giovedì 25 agosto 2011

Libro: Napoli... Serenata calibro 9

Titolo Napoli... Serenata calibro 9. Storia e immagini della camorra tra cinema, sceneggiata e neomelodici
Autore Ravveduto Marcello
Prezzo
Sconto 8% € 14,26
(Prezzo di copertina € 15,50 Risparmio € 1,24)
Prezzi in altre valute

Dati 2007, 240 p., brossura
Editore Liguori (collana Storia contemporanea)

Il libro ricostruisce luoghi comuni, dichiarazioni ed eventi passati e recenti, dell'ambiguo mondo neomelodico. Una galleria di storie ed immagini che mostrano un fenomeno meridionale di divismo locale: la globalizzazione nella marginalità. Il mercato neomelodico tra cerimonie, feste di piazza, trasmissioni televisive, produzioni discografiche e relative contraffazioni, produce un giro d'affari milionario che richiama l'interesse dei clan. In alcuni casi i boss riescono addirittura a "plagiare" qualche cantante trasformandolo in "cantore epico" della camorra. Basta leggere i titoli di alcune canzoni: '"Nu latitante", "'O Killer", "II mio amico camorrista", "Il pentito". Dalla sceneggiata alle canzoni neomelodiche si dipana un filo rosso che unisce, separando, le biografie artistiche di tanti interpreti, neomelodici e non, della canzone napoletana tra cui spiccano Mario Merola, Nino D'Angelo, Gigi D'Alessio e Pino Daniele.


http://www.ibs.it/code/9788820736316/ravveduto-marcello/napoli-serenata-calibro.html

Camorra Music Corporation

4 agosto 2010
By Enrico Fierro

L’industria ‘culturale’ delle mafie fattura decine di milioni di euro: ecco chi sono e cosa pensano i cantanti e gli ideologi di questo business

Cantano, e i cd delle loro canzoni invadono le bancarelle di Ballarò, di Scampia e di Arghillà, i bronx metropolitani di Palermo, Napoli e Reggio Calabria. Ma hanno anche tv, comprano canali digitali, navigano in Internet, scaricano i video su YouTube che poi rimbalzano su iPod e iPad: Cosa Nostra, ‘Ndrangheta e Camorra hanno costruito una poderosa industria “culturale”.

Serve a fare soldi, ma anche a veicolare messaggi di “onore”, forza e potenza. Il boss Gregorio Bellocco è un mafio-cantautore, quando i carabinieri lo hanno arrestato nel suo bunker di Rosarno hanno scoperto i cd con incise le canzoni che aveva composto. Testi chiari, tutti contro gli sbirri “infami e pisciaturi”, perché responsabili della cattura di “un omu geniali”, e i pentiti che si vendono il sangue e l’onore. Una canzone, però, il boss non è riuscito a regalarla ai suoi fans, quella dedicata al suo nemico giurato, un magistrato, il dottor Roberto Di Palma. “Quel grandissimo cornuto”, lo appella il figlio di Bellocco parlando con un altro affiliato. “Circondatu” è il titolo di un’altra ballata che racconta la fuga del boss. “Nu cani infedeli”, invece, è la canzone per gli infami. “Come gli antichi dovrei fare che gli tagliarono la lingua a queste carogne”, recita il testo.

Perché un boss scrive canzoni? “Perché è un uomo del nostro tempo”, è la risposta di Francesca Viscone, scrittrice e autrice de La globalizzazione delle cattive idee, un libro che analizza il fenomeno della “mafia song”. “I boss non sono più dei montanari. Oggi conoscono il valore di Internet, della tv, dei social network, comunicano per trasmettere il loro sentimento di onnipotenza. I capi delle ‘ndrine si sentono ad un passo da Dio. Ma il fatto che sia un boss a scrivere queste canzoni è un passaggio in più, un fatto inedito. Sono musiche che non hanno alcun valore culturale”.

Una storia che parte da lontano

La ‘ndrangheta ha sempre veicolato messaggi attraverso le canzoni, soprattutto all’estero, in Germania, in Australia, negli Usa. Ciccio Scarpelli, in arte Fred, negli anni Settanta era un vero e proprio idolo, quando cantava ai matrimoni o alle “mangiate” i “compari” avevano le lacrime agli occhi. Morì come un “eroe” delle sue canzoni, ucciso una sera d’aprile del 1971. Aveva guardato con troppa insistenza la moglie di un boss. Sulla sua lapide c’è scritto “A Ciccio, stroncato da mano crudele”. Il suo posto è stato preso da altri “artisti”. Angelo Macrì canta “All’amici carcerati”, una hit che a Duisburg e dintorni spopola e che su YouTube totalizza 123 mila visualizzazioni. “La vita mia la passo tra queste mura perché la lingua mia non può parlare. Mantengo dignità e onore”.

Musiche banali, chitarre scordate, testi sbilenchi, incisioni artigianali, la musica della “mala pianta” calabrese è così. Perché è sotto il Vesuvio che la “mafia song” ha raggiunto livelli raffinatissimi. Buone orchestre per le basi musicali, registi, direttori di fotografia e attori per i video, case musicali e canali digitali che trasmettono h 24 le canzoni dei neomelodici. E non poteva essere diversamente perché “Napoli – come scrive l’antropologo Marino Niola – è la città che nasce dal canto e finisce nel grido. Dove il canto e il chianto hanno quasi lo stesso suono, e spesso lo stesso significato”. I testi sono espliciti, senza più mediazioni, puntano all’esaltazione del boss, del killer, alla bellezza della “Società”. È questo il titolo di una canzone cantata da Gino Ferrante. Il video clip (ottima fotografia in bianco e nero) ha 89 mila visitatori su YouTube. Testo: “’A famiglia organizzata, song tutte quante frate e nisciuno adda tradì”. Nel video c’è la scena di un bambino e di sua madre che svogliatamente lo invita ad andare a scuola. “Mammà – risponde il piccolo con la faccia da malandrino – a me a scola nun me dà niente”. Lo si rivede da grande, jeans firmato e calibro nove nelle mutande a cavalcioni su una moto.

