionale" però è improvvisamente ammutolito di fronte alla possibilità dell'indipendenza delle Fiandre dal Belgio, del nord di Cipro, della Repubblica serba di Bosnia e dei baschi di Spagna, per non parlare di Gibilterra o del Kashmir indiano (il Jammu Kashmir Liberation Front, sta già prendendo alcune iniziative)». Ma ci sono anche il Tibet, Taiwan, l'Abkahzia e il South Ossetia (entrambi in Georgia ed entrambi vicini alla Russia), oltre alla Palestina e al Kurdistan. Il Kossovo settentrionale stesso - ormai popolato solo da serbi - e la Macedonia occidentale non sembrano qualificati per diventare indipendenti. Allora perché il Kossovo? Ed ecco che entrano in gioco l'oleodotto Ambo e Camp Bondsteel.
Ambo sta per Albanian Macedonian Bulgarian Oil, entità registrata negli States per costruire un oleodotto da 1,1 miliardi di dollari (noto anche come Trans-balcanico) che dovrebbe essere ultimato entro il 2011 e portare il petrolio dal Mar Caspio a un terminal in Georgia. Da lì verrebbe trasportato via nave attraverso il Mar Nero fino al porto bulgaro di Burgas per poi attraversare la Macedonia fino al porto albanese di Vlora. La guerra della Nato voluta da Clinton contro la Jugoslavia era cruciale per l'accesso strategico a Vlora, dove il greggio verrà imbarcato sulle petroliere dirette alle raffinerie statunitensi sulla West Coast. Va detto che lo studio originale di fattibilità dell'Ambo, che risale al 1995, è stato condotto dalla Kellogg, Brown and Root, una sussidiaria dell'Halliburton, compagnia notoriamente vicina al vice-presidente Dick Cheney. L'Ambo si accorda infatti con la griglia energetica perseguita dal vice presidente (e, prima di lui, dal ministro per l'Energia di Clinton Bill Richardson) che dovrebbe assicurare agli Stati Uniti anche il petrolio delle ex-repubbliche sovietiche. Naturalmente la cosa può funzionare solo militarizzando massicciamente il "corridoio energetico" che parte dal Caspio e attraversa i Balcani, e isolando le potenze confinanti, ovvero Russia e Iran.
Ecco il perché di Camp Bondsteel, la più grande base statunitense oltreoceano dai tempi del Vietnam, costruita dalla stessa compagnia che ha progettato l'oleodotto (Kellogg, Brown and Root) su 400 ettari di terra (agricola) vicino al confine con la Macedonia. Camp Bondsteel è una specie di Guantanamo a cinque stelle, completa di campo da golf, centro di massaggi tailandesi e tonnellate di cibo spazzatura. Secondo quanto ha scritto Chalmers Johnson in "The Sorrows of Empire" «I veterani dicono scherzando che ci sono solo due artefatti che possono essere visti dallo spazio, la Grande muraglia cinese e Camp Bondsteel». Non sarà più una battuta quando verrà ultimato il raddoppio che trasformerà la base nell'Abu Ghraib del Kosovo: la più grande prigione del paese dove le persone possono essere detenute senza bisogno di formalizzare le accuse. Amputato dalla Serbia, il Kosovo non sarà altro che un protettorato europeo: i funzionari di Bruxelles confermano che migliaia di burocrati e ufficiali di polizia saranno schierati a fianco di più di 17 mila militari della Nato. Parecchi analisti europei (per non parlare di quelli russi) hanno paragonato la situazione attuale con i giochetti balcanici che, nel 1914, portarono allo scoppio della Prima guerra mondiale. Proprio come un secolo fa, l'Europa centrale, la Russia e i musulmani si scontrano nei Balcani, ma questa volta la sceneggiatura è statunitense.
Il primo contraccolpo l'hanno assaggiato i curdi iracheni, indotti a credere che il Kosovo fosse un precedente per la nascita di un Kurdistan indipendente. Esattamente come in Kossovo, anche nel Kurdistan iracheno al centro della scena c'è il petrolio (Kirkuk e i suoi oleodotti) e l'occupazione militare del territorio. Per spegnere sul nascere i sogni dei curdi, immediatamente dopo la proclamazione dell'indipendenza kossovara Ankara ha spedito 10 mila soldati oltre confine con l'aiuto dell'intelligence statunitense, per una campagna lampo terminata con il ritiro del 29 febbraio. Inizialmente le proteste del Governo regionale curdo di Ibril si sono fatte sentire. Il presidente Barzani ha scritto a Bush per chiedergli di fermare l'invasione. Durante i primi giorni dell'invasione il Governo regionale sottolineava gli sforzi fatti per «limitare le attività» dei ribelli del Pkk (il Partito dei lavoratori del Kurdistan). Il Pkk è solo una scusa, dicevano i leader curdi, perchè la Turchia vuole solo «impedire la nascita di uno stato indipendente».
Poi la musica è cambiata. Il primo ministro del governo curdo Nechirvan Balzani ha cominciato a sostenere che - malgrado i video e le numerose testimonianze - i turchi non hanno attaccato né le infrastrutture né i villaggi. In realtà l'invasione è stata una dimostrazione di forza - una specie di "colpisci e terrorizza" al rallentatore - da parte di un paese membro della Nato. Obiettivo della Turchia era minare la credibilità del governo regionale curdo e mostrare quanto sarebbe facile controllare la regione ricca di petrolio di Kirkuk. Così finisce il sogno dell'indipendenza del Kurdistan, sia per i curdi iracheni che per i 12 milioni che vivono in Turchia. Il premier del governo regionale curdo Balzani e l'attuale presidente dell'Iraq Talabani, ex signori della guerra perennemente in competizione, hanno già venduto il Pkk 15 anni fa, durante un'offensiva condotta insieme all'esercito turco. Entrambi promisero che non sarebbe più accaduto e invece è successo di nuovo: per i civili curdi, come i per civili kossovari, la vera indipendenza resta un sogno.

