mercoledì 7 settembre 2011

Chinese aircraft carrier ex-Varyag

http://en.wikipedia.org/wiki/Chinese_aircraft_carrier_ex-Varyag

Le catene della legge elettorale

Raul Mordenti


Il berlusconismo sarebbe stato impossibile, anzi semplicemente impensabile, senza il sistema elettorale maggioritario, e oggi una fuoruscita del paese dalla palude fangosa del berlusconismo non è possibile se non ci si libera dalla legge elettorale "porcata" e, prima ancora, dalla cultura politica maggioritaria (fatta di personalizzazione della politica, di culto mediatico del capo, di bipolarismo coatto, di distruzione dei partiti, di soppressione del carattere parlamentare della nostra democrazia affermato dalla Costituzione).
E' quanto emerso dal seminario della Federazione della Sinistra di Roma, svoltosi mercoledì presso la Fondazione Lelio e Lisli Basso, con la partecipazione del professor Gianni Ferrara, di Franco Russo (dell'"Associazione per la democrazia costituzionale") e di Cesare Salvi (quest'ultimo al suo esordio come presidente della Fds). Si è sottolineata l'amarezza per una grande occasione persa (che si è voluto far perdere) alla democrazia italiana. Tale occasione era rappresentata dal referendum Passigli-Ferrara, che mirava ad abolire il premio di maggioranza, l'anticostituzionale designazione del premier e la designazione dall'alto dei parlamentari (cioè, ha detto Gianni Ferrara, «le tre devastanti caratteristiche» della legge elettorale «peggiore del mondo»).
Attorno a questa ragionevole e realistica proposta, che prometteva di prolungare la vittoriosa stagione dei referendum sul piano istituzionale, si era costruita una credibile coalizione, che univa tutte le firme migliori del costituzionalismo italiano, numerosi intellettuali di grande prestigio, un ampio schieramento di forze sociali, fra cui la Cgil, e la Fds. La nostra pronta e piena adesione al referendum proporzionalista (pure in presenza dello sbarramento del 4%) dimostrava nei fatti che i comunisti sanno mettere al primo posto gli interessi della democrazia e della Costituzione.
La contro-proposta di un secondo referendum mirante a restaurare il fallimentare "mattarellum" (del tutto inammissibile anche dal punto di vista giuridico: Ferrara) mirava soltanto a sbarrare la strada al referendum proporzionalista, complice (come sempre) un'efficace campagna di disinformazione che metteva sullo stesso piano le due proposte referendarie, benché l'una intendesse uscire dal sistema maggioritario-berlusconiano, l'altra invece a ripiombarci dentro, addirittura peggiorandolo. E' assai grave la responsabilità di chi (Passigli) ha messo al primo posto gli interessi di bottega del suo Partito, violando la logica stessa del referendum che consiste nel fare esprimere l'autonomia del popolo, anche - se necessario - contro i ritardi, o gli errori, dei partiti. Ancora più grave la responsabilità dell'amico Vendola, che ha aderito prontamente alla manovra, ricostruendo un mostruoso asse per il maggioritario Veltroni-Parisi-Segni-Panebianco-Vendola.
Sappiamo della forte opposizione di esponenti di Sel alla scelta di Vendola, che si aggiunge a quella importante di Fausto Bertinotti; ma, in attesa che da tale opposizione (su una questione di dirimente portata, essendo in gioco la democrazia) siano tratte da quei compagni di Sel tutte le conseguenze politiche, non possiamo non notare che il maggioritario e il leaderismo sembrano essere aspetti essenziali della proposta di Sel, se è vero come è vero che quel partito presenta addirittura nel suo simbolo il nome del capo e candidato-premier.
E come nel '93 il referendum Segni-Occhetto aprì irresponsabilmente le porte a Berlusconi, così oggi la proposta di legge elettorale avanzata dal Pd, dopo il riuscito stop al referendum proporzionale, apre irresponsabilmente la strada all'incostituzionale "premierato" (sic!), mira a rafforzare il bipolarismo coatto, vuole costringere a "serrare al centro" sopprimendo l'articolazione delle posizioni e, prima di tutto, la rappresentanza parlamentare del conflitto sociale. Tutto questo è frutto del più miope trasferimento degli interessi immediati di quel partito sul piano istituzionale (Franco Russo). Intanto tale proposta del Pd, per la evidente impossibilità di essere approvata da questo Parlamento, garantisce solo che le prossime elezioni si svolgano ancora con la "legge porcata", che forse non è poi tanto sgradita allo stesso Pd, specie per il premio di maggioranza e il bipolarismo coatto (e, non dimentichiamolo, per la possibilità di nominare i parlamentari). Ma proprio questi meccanismi antidemocratici rischiano di consentire a Berlusconi (o a chi per lui) di vincere ancora una volta, ancora una volta conquistando (solo grazie alla legge elettorale!) una forte maggioranza parlamentare pur senza disporre affatto della maggioranza dei consensi delle cittadine e dei cittadini.
E' evidente il legame che c'è fra le proposte maggioritarie e leaderistiche e la crisi in atto: ci troviamo infatti di fronte ad una sorta di «commissariamento della politica» (Salvi), che si è espresso di recente nella istantanea approvazione a scatola chiusa (auspice il Quirinale) del più feroce e antipopolare pacchetto di provvedimenti economici della storia repubblicana: «vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare» (Inf, III, 95-6); e chi può fare tutto ciò che vuole sono oggi i cosiddetti "mercati", cioè, fuor di metafora, i poteri forti del capitale e della finanza, che non tollerano più l'impaccio del parlamentarismo e temono come la peste la possibile espressione della volontà popolare in forma libera ed eguale (come solo la proporzionale può garantire).
Ma c'è di più: come ha chiarito con preoccupazione Cesare Salvi, il micidiale mix fra la devastante crisi economica, la crescente ostilità delle masse verso il deprimente spettacolo della "politica politicante" e l'omologazione programmatica e morale delle forze politiche di centrodestra e centrosinistra, può determinare in Italia un collasso drammatico della stessa democrazia. Si apre insomma la strada a un nuovo possibile fascismo, populista, mediatico e razzista, con basi di massa, che deve enormemente preoccuparci.
Occorre dunque saper trasformare, ancora una volta, l'amarezza (e lo sdegno) in iniziativa politica di massa: occorre non stancarci di seminare (Franco Russo) cultura politica dell'autodeterminazione, dei diritti, della fedeltà alla Costituzione, cioè del proporzionale; occorre evidenziare il nesso forte che c'è fra la difesa del lavoro e la difesa (o la riconquista) della democrazia e incalzare su questo terreno le organizzazioni dei lavoratori (a cominciare dalla Cgil e dalla Fiom, ma non solo), oltre che i movimenti di lotta. Occorre soprattutto far vivere la nostra proposta di una nuova legge elettorale proporzionale dentro la proposta di una più complessiva riforma etico-politica della democrazia. A cominciare da noi stessi.


Liberazione 29/07/2011

Eravamo stati buoni, seppur facili, profeti

Nicola Melloni

Eravamo stati buoni, seppur facili, profeti. La scorsa settimana avevamo detto che il secolo americano era finito e dopo neppure due giorni anche Standard&Poor's ci ha dato ragione, declassando per la prima volta in settant'anni il debito pubblico americano. Anche i guardiani del capitalismo mondiale non si fidano più di Washington. A colpire non è però tanto il declassamento quanto piuttosto le motivazioni addotte: la democrazia americana è sostanzialmente incapace di reagire alla crisi, ostaggio di un sistema istituzionale decrepito. Ora anche le agenzie di rating cominciano ad accorgersi che il re è nudo.
Gli elementi dell'egemonia americana sono ormai messi in discussione e così pure, ovviamente, quelli del capitalismo liberale di stampo anglosassone. Negli ultimi trent'anni l'impero americano si era basato sull'esportazione di un modello ben preciso, da una parte il libero mercato che generava tassi di crescita e ricchezza superiori a qualsiasi alternativa, dall'altra la democrazia come valore universale. Certo questa esportazione era anche e soprattutto avvenuta con le guerre e con l'imposizione di programmi economici per mano del Fondo Monetario e della Banca Mondiale, ma non si può sottovalutare l'attrazione ed il miraggio che il sogno americano rappresentava per milioni di persone in tutto il globo. Con la caduta dell'Unione Sovietica, poi, sembrava venir meno sia la sfida comunista sia il principale rivale geo-politico degli Usa, e si veniva formando dunque un mondo basato sul pensiero unico neo-liberale e sull'unipolarismo americano. In questi quattro anni le cose, però, sono cambiate drammaticamente. Dal punto di vista economico, il libero mercato non sembra in grado di risolvere la crisi da esso stesso generato: il cuore del capitalismo liberale, l'Occidente, è sotto scacco, con un continuo rimbalzare del debito da mani private a mani pubbliche e viceversa, con l'economia incapace di crescere, con la disoccupazione in aumento. Dal punto di vista politico, dopo il sussulto della vittoria di Obama nel 2008, con tutte le speranze ad essa connesse, l'America ha dimostrato di essere incapace di risolvere i suoi problemi, con una classe politica sempre più ostaggio dell'oligarchia finanziaria che ormai governa il paese, indipendentemente dal Presidente che siede alla Casa Bianca. Queste debolezze strutturali hanno naturalmente modificato il quadro geopolitico: il mondo non solo è ormai multi-polare, ma addirittura la Cina si permette anche di dare lezioni (sacrosante) agli Stati Uniti. A Pechino pretendono cambiamenti strutturali per garantire i loro investimenti in titoli del tesoro Usa, del tipo di quelli che Washington ha imposto in giro per l'Asia, l'Africa e l'America Latina negli anni 90. Corsi e ricorsi storici.
Si tratta di un passaggio cruciale. Con la fine dell'egemonia americana si esaurisce anche, naturalmente, la "spinta propulsiva" del capitalismo liberale nella forma in cui lo abbiamo conosciuto sino ad ora. D'altronde ogni epoca storica ed ogni egemonia politica è stata contraddistinta da rapporti di produzione diversi. Le potenze emergenti, a cominciare dalla Cina, hanno sistemi economici sì capitalisti ma assai lontani dal liberalismo anglosassone, economie basate assai più sulla produzione che non sulla finanza ed in cui lo stato conserva spesso un controllo solido se non sui mezzi di produzione quantomeno sulla politica industriale, governando politicamente lo sviluppo economico e non lasciandolo in mano al mercato. Inoltre, anche nei mercati finanziari occidentali avanzano minacciosi i fondi sovrani, longa manu delle economie emergenti che grazie ai proventi delle loro esportazioni (dal petrolio del Quatar all'industria cinese) stanno accumulando capitali vastissimi da re-investire altrove, investimenti che però, essendo decisi dagli stati e non da semplici agenti finanziari, hanno un'inevitabile ricaduta politica. Il pendolo si sta spostando dai paesi occidentali, pieni di debiti, grassi e ingordi, che consumano più di quello che producono, a quelli orientali, solidamente basati sull'industria, parsimoniosi, con tassi di crescita della produzione manifatturiera in continua ascesa. In breve, il privilegio imperiale dell'Occidente, lo sfruttamento delle risorse altrui per accomodare i propri stili di vita, si sta esaurendo. Con conseguenze ancora difficilmente valutabili e potenzialmente drammatiche se pensiamo che, storicamente, la fine delle egemonie è sempre coincisa con il ricorso alla guerra.