Gianni Celeste è siciliano, ma canta in perfetto slang napoletano “Vite perdute”. Filmato su Internet stile “Gomorra” con irruzione della polizia (‘e guardie, a Napoli) e arresto di due camorristi. Uno, il fratello dell’arrestato, si pente e Celeste canta “Mamma mia, nunnè cchiù degno e te”, poi rivolto al fratello “infamone”: “Te si vennuto ‘ o sang (ti sei venduto il sangue) pe nu poco ‘e libertà, comme l’è pututu fa (come l’hai potuto fare)”. Chitarre elettriche a palla e via.

L’infame è un protagonista fisso di queste canzoni. Chi scrive ha visto Lisa Castaldi dal vivo (bellezza aggressiva e carnalmente partenopea) a un concerto in un quartiere popolare. Cantava “Femmena d’onore”. Testo chiarissimo: “’O pentito”, quello che ha tradito il marito e lo ha fatto arrestare, “è nu guappo e cartone. Prima accire e po’ chiede perdono”. Alla fine del concerto bambini e ragazzini, tantissimi, molti portati dai genitori, applaudivano e chiedevano autografi. Lisa è una star e ha raggiunto il clou con “Il mio amico camorrista”. Solito video, il camorrista è un bel giovane con occhiali neri sugli occhi. “Il mio amico camorrista è n’ommo chine ‘e qualità” (un uomo pieno di qualità) e “si n’amico va in disgrazia (se un amico finisce in galera) nun ce fa mancà mai niente (insomma, provvede alle sue necessità, come fa la camorra con i guaglioni finiti dietro le sbarre) ma chi sbaglia adda pavà (attenti, però, chi sbaglia, l’infame, deve pagare)”.

Ma è con Nello Liberti che le melodie dei boss toccano l’apice. La canzone si chiama “’O capoclan”, ha ovviamente un video che però è stato censurato da YouTube (ma lo trovate su dailymotion.virgilio.it, grazie al lettore Elephant, Ndr). È girato in bianco e nero, la scena fa vedere un boss che si riunisce con i suoi e consegna un “pizzino” ad un killer. C’è scritto il nome dell’uomo da eliminare. Liberti canta: “O capoclan è n’ommo serio che è cattivo nun è o vero”. Poi si vede il boss in galera che dalla cella invoca Dio. “Proteggi i miei figli, ma se proprio non puoi farlo nun te preoccupà che ce pens’io”. Pausa con il capoclan che a mo’ di sceneggiata si aggrappa alle sbarre e…” ce pens’io che song ‘o capoclan”.

I video spopolano su YouTube

Nello Liberti ha dedicato il suo video a “Tutti gli ospiti dello Stato con una presta libertà”. “L’italiano è claudicante, ma il messaggio è chiarissimo – dice il sociologo Marcello Ravveduto, autore di “Napoli serenata calibro 9” – il capoclan è come Dio”. Ma quanto vale il mercato della “camorra song”? Ravveduto: “Almeno 200 milioni di euro”. Chi sono i fruitori di queste canzoni? “I ragazzi delle periferie disgraziate di Napoli e dell’hinterland. Seduti su una moto, appoggiati a un muretto, oppure mentre fanno le sentinelle nei quartieri, con i cellulari divorano i video dei neomelodici e si imbevono di cultura camorrista. Nei quartieri dell’emarginazione puoi trovare ragazzi che stentano a parlare italiano che però sanno scaricare i video su YouTube, navigano in Internet e sono presenti su Facebook”.

Chi ci salverà? Lo Stato e la cultura ufficiale certamente no. I napoletani onesti si affidano all’ironia. Al video del “Capoclan” è arrivata una risposta singolare su YouTube. Alle immagini del boss che aggrappato alle sbarre si rivolge al Padreterno, qualcuno ha fatto seguire la famosa scena de L’oro di Napoli, quella di Eduardo De Filippo che prova “la pernacchia”. Fragorosa, potente, dissacrante. Un messaggio alla camorra e ai suoi cantori da quattro soldi. “Tu si a schifezza, da schifezza e l’uommene”. Lo diceva Eduardo. E non c’è bisogno di traduzione.

da il Fatto Quotidiano del 3 agosto 2010

http://www.malitalia.it/2010/08/camorra-music-corporation/

martedì 23 agosto 2011

Repubblica: Inchiesta Equitalia

Repubblica: Inchiesta Equitalia

http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2011/08/19/news/le_inique_cartelle-20632507/?ref=HREC1-1

sabato 20 agosto 2011

Isola delle Rose

http://it.wikipedia.org/wiki/Isola_delle_Rose_(micronazione)

domenica 7 agosto 2011

Film: Inside Jobs

http://www.imdb.com/title/tt1645089/

http://www.sonyclassics.com/insidejob/

venerdì 5 agosto 2011

Diritti sospesi e obiezione di coscienza, mix disumano

Lasciatecientrare La denuncia della coordinatrice nazionale del Movimento Primo Marzo