Liberazione 19/03/2008

lunedì 17 marzo 2008

Info Blogs

Paola Caridi
http://invisiblearabs.blogspot.com/

Emanuele Giordana
http://emgiordana.blogspot.com/

-----

Portale di informazione sull’Africa
http://www.mwinda.it/

Agenzia radiofonica
http://amisnet.org/

Audio documentari
http://www.audiodoc.it

sabato 15 marzo 2008

Finanza islamica

Mentre l'Occidente è in crisi per i subprime, nei paesi arabi cresce il giro d'affari dei fondi rispettosi della legge coranica L'economia globale sarà salvata
dalla finanza islamica?

Sabina Morandi

Aprile 2010. Dai paesi arabi arriva un aiuto insperato per arginare la crisi di liquidità che sta trascinando nel baratro l'economia occidentale: la finanza islamica, che per motivi religiosi rifiuta la speculazione ed è quindi rimasta immune dall'infezione dei mutui statunitensi, offre il proprio sostegno in cambio della possibilità di vendere il petrolio in euro per compensare gli effetti della disastrosa svalutazione del dollaro. Le capitali europee hanno accettato entusiasticamente mentre la Casa Bianca, per motivi puramente ideologici, ha preferito cedere importanti assetts alle banche cinesi, ormai principali creditrici di Washington. Così Bruxelles decreta che, d'ora in poi, gli europei celebreranno con i musulmani la festa per la fine del Ramadam per esprimere la propria gratitudine…
Fantascienza? Effettivamente il calendario ci ha preso un po' la mano. Facciamo allora un passo indietro e torniamo al febbraio 2008 quando, nel pieno della crisi causata dai mutui americani, è stato organizzato un summit dedicato alla finanza islamica nel Bahrain, ricco stato insulare affacciato sul Golfo Persico. E' stato proprio in quei giorni che, a sorpresa, il governatore della banca centrale Rasheed Al Maraj ha dichiarato ai giornalisti della Reuters: «Il business della finanza islamica non è stato toccato dalla tempesta subprime. Anzi, la crisi del credito potrebbe favorire l'espansione dei prodotti finanziari compatibili con le leggi islamiche anche al di fuori dei mercati asiatici e dei Paesi del Golfo». E, dopo questo annuncio a effetto, il governatore ha illustrato i dati raccolti dall'istituto bancario Abcb.bh secondo i quali nel 2008 il valore di bond e prestiti compatibili con i dettami del Corano raggiungerà i 5 miliardi di dollari. Le cifre fornite dall'istituto del Bahrain sono più che credibili: diversi analisti prevedono che nel 2010 il giro d'affari dei fondi rispettosi della legge islamica toccherà il trilione di dollari, crescendo ogni anno del 15 per cento. Un business che non è stato compromesso, se non marginalmente, dalla crisi dei mutui.
Ai giornalisti stupefatti il governatore della banca centrale del Bahrain ha spiegato paziente:

«La nostra religione vieta i prestiti basati sull'interesse o la commercializzazione dei debiti, ogni prodotto finanziario deve essere trasparente e, in tutto e per tutto, compatibile con i dettami del Corano».