Liberazione 10/08/2011

A Milano è tutto uno “schierarsi”. Nutrire l’Expo o staccare la spina

Daniele Nalbone
Tre quesiti sul sito di Repubblica. Insistere? Rivedere? Rinunciare? Il dibattito intorno all'Expo 2015 di Milano sembra limitato a questo sondaggio. Andare avanti comunque, rivedere il progetto «nel senso della sobrietà e del risparmio», oppure prendere atto della «congiuntura internazionale» e delle politiche economiche del governo. E allora, a Milano e dintorni, è tutto uno schierarsi. Da una parte il sindaco Pisapia che un giorno avverte che con i circa cento milioni di euro di tagli che il Comune subirà con la manovra finanziaria «c'è il rischio reale di non avere i fondi per onorare la nostra quota di partecipazione» al Grande Evento, salvo poi ribadire che Expo si farà e che il Comune entrerà nella partita «con una quota paritaria» rispetto alla Regione Lombardia.
Il fatto - politico - sembra quindi essere il seguente. Da una parte la Regione guidata da Roberto Formigoni - e quindi da Comunione e Liberazione - che vede in Expo "La Partita". Dall'altra chi si è trovato con un'Expo da onorare secondo i megaprogetti presentati al Bureau di Parigi salvo scoprire le casse dissanguate e dover affrontare un Tremonti che sembra non avere alcuna intenzione, in tempo di crisi, di perdere tempo e soprattutto denaro con un Grande Evento da un miliardo e 700 milioni di euro.
Facciamo due conti: per mantenere gli impegni presi dall'ex sindaco Letizia Moratti, il Comune di Milano avrebbe già dovuto versare nella società Arexpo qualcosa come 38 milioni di euro. Che non ha. A questi, poi, se ne dovrebbero aggiungere oltre duecento (da versare in Expo Spa) da oggi al 2015, ai quali si dovrebbero sommare altri duecento milioni provenienti dai soci in Expo Spa: Camera di Commercio (che però per statuto può spendere solo in gestione della società e non in infrastrutture ) e dalla Provincia (in rosso come il Comune). Se a ciò aggiungiamo che il Comune difficilmente potrà contare su una deroga al patto di stabilità, è chiaro come, ad oggi, sembra impossibile riuscire a tirar fuori dalla casse di Palazzo Marino quanto richiede il Grande Evento.
E allora? Giuseppe Sala, amministratore delegato di Expo Spa, predica tranquillità e conferma che gli 833 milioni di euro del Governo arriveranno. Roberto Formigoni non cede di un millimetro: la Regione - in Arexpo - ha già anticipato i soldi di Comune e Provincia per acquistare i terreni. La partita per Comunione e Liberazione e Compagnia delle Opere è troppo importante.
Così, mentre il gruppo degli "Exposcettici" non è più limitato solo ai "no global" del Comitato No Expo e ai soliti "comunisti", ecco che l'obiettivo proveniente dalla politica e dall'economia è quello di "Salvare il soldato Expo". Come? «Aumentino l'Iva» la proposta del filosofo ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari, ma guai a far saltare Expo perché sarebbe «il fallimento di un paese». E se il viceministro delle Infrastrutture, Roberto Castelli, si dice propenso per una «revisione del progetto», è ovviamente Roberto Formigoni a stoppare qualsiasi ripensamento della maggioranza di Governo: «Expo va considerata una priorità, un'occasione di crescita e non uno spreco». Dello stesso parere un altro ciellino doc, il vicepresidente della Camera Maurizio Lupi, per il quale «i soldi ci sono. Niente alibi». Per Comunione e Liberazione, quindi, è tutto in ordine. E allora la questione è tutta lì: insistere, rivedere o rinunciare? Tre quesiti tra cui scegliere, più il solito "non so" come quarta possibilità. Eppure non è da un giorno ma da alcuni anni che qualcuno sta provando, in ordine a Expo, a mettere al centro della discussione qualcos'altro. «Nutrire il pianeta, Energia per la vita». A 1348 giorni dall'inizio (?) di Expo, chi si è accorto che è questo il tema intorno a cui dovrebbe ruotare l'Esposizione del 2015? Era il 5 febbraio 2009 quando Aldo Bonomi, direttore del consorzio di Agenti di sviluppo del territorio (Aaster) e consulente del Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro (Cnel), in una conferenza organizzata presso la liberaria Shake di Milano, si "rese conto" che «Nutrire il pianeta, Energia per la vita» in fondo fosse qualcosa in più di un semplice slogan. «Il tema di Expo 2105 ha fatto suo fino in fondo il concetto di limite, che è quello del cibo, dell'alimentazione, della scarsità di queste risorse». Ecco che Expo 2015 dovrebbe significare «aprire un dibattito sul concetto di limite e di sviluppo, sul concetto di crescita e decrescita, su quello della scarsità». La domanda, quindi, è lapidaria: «perché tutti quanti parlano dell'Expo, ma non del tema che andrà affrontato durante l'Expo?». Milano sta vivendo Expo «solo da un punto di vista, quello della rendita. Per Milano il tema non esiste. Per questa città il problema sta solo nella nuova enorme operazione immobiliare che verrà fatta a fianco della fiera di Rho». Così si parlava trenta mesi fa. Trenta mesi dopo, l'unico problema di Expo 2015 è trovare i soldi necessari per costruire. Crisi o non crisi. Manovra o non manovra.


Liberazione 21/08/2011, pag 2

Giorgio Jackson, lo studente che fa tremare la Moneda

Cile ritratto del giovane leader del movimento universitario


Daniele Zaccaria
Ha un nome che sembra lo pseudonimo di una vecchia rockstar di provincia: Giorgio Jackson. Mezzo italiano, mezzo britannico, ma tempra da cileno al 100%. Questo ragazzo di 24 anni, nato a Las Condes, periferia chic di Santiago, diplomato in uno dei migliori licei privati della capitale e studente modello alla facoltà di ingegneria dell'Università cattolica, sta diventando una fastidiosa spina nel fianco del presidente Sebastián Piñera e del suo governo conservatore, precipitati al minimo storico nelle percentuali dei popolarità (35%, mentre un anno fa dopo il mediatizzato salvataggio dei minatori di San José veleggiava intorno al 70%).
Assieme all'affascinante e combattiva Camilla Vallejo, è infatti il leader più popolare del movimento studentesco che da oltre due mesi sta scuotendo il Cile. E dire che inizialmente era guardato con estremo scetticismo, soprattutto perché proveniva dalla Feuc, un sindacato cattolico conosciuto per il suo moderatismo e la scarsa attitudine alla lotta. Non è il caso di Jackson che fin dal debutto nella militanza politica ha dimostrato di avere idee chiare, un rifiuto epidermico del compromesso politicista e una propensione ai fatti concreti piuttosto che alla fumosa demagogia da comizio studentesco: era una giovanissima matricola quando ha fondatoUn techo para Cile, un'associazione che si occupa dell'emergenza casa a Santiago per le migliaia di senza tetto che vivono nella metropoli sudamericana e da allora si è sempre distinto per le sue grandi capacità organizzative nel mondo del sindacalismo universitario.
Così sono bastati pochi interventi nelle stracolme assemblee di inizio luglio e una magistrale partecipazione a Tolérancia Cero, il più seguito talk-show del Paese, per far cambiare idea ai suoi detrattori. Carismatico, preciso nell'esporre le sue rivendicazioni, pronto a replicare anche alle domande più insidiose, Jackson ha messo in mostra anche uno spiccato senso dello spettacolo: rispondendo a un giornalista che ironizzava sulla tenuta del movimento ha tirato fuori dalle tasche il celebre L'arte della guerra di Sun Tzu, citando la seguente frase: «Un esercito vittorioso vince ancora prima di iniziare a combattere».
E chi ha provato a speculare sulle differenze tra lui e Camilla Vallejo, la quale proviene dalle fila della sinistra radicale non ha avuto buon gioco; i due sono in ottimi rapporti, anzi si definiscono «buoni amici» e non hanno fin qui mai avuto dissensi sul come condurre il corpo a corpo con il governo. Come ha sottolineato Camillo Balestreros della Confederazione studenti cileni (Confech) «il ruolo di Giorgio è fondamentale per noi perché la scesa in campo delle università cattoliche ha dato forza e ampiezza a tutto il movimento».
Più fondi alla scuola pubblica, un accesso meno elitario all'Università e gratuità degli studi per le famiglie più povere, le poche ma semplice parole d'ordine della prima contestazione studentesca di massa dal 1990. Centinaia di migliaia di giovani che inondano le piazze del Paese, reclamano la riforma del sistema scolastico nazionale ereditato dalla giunta militare e gridano: "Y va a caer, y va a caer, la educación de Pinochet". Il legame simbolico con la memoria della dittatura sembra essere il principale collante culturale di una generazione composta da ragazze e ragazzi in gran parte nati dopo la caduta del regime. «Il sistema deve cambiare adesso, non fa uno o due anni, ma adesso perché dobbiamo liberarci delle scorie del passato», tuona Jackson che chiede al governo di indire un referendum per riformare il sistema scolastico cileno e di inserire nella Costituzione il diritto all'istruzione.
Come scrive il quotidiano Que Pasa «sembra improbabile che il governo raccolga la proposta del referendum, ma negli ultimi mesi la vita di Giorgio Jackson ha spesso travalicato la cetegoria dell'improbabile».
Per il resto, nella quotidiana battaglia contro l'odiato Pinera, primo capo di Stato di destra dal 1990, i ragazzi delle scuole e degli atenei mettono in mostra un pragmatismo ammirevole e, come tutti i loro coetanei in ogni paese del mondo dal Cairo a Toronto, si organizzano sfruttando la tecnologia del nostro tempo: blog, socialnetwork, forum telematici. E' anche grazie a questi tam-tam in rete che gli scioperi del 7 agosto e l'ultima mobilitazione di giovedì (oltre 100mila a Santiago) hanno riscosso un successo e una visibilità planetaria. Tanto che dalla stessa Moneda (il palazzo presidenziale), dopo gli arresti e la repressione poliziesca delle scorse settimane, giungono i primi segnali di cauta apertura. Come quello del ministro dell'Educazione Felipe Bulnes che propone di aumentare il budget destinato alle borse di studio, riducendo gli interessi di restituzione dei crediti dal 5 al 2%. Naturalmente gli studenti hanno rispedito al mittente una misura che reputano un misero contentino: «E' l'intero sistema che deve essere riformato», ribadiscono Giorgio Jackson e Camilla Vallejo.
Uno slogan che ritornerà in piazza il prossimo 24 agosto, nuova giornata di scioperi e mobilitazioni in cui accanto agli studenti sfileranno anche i professori dei licei e delle università per provare a dare una spallata a uno degli ultimi rottami ereditati dal regime del colonnello Pinochet.


Liberazione 20/08/2011, pag 7

Signori, è il capitalismo che ha fallito


Paolo Ferrero
Non c'è stato nessun rimbalzo. Ieri le borse non hanno recuperato il tonfo del giorno precedente. Si può fare una lunga disamina delle cause che hanno portato a questo: gli speculatori hanno paura della tobin Tax; visto che i titoli sintetici sono dei mostri ingestibili, che possono nascondere perdite enormi, i più furbi stanno togliendo le mani dalla tagliola e mettendo al sicuro il malloppo: oro e titoli di stato americani; il fatto che le economie sono rientrate in recessione e quindi ci si aspetta un periodo di vacche magre; molti titoli sono sopravvalutati e quindi la bolla speculativa si sta sgonfiando, ecc.
Si può fare un lungo elenco dei motivi del disastro attuale - e i giornali lo fanno con dovizia di particolari - ma il risultato non cambia: dopo tre anni di crisi e 15.000 miliardi di dollari sprecati dagli stati per salvare le banche private, siamo punto e a capo in piena recessione. Non solo, gli stati si sono indebitati per salvare le banche e poi gli stessi finanzieri hanno abbondantemente speculato sui debiti sovrani, fregando altri soldi agli stati (pardon, ai cittadini) come stiamo verificato di persona. Oltre al danno la beffa.
Non solo, come medici ubriachi gli esponenti dei poteri forti che siedono a capo dei governi - in particolare quelli europei - stanno continuando a dare al malato la medicina che l'ha portato in coma: tagli delle spese sociali e pareggio di bilancio inserito in Costituzione. Così la recessione è assicurata. La Merkel è stata così solerte a chiedere ed ottenere il taglio delle spese e il conseguente massacro sociale nei vari paesi europei che è riuscita nella mirabolante impresa di mandare la Germania in recessione: dove diavolo le vende le merci l'azienda tedesca se in Europa nessuno ha più i soldi per comprare? Il mitico Marchionne, che il Ministro Sacconi vuole trasformare nel patrono d'Italia, dopo aver usato a piene mani la speculazione nel far crescere il titolo di una azienda dedita non alla produzione di automobili ma alla distruzione dei diritti dei lavoratori e dei contratti nazionali di lavoro, si ritrova adesso con un pugno di mosche.
Il fatto che nessuno dei nostri governanti vuole ammettere - e con loro nessun manager e nessun commentatore economico o politico - è uno e uno solo: si chiama fallimento del capitalismo. E' il capitalismo neoliberista che ha fallito e il moribondo non è in grado di riprendersi. Non solo: continuando a somministrare la medicina neoliberista, il malato sta sempre peggio, mentre vengono demolite le fondamenta del vivere civile.
Se il problema fosse un fatto privato degli speculatori e dei manager potremmo far finta di nulla. Invece questi delinquenti stanno applicando le loro assurde ricette ideologiche sulla nostra pelle, sulla pelle di milioni e milioni di persone.
E così, i loro esperimenti portano le persone a non avere i servizi sociali, a doversi pagare le cure mediche, a non trovare un lavoro; la società si ripiega su se stessa, nella paura e nell'insicurezza. Per questo diciamo chiaramente che il problema si chiama capitalismo e che occorre cambiare cura: occorrono misure di tipo socialista a partire dalla ripresa della piena sovranità degli stati sulla moneta e sulla finanza.
Il bivio è chiaro dinnanzi a noi: o gli stati sottomettono la moneta ed esercitano democraticamente la propria sovranità sul denaro demolendo i potentati finanziari costruiti in questi anni, oppure la finanza distruggerà le condizioni di vita sul pianeta producendo un pesante regresso della civiltà umana. Questo è il punto. Anche perché i poteri forti stanno portando allo sfacelo la società ma continuano ad avere il potere di farlo. Hanno i soldi per comprasi tutto: dalle università ai mezzi di comunicazione, al complesso degli operatori che concorrono a formare la pubblica opinione. Hanno i soldi per sfidare e piegare gli stati. O gli stati mettono la mordacchia al capitale finanziario o questo demolirà la società, realizzando l'utopia reazionaria della Thatcher che sosteneva per l'appunto che la società, semplicemente «non esiste».
Per questo, va bene parlare di eurobond, di Tobin tax e così via. Rischiano però, oramai, di essere misure largamente insufficienti. Per rimanere alla metafora medica, non basta un'aspirina quando il problema è il cancro. E' necessario fare un salto di qualità, rapido e radicale. Occorre cambiare radicalmente il ruolo della Bce, sottoponendola al potere politico e obbligandola a battere moneta per finanziare la riconversione ambientale e sociale dell'economia e la piena occupazione. Occorre nazionalizzare le grandi banche e decidere democraticamente la gestione degli investimenti. Occorre rovesciare il trattamento fiscale del lavoro e della finanza: poche tasse sul lavoro e moltissime sulla finanza e sulle grandi ricchezze, a partire dalla patrimoniale.
Le nostre proposte concrete e praticabili, a partire dalla patrimoniale, che dobbiamo fare per rendere tangibile e non fumosa la nostra proposta, debbono quindi avere questo respiro e questa portata: il capitalismo neoliberista è fallito, si tratta di impedirgli di continuare a fare danni e indicare con chiarezza la prospettiva verso cui muoversi: il socialismo del XXI secolo.