Cécile Kyenge Kashetu
A distanza di 24 ore dalla mia prima visita all'interno del Cie di Modena , nell'ambito della mobilitazione nazionale "LasciateCIEntrare", continua a tormentarmi la domanda: a che cosa servono i Cie (centri di identificazione ed espulsione)? Formalmente i Cie (Centri di identificazione ed espulsione), un tempo Cpt (Centri di permanenza temporanea) esistono per coloro che risultano privi dei requisiti per chiedere asilo, protezione umanitaria o sussidiaria, accesso ai meccanismi di regolarizzazione. A circa 13 anni dalla loro istituzione, è d'obbligo fare un bilancio generale e rivedere il significato di queste strutture, altamente costose, disumane e soprattutto luoghi di desolazione che attestano la sconfitta dell'essere umano. Istituiti con la legge 40/1998 (Turco Napolitano) in origine si prevedeva un periodo massimo di trattenimento in dette strutture di 15 giorni rinnovabili una sola volta, periodo al termine del quale, la persona trattenuta o veniva rimpatriata coattivamente, o inserita nei meccanismi di regolarizzazione, o, più spesso, rilasciata con l'intimazione a lasciare in pochi giorni il territorio nazionale. Con le modifiche introdotte al T.U. nel 2002 (legge Bossi Fini) i termini di trattenimento venivano raddoppiati, nell'aprile 2009, mediante il "pacchetto sicurezza" portati a 6 mesi. E' in via di conversione definitiva in legge il decreto che prolungherà i tempi anche fino a 18 mesi, in assenza di collaborazione dei paesi di provenienza dei trattenuti. Nei Cie c'è limitazione della libertà personale. Una condizione di detenzione amministrativa - si è trattenuti senza aver commesso reato penale - in contesti coercitivi in cui l'intervento è garantito da enti gestori privati e la sorveglianza attuata attraverso le forze dell'ordine. La mia personale adesione alla mobilitazione "LasciateCIEntrare", serve non solo per accendere i riflettori su quanto succede in questi centri, ma anche per mettere in discussione la loro esistenza. L'esperienza maturata in questi anni sull'esistenza dei Cie, in Europa ed anche sul nostro territorio, ha potuto mettere in evidenza i pericoli di cosa succede quando viene alterato lo stato dei diritti. Lo dimostrano appunto queste strutture che limitano la libertà delle persone in spazi angusti e disumani con scarsità di igiene e le continue violenze, fisiche ( in alcuni casi) e psicologiche, subite dai migranti e che sono all'ordine del giorno in nome della sicurezza del territorio. Parlare di Cie vuol dire affrontare le politiche migratorie in un contesto ampio di politica internazionale, sia europeo che mondiale. Un attenta analisi locale e globale sul campo dei diritti deve aiutarci a togliere il velo sulle cause dello spostamento di massa delle persone. E' risaputo ormai che interessi economici enormi ed un sistema capitalistico oggi in via di declino, mettono a dura prova la sopravvivenza di milioni di persone in tutto il mondo. Una politica diversa deve proporre la redistribuzione delle ricchezze, la libertà di circolazione ed un nuovo concetto di territorialità. Proteggere esorbitanti interessi economici, a volte anche da parte di persone che si proclamano difensori dei diritti umani, è diventato ormai una routine quando si tratta di migranti. Contraddizioni che si rilevano anche nella gestione di Cie da parte di enti e cooperative, che volendo possono avvalersi del diritto di "sana obiezione di coscienza". Due pesi e due misure per affrontare un tema così importante come l'immigrazione, che costituisce, come dato di fatto, la base della nostra società ed un fenomeno culturale al quale non ci possiamo sottrarre. La storia dell'umanità è basata su fenomeni migratori da ormai molti secoli e non può essere fermata erigendo barriere e muri invalicabili. Il diritto di libera circolazione e di istituire la propria residenza sul nostro pianeta dovrebbe portare un attenzione maggiore delle politiche verso il concetto di mobilità. Le ultime battaglie in campo dell'immigrazione ( Lo sciopero dei migranti 1 marzo, la carta mondiale dei migranti, L'Italia son anch'Io, No carcere agli innocenti, LasciateCIEntrare....) ci dimostrano come solo con un ampia alleanza, migranti ed autoctoni possiamo costruire una società libera, plurale, responsabile e solidale.


Liberazione 27/07/2011, pag 5

«Non credibile la tesi default. E' la Casa Bianca che ha fallito»

Opinioni di economisti ed esperti: Gallino, Romano, D'Eramo, Bosco

Fabio Sebastiani
«Se ci sarà un default non sarà degli Usa ma di Obama». E' da un po' che il sociologo Luciano Gallino punta gli occhi sulla finanza internazionale e sui debiti dei singoli stati ("Finanzcapitalismo", Einaudi). E non è disposto, come altri suoi colleghi economisti del resto, a farsi troppo impressionare dal catastrofismo in stile Armageddon così tanto in voga in questi giorni. E questo per un motivo basilare: «La Fed può creare tutto il denaro che vuole», dice. La sua osservazione sul presidente Usa parte dal fatto che se si trova oggi in queste condizioni lo deve proprio «alle mancate riforme del mondo finanziario, a cominciare da Wall Street». Annunciate tante volte come arma di difesa tattica, ora si trovano al "soft killing", ovvero alla "morte dolce". Ovvio, quindi, che chi le ha temute prepari una controffensiva piuttosto dura. E' il tema storico dei legami che tutti i presidenti americani "devono" avere con l'odiato/amato mondo finanziario, una parte del quale, questo Gallino lo afferma con forza, si sta trasformando pericolosamente in «finanza ombra». «Una entità che è più grande di tutti gli attivi finanziari delle banche americane», afferma.
Anche Marco D'Eramo, giornalista (il manifesto), e studioso della società americana, non crede alla tesi del "grado zero" e ricorda che una situazione del genere, tra tante, si verificò già con la presidenza Clinton nella seconda metà degli anni '90. «I repubblicani insistettero a tal punto che il presidente degli Stati Uniti chiuse lo Stato. Questo lì è possibile», dice D'Eramo. «Nessuno oggi crede alla tesi del default. Nemmeno i repubblicani - aggiunge - anche perché alla torta sono certamente interessati, con tutta la filiera dell'industria delle armi». La politica, insomma, quella con la "P" maiuscola sembra aver fatto calcoli precisi, se non proprio al millimetro, almeno da escludere colpi di scena. E' un po la stessa tesi di Bruno Bosco, economista dell'università Milano-Bicocca, per il quale «a questo punto è importante che per quanto grande sia l'ammontare del debito risulti determinato nella valutazione dei mercati». Detto in altre parole, l'unico elemento reale per il quale il mercato potrebbe impazzire è l'incertezza. «Il vero problema - aggiunge Bosco - è la mancata crescita degli Stati Uniti, soprattutto per quel che riguarda i rapporti con l'Europa». Un momentaneo apprezzamento dell'euro sul dollaro, quindi, non sarebbe altro che un fuoco di paglia, per certi versi anche dannoso per il Vecchio continente.
L'economia americana che non fa più da locomotiva per il mondo è un problema più serio che non l'improbabile default Usa, osserva Bosco.
Roberto Romano inquadra la vicenda Usa nel contesto degli attacchi della finanza internazionale. «E' chiaro che i movimenti dei capitali speculativi - sottolinea Romano, economista della Cgil Lombardia - vanno laddove ci sono stati deboli chiedendo garanzie che quelli non sono in grado di dare». «E' per questo che serve un soggetto in grado di garantire per tutti, e questo soggetto potrebbe nascere da una sorta di accordo mondiale».
Dietro lo scontro tra Obama e i repubblicani, Romano legge anche un'altra vicenda: il cambiamento dell'asse economico dal petrolio alla Green economy. «Obama ha puntato molto sulla economica ecosostenibile - dice -. E questa scelta sta mettendo in discussione la rete di potere e gli interessi consolidati basati sull'oro nero». Un braccio di ferro che potrebbe arrivare addirittura all'assunzione dei pieni poteri da parte di Obama per avere il via libera all'innalzamento del tetto del debito americano.
Sebbene i collaboratori di Obama insistano sul fatto che una misura del genere sarebbe coerente con i diritti che la Costituzione riserva al presidente, alcuni commentatori (www.firstonline.info) hanno evidenziato come l'emendamento non autorizza esplicitamente alcuna azione da parte sua. E poi c'è il problema della reazione dei mercati. «Nella situazione in cui l'obiettivo dell'azione unilaterale fosse quello di prevenire il panico nei mercati finanziari, rimarrebbe in forte dubbio il successo di tale operazione», sottolinea Alberto Grillo. «Se il paese emettesse bond con una misura che ha pesanti dubbi di costituzionalità, ci potrebbero comunque essere gravi dubbi sulla quantità di titoli del debito pubblico americano che gli investitori sarebbero disposti ad acquistare», conclude.