L'investitore musulmano quindi non potrebbe mai acquistare prodotti complessi come le famigerate collaterized debt obligations , astrusi prodotti finanziari, tra le principali cause della tempesta subprime. Nel Bahrain, che ha registrato perdite legate ai subprime, è stato proprio Abcb.bh che nel 2007 ha visto i suoi profitti calare del 38 per cento. Una crisi però che ha interessato solo il comparto tradizionale e non la nuova gamma di prodotti compatibili con le leggi craniche che Abcb.bh, come molte altre banche della regione, ha messo a disposizione dei suoi clienti.
Insomma, non siamo ancora al tracollo immaginario del 2010 ma la finanza globale continua a perdere colpi mentre il fenomeno della finanza islamica è già abbastanza consistente da attirare l'interesse dell'Occidente. Stiamo parlando di qualcosa come 200 istituzioni finanziarie, con oltre 400 miliardi di dollari di fondi gestiti e un tasso di crescita annuale nell'ultimo triennio maggiore del venti per cento tanto da indurre l'istituzione di appositi indicatori, i Dow Jones Islamic Indexes. E stiamo parlando di un miliardo e mezzo di musulmani sparsi su tutto il pianeta. Il motivo di questo boom inaspettato è dovuto a molteplici fattori: prima ci si è messa l'arabofobia post-11 settembre che ha spinto molti musulmani a sgusciare via dalle banche Usa e investire altrove quei capitali che, con l'aumento del petrolio, sono cresciuti in modo esponenziale. Poi è arrivato il tracollo del dollaro e, infine, la crisi dei mutui americani che ha provocato una fuga di capitali dal mercato immobiliare alla spasmodica ricerca di porti sicuri. E i fondi coranici si sono inaspettatamente rivelati il posto migliore dove posteggiare i propri soldi.
Quel che colpisce è che nei paesi islamici si sia riusciti a fare, attraverso la religione, quel che da noi non si è riusciti a fare con l'etica: costruire sistemi finanziari stabili e fortemente connessi alla realtà produttiva e al riparo dall'infezione dell'economia criminale. Come scrive Loretta Napoleoni in Economia canaglia : «La finanza islamica rifiuta istituzioni quali gli hedge funds e i private equity che si limitano a moltiplicare il denaro spostandolo verso investimenti ad alto rischio e alto reddito. Il denaro è solo un mezzo o uno strumento di produttività, come avevano originariamente immaginato Adam Smith e David Ricardo. Questo principio è cementato nei sukuk , le obbligazioni islamiche, che devono sempre essere legate a investimenti reali, per esempio la costruzione di un'autostrada a pedaggio, e mai destinate a scopi puramente speculativi».
Il rispetto del principio religioso dell'haram, inoltre, non garantisce soltanto che le attività economiche finanziate con i nostri soldi si tengano lontane da cose come la distribuzione/produzione di alcool, tabacco e carne suina, ma riguarda anche altre attività proibite dal Corano come il traffico di armi, la pornografia e il gioco d'azzardo, qualcosa su cui concordano anche i laici (o i fedeli di altre religioni) ma che ben poche banche, in Occidente, sono in grado di garantire.

Com'è noto, fino alla fine del Medioevo, anche il cristianesimo condannava l'usura intesa come qualsiasi pagamento dovuto per un prestito di denaro.

La famosa massima aristotelica - «il denaro non può generare denaro» - venne fatta propria dal Concilio di Lione II che, nel 1274, condannò espressamente la riscossione di interessi a fronte della concessione di un mutuo perché considerata come una vendita di denaro con pagamento differito, i cui interessi non erano giustificabili dalla variante del tempo visto che il tempo era considerato "bene comune". La condanna non aveva quindi a che fare con l'entità del tasso di interesse richiesto: prestare denaro era considerato peccato, qualsiasi compenso fosse richiesto in cambio.
La condanna aristotelica (ed evangelica) in Occidente venne dimenticata con l'avvento dei mercanti mentre rimase nell'Islam. Nel 1970, con la creazione dell'Organizzazione della conferenza islamica (Oci) per riunire i paesi musulmani, la questione dei precetti economici dell'Islam tornò all'ordine del giorno e gli istituti islamici di ricerca economica cominciarono a proliferare. Il loro compito non era facile: si trattava di adeguare un sistema medievale alla realtà di un'economia globalizzata in rapidissima espansione.
Mentre economisti ed esegeti del Corano spaccavano il capello in quattro, però, il prezzo del petrolio quadruplicava. Così, durante il vertice che si tenne a Lahore nel 1974, l'Oci decise di fondare la Banca islamica di sviluppo. Fu proprio questa istituzione, con sede a Gedda, che gettò le basi di un sistema di aiuto reciproco fondato su principi islamici che sarebbe sfociato nel fenomeno finanziario di oggi. Nel 1975, dopo la fondazione della prima banca privata islamica, la Dubai Islamic Bank, venne costituita un'associazione internazionale con il preciso compito di stabilire le norme e difendere gli interessi comuni. Il Pakistan fu il primo paese a decretare l'islamizzazione di tutto il settore bancario nel 1979, e poi venne seguito a ruota dal Sudan e dall'Iran. A quel punto fu chiaro che i giuristi musulmani dovevano darsi da fare per adattare una tradizione pre-capitalistica ai bisogni della società contemporanea.
Benché la religione si mostrasse molto favorevole al commercio - che era stata la professione esercitata dal profeta Maometto - l'antica condanna aristotelica pendeva sui guadagni generati dalla finanza "pura". L'Islam proibisce in particolare la riba , parola tradotta generalmente con "usura" che in realtà significa "aumento". Naturalmente - visto che tutto il mondo è paese - è proprio sull'interpretazione di questa parola che si scatenano da sempre le controversie: secondo alcuni la riba fa riferimento a tutte le forme di "interesse fisso" mentre per altri il termine designa soltanto l'interesse eccessivo. In realtà, senza contestare il principio della remunerazione del denaro dato in prestito, la tradizione islamica rifiuta l'aspetto "fisso e predeterminato" dell'interesse, con tutte le sue implicazioni in materia di equità e di potenziale di sfruttamento del debitore. La finanza islamica propugna piuttosto l'equa spartizione dei rischi e dei guadagni che risale ai primi tempi dell'Islam, quando la forma di finanziamento applicata correntemente consisteva nell'associare chi concede il prestito e chi lo ottiene. I teorici della finanza islamica ritenevano - a ragione - che questo sistema si adattasse meglio sia ai bisogni economici del mondo islamico che alle esigenze morali della religione. In effetti, mentre la banca classica privilegia i possessori di capitali o di beni suscettibili di essere ipotecati, la finanza associativa favorisce gli imprenditori dinamici anche se hanno pochi fondi. A tutto ciò l'Islam aggiunge anche una dimensione caritativa: nella gestione della zakat , l'elemosina che per i musulmani è precetto religioso, le banche hanno l'obbligo di lottare contro la povertà e l'esclusione.
Il nuovo sistema finanziario islamico si fonda quindi su due principi di finanza associativa: la mudarab a (accomandita) e la musharaka (associazione). Altri strumenti "neutri", come la murabaha (dove la banca svolge il ruolo di intermediario commerciale comprando le merci necessarie ai suoi clienti e realizzando un profitto rivendendogliele), dovrebbero svolgere un ruolo di transizione per permettere alle banche di realizzare un reddito in attesa della diffusione dell'uso della finanza di partecipazione.