Liberazione 20/08/2011, pag 1 e 2

Un altro "passo avanti" verso un'Europa classista


Bruno Steri
Con la conferenza stampa di Angela Merkel e Nicholas Sarkozy, l'Unione Europea si è autorevolmente presentata attraverso la voce dei suoi due Stati guida. Dal punto di vista delle gerarchie politiche di fatto operanti, non si tratta certo di una novità; ma non vi è dubbio che l'evento (trasmesso in diretta sui canali televisivi del continente) abbia avuto, al di là dei contenuti espressi, un significativo impatto simbolico: in primo piano non la Commissione, non il Consiglio, ma i leader di Germania e Francia. Si è parlato di "passo in avanti" sulla strada del consolidamento di questa Europa. Sta di fatto che un tale passo emana dalle direttive concordate dai vertici politici di due Paesi: a tutti gli altri non resta che prendere o lasciare.
In proposito, si pongono immediatamente due questioni. La prima, procedurale: qual è la fonte della legittimità democratica di tale supposto "passo in avanti"? La seconda, di merito: ma è davvero "passo in avanti"? Alla prima domanda c'è chi ha provato a rispondere dislocando la risposta sul piano rarefatto della Storia (vedi Fabrizio Galimberti su il Sole 24 ore di ieri). Perché la faccenda non abbia lo sgradevole sapore dell'imposizione, bisognerebbe considerare il contesto eccezionale in cui ha preso piede. L'Ue è infatti un "laboratorio" che ha dovuto e ancora continua a dover fare i conti con il sussistere di diverse aree di sovranità, un "esperimento unico nella Storia" (una sola moneta per diversi Stati e diverse politiche di bilancio) che gradualmente - come il travaglio di un parto - dovrà condurre a una nuova e comune governance.
Nel nome di tale obiettivo, si tratterebbe dunque di far temporaneamente buon viso a cattiva sorte. Purtroppo una tale descrizione vola talmente in alto da perdere i connotati concreti di quel che sta avvenendo. E quel che sta avvenendo è l'estremo contraccolpo di un progetto europeo che, sin dall'inizio, è viziato sotto il profilo delle garanzie democratiche (tant'è che proprio lo Stato più forte, la Germania, pone oggi esplicitamente il problema di un suo "controllo" diretto delle decisioni da assumere in sede continentale) e, sin dall'inizio, non è affatto neutro sul piano sociale.
Qual è il merito delle proposte avanzate? I più ottimisti hanno sottolineato l'impegno a superare le attuali lentezze e frammentazioni procedurali attraverso il varo di un "governo economico" comune: un establishment costituito dai capi di Stato e di governo con una presidenza stabile, da riunirsi due volte l'anno con compiti di vigilanza e coordinamento interstatuale.
Così come è stata salutata positivamente (ma non da tutti gli ambienti politici continentali e non da parte dei mercati) la proposta di una tassazione delle transazioni finanziarie (su quest'ultima, posto che siano superate le resistenze politiche, ricordiamo di passaggio che tutto dipenderà dalla consistenza della tassazione: se non si trattasse semplicemente di far cassa ma di porre realmente un freno ai flussi speculativi, occorrerebbe che la tassazione andasse ben oltre il ventilato 0,05% sugli scambi effettuati).
Tuttavia, il cuore del pacchetto di proposte è altrove ed è in linea con il carattere regressivo, ferocemente classista, di questa Unione: del resto, non è un caso che i promotori appartengano ai ranghi della destra europea e che essi non abbiano perso l'occasione per giudicare con favore la manovra "lacrime e sangue" di un governo di destra come quello italiano. Il dogma ideologico del pareggio di bilancio è il sigillo imposto alla mediazione franco-tedesca, tradotto in "regola aurea" da inserire nelle Costituzioni dei 17 Paesi della zona euro.
La strada è dunque tracciata: ciò significa che, in punta di principio, il "rigore" delle politiche economiche deve coincidere con il contenimento dei costi e il taglio del welfare. Questo è l'input che arriva dall'Europa. E cala il sipario sulla prospettiva di un'Europa promotrice di politiche espansive, di piani di sviluppo all'insegna dell'equità sociale, dell'innovazione produttiva, della tutela ambientale.
Il dominus tedesco ottiene di rinviare alle calende greche ogni decisione sulla ragionevole ipotesi di emettere euro-obbligazioni (i cosiddetti eurobond) in grado di coprire, con la garanzia dei Paesi più solidi e quindi a tassi di interesse accettabili, l'esposizione debitoria dell'Eurozona. Tutto al contrario, si propone che ai Paesi che non rispettino il piano di riequilibrio del deficit pubblico sia negato l'accesso ai Fondi di coesione e ai Fondi strutturali, a quelle risorse attivate precisamente per sostenere le regioni europee in difficoltà. Come dire: chi ha già l'acqua alla gola sia spinto definitivamente sott'acqua.
Un concetto significativo è comparso nel ragionamento della signora Merkel: rendere permanente quel che è stato sin qui rapsodico e dettato dall'emergenza. Disgraziatamente, tale formulazione era riferita a misure quali quelle messe in mostra dalla manovra italiana. Che è tutto dire.


Liberazione 19/08/2011, pag 1 e 2

Privilegi del Vaticano Così lo Stato perde circa tre miliardi

Sacrifici ma non per tutti Nella manovra non un centesimo viene chiesto alla Chiesa


C'è una casta che, nel nostro paese, è davvero intoccabile: quella di Oltretevere. Non c'è giorno in cui i privilegi dei politici (e ora pure quella dei calciatori) non vengano messi alla berlina, stigmatizzati, portati ad esempio negativo. Silenzio tombale, invece, sui privilegi economici e fiscali di cui gode, non si capisce bene a che titolo, la Chiesa. Mentre si chiedono sacrifici da lacrime e sangue a cittadini e imprese, non un centesimo viene chiesto al Vaticano: di tutte le misure ideate dal ministro Tremonti, non ce ne è una che tocchi, ma che dico, sfiori, le ricchezze della Santa Sede.
La quale, in questi giorni di tregenda - in cui crollano le borse, nazioni potenti come gli Usa rischiano il fallimento e la nuova crisi economica fa impallidire quella del '29 - si fa superare a sinistra (si fa per dire, ovviamente) da milionari tipo Warren Buffett e Luca Cordero di Montezemolo, i quali almeno si sono fatti venire lo scrupolo di dire: «Vogliamo pagare più tasse». Dal Vaticano, al contrario, silenzio. Decisamente la messa è finita.
Mario Staderini, segretario dei Radicali italiani, si è preso la briga in questi giorni di fare due conti (ancorché approssimativi, visto che il patrimonio del Vaticano da ottant'anni sfugge ad ogni censimento). Ne esce che eliminando privilegi che non hanno ragion d'essere (e che sono sotto il riflettore dell'Unione europea alla voce "illeciti aiuti di stato" e "concorrenza sleale") si potrebbero recuperare tre miliardi di euro, forse addirittura quattro. All'anno.
La prima sforbiciata dovrebbe riguardare lo scandalo dell'esenzione dall'Ici: come noto, le strutture non destinate al culto in cui si esercitano attività commerciali e a fini di lucro (cliniche private, scuole, negozi, ecc) non pagano l'imposta comunale sugli immobili. Ebbene, è stato calcolato che da lì potrebbero arrivare nelle casse dello stato ben due miliardi di euro, più di quanto si preve di ricavare dalla cosiddetta tassa di solidarietà. Con l'otto per mille la Chiesa incassa un altro miliardo, con il quale per un terzo (così pare) paga lo stipendio dei sacerdoti e con il resto ci costruisce nuove chiese, sostiene le diocesi, evangelizza i popoli del terzo mondo, finanzia le iniziative della Cei ecc. A voler essere buoni e trasformando il prelievo in un 5 per mille (come per le associazioni non profit), lo stato risparmierebbe altri 400-500 milioni.
E non è finita. Perché le attività della Chiesa cattolica godono di una serie di sgravi e agevolazioni fiscali su Ires (meno 50 per cento), Irap, Iva, cui vanno aggiunti aiuti "indiretti" come le convenzioni sanitarie e lo stipendio agli insegnanti di religione. Sforbiciando qua e là e magari eliminando i contributi per le scuole cattoliche che allo stato costano circa 240 milioni (mentre si tagliano fondi alla scuola pubblica), si potrebbero recuperare altri 500 milioni. Totale: tre miliardi. E alla Chiesa resterebbero comunque tutti i profitti derivanti da un immenso patrimonio immobiliare e da attività commerciali redditizie come il turismo religioso, sui quali pagare le tasse come chiunque altro.
Eresia? Chiedetelo agli indignados spagnoli, che in questi giorni protestano per l'arrivo del papa a Madrid in occasione della giornata mondiale della gioventù. Come risaputo, la Spagna non naviga in buone acque e anche al governo Zapatero sono state imposte scelte economiche draconiane. Non è piaciuto, perciò, che l'indebitatissimo stato spagnolo si sia dovuto accollare 25 milioni di euro (ma c'è chi parla di 50) per contribuire all'iniziativa: «Zero delle mie imposte al papa», scandiscono gli indignados spagnoli. E noi?
Ro.Ve.


Liberazione 19/08/2011, pag 4

Usa-Cina, il vice di Obama in visita: «Su Tibet e Taiwan appoggio Pechino»

Gli Stati Uniti appoggiano fermamente la politica di «una sola Cina» di Pechino e non sosterranno la «indipendenza di Taiwan», riconoscendo al tempo stesso che il Tibet è una «inalienabile parte della Cina». Lo ha affermato, secondo quanto scrive l'agenzia ufficiale Nuova Cina, il vicepresidente americano, Joe Biden, che a Pechino ha incontrato il suo omologo cinese, Xi Jinping. Il vicepresidente è giunto in Cina - per una visita di cinque giorni - per rassicurare il gigante asiatico sul downgrade di Washington e sulla possibilità degli Stati Uniti di rimborsare il debito, su cui Pechino chiede ferme garanzie., essendo il primo creditore straniero degli Usa.