Liberazione 27/07/2011, pag 3

I "mercati" fanno il loro mestiere. L'Europa no

Bruno Steri
«La liberalizzazione finanziaria (…) rappresenta un'arma molto potente contro la democrazia. Il libero movimento dei capitali crea quello che qualcuno ha chiamato un parlamento virtuale di investitori e prestatori che analizzano i programmi dei governi e votano contro se li considerano irrazionali, cioè se fanno gli interessi degli elettori invece che quelli di una forte concentrazione di potere privato». Così si esprimeva tre anni or sono Noam Chomsky: le sue considerazioni potrebbero oggi calzare a pennello per descrivere un contesto che continua ad essere dominato dai "mercati", quotidianamente presentati come un'incombente entità metafisica capace di decidere della sorte di stati e monete.
Tuttavia la metafisica non c'entra nulla; né, beninteso, si tratta di un ideale pulviscolo di acquirenti e venditori che agiscono del tutto liberamente e casualmente. Non è così. Lo ha ben esemplificato in una recente intervista un addetto ai lavori che opera a livello internazionale nel settore finanziario: nell'industria della finanza - sostiene Paolo Basilico - figurano «nuovi oligarchi: sono le sei principali banche americane, le quali hanno un livello di concentrazione di ricchezze e di potere che non ha eguali nella storia del mondo (…). I sei gruppi bancari sono tanto grandi che quando si muovono fanno muovere i mercati». Dunque i cosiddetti mercati hanno un corpo e un'anima; e sono orientati da consistenti concentrazioni di potere. All'azione di giganti come Goldman Sachs, Citigroup e consimili, dobbiamo aggiungere quella dei nuovi corsari della finanza globale: sono di questi giorni le lamentazioni circa il rilevante ruolo giocato da una decina di hedge fund nella corsa al ribasso sul debito sovrano greco. Centri studi specializzati nel monitoraggio dell'attività di questi nuovi incursori finanziari hanno calcolato per essi 80 miliardi di dollari di profitti nei soli primi quattro mesi del 2011.
Tuttavia non sono solo le grandi investment banks statunitensi o i nuovi predatori d'Oltreoceano a determinare "gli eccessi" della speculazione: quanto a gigantismo e a passione per il rischio, anche in Europa non si scherza. Una recente indagine sulle banche europee condotta da Mediobanca (Ricerca & Sviluppo) segnala che, mediamente, gli attivi delle prime due banche di ciascun Paese valgono più del Pil nazionale: al top troviamo l'attivo di Ubs e Crédit Suisse, che è 4,7 volte il Pil svizzero (e giù, fino alle più modeste Unicredit e Intesa, i cui attivi equivalgono appena al Pil italiano).
Né ci si risparmia quanto a gioco d'azzardo: la ricerca calcola che nel bilancio dei primi due giganti bancari tedeschi è custodito un volume di prodotti derivati pari al 31,5% del Pil tedesco (per la Deutsche Bank, il 34,5% del totale attivo).
La crisi non ha mai fermato la roulette finanziaria (né mai qualcuno si è seriamente impegnato per fermarla). Ora che è a rischio la tenuta dell'euro e l'integrità dell'Unione come tale, tutti i nodi speculativi sono venuti al pettine. Emblematico il caso dei credit default swaps (i cds, titoli assicurativi emessi contro il fallimento del debitore e trattati al di fuori del mercato ufficiale): un fantasma contemporaneo che si aggira per l'Europa, assai pericoloso se il debitore in questione è uno Stato. Chi li ha acquistati (da quel che si legge, soprattutto hedge fund e banche d'investimento) scommette sul fallimento del debitore; chi li ha emessi (a quanto pare, soprattutto banche europee, in particolare tedesche) trema all'idea che un default li renda esigibili. Se le agenzie di rating - giudici a tutt'oggi ritenuti insindacabili - dovessero mantenere la già proclamata intenzione di considerare una ristrutturazione del debito greco come un vero e proprio default, scatterebbe l'esigibilità dei cds: è questo uno dei temuti talloni d'Achille dell'accordo raggiunto a Bruxelles il 21 luglio scorso, teso a salvare la Grecia e a scongiurare un effetto-domino nella crisi dei debiti sovrani.
I nostri guai sono dunque soltanto una questione di speculazione? No, sono anche una questione di speculazione, la quale è consustanziale al sistema capitalistico. «L'avidità è il pungolo dell'operosità», diceva David Hume, filosofo scozzese del '700 che conosceva bene gli umori, gli spiriti animali del capitalismo nascente. La speculazione, lungi dall'essere una malattia da estirpare in un corpo sano, è il brodo di coltura entro cui prospera la ricerca del massimo profitto. Sarà forse per questo che, nel suddetto accordo, non c'è traccia di misure strutturali contro le dinamiche speculative (ad esempio: divieto di vendita di titoli allo scoperto, vincoli al mercato dei derivati e in particolare stop per quello dei cds, sospensione della valutazione delle agenzie di rating nei confronti dei debiti sovrani di Paesi oggetto di piani di sostegno, controllo dei movimenti di capitale e tassazione delle transazioni finanziarie, e via di questo passo). I "mercati" fanno il loro mestiere, si tratterebbe solo di adottare misure difensive che pongano un argine agli "eccessi". Il pacchetto di misure prevede in effetti l'allungamento della durata dei prestiti e un'attenuazione del tasso di interesse richiesto per l'erogazione dei medesimi; un incremento delle risorse finanziarie in dotazione del Fondo salva-stati (l'Efsf), le cui prerogative vengono ampliate includendo la possibilità di acquistare sul mercato secondario titoli pubblici dei Paesi in difficoltà; la partecipazione "volontaria" del settore privato al secondo salvataggio della Grecia.
Si potrebbe dire: un piccolo passo nella direzione giusta. Disgraziatamente, la consistenza fa in questo caso sostanza e, come ha sentenziato ad esempio l'economista Jacques Attali, in realtà si tratta di misure dettate dall'emergenza e del tutto inadeguate dal punto di vista di una revisione strutturale e duratura che dia respiro e prospettiva ad una politica europea degna di questo nome (foss'anche in un quadro di vigenza delle leggi della società di mercato).
I problemi finanziari del Vecchio continente hanno radici profonde nell'economia reale. Per questo, fa differenza che ci sia o meno un centro decisionale coordinato (autorità politica, economica e monetaria), capace di promuovere una politica fiscale comune, di adunare e gestire risorse in vista di uno sviluppo territorialmente equilibrato, socialmente progressivo, innovativo sul piano della tutela dell'ambiente. Ma soprattutto la partita si gioca nella risposta alla domanda "Chi paga?". Quali che siano le misure adottate e il peso delle risorse da mettere in campo, a quali tasche gli stati nazionali dovranno attingere? Invariabilmente, la risposta è: austerity e lacrime e sangue per i soliti noti. Il giornale della nostra Confindustria ospita quotidianamente contributi che illustrano quale seguito si debba dare alla già pesante manovra varata dal nostro governo: riduzione della pressione fiscale sul lavoro (leggi: sulle imprese), innalzamento a 70 anni dell'età pensionabile, privatizzazioni e liberalizzazioni.
Su tutti, ci ha colpito il titolo di un articolo a firma di Lamberto Dini (già capo di un governo di centro-sinistra, oggi senatore Pdl): «Tagliare la spesa e privatizzare, patrimoniale mai». Il programma di Confindustria è dunque molto chiaro. Il Pd, quando si tratta di discriminanti di classe, va in confusione. Noi - la sinistra, i comunisti - sappiamo di dover imboccare la strada opposta: la partita vera è questa.