Anche la remunerazione dei depositi viene fondata sul principio della spartizione delle perdite e dei profitti: i conti di risparmio vengono remunerati in funzione degli utili fatti dall'istituto

e i conti di investimento destinati a finanziare specifiche iniziative vengono retribuiti in funzione dei guadagni realizzati da questi investimenti. Dal punto di vista laico non è molto rassicurante il fatto che gli unici garanti del rispetto di questi virtuosi precetti siano le autorità religiose, incaricate di vegliare sulle virtù delle banche islamiche così come vegliano sulla macellazione degli animali. Ma di fronte alla catastrofe economica provocata dagli speculatori dobbiamo ammettere che non ci dispiacerebbe affatto se il Papa si volgesse alla tradizione anche in questo campo, condannando alle fiamme più o meno eterne chi gioca d'azzardo con il nostro futuro.


Liberazione 11/03/2008

lunedì 10 marzo 2008

Gerry Adams

«L'inimmaginabile è accaduto»
Dopo il congresso del Sinn Fein lo scorso weekend, Jerry Adams fa il bilancio di un decennio cruciale
Gerry Adams *

Un anno è passato dal precedente congresso e la situazione politica si è trasformata abbastanza radicalmente. Anzi si può affermare che l'inimmaginabile, qualcuno direbbe l'incredibile, è accaduto. Ian Paisley e Martin McGuinness siedono, partner uguali, nel governo condiviso del nord. Inoltre il Sinn Fein ha nominato i ministri dell'agricoltura e dello sviluppo regionale, e la ministra all'istruzione. Oggi il Sinn Fein è riuscito a porre al centro della politica nordirlandese l'uguaglianza. Ed è la prima volta che accade. Le istituzioni nord e sud lavorano e cominciano a avere un impatto reale.
Nel 1968, quarant'anni fa, quando ero molto più giovane, il movimento per i diritti civili al nord è sceso in piazza. Riuniva repubblicani, socialisti, nazionalisti e altre forze progressiste attorno a richieste di base: diventato organico e spontaneo, ha raccolto il consenso delle masse. L'attacco contro quel movimento nell'ottobre del '68 a Derry ha segnato l'inizio della discesa verso un conflitto che sarebbe durato oltre un quarto di secolo. Ci sono volute le iniziative dei repubblicani e la strategia di pace perseguita dai repubblicani per arrivare alla firma dell'accordo di pace, nell'aprile di dieci anni fa. Naturalmente quell'accordo che continuiamo a sostenere e difendere, è un work in progress. Ci sono ancora questioni aperte. Non c'è ancora per esempio una legge sui diritti e le disparità, anche di opportunità economiche in molte zone del paese, nord e sud, sono ancora evidenti. Inoltre il settarismo continua a essere un problema difficile da sradicare.
Gli storici hanno sottolineato che le richieste del movimento per i diritti civili non avrebbero potuto essere soddisfatte dalla classe dominante unionista senza provocare una crisi nello stesso unionismo. I leader unionisti decisero di non correre il rischio di una simile crisi. Il resto è storia. Lo stesso dilemma affligge l'unionismo oggi. Al suo interno continua a esserci chi non vuole dividere il potere con i repubblicani. E cerca attivamente di porre fine a questo governo. Naturalmente riconosciamo che senza la lungimiranza di alcuni leader unionisti le istituzioni politiche che oggi abbiamo non sarebbero mai esistite. La speranza è che questo unionismo riesca ad avere la meglio su chi vorrebbe riportare indietro le lancette del tempo.
Vicini all'obiettivo
Per quanto riguarda la riunificazione irlandese, mai come in questo momento siamo stati così vicini a raggiungere il nostro obiettivo. Nonostante dentro l'establishment irlandese sia incancrenita una posizione partizionista, c'è un crescente sostegno per l'unità irlandese e c'è maggior consapevolezza dell'importanza di una economia unita per il futuro della nazione. Ma nulla accadrà per caso. Dobbiamo stabilire come intendiamo raggiungere questo obiettivo e come riusciremo a creare le condizioni di un'Irlanda unita.
E significa anche affrontare le difficoltà poste dal trattato di Lisbona. Il trattato prevede un maggior coinvolgimento irlandese nei gruppi di battaglia europei, nell'agenzia di difesa Ue, nell'alleanza militare partnership per la pace, nella Nato. Il trattato concede alle istituzioni Ue troppo potere. A nostro avviso per contrastare questo trattato bisogna prima di tutto votare no al referendum, costringendo così i leader al tavolo negoziale ancora una volta. In quella sede dovremo lavorare per assicurare l'introduzione di un articolo che protegga la neutralità irlandese, ma anche la possibilità di optare per la cessazione del sostegno al nucleare, all'agenzia di difesa Ue e altri contributi alla spesa militare europea.