Liberazione 19/08/2011, pag 3

Un nuovo Ghandi per liberare l'India dai politici corrotti

Anna Hazare ancora in carcere, cortei in tutto il paese per sostenerlo

Matteo Alviti
Nelle foto che lo ritraggono Anna Hazare ha il viso sereno e fermo che ci si aspetterebbe da un gandhiano doc. Da martedì questo "predicatore" indiano di 74 anni, che negli ultimi mesi nel suo paese è diventato popolare come un divo di Bollywood, è in prigione.
Lo ha arrestato la polizia, insieme ad altri 1200 suoi sostenitori, su ordine del governo del premier Manmohan Singh nel JP Park della capitale indiana. Ieri per la sua liberazione decine di migliaia di persone hanno manifestato per le strade di Nuova Delhi e di tante altre città di tutto il paese.
Martedì Anna Hazare aveva iniziato a digiunare, se necessario fino alla morte, per combattere contro la corruzione che ormai dilaga nel suo paese. Per l'attivista gandhiano non era sufficiente la legge in materia che aveva varato recentemente il governo. E il suo gesto aveva trovato il sostegno di decine di migliaia di persone in tutto il paese, esasperate dalla situazione. «E' tempo di agire o di morire, come per la nostra battaglia per l'indipendenza», aveva detto Hazare alla stampa qualche giorno prima da Ralegan Siddhi, nello stato occidentale di Maharashtra, dove è nato e da dove dirigeva il suo movimento di protesta.
Martedì stesso, poco dopo l'arresto, la polizia aveva avuto l'ordine di rilasciare Hazare. Che invece ha deciso di rimanere nel carcere Tihar di Nuova Delhi, dove sta proseguendo il suo sciopero della fame sostenuto da migliaia di persone, che fuori dalla prigione cantano slogan anti-corruzione. Hazare ha detto che non lascerà il carcere finché non gli sarà permesso di riprendere la protesta nei tempi e nei modi da lui stabiliti. Ieri sera Hazare stava ancora trattando con la polizia per il luogo, il numero massimo di partecipanti e la durata delle proteste, che il gandhiano non vorrebbe inferiore a trenta giorni. Sarebbe un vero e proprio assedio per il governo Singh.
La sua fermezza ha del resto già scatenato una reazione a catena che si è propagata in buona parte del paese: a Delhi, come detto, dove secondo i media ieri c'è stata una delle manifestazioni più partecipate degli ultimi anni, e poi a Mumbai, Chandigarh, Hyderabad, Bangalore, Ahmedabad, Amritsar, Bhubaneshwar e nello stato nord-orientale di Assam. Anche alcuni avvocati della Corte suprema hanno annunciato di voler prendere parte alle proteste e gli autisti di risciò sono entrati in sciopero.
Quel che manca ad Hazare sono però sostenitori nella maggioranza parlamentare che appoggia il premier Singh, che ancora oggi critica pesantemente l'atteggiamento del predicatore. Per il primo ministro indiano lo sciopero della fame è «totalmente fuori luogo», un tentativo di raggirare la democrazia. Per parte sua il governo nega di aver messo il bavaglio al movimento di protesta, e dice di aver interrotto la manifestazione solo perché i seguaci del predicatore gandhiano non avevano voluto accettare le restrizioni imposte dalla polizia sul numero di partecipanti e sulla durata del digiuno.
Critiche anche dal partito del Congresso, che invece qualcosa da farsi perdonare l'avrebbe: nei mesi scorsi la maggioranza è stata coinvolta sempre più spesso in gravi scandali legati alla corruzione. Hazare, però, può contare perlomeno sul sostegno dell'opposizione, che ieri ha interrotto più volte l'intervento del premier in parlamento.
E' improbabile che le manifestazioni di oggi si trasformino in una protesta simile a quelle che hanno animato la primavera araba. Del resto gli indiani hanno sempre potuto mandare a casa i governo con il voto - nonostante dal 1974 nel paese abbia governato una dinastia familiare. E così faranno probabilmente nelle prossime elezioni del 2014, come dimostrano le più recenti indicazioni di voto pubblicate dall'India Today, favorevoli al principale partito d'opposizione.
Del resto l'attuale protesta potrebbe paralizzare ancora di più la già inefficace attività riformatrice del governo Singh, fiaccato da numerosi scandali. "Il governo non sa veramente cosa fare", ha detto alla Reuters Kuldip Nayar, un analista politico indiano: "Non si rendono conto di quanto sia profondo e diffuso sia il risentimento popolare nei suoi confronti".
Nonostante da tempo ormai il pil indiano cresca ogni anno di una percentuale a due cifre, la povertà nel paese - la terza potenza economica dell'Asia - è ancora drammaticamente diffusa: un indiano su cinque che soffre la fame e la metà della popolazione di 1,2 miliardi di persone è sotto la soglia di povertà. Questa situazione, unita alla sofferenza della classe media emergente, che non ha ancora trovato uno spazio adeguato nella "nuova" India, crea una miscela molto pericolosa per il governo.


Liberazione 18/08/2011, pag 5

Cosa succede se scende in campo la destra religiosa?

Usa Un network di associazioni e media radicali

Guido Caldiron
Fino ad oggi la loro icona è stata Michele Bachmann, combattiva deputata del Minnesota che ha integrato le truppe del Tea Party e portato le istanze anti-evoluzioniste, anti-aborto, anti-gay e anche un tantino razziste della destra religiosa a Washington. Ha già superato Sarah Palin quanto a popolarità tra gli elettori repubblicani più conservatori e ora dovrà vedersela con ogni probabilità con il governatore texano Rick Perry, che proprio oggi annuncia in South Carolina la sua "discesa in campo" per le primarie del Grand Old Party, come gli americani chiamano il Partito repubblicano. Mentre gli analisti osservano una ricomposizione delle famiglie politiche dell'ultradestra americana, che hanno subito negli ultimi due anni gli effetti del vero e proprio ciclone rappresentato dal Partito del tè, che starebbe portando a una nuova alleanza tra i settori più vicini al mondo degli affari, e contrari a ogni nuova forma di tassazione, e i "conservatori sociali" legati proprio ai fondamentalisti cristiani, la grande incognita delle elezioni presidenziali del prossimo anno potrebbe essere rappresentata dal risveglio della destra religiosa.
Dopo aver sostenuto, ma con scarso entusiasmo, nel 2008 Palin, nel ticket con McCain, contro Obama, i fondamentalisti cominciano a credere alla possibilità di esprimere un proprio candidato/a per la Casa Bianca. E se si pensa che dall'alleanza tra il vecchio blocco conservatore e questa destra sociale e religiosa diffusa, i repubblicani seppero trarre risorse, finanziamenti, e numeri, i voti di milioni di cristiani evangelici specie negli Stati del Sud, per vincere per due mandanti con Reagan e poi per fare altrettanto con Bush Jr., c'è di che preoccuparsi.
Da, quando, nel 1976, un sondaggio Gallup indicò che un adulto americano su tre aveva vissuto una conversione religiosa (il fenomeno dei cosiddetti "born again"), mentre metà degli intervistati disse di ritenere che "la Bibbia fosse infallibile", i fondamentalisti capirono che era giunto il loro momento. Come disse in occasione delle elezioni del 1980 uno dei loro leader, il telepredicatore Pat Robertson: «Abbiamo abbastanza voti per governare questo paese». All'epoca il revival del conservatorismo religioso si esprimeva particolarmente attraverso il successo dei suoi media. Proprio la stagione dei telepredicatori e delle radio religiose - più di 1300 stazioni radiotelevisive di ispirazione cristiana evangelica, con un pubblico superiore ai 130 milioni di ascoltatori e profitti superiori a 500 milioni di dollari - avrebbe portato alla nascita nel 1979 della cosidetta Moral Majority, guidata dal pastore Jerry Falwell, scomparso nel 2007, e poi, nel 1988 della Christian Coalition di Pat Robertson, un altro religioso prestato alla politica e in lizza per la candidatura repubblicana alle presidenziali nel 1988.
Oggi ad indirizzarsi ai 70 milioni di evangelici statunitensi, circa il 25% della popolazione, sono soprattutto le associazioni che si battono per la "difesa" della famiglia tradizionale e contro aborto e diritti dei gay. La sola organizzazione Focus on the Family, simbolo di molti altri gruppi conservatori attivi nel paese, guidata da Colorado Springs da James Dobson, uno psicologo infantile che ha venduto 3 milioni di copie del suo saggio Il coraggio di disciplinare, sulla necessità di un ritorno dell'autorità dei genitori, raggiunge con le proprie trasmissioni radio un pubblico di 22 milioni di persone e fattura 130 milioni di dollari l'anno. Nel solo 2005 il mercato dei libri religiosi ha superato i 2 miliardi di dollari e quello della musica cristiana i 700 milioni di dollari. Del resto la serie di dodici volumi di thriller cristiani intitolata Left Behind (Gli esclusi) - che raccontano la violenza e la distruzione che accompagnerà l'avvento dell'Apocalisse - scritta da un pastore battista del Sud, Timothy LaHaye, e Jerry B. Jenkins, sono tra i libri più venduti in America, con più di 62 milioni di copie.
Tutto ciò, senza contare il boom del "rock cristiano". BattleCry (Grido di battaglia), un movimento di giovani fondamentalisti che ha raccolto nel 2006 ben 25mila persone ai concerti di San Francisco, Philadelphia e Detroit, esorta i giovani cristiani a sconfiggere le forze laiche che li circondano. L'hit della rock band Delirious, che ha partecipato al raduno di Philadelphia, spiega: «Siamo l'esercito di Dio e siamo pronti a morire (…) Tingiamo di rosso questa vecchia metropoli».


Liberazione 14/08/2011, pag 7

Si candida l’ultraconservatore Perry l’uomo che prega Dio per la pioggia

Presidenziali Usa 2012 ieri l’annuncio del governatore del Texas


Simonetta Cossu
Manca più di un anno alle prossime presidenziali, ma le danze sono già iniziate. Un ballo quello per arrivare alla Casa Bianca che si preannuncia molto costoso visto l'anticipo con cui si inzia. L'attuale inquilino di Pennsylvania Avenue nonostante l'agosto nero a causa del budget e dell'economia per ora viaggia a ritmi bassi. Barack Obama ha fatto due brevi apparizioni a New York a due eventi per raccogliere fondi: prima ad un ricevimento per pochi intimi all'albergo Ritz-Carlton, poi nell'elegante townhouse del produttore cinematografico Harvey Weinstein, nel West Village. I biglietti per i due eventi costavano ciascuno 35.800 dollari, il massimo consentito dalle leggi americane per un contributo elettorale. Della somma, 5.000 dollari vanno nelle casse della campagna presidenziale 2012 di Obama e i restanti 30.800 nei forzieri del partito Democratico. Secondo le stime, grazie ai due eventi, il presidente ha raccolto oltre 2 milioni di dollari da utilizzare per la sua rielezione.
Ma l'attenzione politica è tutta concentrata sui repubblicani. Agli otto che già si sono presentati ieri si è aggiunto il governatore del Texas Rick Perry che si annuncia sicuramente il candidato che insidia la nomination repubblicana alle due star del momento, Mitt Romney l'ex-governatore del Massachusetts e la stella nascente del Tea party Michele Bachmann, la "figlia preferita" dell'Iowa.
Richard "Rick" Perry governa il Texas dal 2001 (posto lasciato vacante da George W. Bush per diventare presidente) ed il beniamino degli ultra conservatori come Rush Limabugh e William Kristol che lo hanno invitato a scendere in campo. Perry sposa tutte le cause estremiste dei repubblicani: decisamente antiabortista, favorevole alla pena di morte (come governatore ha assistito a 230 esecuzioni), pro armi (è praticamente impossibile l'esistenza di un politico texano che non si faccia fotografare con un fucile in mano). Ma soprattuto punta al voto dei fondamentalisti cristiani. In Texas ha istituito la "giornata della preghiera" e recentemente ne ha programmate ben tre di seguito per chiedere a Dio di portare pioggia e porre fine alla siccità. La cosa non ha funzionata ma si è salvato in corner dichiarando che Gesù non offre politica ma salvezza, e che Dio è abbastanza saggio da non iscriversi a nessun partito. Ma resta la sua luce: «Come nazione, abbiamo dimenticato chi ci ha fatto, chi ci protegge, e chi ci benedice ». Dio insomma ha fatto l'America. Le altre nazioni deve averle subappaltate a qualcun altro.
Perry ha però qualche problema. La destra cristiana pur apprezzando non è convinta appieno. Ad esempio Perry ha più volte inneggiato alla secessione del Texas, cosa possibile visto che nella costituzione dello Stato è prevista se gli altri 51 stati americani danno il loro consenso. Pochi giorni fa lo ha riproposto dichiarando che se «Se Washington continua a ficcare il naso nella vita del popolo americano, si sa, che qualcosa potrebbe accadere». Il fatto che questo suo pensiero possa far intendere il suo poco interesse per la restante parte della popolazione che non vive in Texas per ora non lo ha sfiorato.
Inoltre il movimento nascente del Tea Party non si fida. Troppi gli scheletri nel suo armadio. Dalla giravolta politica, Perry è sceso in politica come democratico, alla sua amicizia con Rudy Giuliani. C'è chi ha anche ipotizzato che se Perry arrivasse alla nomination Giuliani potrebbe essere il suo vice e per gli ultraconservatori la cosa non aggrada molto visto il sostegno che l'ex sindaco di New York da al matrimonio gay e le sue confessioni di aver convissuto con omossessuali e che si diverte a vestirsi da donna ai party di beneficenza.
L'annucio della sua scesa in campo è arrivata ieri in Soutn Carolina, Subito dopo è partito per il New Hampshire, stato del nordest che sarà il secondo a tenere le primarie repubblicane nel 2012. E il giorno dopo sarà in Iowa, il primo stato che vota, a un evento dove apparirà anche la favorita del Tea Party, Michele Bachmann.
James Richard "Rick" Perry è un texano doc, classe 1950, amante dei cappelloni Stetson, delle fibbie giganti alla cintura e degli stivali da cowboy portati anche con giacca e cravatta, come il suo predecessore alla guida del Texas George W. Bush. Laureato in agraria, è stato ufficiale dell'aeronautica (pilotava i quadrimotori da trasporto C-130 Hercules) prima di lavorare nell'azienda cotoniera di famiglia. E' sposato con due figli.
Dulcis in fundu è favorevole all'insegnamento nelle scuole della teoria creazionista, secondo la quale l'evoluzione darwiniana non è vera e la creazione del mondo è avvenuta letteralmente come spiega la Genesi nella Bibbia. Verrebbe da dire Dio salvi l'America!