Liberazione 27/07/2011, pag 1 e 2

Carlo Cafiero, il primo divulgatore di Marx in Italia

Quanti libri che hanno condizionato la storia umana, avrebbero sortito lo stesso effetto se non ci fossero stati altri libri che ne riassumessero il contenuto a beneficio di un pubblico vasto di lettori, anche di quelli meno provvisti di strumenti culturali? Chissà. Ci si potrebbe chiedere, ad esempio, se il Capitale avrebbe potuto influenzare il movimento operaio italiano e diventare linguaggio corrente nella coscienza collettiva dei lavoratori, a prescindere dai primi tentativi di divulgare un pensiero così complesso - e talvolta ostico - come quello di Marx. Non c'è dubbio che le vicende politiche del marxismo italiano siano debitrici dell'opera di Carlo Cafiero, "anarchico comunista" e primo divulgatore in assoluto che fece conoscere Marx all'interno dei nostri confini. Giusto omaggio è quello che tributa a questa figura una piccola casa editrice, Ortica, che ha ripubblicato il Compendio al Capitale di Marx scritto da Cafiero nel 1879 (pp. 64, euro 2,80). Un'opera a suo modo miracolosa, in grado di riassumere il contenuto del Primo libro marxiano in poche decine di pagine. «Un profondo sentimento di tristezza mi ha colto - scriveva Cafiero - studiando il Capitale, quando ho pensato che questo libro era, e chi sa quanto rimarrebbe ancora, affatto sconosciuto in Italia». Non ai colti si rivolge Cafiero, ma ai «lavoratori dotati di intelligenza», ai «giovani che sono usciti dalla borghesia e hanno sposata la causa del lavoro, ma che non hanno un corredo di studi sufficiente» e a «quella prima gioventù delle scuole, dal cuore ancora vergine».