Certamente essere membri della Ue ha portato grandi benefici al nostro paese, compresi investimenti nelle infrastrutture, una legislazione più progressista per i lavoratori e per le donne, sostegno fondamentale al processo di pace, positive iniziative ambientali. Ma tutto ciò ha avuto un prezzo, che va dalla completa distruzione della nostra florida industria peschereccia, alla crescente perdita di potere, all'abbandono di una politica estera progressista e indipendente. Il posto dell'Irlanda è in Europa. Ma si può appoggiare l'Europa e essere a favore di una maggiore democrazia e della neutralità. Il nostro impegno alla neutralità si fonda sulla convinzione che la lunga lotta del popolo irlandese per la libertà e l'indipendenza ha riscosso il rispetto di tanti nel mondo. Un rispetto che è cresciuto con il processo di pace. Gli irlandesi sono considerati come sinceri mediatori in zone di conflitto, specie nelle regioni che hanno sofferto il domino coloniale e imperialista. Perseguire questa politica però richiede un governo e un sistema politico pronto a lottare per valori di progresso e di uguaglianza anziché accettare supinamente le direttive delle forze globali più potenti.
Ma il governo è sordo
Il governo irlandese non è in sintonia con la maggioranza del popolo irlandese che ha una posizione precisa sulla politica globale, non sottomessa a chi tra le grandi potenze tira il primo colpo. Prendiamo il medioriente. Che cosa sta facendo questo governo per dire basta all'incredibile trattamento riservato ai palestinesi che hanno il diritto a avere un loro stato? Nulla. E che cosa sta facendo rispetto all'ingiusta invasione e occupazione dell'Iraq da parte di Usa e Gran Bretagna? Nulla. Il Sinn Fein è molto chiaro. L'occupazione dei territori palestinesi deve cessare. La guerra in Iraq deve cessare. Siamo anche contrari alla demonizzazione dei leader di quei paesi che cercano di esercitare la loro sovranità e il controllo sulle loro risorse, come il Venezuela, Cuba e più recentemente Bolivia e Ecuador. Il Sinn Fein ha una visione globale che è quella di promuovere una vera democrazia. Ed è per questo che abbiamo aiutato i processi in medioriente, Sri Lanka, tra i popoli dei paesi baschi e della Spagna, in Iraq.
Sappiamo bene che per far sentire la nostra voce in queste e altre questioni dobbiamo crescere come partito. Per farlo dobbiamo affondare le nostre radici nelle comunità. E bisogna essere chiari sui pericoli che la nostra società si trova di fronte. Se permetteremo che il sistema a doppia velocità nell'istruzione, sanità e welfare continui a svilupparsi ci troveremo con sempre maggiori divisioni nella società e anche a livelli più alti di povertà e criminalità. Se i ricchi e super ricchi continueranno a essere protetti dal sistema di concessioni fiscali del governo la gente comune sarà sempre più delusa. C'è una crescente disperazione e cinismo per gli standard nella vita pubblica ed è sempre più diffusa l'idea che i politici siano corrotti o corruttibili. E quanto efficace può essere la democrazia se centinaia di migliaia di cittadini non votano e anzi sono sempre più scettici nei confronti del processo politico? Non vogliamo far la predica a nessuno, ma i politici dovrebbero evitare di porsi in situazioni di conflitto di interesse. Una rinnovata fiducia nella rappresentanza si costruisce solo con il dialogo e il coinvolgimento dei cittadini.
Dal punto di vista economico pensiamo che la corsa del governo verso le privatizzazioni vada fermata. Le società in attivo oggi in mano pubblica devono rimanere pubbliche. Non dimentichiamoci che per la prima volta in molti anni i giovani sono costretti a lasciare il paese in cerca di lavoro. Dobbiamo agire subito per contrastare questa tendenza. Questo governo si aspetta dai lavoratori che hanno contribuito più di chiunque altro alla crescita della Tigre Celtica (beneficiandone meno di tutti) che tirino la cinghia in questi tempi di incertezza economica. E' inaccettabile che il 20% della popolazione viva in condizioni di povertà. Le cose da fare dunque sono molte. Il cammino è appena iniziato.
*Presidente Sinn Fein

Manifesto 9 Marzo 2008

domenica 9 marzo 2008

Raul Reyes il diplomatico delle Farc

Il ricordo di Ramon Mantovani dopo l'uccisione capo guerrigliero da parte dei sicari di Uribe
Addio a Raul Reyes il diplomatico delle Farc
che lottava con le armi e con l'ironia