Liberazione 14/08/2011, pag 7

«Questa manovra barbara produrrà solo recessione»

Luciano Gallino Sociologo, autore di “Finanzcapitalismo”

Paolo Persichetti
Colpire al cuore lo Statuto dei lavoratori. Questo progetto ultradecennale perseguito con una ferocia ideologica senza pari è forse giunto al suo traguardo. I ripetuti tentativi, sempre falliti o respinti in passato, hanno trovato nel grande golpe della finanza in corso il mezzo per assestare la mossa finale. La misura, richiesta nella lettera della Bce scritta da Mario Draghi, come lo stesso Giulio Tremonti ha lasciato intendere, è stata introdotta nella manovra aggiuntiva del governo in una maniera del tutto subdola e artificiosa. Abbiamo chiesto al sociologo Luciano Gallino, che in un suo lungimirante saggio uscito lo scorso marzo per Einaudi, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, ha descritto l'attuale crisi finanziaria, un giudizio sulle scelte del governo.

Quando parliamo dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (divieto di licenziare senza giusta causa) ci riferiamo ad una norma di legge che sancisce un diritto soggettivo del cittadino lavoratore. Possono le parti sociali espropriare questo diritto della persona derogando la legge con un accordo aziendale? Non si tratta di una elementare violazione della gerarchia delle fonti del diritto? Prim'ancora che incostituzionale sembra l'ennesima alchimia antigiuridica. Una furberia architettata da un malandrino.
Non sono un giurista e lascio a loro una valutazione tecnica sulla questione. Ma come ho detto in una precedente intervista, rimuovere la persona come titolare dei diritti, mettendo invece al centro la prestazione o il contratto, è un aberrazione giuridica, il segno di una forte regressione in direzione di una smodata rimercificazione del lavoro. Sono le persone che hanno titolo, per usare un termine di Amartya Sen, per ottenere reddito o veder difesa la loro dignità.

Cosa accadrà con lo smantellamento dei contratti nazionali e la possibilità di derogare le norme di legge che tutelano i diritti dei lavoratori?
Intanto bisogna vedere come va a finire, manca ancora il voto finale del parlamento. In ogni caso l'idea che il centro della contrattazione debba essere l'azienda significa veramente non rendersi conto di come è organizzata oggi la produzione nel mondo. Si sarebbe dovuto parlare di contrattazione di filiera, di contrattazione estesa alle cosiddette catene di produzione del valore, perché ciò che fa ogni singola azienda dipende da ciò che fanno le aziende a monte e quelle a valle. Praticamente nessuno produce più nulla per intero. Tutto il prodotto, anche il più piccolo elettrodomestico, qualunque tipo di servizio per non parlare dei manufatti più grandi, è composto da centinaia di produttori situati in decine di Paesi diversi. L'idea che si possa contrattare la produttività in una sola azienda significa non aver capito nulla di come da decenni la produzione è organizzata nel pianeta. E poi mi preoccupano due cose.

Quali?
La scelta del governo è regressiva dal punto di vista sociale, civile e giuridico. I governi di destra ci hanno abituato a interventi del genere ma qui si è andati molto oltre. ma c'è ancora di più, questi interventi sono recessivi anche dal punto di vista economico, sono un limite allo sviluppo, alla cosiddetta ripresa. Queste misure non fanno altro che porre le premesse per una recessione che non sarà inferiore a 5-10 anni. Per un Paese che ha già una media di sviluppo dello 0,5% si tratta di un intervento molto ottuso. La fermentazione delle contrattazioni, la disarticolazione dei contratti fa si che a soffrire sarà la stessa produttività, l'organizzazione aziendale, la formazione dei lavoratori. Sono tutte premesse per un peggioramento e un prolungamento della recessione. il ministro Sacconi interpreta gli aspetti più deteriori dell'ideologia neoliberale.


Liberazione 14/08/2011, pag 4

Manovra, il glossario della macelleria sociale

Le misure del decreto
Una manovra bis da 45,5 miliardi di euro in due anni che si va aggiungere agli oltre 47 miliardi di quella approvata meno di un mese fa. Tanti tagli ma anche qualche tassa nuova. Spunta anche una 'Robin Hood Tax' per il settore dell'energia e si profila un rincaro delle sigarette.

Mercato del lavoro
Intervento a gamba tesa del ministro Maurizio Sacconi che ha esteso il campo di applicazione della deroga al contratto nazionale attraverso il contratto aziendale allo Statuto dei lavoratori per quella parte che riguarda il licenziamento per giusta causa. Inoltre i contratti aziendali potranno regolare l'organizzazione del lavoro sempre in regime di deroga. Sacconi ha anche pensato di fare un regalino alla Fiat estendendo l'erga omnes, ovvero la validità per tutti i lavoratori, agli accordi di Pomigliano e Mirafiori. In pratica, ha introdotto la famosa "retroattività" dell'accordo del 28 giugno di cui la Fiat non poteva godere per evidenti limiti temporale.

Rendite finanziarie
La tassazione delle rendite finanziarie viene aumentata al 20 per cento. Sono esclusi gli interessi dei titoli di Stato o equiparati che restano al 12,5% per cento. In pratica, scende dal 27% al 20% la tassazione sui depositi bancari e postali, e sale dal 12,5% al 20% la tassazione per tutti gli altri strumenti finanziari, titoli di Stato esclusi. In totale, questa misura dovrebbe consentire il recupero di un miliardo di euro. Il ministro Tremonti ha specificato che ci saranno anche interventi sui giochi

Liberalizzazioni
Le liberalizzazioni spaziano a 360 gradi: si va da quelle relative ai professionisti a quelle in materia di segnalazione certificata di inizio attività, denuncia e dichiarazione di inizio attività. Sul fronte delle professioni, in particolare, il decreto abolisce l'esame di Stato per i commercialisti e dà agli avvocati la possibilità di una carriera alternativa senza l'esame. In più, si apre alla pubblicità anche comparativa, alle società di capitali anche se a maggioranza esterna, e alla possibilità di coniugare attività di impresa e commerciale con quella di studio. Le liberalizzazioni riguardano anche i servizi pubblici.

Privatizzazioni
Si parla di privatizzazione dei servizi pubblici locali, come gestione dei rifiuti e trasporto pubblico locale. Resta invece fuori dal campo delle privatizzazioni la gestione dell'acqua. La privatizzazione deve avvenire attraverso una gara d'appalto, e solo dopo che l'ente ha verificato se un servizio pubblico sia pienamente liberalizzabile, se ci siano, cioè, imprese private disposte a realizzarlo senza contributi pubblici, garantendo le caratteristiche di universalità e accessibilità del servizio.

Lotta all'evasione
Nuove misure restrittive, come la soglia del trasferimento del contante che passa da 5mila a 2.500 euro. In più, vengono rafforzate le sanzioni (fino ad arrivare alla chiusura dell'attività) per le attività commerciali che non emettono lo scontrino fiscale e per i professionisti che non emettono la fattura.

Comuni accorpati e province abolite
Dalle prossime elezioni è prevista la soppressione delle Province sotto i 300mila abitanti. Si tratta di 36 province (ma il calcolo è ancora approssimativo e sarà definito con i risultati del censimento). In più la nuova manovra prevede la fusione dei Comuni sotto i mille abitanti, con sindaco anche assessore, e la riduzione dei componenti dei Consigli regionali. Si tratta di circa 1.500 piccoli Comuni. Sempre in tema di enti territoriali, il decreto riduce di 6 miliardi di trasferimenti nel 2012 e di 3,5 nel 2013. Per le regioni il peso della riduzione dei fondi è pari a 1 miliardo di euro.

Ministeri
Il taglio di 6 miliardi ai ministeri va dalla banda larga per quanto riguarda il ministero dello Sviluppo economico, alla prevenzione di rischi di dissesto idrogeologico (Ambiente). Queste voci sono inanziati attraverso i fondi Fas.

Festività
Vengono spostate alla domenica le festività non religiose (non concordatarie) che cadono in un giorno infrasettimanale. Le festività spostate sono: il 25 aprile (festa della Liberazione), il 2 giugno (festa della Repubblica) e il 1° maggio (festa dei lavoratori).

Pensioni
Il pacchetto previdenza esce più soft rispetto alla bozza. Nel testo solo l'anticipo al 2016 (rispetto al 2020) del graduale aumento del requisito di età per il pensionamento di vecchiaia delle lavoratrici del settore privato. Si partirà con un incremento di un mese il primo anno, due mesi il secondo anno (2018) e via via con gradini di sei mesi negli ultimi anni della transizione che si conclude nel 2027. Al requisito di età si aggiungerà la finestra unica di un anno, che marcherà un altro ritardo, e i mesi di posticipo legati all'aspettativa di vita.

Pubblico impiego
Congelamento delle tredicesime mensilità dei dipendenti. Il Tfr verrà liquidato entro 24 mesi. Infine, il taglio al personale: dovrà essere assicurata una riduzione del 10% del numero dei dirigenti di seconda fascia e del 10% dei dipendenti delle amministrazioni centrali entro il marzo del 2012

Costi della politica
Tagliate 54mila poltrone. Secondo i numeri forniti dal ministro Calderoli, nella dieta della politica perderanno la poltrona 445 tra deputati e senatori. Le indennità dovranno essere collegate al tasso di presenza ai lavori parlamentari. Aboliti i doppi incarichi, di parlamentare e sindaco o assessore e rafforzate le incompatibilità.

Contributo di solidarietà
Il prelievo è previsto per chi guadagna sopra i 90mila euro. L'aliquota del 5% si applicherà solo alla quota eccedente i 90mila euro. L'aliquota sale al 10% per quella sopra i 150mila euro. Il prelievo si applicherà solo per due anni. È saltata l'ipotesi di un contributo di solidarietà a due vie per autonomi e lavoratori dipendenti: l'aliquota e le fasce sono uguali per entrambe le categorie.