Liberazione 24/07/2011, pag 15

Schierati sempre, a torto o a ragione

Nell’ultimo libro di Angelo d’Orsi, “L’Italia delle idee”, 150 anni di storia degli intellettuali italiani

Guido Liguori
Da Cavour e Mazzini a Gianfranco Miglio e Norberto Bobbio, passando per Labriola e Mosca, Oriani e Papini, Croce e Gramsci, Gentile e Bottai, Gobetti e De Luca, Della Volpe, Togliatti, Capitini e tanti altri. Centocinquant'anni di pensiero politico italiano raccontati in oltre 400 pagine da Angelo d'Orsi, con la competenza e la verve che conosciamo, nella sua ultima fatica, L'Italia delle idee. Il pensiero politico in un secolo e mezzo di storia (Bruno Mondadori, 2011, pp. 432, euro 23). Vincitori e vinti, buoni e cattivi son tutti presentati in modo da ricordarci come gli intellettuali davvero non costituiscano un piano separato e sedicente nobile dell'edificio sociale, ma - volenti o nolenti - siano impegnati a pieno titolo nella battaglia politica, poco importa se direttamente o sub specie "battaglia delle idee". Ciò che il libro riesce a essere, infatti, non è una sorta di manuale scolastico in cui il pensiero degli autori è presentato asetticamente, in modo avulso dal contesto storico, evidenziandone unicamente i nessi col pensiero che precede o con quello che segue. Al contrario, il tentativo è quello di parlare dell'oggetto specifico della ricerca (il pensiero politico, i pensatori politici) correlandolo fortemente alla storia, alle vicende politiche, alle lotte - rispetto a cui gli intellettuali non possono che, in un modo o nell'altro, schierarsi, prendere parte e parteggiare. I primi capitoli del libro sono dedicati all'800, ai protagonisti del Risorgimento e dei primi anni dell'Unità nazionale. La sinistra risorgimentale e il positivismo, De Sanctis, Lombroso, Oriani: autori molto diversi, che concorrono tutti, ciascuno a modo suo, a costruire un'idea di nazione che le «dure repliche della storia» si incaricarono ben presto di falsificare. I processi economici e sociali di una unità nata male conducono infatti gli intellettuali, negli ultimi decenni dell'800 e nel primo del '900, a schierarsi contro lo stato di cose esistente. E dunque in gran parte anche, cosa che non sarà senza conseguenze, contro la democrazia, per come si era affermata negli ultimi decenni dell'800. Certo, l'imporsi della società di massa portava molti a una reazione naturalmente aristocratica. Era il riflesso dei vecchi ceti privilegiati che non volevano cedere potere e ricchezza e che contrapponevano alla "quantità" delle masse la "qualità" delle élites. In Italia questa dislocazione antidemocratica degli intellettuali fu però facilitata da una democrazia parlamentare ancora ristretta, e per di più fondata sulla corruzione e sulle camarille, senza veri grandi partiti nazionali in grado di canalizzare interessi e ideali per trasporli su un piano non grettamente economico-corporativo. Il mito liberale del parlamentarismo senza partiti (quello ancora oggi caro ai radicali, per intenderci, che sproloquiano continuamente di "partitocrazia") nella realtà fu soltanto, e non può che essere, lotta e mediazione tra gruppi affaristici e di potere. Il periodo controverso del giolittismo almeno in parte spiega la collocazione antidemocratica degli elitisti e dei liberali italiani di ogni risma (Croce, Gentile, La Voce, poi Gobetti), dei sindacalisti rivoluzionari seguaci di Sorel, e anche dei socialisti anti-riformisti, da Bordiga a Gramsci. Bisognerà passare per il bagno tragico del fascismo per capire il valore della democrazia, occorrerà l'affermazione dei grandi partiti di massa per dar vita a una dialettica democratica - quella della cosiddetta "prima repubblica" - che oggi non si può che rimpiangere, a fronte dello spettacolo dell'odierna democrazia populistico-leaderistica. D'Orsi non si sofferma solo sui "suoi" autori, quelli da sempre al centro delle sue ricerche, in primo luogo al Gramsci fondatore dell'Ordine Nuovo e autore dei Quaderni. Il libro dedica molte pagine, e di grande interesse, al fronte conservatore e reazionario, a Mosca e a Pareto prima, a ciò che ribolle nel calderone culturale del fascismo poi. Rocco e Bottai, Gentile e Ugo Spirito, il corporativismo: i giudizi dell'autore sono taglienti e spesso tendono a ridimensionare il credito che alcune di queste correnti culturali (specie quella corporativista degli allievi di Gentile e poi di Spirito) hanno di frequente goduto anche a sinistra. Come di grande interesse sono le pagine riservate alla deriva razzistica del Regime, con il gruppo raccolto intorno alla rivista La difesa della razza. Le riviste - più in generale - appaiono tra le principali protagoniste della vita culturale nazionale. Le "riviste fiorentine" in primis, in particolare La Voce di Papini e Prezzolini (soprattutto di Prezzolini), che servì anche da modello per i tentativi con i quali, per approssimazione, Antonio Gramsci andò forgiando gli strumenti della contro-egemonia, in grado di esercitare quel «lavoro educativo-formativo che un centro omogeneo di cultura» per il comunista sardo si doveva effettuare al fine di costruire un nuovo senso comune di massa. L'attenzione per le "forme" della cultura - nonostante le influenze dell'idealismo - sarà anche fondamentale nell'Italia repubblicana, tanto più per la sinistra e per la sua elaborazione teorico- politica, che può essere proficuamente letta per alcuni decenni - come in buona parte anche D'Orsi fa - come dialettica tra riviste: Rinascita e Il politecnico, Società e Studi filosofici, Il contemporaneo e Ragionamenti. Proprio il gruppo di intellettuali socialisti eretici raccolti intorno a quest'ultima rivista produsse, a metà anni ‘50, una proposta complessiva di riorganizzazione della cultura senza e oltre i partiti. Ritornava il vecchio mito del "protagonismo degli intellettuali", che veniva proprio dalla Voce di Prezzolini e che costituisce una tendenza periodicamente riemergente nella nostra storia nazionale (dall'azionismo fino a MicroMega, vien da dire). Rispetto a questa corrente di fatto liberale (al di là della collocazione politica contingente), la strada maestra dei comunisti è sempre stata e resta quella indicata dall'Ordine Nuovo e da Gramsci: la centralità del partito come vero strumento per fare cultura - se il fine della cultura vuole essere quello non di cancellare la "separatezza" degli "intellettuali" di professione e tendenzialmente la distinzione stessa tra dirigenti e diretti. Il che vuol dire espandere e inverare la democrazia. Anche per questo una storia delle idee politiche fatta come quella che il libro di D'Orsi propone può essere molto utile.


Liberazione 24/07/2011, pag 14

Ma come abbiamo fatto a privatizzare la Madre?