Ramon Mantovani
Quella volta, forse complice l'alcool, ci divertimmo parecchio. Ricordo che rideva molto sentendomi parlare del mio tifo per l'Inter e dell'esistenza di un Inter Club denominato "interisti leninisti". Ci confermò la veridicità dell'episodio leggendario dei guerriglieri e dell'esercito impegnati in combattimento, che mentre si sparavano, esultavano insieme per i gol della nazionale colombiana. Due anni dopo gli portai una t-shirt degli interisti-leninisti. Fu quando, in un campo delle Farc nella selva colombiana, Raul volle fortemente che Marco Consolo ed io incontrassimo Marulanda e diversi altri comandanti dello Stato Maggiore. Dopo la prima conversazione politica Raul ci disse: «Ricordo la vostra ospitalità a Roma e le cose buone che mi avete fatto bere, non posso ricambiarla come si deve qui nella selva, ma ho una bottiglia di whisky Buchanan 18 anni nella mia tenda. La tenevo per un'occasione speciale. Andiamo a berla». La scolammo tutta chiacchierando nella tenda di Raul fino alle due di notte, e la sveglia nel campo era alle cinque, prima dell'alba.
Nel 98, poco prima dell'inaugurazione ufficiale del processo di pace, durante una delle primissime uscite pubbliche di Raul come portavoce delle Farc, un giornalista italiano, credo inviato del Corriere della Sera , notò che, sulla mimetica, Raul aveva una spilla con il simbolo di Rifondazione, e lo scrisse nel suo pezzo. Effettivamente ci voleva molto bene e volle condividere con noi molto del processo di pace, del quale ci teneva informati e per il quale chiese diverse consulenze ed aiuti. Diversi altri compagni di Rifondazione viaggiarono in Colombia durante i negoziati e lo conobbero.
Quando il tavolo del negoziato di pace fra le Farc e il governo colombiano di Andres Pastrana fecero un giro in Europa mi chiamò al cellulare da Stoccolma. Mi disse che non era giunto nessun invito dall'Italia e che sia lui sia il capo negoziatore del governo chiedevano un nostro intervento affinché l'Italia non rimanesse esclusa. Pochi giorni dopo sbarcarono a Roma e furono ufficialmente ricevuti dalla Commissione Esteri della Camera dei deputati e da altre istituzioni, compresa la Segreteria di Stato del Vaticano. Durante la loro permanenza in Italia invitai a cena i sei comandanti negoziatori, Raul Reyes, Joaquin Gomez, Fabian Ramirez, Ivan Rios, Simon Trinidad, Felipe Rincon e Olga Marin che li accompagnava come esponente della Commissione Internazionale delle Farc. Marco ed io andammo a prenderli ma Raul ci disse che, per la prima volta dall'inizio del negoziato, la parte governativa li aveva invitati a cena e che non potevano rifiutare. Ci disse, però, che sia lui sia il capo delegazione del governo, che ben ci conosceva, invitavano anche noi due. Così, in un ristorante di Trastevere Consolo ed io assistemmo ad una delle cene più stravaganti e curiose della nostra vita. Il clima era molto più che conviviale. Sei fra i più "pericolosi" guerriglieri e sei rappresentanti dell'oligarchia colombiana, compreso il presidente della Confindustria, più due ambasciatori colombiani, presso il Vaticano e presso la Repubblica Italiana, cantavano, raccontavano barzellette, litigavano di calcio, si prendevano in giro. Ad un certo punto nel ristorante entrarono due posteggiatori con la chitarra. Raul mi chiese di affittare le chitarre e mi sussurrò all'orecchio: «Adesso vedrai il perchè ti chiedo questo». Pagai i due suonatori e le chitarre le usarono il comandante Ivan Rios e il Presidente della Confindustria, Luis Carlos Villegas, per sfidarsi in un esilarante "negoziato", improvvisato su ritornelli in rima baciata, che durò forse più di mezzora. Con Raul eravamo d'accordo che dopo la cena noi compagni avremmo continuato la serata per conto nostro bevendo qualcosa. Ma quando i governativi salivano sul pulmino per tornare in albergo, Raul mi chiese di portare con noi Victor G. Ricardo, il capo negoziatore del governo. Mi disse sottovoce che, sebbene fosse la sua controparte, si stava comportando correttamente. Che per questo rischiava la vita. E mi chiese di fare un brindisi e di ringraziarlo per il suo coraggio dicendo le parole che lui, come portavoce delle Farc, non poteva pronunciare. Lo feci volentieri pensando che forse il negoziato avrebbe davvero dato i suoi frutti. Invece Victor G. Ricardo venne poi rimosso dall'incarico e sostituito da un signore che preparerà la rottura definitiva delle trattative di pace.
Da quell'indimenticabile cena ho rivisto Raul altre volte, a Madrid e in Colombia, fino alla rottura unilaterale del negoziato da parte del governo.
Poi Marco ed io abbiamo continuato a comunicare con lui in altro modo. Soprattutto per creare le condizioni, con prese di posizione di istituzioni in Italia ed in Europa, per il rilascio di alcuni ostaggi e per la ripresa del processo di pace. Tentativi falliti, per le puntuali contromosse del governo Uribe.
L'ultimo suo messaggio, di semplici saluti, risale a poche settimane fa.
Potrei parlare molto più a lungo dell'amicizia politica ed umana che mi ha legato a Raul. Ma non so farlo. Non voglio diventare retorico e, in fin dei conti, Raul era un combattente e ho sempre saputo che potava morire così da un momento all'altro.
Dico solo che Raul era un compagno, come noi.
Non ho mai sopportato il vizio eurocentrico e provinciale di storcere il naso per le durezze della guerra in Colombia, per la sua indiscutibile disumanità. Raul prese la via della guerriglia, come tanti altri compagni, in un periodo nel quale, in pochi anni, 4500 comunisti, senatori, deputati, dirigenti e militanti del partito, sindaci, consiglieri comunali, sindacalisti, intellettuali vennero massacrati o fatti sparire dallo Stato colombiano. Altri scelsero la via dell'esilio ed altri ancora la legalità continuando a morire come mosche.
Dopo l'11 settembre le Farc sono state messe sulla lista delle organizzazioni terroriste dell'Unione Europea. Sull'attentato alle torri gemelle Raul aveva scritto: «Ciò che deve essere chiaro per tutti è che i fatti avvenuti negli Stati Uniti contro il loro Stato e il loro Governo non hanno nulla a che vedere con le lotte politiche, economiche e sociali che i popoli portano avanti per conseguire la loro emancipazione duratura e definitiva; questo è il caso dei movimenti contro la globalizzazione, la fame, la politica neoliberista, la xenofobia, e per l'uguaglianza di genere, il miglioramento della situazione di esclusione dei migranti nel mondo e negli stessi Stati Uniti. In Colombia il movimento guerrigliero è popolo in armi, di donne e uomini con l'impegno di lottare per la conquista e la difesa dei diritti e delle libertà, fino al conseguimento di condizioni dignitose di vita e di lavoro per il popolo. Non ci sarà pace senza riforma agraria, libertà politiche e sociali, fino a quando il terrorismo di Stato continuerà ad assassinare il popolo per il fatto di reclamare i propri diritti. L'obiettivo finale è la pace senza fame, con educazione e salute gratuite ed efficienti».
Non sono le parole di un terrorista o di un narcotrafficante. Il governo che l'ha ucciso è entrambe queste cose.
La lotta di Raul è una lotta che continua.
Hasta Siempre Raul .
www.ramonmantovani.it