Liberazione 14/08/2011, pag 2

Stop al governo unico delle banche

Dobbiamo fermarli

Giorgio Cremaschi
Stupidi banchieri. Dopo aver chiesto con lettera firmata Draghi e Trichet al governo italiano di cancellare sessant'anni di conquiste sociali e di libertà per rendere solidi i crediti delle banche, ora fanno dire ai loro portavoce sparsi per tutti i giornali e i partiti che forse non basta e che manca la crescita.
Ma di quale crescita si parla, di quale sviluppo dopo una botta di novanta miliardi di euro sottratti alle tasche dei cittadini, in gran parte lavoratori dipendenti e pensionati. Ma quale sicurezza per il futuro può dare la cancellazione del contratto nazionale e dello Statuto dei lavoratori, affidati a tutti i piccoli e grandi Marchionne che vorranno incrudelire sul lavoro. Ma quale ripresa se le donne verranno licenziate a 45 anni perché troppo vecchie, per lavorare, ma dovranno aspettare i 65 per andare in pensione. Ma quale futuro ci dà la negazione del pronunciamento dei referendum con la messa all'asta di tutti i servizi pubblici, di tutti i beni comuni. Si tagliano i salari e i diritti, si cancellano per sempre libertà fondamentali, garantite dalla nostra Costituzione. Che non a caso si vuol stravolgere con la folle aggiunta dell'obbligo di pareggio di bilancio e con la vergognosa cancellazione del primo maggio, del 25 aprile, del 2 giugno. Ma di quale crescita, di quale sviluppo si parla se si affossa la democrazia costituzionale? Siamo davvero ad un meccanismo impazzito che divora sé stesso nella speranza di sopravvivere. Di questa devastazione sociale non è responsabile solo Berlusconi. Certo, dobbiamo anche pagare il prezzo delle sue escort e dei suoi festini, dell'impresentabilità del suo governo. Ma paradossalmente la debolezza e lo stato confusionale del governo della destra sono serviti a renderlo ancora più acquiescente a chi comanda davvero, a quel governo unico delle banche che oggi impone le sue decisioni, le sue ricette di destra estrema, a tutta l'Europa.
Questo massacro è anche frutto dei balbettii ridicoli di un'opposizione che sinora ha saputo solo rimproverare a Berlusconi di non essere al passo e al tempo dei mercati. Questo massacro è frutto anche della scomparsa della funzione storica del sindacalismo confederale, che in questa crisi ha scelto come portavoce la presidente della Confindustria. E infine questo massacro è frutto anche della decadenza culturale e morale di un élite intellettuale e mediatica che si è trasformata in una ridicola trombetta della globalizzazione, proprio quando la globalizzazione è andata in crisi.
Ora dobbiamo reagire, ma non possiamo permetterci sconti o ingenuità. L'obiettivo non può essere il meno peggio del peggio, ma un rovesciamento della manovra, delle idee e dei poteri che la ispirano.
Bisogna travolgere il governo di Berlusconi, il cui cuore gronda del nostro sangue. Ma bisogna anche combattere il governo unico europeo.
Bisogna fermare la spirale del debito cancellando le spese militari, combattendo davvero l'evasione fiscale che è prima di tutto dei grandi capitali, nazionalizzando le banche, fermando con un muro di tasse la speculazione finanziaria. Bisogna dire basta al patto di stabilità europeo che distrugge la più grande conquista del continente, lo stato sociale. Bisogna riconquistare diritti e libertà per il lavoro, ridurre l'orario e aumentare i salari, costruire un futuro produttivo fondato sulla conoscenza e sui beni comuni. Insomma ci vuole un'alternativa complessiva alla follia liberista del taglio continuo. E' un obiettivo troppo ambizioso? Non credo, perché l'alternativa sarebbe rassegnarci a riservare per nostri figli una società peggiore di quella di cent'anni fa. L'Inghilterra insegna.
Certo questa svolta non si realizza con le attuali classi dirigenti politiche e sindacali, esse sono totalmente subalterne al potere finanziario che ci schiaccia. Per questo un'alternativa economica e un nuovo modello di sviluppo richiedono anche una radicale svolta nella democrazia. Chi governa deve tornare a temere di più il giudizio del proprio popolo rispetto a quello di Standard e Poor's. Oggi non è così. Per questo è necessaria una vera e propria rivoluzione democratica.
Andiamo allo sciopero generale, ma consideriamolo solo l'avvio di un movimento per ridare ai lavoratori un sindacato che ne rappresenti gli interessi rifiutando patti sociali e coesione nazionale. Mobilitiamoci nelle piazze, ma proviamo finalmente a costruire un'alternativa politica a questo sistema istituzionale totalmente subalterno al regime dei padroni. In Italia oggi ci sono tre poli che al momento buono, quando sono in gioco i valori sacri della globalizzazione del mercato, dicono e fanno le stesse cose. Per questo è giunto il momento di costruire un quarto polo anticapitalista, alternativo a tutti gli altri, che dia voce e forza a quei milioni di persone che non ne possono più e che vogliono provare con la lotta a cambiare le cose. Dobbiamo fermarli.


Liberazione 14/08/2011, pag 1 e 4

Una manovra costituente

Paolo Ferrero
Quella varata dal governo Berlusconi, sotto dettatura dalla Bce e dalla Germania, non è solo una manovra economica. E' una grande rivoluzione conservatrice che usa il potere dello stato per stravolgere i rapporti tra le classi sociali e uscire dal compromesso democratico che ha caratterizzato il secondo dopoguerra.
Nella manovra si privatizza tutto il possibile e si demolisce il welfare. Nessuno capirà più perché bisogna pagare le tasse ad uno stato che non ti da nulla in cambio o che ti obbliga a pagare una altra volta i servizi attraverso le tariffe.
Nella manovra si accoglie in pieno la richiesta della Fiat di demolire il contratto nazionale di lavoro aprendo la strada ad una pesantissima ulteriore riduzione salariale e frantumazione della classe.
Nella manovra si attaccano in modo pesante i lavoratori pubblici, si aumenta l'età per andare in pensione, soprattutto per le donne ma non solo.
Nella manovra si demolisce il sistema delle autonomie locali e delle regioni e si usa la polemica contro la casta per tagliare la democrazia nel paese.
Nella manovra si modificherà la Costituzione per rendere eterne le politiche neoliberiste che sono già state costituzionalizzate a livello europeo.
Parallelamente non si toccano i ricchi, quel decimo che possiede la metà della ricchezza italiana, non si tocca l'evasione fiscale e non si prende nessuna misura contro la speculazione finanziaria, nemmeno col divieto di vendita allo scoperto che altri paesi europei applicano normalmente.
Una manovra ingiusta, recessiva, che non colpisce la speculazione e che scardina la democrazia del paese.
Contro questa manovra occorre costruire il massimo di opposizione possibile.
Per essere efficaci non basterà però pronunciarsi contro i tagli. Infatti la manovra è stata costruita e giustificata in nome dell'emergenza e della necessità di battere la crisi e la speculazione. In assenza di una spiegazione generale diversa, è molto probabile che le singole persone siano contrarie alla manovra ma che poi pensino non ci sia null'altro da fare perché "i mercati hanno deciso così", "l'Europa ha deciso così", ecc. Vi è cioè una ideologia dominante - condivisa da quasi tutto l'arco politico e dai mezzi di comunicazione di massa - che deve essere messa in discussione pena l'inefficacia della nostra azione politica.
Il primo punto per essere efficaci contro la manovra è quindi spiegare che questa manovra non serve a nulla contro la speculazione e che per battere questa occorre rimettere regole ai mercati finanziari. Nei giorni scorsi abbiamo avanzato varie proposte che qui non riprendo.
Il secondo punto è di spiegare che la manovra è recessiva e quindi aggraverà la crisi, portandoci in una situazione di tipo Greco. La manovra aggrava la crisi e porta i conti pubblici allo sfascio in quanto riduce il Pil e tendenzialmente le entrate fiscali.
In terzo luogo occorre prospettare una alternativa a questa manovra. La nostra proposta di una tassa sui grandi patrimoni al di sopra del milione di euro può portare 20 miliardi di entrate, così come altri miliardi possono arrivare dalla nostra proposta di dimezzare le spese militari e gli stipendi delle caste. La nostra battaglia contro la manovra deve quindi essere fatta in nome di altre misure da proporre, comprensibili a livello di massa.
In quarto luogo occorre spiegare a cosa serve la manovra dal punto di vista delle classi dirigenti italiane. Questa manovra serve a tagliare ulteriormente il costo del lavoro e a trasformare i lavoratori in servi senza diritti. Nella crisi della globalizzazione neoliberista le nostre classi dirigenti ritengono che l'Italia deve essere più povera, deve ridurre drasticamente il livello di vita medio, salvaguardando i privilegi di quel dieci per cento che deve continuare a farsi i fatti propri. Deve diventare una specie di "enclave cinese" che produce in subfornitura per la Germania, così come pensa la Lega Nord da tempo.
Dobbiamo quindi costruire l'opposizione a questa manovra nella consapevolezza che si tratta di una manovra costituente e che per sconfiggerla occorre rompere la cappa ideologica che la giustifica. Occorre cominciare da subito e nel giornale di oggi troverete un primo manifesto da utilizzare "artigianalmente". Occorre cominciare dai territori, organizzando assemblee di spiegazione, volantinaggi, informazione. Occorre avere chiaro che non basta gridare allo scandalo ma occorre spiegare bene e prospettare l'alternativa. Per questo la costruzione di una campagna sulla patrimoniale che indichi una possibile soluzione diversa è un punto centrale della nostra azione nelle prossime settimane. Ovviamente chiediamo lo sciopero generale, appoggeremo ogni iniziativa di mobilitazione a partire da quelle già decise dal sindacato di base e operiamo per costruire mobilitazioni politiche nazionali. Questa volta però occorre lavorare prima nei territori, con la gente, per spiegare che l'alternativa esiste e fornire un punto di vista chiaro sulla crisi e su come uscirne.


Liberazione 14/08/2011, pag 1 e 4

Cina varata la prima portaerei di Pechino. Sud Corea: una minaccia per tutto il Pacifico

La portaerei varata dalla Marina militare cinese «è una minaccia alla stabilità del Pacifico: il governo di Pechino ha deciso di calare l'asso per mettere le mani sulle terre contese con le altre nazioni dell'area e vuole chiudere una volta per tutte la questione di Taiwan». Il governo sudcoreano non ha gradito la mossa di Pechino che per la prima volta nella sua storia ha dato il varo a una portaerei in grado di trasportare non soltanto jet militari ma anche un sistema missilistico di ultima generazione: la "Varyag" - comprata dieci anni fa dall'Ucraina e di produzione sovietica. Pechino ha affermato che essa "sarà usata per la ricerca scientifica, l'esplorazione dei mari e l'addestramento del personale militare".


Liberazione 12/08/2011, pag 6

«La soluzione? Una moneta unica per i paesi dell'Europa del sud»

Bruno Amoroso economista e presidente del centro studi Federico Caffè

Tonino Bucci
Tutta colpa dell'indebitamento del sistema. Questa è la spiegazione più diffusa della crisi globale. Nel 2008 scoppiò negli Usa la bolla dei mutui subprime, l'apice della spirale consumi-indebitamento privato. Ma la seconda puntata della crisi globale di questi giorni ha fatto venire a galla un altro tipo di indebitamento, quello degli Stati nazionali. Ne parliamo con Bruno Amoroso, docente di economia internazionale e presidente del Centro studi Federico Caffé.

Ma davvero c'è un rapporto automatico tra debito pubblico e calo di investimenti/consumi? Ci sono paesi con deficit pubblici che hanno avuto tassi di crescita straordinari, no?
La crisi economica e sociale attuale è stata scatenata da alcuni gruppi di potere finanziario e militare che, con la copertura delle istituzioni statali e private e la legittimazione di una "cultura" economica e giuridica da loro stessi promossa (il liberismo neo- e no), stanno attuando un colossale furto ai danni di milioni di persone. Il "colpo" è riuscito, rimane finora impunito e si protrae grazie al loro controllo dei mercati finanziari, delle istituzioni internazionali e nazionali di controllo. Parlare di crisi finanziaria è improprio. La finanza sta avendo grande successo, come confermano anche le promozioni e le retribuzioni che vengono date agli artefici di questa grande truffa. E soprattutto si conferma un potere incontrastato: sono i "mercati finanziari" - gli "incappucciati della finanza" come li definiva Federico Caffè - che dettano giorno per giorno le tendenze dei mercati e dell'economia, le scelte e le politiche dei governi e delle stesse opposizioni. Perfino il calendario delle riforme è dettato dalla finanza. La crisi non è scoppiata per l'indebitamento di persone e paesi basato su rapporti reciproci di credito-debito. Quale debito, pubblico o privato? Entrambi possono essere utili o dannosi. Se il debito pubblico è fatto per finanziare guerre e consumi dannosi alla società, o per tenere in piedi istituzioni nocive e improduttive, è ovvio che è un debito sbagliato. Immaginiamo, al contrario, che si favorisse l'indebitamento d'iniziative imprenditoriali, sociali, di formazione gestite da cooperative o da imprese sociali private ma radicate sul territorio e su base comunitaria. Saremmo in presenza di un giusto indebitamento. In grado peraltro di far fronte ai propri impegni perché i benefici sociali da questo prodotti - occupazione, miglioramento delle condizioni sociali e di vita, dell'habitat, ecc. - farebbero aumentare i livelli di produttività sociale.