"La visione dell'acqua", in un libro un viaggio dalla cosmogonia andina all'Italia dei beni comuni

Vittorio Bonanni
Nei decenni scorsi nessuno avrebbe minimamente immaginato che l'acqua sarebbe diventata una risorsa rara, preziosa, tanto preziosa da diventare una merce ambita da multinazionali senza scrupoli che con l'avallo di stati asserviti ai loro interessi hanno lucrato su un bene indispensabile per la vita di ogni essere vivente. L'inquinamento da un lato e uno sviluppo forsennato e ineguale dall'altro hanno fatto da cornice a quello che può essere definito un mutamento epocale che, come è noto, non poteva non coinvolgere i paesi occidentali, e dunque anche l'Italia. Poco tempo prima dell'appuntamento referendario dello scorso mese, che ha visto fortunatamente gli italiani dire no alla privatizzazione dell'acqua, la piccola casa editrice Nova Delphi pubblicava un testo importante sull'argomento, che partiva proprio dall'esperienza dell'America latina, continente particolarmente colpito dalla privatizzazione del prezioso liquido. Si tratta di La visione dell'acqua (pp. 225, euro 16,00), a cura dell'associazione Yaku, un organismo italiano impegnato nel sostegno delle comunità indigene latinoamericane ed ideatrice insieme ad altre realtà del progetto Escuela Andina de Aqua, un percorso collettivo per la difesa del bene comune. E' il grande scrittore Eduardo Galeano a curare l'intruduzione nella quale riassume brevemente la rivolta dell'acqua scoppiata in Sudamerica: «Nell'anno 2000, la privatizzazione dell'acqua in Bolivia arrivò a offrire uno spettacolo degno del Guinnes dei primati. Nella regione boliviana di Cochabamba l'acqua fu privatizzata, compresa l'acqua della pioggia. Ci fu allora un'insurrezione popolare, e la sommossa cacciò dal paese l'impresa californiana che aveva avuto l'acqua in regalo, con pioggia e tutto, e aveva portato le tariffe alle stelle». Quattro anni dopo, nel 2004 appunto, fu l'Uruguay ad affrontare lo stesso problema: «....si tenne un referendum sull'acqua: affare di pochi o diritto di tutti?» era la sostanza dell'interrogativo. «Noi cittadini che appoggiammo il referendum fummo, al principio, molto pochi, voci di scarsa eco. L'opinione pubblica uruguayana subì un bombardamento di ricatti, minacce e menzogne. I grandi mezzi di comunicazione dicevano e ripetevano che votando contro la privatizzazione dell'acqua, ci saremmo ritrovati in castigo e solitudine, e ci saremmo condannati a un futuro di pozzi neri e pozzanghere maleodoranti. Alla fine vincemmo, contro venti e maree, con più del settanta per cento dei voti. E così riuscimmo a far annullare le privatizzazioni dell'acqua che erano state elargite, e fu scritto nella Costituzione il principio che dice: "L'acqua è una risorsa naturale essenziale per la vita. L'accesso all'acqua potabile e l'accesso ai servizi a essa collegati costituiscono diritti umani fondamentali"». La stessa cosa avvenne poi nel 2009 in Bolivia quando nella nuova Costituzione approvata, considerata una vera e propria avanguardia nella difesa dei diritti sociali ed ambientali, l'acqua viene riconosciuta un diritto fondamentale e inalienabile. Un evento del genere da noi in Italia, o nel mondo occidentale nel suo complesso, sarebbe per il momento impensabile. Una Costituzione a difesa dei beni comuni? Chissà quando, forse fra qualche decennio. Ma in America Latina no. Lo spiegano bene le due parti che compongono il libro, la prima dedicata appunto alla Bolivia, con saggi di Huascar Rodríguez García, Cristina Coletto, Luis Carlos Aguilar, Sergio Quispe, Rocío Bustamante e Vladimir Cossio; e la seconda invece alla Colombia, con scritti di Daris Maria Cristancho. Tatiana Roa Avendaño e Danilo Urrea. Conclude una piccola parte dedicata all'Italia con contributi di Alex Zanotelli, Francesca Caprini, Enzo Vitalesta e Alberto Lucarelli.
"La visione andina dell'acqua tra passato e presente", così si chiama il primo capitolo del volume, quello scritto da García e Coletto, «è la cultura ancestrale dei popoli che vivono nella cordigliera andina, è il profondo legame che lega l'uomo alla natura». Sappiamo come il sapere andino sia una componente ancora forte della cultura continentale, che ha resistito agli eventi più terribili, dalla Conquista alle dittature, praticamente impossibile da estirpare. E con esso ha resistito anche «una "cultura dell'acqua" che non può essere pensata al di fuori della cosmogonia andina». «Gli abitanti delle Ande - ricordano i due studiosi, il primo ricercatore in Storia andina e la seconda ingegnere ambientale e socia fondatrice di Yaku - considerano l'acqua come un essere vivo che a sua volta genera vita, e la Natura come un "tutto" di cui uomini e divinità fanno parte». Insomma «il sangue o il seme che permette all'Universo intero di vivere». E' del tutto evidente che con queste premesse così forti la privatizzazione dell'"oro bianco", come viene ora definito il prezioso liquido, non può che essere percepita in quei luoghi come una bestemmia, come un atto di violenza contro la Natura, appunto con la N maiuscola, e contro quelle popolazioni che cercano di vivere in armonia con essa.
Nella seconda parte dedicata alla Colombia, Danilo Urrea, filosofo e militante dell'organizzazione ecologista colombiana Censat, racconta che cosa è successo a Bogotà e dintorni, dalle «privatizzazioni ai megaprogetti». E' utile ricordare a questo proposito che nel paese andino-caraibico ben 25 milioni di persone non hanno accesso all'acqua, la cui privatizzazione, già avviata nel 1994, non è stata cancellata malgrado la grande mobilitazione che dal 2007 al 2009 ha portato alla raccolta di oltre due milioni di firme finalizzate alla realizzazione di un referendum che definisse appunto l'acqua come un bene comune. Due anni fa il parlamento, controllato dall'allora presidente Alvaro Uribe, ha archiviato la proposta ma gli attori della mobilitazione - comunità indigene, contadini, ambientalisti, forze sindacali ed altri soggetti ancora - continuano la battaglia, forti di quello che sta succedendo nel resto del continente. Nel libro Urrea spiega i meccanismi che hanno portato alla mercificazione e alla privatizzazione dell'acqua. «La prima forma, quella per "contaminazione", in Colombia, è collegata direttamente allo sfruttamento delle miniere e dei giacimenti di petrolio, alle monoculture di pino, eucalipto e dei cosiddetti agrocombustibili, e più in generale, alle attività estrattive». Questo tipo di imprese economiche porta inevitabilmente alla privatizzazione e all'inquinamento dell'acqua. Si chiama, questo meccanismo, "privatizzazione per appropriazione", ed è «tipica - spiega il filosofo - nella realizzazione dei grandi progetti infrastrutturali, come nel caso dei fiumi "strangolati"dalla costruzione di dighe per produrre energia». Diventa a quel punto fatale la limitazione, se non addirittura l'impossibilità, di accedere a fonti idriche gestite da imprese o da singoli individui. La famigerata legge 142, quella che ha dato il via alla privatizzazione dell'acqua nel 1994, ha consentito anche l'avvio dell'imbottigliamento, attività denunciata da tempo dagli indigeni Yanakonas nella regione del Massiccio Colombiano. Urrea analizza anche il fenomeno del desplazamiento che in Colombia vuole indicare un fenomeno preciso: quello dei desplazados, cioè di coloro che, a causa del conflitto interno tra esercito e governo da un lato e guerriglia dall'altro, senza contare i narcos, sono costretti ad abbandonare le loro case. La Colombia detiene nel mondo questo triste primato dei rifiugiati interni. Ma esiste anche un altro tipo di desplazamiento. Quello dei beni comuni, dove «non necessariamente le persone o le comunità che lo subiscono sono costrette ad abbandonare i loro territori». Ma, come nel caso delle comunità di pescatori colpite dalla costruzione della diga di Urrà «le loro condizioni di vita sono drasticamente peggiorate, così come è stata compromessa la loro capacità di accesso ai beni comuni». «Queste comunità - puntualizza Urrea - continuano a vivere nei loro territori, ma sono state ugualmente allontanate dai beni comuni e dai benefici che, in questo caso, il fiume Sinù dava loro per poter vivere dignitosamente di pesca e di agricoltura».
Insomma una storia di violenze ma anche di gente che non si rassegna. E che ci invita ad imitarli. Come fa Alex Zanotelli, ex missionario in Kenia: «Questo impegno sui beni comuni, partendo dall'acqua, è fondamentale» - dice l'ex direttore di Nigrizia che ammonisce: «Ma come abbiamo fatto ad arrivare a questo scempio, di privatizzare la Madre?», si chiede Zanotelli. L'esempio, ricorda il padre comboniano, viene dagli aymarà delle Ande: «Loro quando vanno ad arare un campo, passano tutta la notte precedente a piangere per il male che faranno alla terra». Un'etica troppo alta la loro per pretendere che venga assunta dall'Occidente, ma almeno un tentativo dobbiamo farlo per guarire da quella che il coraggioso missionario di Korogocho definisce una "follia collettiva".