06/03/2008

La Zapatero-economy

Spagna verso il voto Un punto di pil in meno (dopo 14 anni di bonanza) e i popolari attaccano
La Zapatero-economy: Madrid non corre più
La crescita rallenta, dal 3,8% dell'anno scorso scende al 2,8%. «Desaceleracion», la chiamano: viene dalla crisi americana e dalla bolla del mattone. E la destra (con programmi simili) ne approfitta
Maurizio Matteuzzi
Madrid

José Luis Rodríguez Zapatero questa volta non è stato fortunato. O quanto meno previdente. Se avesse anticipato le elezioni di qualche mese, alla fine dell'anno scorso, le avrebbe vinte in carrozza. Qui in Spagna si sarebbe forse ripetuto lo scenario del '92 negli Stati uniti, quando il candidato Bill Clinton gettò in faccia a George Bush padre una frase che sarebbe divenuta famosa: «È l'economia, stupido». E vinse perché il recente trionfo militare del presidente uscente nella prima guerra del Golfo non resse il confronto con il cattivo andamento della situazione economica americana.
Mariano Rajoy e il Partido popular avrebbero potuto giocarsi le loro chances (scarse) solo su temi artificiali come la riforma degli statuti d'autonomia delle Regioni che «hanno rotto» la Spagna, l'immigrazione «fuori controllo» dei 4-4.5 milioni di stranieri - che in realtà sono stati due incontestabili successi della politica zapaterista - e il «cedimento al terrorismo» - il tentativo malauguratamente fallito ma del tutto ragionevole di arrivare a una soluzione negoziata con l'Eta. Così invece al loro armamentario elettorale hanno potuto aggiungere anche la paura per la «crisi economica» alle porte. E presentare un quadro catastrofico dei quattro anni passati e catastrofista, in caso di vittoria di Zapatero domenica prossima, per i quattro anni a venire.
Dal 3,8% dello scorso anno, la crescita rallenta ed è prevista al 2,8% per il 2008. In realtà la Spagna da 14 anni filati ostenta una crescita economica costante e sostenuta, più del doppio della media europea. Nel 2004 ha definitivamente annullato il gap che la separava dalla media del prodotto interno pro-capite dell'Ue - recuperando dal 71% nell'86 quando entrò nell'Europa a 15 - e nel 2007 ha superato l'Italia, come non si stanca di sottolineare Zapatero. Il suo pil l'anno scorso ha superato il capo del miliardo di euro, dai 680 milioni del 2001, facendone l'ottava potenza economica al mondo. Ha ridotto la disoccupazione dal 24% del '94 all'8% del 2006 e da sola ha creato il 40% dei posti di lavoro della zona euro. La Borsa spagnola nel 2006 è stata «la più redditizia d'Europa« e nel 2007 è stata frenata dallo scoppio della «bolla del mattone» ma anche così le compagnie dell'Ibex hanno fatto profitti del 16% superiori al 2006. Le 5 grandi banche spagnole, con alla testa Santander e Bbva, hanno battuto tutti i record con 15 miliardi di euro nei primi 9 mesi del 2007. Le compagnie sprizzavano «soddisfazione» e le imprese spagnole «davano l'assalto all'Europa». La politica economica di Zapatero era lodata dall'Fmi, dall'Ocse, dalla Ue. Nel 2007 il superavit è stato dell'1.8% del pil, un record. Zapatero, all'inizio del 2007 - ma anche The Economist - definiva l'economia spagnola «inarrestabile» e alla fine del 2006 sull'onda dell'entusiasmo, lanciava la sfida all'Italia «entro il 2009» e poi - corretto dal ministro dell'economia Solbes - alla Germania entro il 2010. Zapatero dice con ragione che la Spagna «ha ormai tutti i requisiti per entrare di diritto nel G-8».
Nel librone «2004-2008 Balance de Legislatura» scrive che «in questa legislatura si è dimostrato che si può crescere economicamente, aumentare le spese in politica sociale, creare lavoro, ridurre il debito pubblico, avere un superavit e, inoltre, abbassare le imposte. È la prima volta che in Spagna si consegue tutto ciò allo stesso tempo».