Obama ha ceduto alle richieste più radicali dei repubblicani, tagli alla spesa sociale e indisponibilità a tassare i redditi alti. Dobbiamo constatare - sulla linea dell'economista Galbraith - il fallimento dell'obamismo, troppo legato all'oligarchia finanziaria e a Wall Street?
Su Obama si sono dette molte sciocchezze. Sin dalla formazione del suo governo e dai primi mesi di gestione era chiaro che si è trattato di un'operazione mediatica per rilanciare l'istituzione presidenziale ma continuare sulle vecchie strade. Galbraith, giustamente citato, ha denunciato puntualmente la composizione dello staff di governo di Obama come continuazione di quella di Bush. La base di Guantanamo è ancora aperta, le guerre continuano e si moltiplicano. La politica neo-coloniale di destabilizzazione avviata da Obama nel mondo arabo per controllarne il futuro è parte di questo scenario. Le grandi riforme sociali come quella della sanità si sono rivelate un bluff. Il debito statunitense è servito anzitutto a finanziare il ruolo di poliziotto mondiale degli Usa, e a foraggiare i gruppi sociali più ricchi del paese, pur mantenendo un minimo di livello sociale necessario alla coesione sociale interna del paese. La discussione oggi negli Stati Uniti non è come ridurre il peso dell'industria militare, che aumenta, e neanche quello di come riappropriarsi delle ricchezze che i gruppi della finanza (qualche migliaio di persone) hanno derubato ai cittadini (non solo negli Usa). I tagli "necessari" riguardano come impedire che i gruppi sociali espropriati, le "prede", possano essere sostenuti nelle loro necessità di reddito e di consumo, lasciando piena protezione ai "predatori". Le proposte dei democratici sulla tassazione dei redditi alti e la redistribuzione dei ricorda molto l'inutile dibattitoitaliano sull'evasione. Sparare alto sapendo di non poter colpire, per non accorgersi dei corvi che ci svolazzano intorno.

L'Islanda ha scelto la via del default. Ha fatto un referendum e ha arrestato i banchieri responsabili della crisi. E' un esempio da seguire?
L'Islanda ha fatto la sua scelta il che dimostra che si può fare. Ma si tratta di un piccolo paese e molto coeso sui temi che lo riguardano. Già la Grecia avrebbe maggiori difficoltà interne a trovare il consenso. Spesso si dimentica che l'integrazione europea nell'Euro riguarda non tutti i paesi dell'Unione: ne sono fuori paesi importanti come la Gran Bretagna, la Danimarca, Svezia, ecc. Cosa è l'Euro e quali sono i paesi che ne risentono negativamente? L'Euro è la valuta dell'area del marco tedesco e sono i paesi dell'Europa del Sud in particolare a risentirne negativamente. L'Euro non ci ha protetto dalle speculazioni, come si era promesso. In più ha tolto la sovranità delle politiche economiche di aggiustare i rapporti di scambio internazionali alle necessità delle nostre economie. Che fare? Riacquistare la sovranità monetaria, non isolatamente, paese per paese, ma creando una moneta unica per i paesi dell'Europa del sud con strutture produttive e problemi simili. Un'unione monetaria che comprendesse Francia, Italia, Spagna, Portogallo e Grecia sarebbe un'area forte, dentro l'Unione Europea accanto alle altre valute esistenti e a queste collegata, fuori dell'Unione per la possibilità di gestire in modo sovrano i rapporti economici e commerciali con le grandi aree in crescita come la Cina e l'Asia in generale.


Liberazione 12/08/2011, pag 5

Default? L’Islanda lo ha scelto...

Crisi a marzo il referendum sul risanamento del debito: il No ha vinto con il 93%


Marco Pala*
Qualcuno crede ancora che non vi sia censura al giorno d'oggi? Allora perché, se da un lato siamo stati informati su tutto quello che sta succedendo in Egitto, dall'altro i mass-media non hanno sprecato una sola parola su ciò che sta accadendo in Islanda?
Il popolo islandese è riuscito a far dimettere un governo al completo; sono state nazionalizzate le principali banche commerciali; i cittadini hanno deciso all'unanimità di dichiarare l'insolvenza del debito che le stesse banche avevano sottoscritto con la Gran Bretagna e con l'Olanda, forti dell'inadeguatezza della loro politica finanziaria; infine, è stata creata un'assemblea popolare per riscrivere l'intera Costituzione. Il tutto in maniera pacifica. Una vera e propria Rivoluzione contro il potere che aveva condotto l'Islanda verso il recente collasso economico.
Sicuramente vi starete chiedendo perché questi eventi non siano stati resi pubblici durante gli ultimi due anni. La risposta ci conduce verso un'altra domanda, ancora più mortificante: cosa accadrebbe se il resto dei cittadini europei prendesse esempio dai "concittadini" islandesi?
Ecco brevemente la cronologia dei fatti:
2008 - A settembre viene nazionalizzata la più importante banca dell'Islanda, la Glitnir Bank. La moneta crolla e la Borsa sospende tutte le attività: il paese viene dichiarato in bancarotta.
2009 - A gennaio le proteste dei cittadini di fronte al Parlamento provocano le dimissioni del primo ministro Geir Haarde e di tutto il governo - la Alleanza social-democratica (Samfylkingin) - costringendo il Paese alle elezioni anticipate. La situazione economica resta precaria. Il Parlamento propone una legge che prevede il risanamento del debito nei confronti di Gran Bretagna e Olanda, attraverso il pagamento di 3,5 miliardi di euro che avrebbe gravato su ogni famiglia islandese, mensilmente, per la durata di 15 anni e con un tasso di interesse del 5,5%
2010 - I cittadini ritornano a occupare le piazze e chiedono a gran voce di sottoporre a referendum il provvedimento sopracitato.
2011 - A febbraio il Presidente Olafur Grimsson pone il veto alla ratifica della legge e annuncia il referendum consultivo popolare. Le votazioni si tengono a Marzo e i "No" al pagamento del debito stravincono con il 93 per cento dei voti. Nel frattempo, il governo ha disposto le inchieste per determinare giuridicamente le responsabilità civili e penali della crisi. Vengono emessi i primi mandati di arresto per diversi banchieri e membri dell'esecutivo. L'Interpol si incarica di ricercare e catturare i condannati: tutti i banchieri implicati abbandonano l'Islanda. In questo contesto di crisi, viene eletta un'Assemblea per redigere una nuova Costituzione che possa incorporare le lezioni apprese durante la crisi e che sostituisca l'attuale Costituzione (basata sul modello di quella danese). Per lo scopo, ci si rivolge direttamente al popolo sovrano: vengono eletti legalmente 25 cittadini, liberi da affiliazione politica, tra i 522 che si sono presentati alle votazioni. Gli unici due vincoli per la candidatura, a parte quello di essere liberi dalla tessera di qualsiasi partito, erano quelli di essere maggiorenni e di disporre delle firme di almeno 30 sostenitori. La nuova assemblea costituzionale inizia il suo lavoro in febbraio e presenta un progetto chiamato Magna Carta nel quale confluiscono la maggior parte delle "linee guida" prodotte in modo consensuale nel corso delle diverse assemblee popolari che hanno avuto luogo in tutto il Paese. La Magna Carta dovrà essere sottoposta all'approvazione del Parlamento immediatamente dopo le prossime elezioni legislative.
Questa è stata, in sintesi, la breve storia della Ri-evoluzione democratica islandese.
Abbiamo forse sentito parlare di tutto ciò nei mezzi di comunicazione europei?
Abbiamo ricevuto un qualsiasi commento su questi avvenimenti nei noiosissimi salotti politici televisivi o nelle tribune elettorali radiofoniche?
Abbiamo visto nella nostra beneamata televisione anche un solo fotogramma che raccontasse qualcuno di questi momenti?
Sinceramente no.
*Da FlashArt newsletter


Liberazione 12/08/2011, pag 4

E' in gioco tutto. Reagire subito, per non soccombere

Dino Greco
Ora che la situazione «precipita» (per dirla con Gianni Letta) e che le assurde cicale del governo hanno smesso di cantare alla luna, anche la Cgil, risvegliatasi da un lunghissimo letargo, scopre che la scure sta per abbattersi con inaudita violenza su lavoratori e pensionati, spazzando via d'un sol colpo il già terremotato welfare e i pochi diritti del lavoro che la Costituzione è riuscita a preservare alle cure di Marchionne e di Sacconi.
Il grottesco connubio che sino a ieri aveva unito banche, industriali e sindacati nella richiesta di urgenti misure «per la crescita e l'occupazione» si è sfarinato in una frazione di secondo, quando si è trattato di declinare le concrete misure da adottare per evitare la bancarotta e sottrarre il Paese all'attacco speculativo cui è sottoposto. Così, quando mercoledì il governo, in preda alla più totale confusione, ha convocato le "parti sociali", non è stato in grado di dire alcunché. Nel surreale silenzio si è levata la voce di Susanna Camusso che ha detto, lapidariamente, come «non si possano chiedere risorse ulteriori a pensioni, redditi da lavoro, sanità, assistenza». Alleluia! Parole sacrosante, ancorché terribilmente tardive, che avrebbero avuto bisogno di essere corroborate da una strategia e da una condotta sindacale tali da frenare per tempo la corsa verso il crinale cui la sta portando - senza alcun efficace contrasto - la politica del governo in carica, non meno di quella auspicata dalle forze di ispirazione liberale che oggi ambirebbero a sostituirlo.
Quella risposta, non vi è stata ed abbiamo anzi assistito al tristissimo "inciucio" politico ed ideologico che ha spinto la Cgil a condividere che il vincolo del pareggio di bilancio - vale a dire la messa fuori legge del keynesismo - fosse posto dentro la Carta fondamentale.
Accadrà dunque che a metà agosto, con le fabbriche chiuse e a riflettori spenti, il Consiglio dei ministri varerà provvedimenti tali da mettere all'incasso, fra tagli e maggiori entrate, venti miliardi entro il prossimo anno. Delle impotenti rimostranze della Cgil e dei belati soltanto televisivi dell'opposizione parlamentare il governo si farà perciò un baffo. Non resterà che esaminare il dettaglio delle misure, la tastiera su cui si eserciterà la perversa fantasia di Tremonti. Ma non vi è ombra di dubbio che si colpirà in basso e si colpirà duro.
Con un'improntitudine che meriterebbe, da sola, di rovesciare il tavolo, ci è stato spiegato che non vi sarà «alcun genere di tassa patrimoniale», cioè che i ricchi, i titolari di fortune spesso fraudolentemente accumulate, non saranno chiamati a dare nulla. In compenso il ministro del tesoro e delle finanze ieri ha reso noto che il kit, il ricettario elegantemente "suggerito" dalla Bce, contempla anche la liberalizzazione dei licenziamenti e il superamento del contratto nazionale di lavoro.
Di più. E' sin d'ora evidente che il pacchetto "lacrime e sangue" in gestazione avrà un effetto ulteriormente depressivo sulla domanda, sui consumi, su una dinamica della produzione industriale prossima allo zero, sugli investimenti e sull'occupazione. Vendendo il letto di casa e annichilendo i diritti del lavoro non si modificherà il rapporto debito/pil e non si favorirà in alcun modo la crescita: saremo solo immensamente più poveri e nuovamente esposti alla speculazione (contro la quale non si è voluto assumere alcun provvedimento), pronta a colpire al prossimo giro di giostra. La Grecia, a noi più vicina di quanto sino a ieri non si fosse disposti ad ammettere, è lì a ricordare che farsi succubi delle autorità monetarie e della finanza, immolarvi l'autonomia della politica e la sovranità nazionale significa correre dritti verso il disastro e bruciare non soltanto le basi dell'economia reale, ma l'intera impalcatura democratica del Paese.
Questo pericolo capitale non è stato avvertito per tempo, a causa di un perdurante limite culturale e strategico che coinvolge tanto il Pd quanto la Cgil, prigionieri di un sostanziale immobilismo ed ora candidati a subire una mazzata senza precedenti.
Cosa si può fare ora, considerato che "acqua passata non macina più" e che, in ogni caso, pagheremo l'inerzia sociale, la totale rinunzia a mobilitare, nei mesi scorsi, la parte del Paese che sta subendo, senza responsabilità alcuna, tutto il peso della crisi? Ebbene, si può costruire una piattaforma alternativa, i cui tratti abbiamo più volte formulato su queste pagine, per chiamare a discuterla, a precisarla, a condividerla e sostenerla con la lotta, quel popolo lavoratore e dei "beni comuni" che ha dimostrato in questi mesi straordinarie doti di vitalità e di intelligenza politica. E si può (si deve) proclamare lo sciopero generale. Non evocarlo soltanto, come una mera, chimerica eventualità, bensì attraverso un atto formale, da assumersi subito, prima che il Consiglio dei ministri apparecchi il tavolo con la sua incommestibile brodaglia. Un atto che rompa con il disperante traccheggiamento di questi mesi e restituisca una speranza a tutti e a tutte coloro che non hanno alcuna intenzione di piegarsi.