E una crescita tecnologicamente «povera», basata su edilizia, servizi e consumi ma ha ragione di essere soddisfatto, anche se non è vero che ha abbassato le imposte (+ 2 punti dal 2004), pur restando la pressione fiscale spagnola (36.4%) inferiore alla media europea (40.8%) e a quella italiana (43.7%).
In campagna elettorale si sprecano gli impegni e le promesse. La diminuzione della pressione fiscale è uno dei punti-chiave. Sia il Psoe sia il Pp si sono impegnati a chi la ridurrà di più senza badare a demagogia: 400 euro l'anno restituiti sull'Irpef per tutti, riduzione dell'imposta di successione, eliminazione dell'imposta sul patrimonio, il Psoe. Eliminazione dell'Irpef per i redditi inferiori ai 16 mila euro l'anno e riduzione media del 16% per tutti, riduzione dell'imposte delle società, eliminazione dell' imposta sul patrimionio, il Pp. Solo Izquierda unida, ricordandosi che la diminuzione o cancellazione delle imposte è sempre stata «qualcosa di destra», propone di aumentare «la progressività» dell'Irpef e le imposte societarie, mantenere quelle di successione e sul patrimonio, ridurre l'Iva sui beni di prima necessità. Ma Iu conta poco, e con la storia del «voto utile» è probabile che domenica veda ancora diminuire i suoi 5 seggi alle Cortes.
«I principi di Zapatero sono quelli del marxismo di Groucho Marx», ironizza Rajoy. In realtà il vecchio Marx non c'entra per nulla con la politica economica della Spagna, che è stata quanto mai «ortodossa» ma facendosi carico delle urgenze sociali. Lo stesso Pedro Solbes, il ministro social-liberale dell'economia, ha riconosciuto che «sul piano macro-economico è vero che non ci sono grandi differenze» fra lui e il suo predecessore aznarista Rodrigo Rato. Qualche giorno fa El País, esaminando i programmi economici dei due contendenti, ha scoperto che l'intento «centrista» di entrambi praticamente quasi cancella le differenze e fa scomparire «l'alternativa destra-sinistra». E anche l'insospettabile Goldman Sachs parla di «ricette simili».
La crisi internazionale che si spande dall'America, con le sue guerre infinite e lo scoppio del subprime, e la crisi del mattone e della speculazione immobiliaria dell'anno scorso in Spagna ha provocato una «desaceleración» dell'economia spagnola, non la fine del suo «ciclo virtuoso», come si sforza di far credere il catastrofismo del Pp.
Zapatero ha aumentato i salari e le pensioni minime (che restano tuttavia fra le più basse d'Europa), ha diminuito la precarietà del lavoro (che resta, con il suo 30%, fra le più alte d'Europa), ha adottato le riforme fiscali, del mercato del lavoro (aumentando la stabilità e la flexsecurity) e delle pensioni, tutto grazie al «dialogo» con i padroni della Ceoe e i sindacati Ugt e Comisione obreras che gli hanno garantito una generosa pace sociale e si sono accontentati: il 1° maggio 2005 marca il confine «fra il periodo di grazie a quello della giustizia», aveva detto nel 2005 José María Fidalgo, segretario generale delle CC.OO. Ma i sindacati restano sempre, fin dai tempi dei Patti della Moncloa alla fine degli anni '70, «la gamba zoppa della transizione». Come dice José Bellod Redondo, professore di Scienze economiche, «con Zapatero il capitale ha fatto festa approfittando della crescita del pil e della moderazione salariale». Ancor più secco Anton Costas, professore di Politica economica all'università di Barcellona: «Il salario reale non ha cessato di calare negli ultimi anni», la Spagna è il paese che ha generato il maggior numero di nuovi ricchi nel 2004 e si presenta come il paradiso delle opportunità e della mobilità sociale ma rischia di diventare «un modello all'americana», con «sempre più ricchi e sempre più diseguaglianza». Però, visti i tempi che corrono, ce ne fossero dei Zapatero.

Manifesto 5 Marzo