Liberazione 12/08/2011, pag 1 e 2

Il "diavolo" di don Verzè e la voglia di Taranto di privatizzare la salute dei cittadini

Francesco Voccoli*
Il sistema sanitario pugliese è in uno stato comatoso sotto tutti i punti di vista. Già il ministro Fitto, quando era presidente della Regione Puglia, provò a risanare i conti attraverso un piano di lacrime e sangue, prevedendo una mastodontica chiusura di ospedali pugliesi, ridimensionandone altri, introducendo odiosi ticket a carico dei cittadini della Puglia. Vendola vinse una prima e una seconda volta giocandosi la partita propria sulla difesa del sistema sanitario pubblico pugliese, giurando che mai e poi mai alcun ospedale sarebbe stato chiuso, anzi, ne prevedeva miglioramenti sia sul piano degli ammodernamenti delle attrezzature mediche, delle ristrutturazioni urbanistiche, della formazione professionale del personale sanitario, impegnandosi a colpire al cuore tutta la sanità privata che la faceva da padrona sulle convenzioni e sullo sperpero di danaro a danno della collettività. Di tutto ciò, purtroppo, resta un cumulo di macerie. Si chiudono ben 18 ospedali pubblici. Molti altri sono ridimensionati. Scarsissimi gli ammodernamenti dei macchinari, il personale medico e paramedico vive una cronica vita fatta di precarietà contrattuale, le ditte in appalto continuano imperterrite a fare il bello e cattivo tempo e rimangono una velenosa macchina mangiasoldi con tutti i risvolti di clientele e di ricatti contrattuali nei confronti dei lavoratori occupati. Le cliniche private rimangono tranquille a esercitare il proprio ruolo senza essere minimamente scalfite nel proprio ruolo di alternativa al pubblico conservando sostanzialmente convenzioni dorate con le Asl della regione,ingoiando fiumi di denaro pubblico offrendo, quasi ovunque,prestazioni scadenti. Si reintroducono gli odiati ticket per farmaci e prestazioni sanitarie. Certamente il tutto non è solo e soltanto una scelta della regione Puglia. Sappiamo bene quali ricatti e quali condizionamenti il governo Berlusconi opera nei confronti del Sud a proposito di tagli e di trasferimenti e, in particolare, ai sistemi sanitari favorendo il nord per tenere buono la lega di Bossi.
Ma la regione Puglia avrebbe fatto bene a operare tagli e chiusure colpendo al cuore un sistema perverso quale è la sanità privata e tutto il sottobosco di macchine mangiasoldi che comporta,valorizzando il pubblico,coinvolgendo una partecipazione dei pugliesi nelle scelte. Nulla di tutto questo. Lotte, manifestazioni locali, occupazioni di sedi comunali,proteste di numerosi sindaci non hanno fatto ricredere la giunta regionale sulle scelte di tagli e chiusure di ospedali. In questo sfascio sanitario, arriva il cazzotto nell'occhio. A fronte della chiusura degli ospedali pubblici, Vendola e la sua giunta decidono di fare a Taranto un ospedale con i soldi pubblici e affidando la gestione alla fondazione privata del San Raffaele,guidata da quel "diavolo" di don Verzè, coinvolto in tante avventure finanziarie di dubbia trasparenza e che nelle scorse settimane è stato coinvolto in un crac finanziario da un miliardo di euro a cui,probabilmente, seguiranno oscuri intrecci politica-affari e le prime avvisaglie si sono avute con il vice Verzè che si suicida, altri che si dimettono, altri che si trincerano dietro strani silenzi e con un Vaticano che è costretta a intervenire cercando di salvare la bancarotta della fondazione San Raffaele.
A Taranto la giunta regionale decide di fare un ospedale da 210 milioni di euro di cui 60 già versati e altri 60 non appena si sboccano i fondi Fas già stanziati dal governo e il resto attraverso un intervento delle banche tramite " leasing in costruendo" con una delibera che prevede la chiusura dei due ospedali pubblici della città e trasferendo tutti i posti letto esistenti nel nuovo ospedale a gestione privata e prevedendo anche una sua riduzione . Infatti secondo la delibera si passa da 670 a 550 posti letto. Il personale ospedaliero pubblico, previa riqualificazione professionale, dovrebbe essere assorbito dal San Raffaele e non c'è chiarezza circa il mantenimento del contratto di lavoro; sia la Cgil che l'ordine dei medici chiedono chiarimenti e incontri ma, a tutt'ora, non c'è mai stato un incontro chiarificatore. La nascita del nuovo ospedale a gestione privatistica viene pomposamente definito "polo di eccellenza" ma tutt'ora non si capisce bene quali saranno queste "eccellenze" visto che in un primo momento si parlava di centro encologico e ora si fa sapere che dovrebbe servire per interventi e cure di malattie complesse. Questo potrebbe significare che per tutto il resto,dal pronto soccorso, all'appendicite o altro intervento di lieve entità i tarantini dovrebbero recarsi in altri centri della provincia. Per fare questa operazione - che Gino Strada sinteticamente definisce "una schifezza"- si mette mano ad una variante urbanistica che il comune di Taranto accetta senza colpo ferire. In Pratica si concede alla Fintecna, proprietario di suoli agricoli ove dovrebbe sorgere il nuovo ospedale gestito dalla fondazione del San Raffaele di avere, con il sistema della perequazione, altri suoli di sua proprietà, agricoli, trasformati in edificabili, ove costruire alberghi di lusso, ipermercati, uffici, parcheggi. Il tutto nella zona prospiciente il nuovo ospedale per poter meglio sfruttare il grande flusso di parenti e cittadini che frequenterebbero il nuovo ospedale. La Fintecna è una proprietà del ministero del tesoro e si può, quindi, capire chi potrebbe stare dietro questa ambigua vicenda… Su questa storia della variante si consumò definitivamente la rottura con il Sindaco Stefano e Rifondazione Comunista che a quella operazione tentò disperatamente di opporsi. Già da tempo eravamo fortemente critici con il Sindaco e la sua maggioranza per via di altre varianti al piano regolatore e in particolare sulla maxi-variante Salinella ove si andava a costruire un nuovo quartiere dormitorio in estrema periferia cementificando due milioni e mezzi di kmq esistenti in una zona di estremo interesse faunistico e forestale. Anche qui suoli agricoli resi abitabili con tutto il giro speculativo che ne consegue.
Ma noi chiediamo a Vendola e alla sua maggioranza se vale la pena insistere su questa vicenda del nuovo ospedale a gestione privatistica dopo lo scandalo scoppiato sul "San Raffaele". Non solo non è credibile spendere una barca di soldi per un nuovo ospedale quando nella regione se ne chiudono 18 di cui due a Taranto, entrambi pubblici, e questo significherebbe consegnare la salute dei cittadini nelle mani di un privato che, come noto, pensa primo al profitto che ad altro, ma è delittuoso spendere soldi quando per una mammografia si aspettano due, tre anni con il risultato che chi ha la possibilità economica ricorre alla clinica privata soprattutto quando è in gioco la vita.
Chiediamo alla giunta regionale di fare un passo indietro, utilizzare quei soldi per non chiudere ospedali pubblici e migliorare le prestazioni agli utenti di cui tanto ce n'è di bisogno.
Un ospedale oncologico a Taranto è sì necessario, visto che siamo ai primi posti in Europa per tumori legati alla distruzione ambientale di cui si sono resi responsabili le grandi industrie inquinanti presenti sul suolo tarantino a partire dall'Ilva, Eni, Cementir, Arsenali militari ; tale obiettivo è stato presente sin dagli anni settanta quando il fenomeno cominciò a manifestarsi con tutta la sua drammaticità. Allora furono i delegati sindacali a chiederlo mettendo a disposizione il cosiddetto "salario sociale", una conquista della grande stagione di lotte di quel periodo che poi fu annullato con l'avvento della privatizzazione dell'Italsider. Chiediamo a Vendola di fermarsi e riaprire il confronto con le istituzioni locali, le associazioni, i sindacati, i lavoratori e i cittadini. Ricostruire un progetto di alternativa al sistema dominante si fa con i fatti e coinvolgendo gli attori interessati.
Per quanto ci riguarda, noi ci proviamo.
* Consigliere comunale di Taranto e del Cpn


Liberazione 10/08/2011, pag 8

"Questione morale" e politica comunista

Raul Mordenti
A trent'anni dall'articolo di Enrico Berlinguer sulla "questione morale", Il Fatto Quotidiano ha ripubblicato quel testo aprendo un meritorio dibattito sul tema (in verità anche Dino Greco aveva ripubblicato, tempo fa, su Liberazione il testo berlingueriano).
La questione è resa oggi attualissima non solo dalla natura del berlusconismo ma anche dai casi Penati e Vendola-don Verzé. Particolarmente significativa la dichiarazione di Piero Fassino, il quale ha ricordato le dure reazioni suscitate nel Pci dalla posizione di Berlinguer, accusata al tempo dalla destra migliorista di una deriva "anti-politica" e, soprattutto, di rendere impossibile l'alleanza con Bettino Craxi. Non solo Fassino dà oggi del tutto ragione a quelle critiche, ma si spinge più lontano, affermando senz'altro che «in politica non esiste il concetto di colpa».
Sarebbe troppo facile prendersela con questo Nietzsche in bagna cauda, e ricordargli i suoi errori-colpe (il suo sostegno della Tav è - ad esempio - sia un grave errore che una imperdonabile colpa); ma una tale posizione, francamente anti-berlingueriana e filo-craxiana post mortem, sembra preferibile rispetto a chi evoca con il ciglio umido di commozione quel Berlinguer, però riducendolo alla sola sfera "morale", intesa come sfera personale. E invece la "questione morale" - che per Berlinguer come per noi è tale da mettere in pericolo la stessa democrazia - non si può ridurre al problema di qualche "mariuolo" né ai difficili rapporti del gruppo craxiano (oggi, non per caso, berlusconiano) con il VII comandamento.
Oggi nel sentire comune delle masse (che Gramsci ci insegna a tenere sempre nel massimo conto) è l'intera politica ad essere coinvolta e travolta dal disprezzo; al punto che, perfino di fronte alla macelleria sociale dell'ultima Finanziaria, ciò che appare alle masse assolutamente intollerabile non sembrano tanto i soldi tolti da salari, pensioni, sanità e scuola per finire nelle tasche della grande borghesia, quanto i privilegi della "casta" protervamente confermati.
E allora occorre (come sempre quando si evoca la morale) parlare anzitutto di noi stessi. La domanda cruciale che dobbiamo porci è la seguente: siamo noi comunisti percepiti come assolutamente alternativi, o quantomeno decisamente estranei, rispetto alla "immoralità" della politica? La risposta temo debba essere negativa, perché la nostra diversità comunista è stata gravemente appannata, sia da alcuni comportamenti passati (non sufficientemente combattuti né tempestivamente corretti) sia dalle ricorrenti scissioni. Ma le scissioni e i personalismi (che spesso le causano) presentano una caratteristica assai strana: ammesso che siano un crimine (ma sono solo una colpa politica), sono un crimine la cui condanna ricade, nella percezione popolare, più sulla vittima (in questo caso il Prc) che non sui colpevoli. (...) Per contrastare questa percezione bizzarra (ma perniciosa) dovremmo proporre di noi un'altra narrazione (per usare una parola di moda): cioè dire di un Prc che a Chianciano ha saputo scegliere ostinatamente la sua fedeltà alla classe e alla lotta di classe, che ha saputo autocriticare e correggere in base a tale scelta gli errori di una sua fase "istituzionalista", che ha accettato di pagare per questo suo coraggio un prezzo altissimo in termini elettorali, di visibilità mediatica e di finanziamenti; di più: un Partito che non si è limitato a "resistere" ma ha saputo anche avviare un processo ricompositivo con la FdS.
Dovremmo essere tutti/e convintamente fieri di tutto questo. Lo siamo? E siamo capaci di trasmettere alla nostra gente tale convinta fierezza?
Impostare (con Berlinguer) la "questione morale" come problema delle motivazioni dell'attività politica, significa - in termini gramsciani - niente altro che porre il problema del nesso che lega nel Partito intellettuali e classe, "governanti" e "governati", "rappresentanti" e base. E' solo una tale connessione (per Gramsci anche "sentimentale") che conferisce dignità altissima all'attività politica, e - per dir così - la riscatta dal carattere triviale della sua "materia prima", che è il potere; in mancanza di un tale nesso, la politica si riduce infatti al perseguimento e all'esercizio del potere per il potere, ma dunque dei propri interessi personali.
Occorre riflettere allora su come vive oggi nel Prc tale nesso, e così ritrovare le vere motivazioni (fondamentalmente etiche) del nostro fare politica da comunisti/e; ma occorre anche, su questa base, ridefinire e rafforzare nei fatti nuove limpide regole di democrazia nel rapporto fra i dirigenti (specie se nelle istituzioni), il Partito e la sua base sociale, in modo che la diversità comunista possa tornare a proporsi in tutta la sua feconda dirompenza. Ecco un tema centrale per il Congresso che si prepara.


Liberazione 11/08/2011, pag 8