Liberazione 24/07/2011, pag 9

Giornalisti, avvocati e parlamentari: «Aprite le galere per immigrati»

Cie Giornata contro il "divieto di informare"

Stefano Galieni
Domani, in numerosi centri di identificazione ed espulsione italiani, entreranno parlamentari dell'opposizione per denunciare soprattutto il divieto di accesso per i mezzi di informazione. Sarà una giornata utile e importante che coinvolgerà anche giornalisti, avvocati, attivisti antirazzisti e di associazioni umanitarie, migranti. Molte le adesioni, anche eccellenti, segno di un pezzo di istituzione e del mondo dell'informazione - anche Fnsi e Ordine dei Giornalisti sono fra i promotori - che si muove. Fra i parlamentari ci saranno anche alcuni di coloro che, direttamente o indirettamente, hanno contribuito, con la legge 40 del 1998, ad istituire quelli che allora si chiamavano Cpt, resi poi ancora peggiori con il progressivo innalzamento dei tempi di trattenimento, con il deteriorarsi scontato delle condizioni di vita e spesso di "non vita" di cui si ha ampia letteratura, con lo squallido business che attorno a tale sistema si è determinato.
Quasi 13 anni di storia di queste strutture che hanno prodotto negli anni morti, innumerevoli tentativi di suicidio, atti di autolesionismo, brutalità puntualmente ma inutilmente denunciate, sommosse spesso sedate con il manganello, disperazione e rabbia. Chiunque in vita propria vi abbia messo piede almeno una volta e non per una "visita guidata" concordata con gestore e prefettura, si è potuto rendere conto di come sia di fatto impossibile parlare di umanizzazione di questi luoghi, peggiori del carcere, in cui ora si potrà restare rinchiusi sino a 18 mesi senza aver commesso reato, senza poter godere neanche dei diritti riservati ai detenuti.
Un bilancio sul "sistema di detenzione amministrativa" va fatto e va fatto ora, se si vuole essere in grado di elaborare alternative. Il bilancio dei Cie è fallimentare sotto tutti i punti di vista, in primis politico ed etico; privare le persone della libertà personale parcheggiandole in discariche umane in attesa di potersene o meno liberare è un crimine vero e proprio. Ma se anche si prova ad accettare la logica che ha introdotto questo perverso meccanismo nell'ordinamento italiano, il risultato non cambia. All'epoca - governava il centro sinistra - si disse che i centri erano richiesta esplicita dell'Europa per il controllo delle frontiere. Oggi i centri in cui più massiccia è la detenzione sorgono al di fuori dei confini europei, ad est come a sud, secondo uno schema che ha portato ad esternalizzare i confini e a lasciar fare ad altri regimi il lavoro sporco.
La direttiva rimpatri, approvata dal parlamento europeo nel 2008 e di fatto applicata solo negli aspetti repressivi in Italia, non è un testo rivoluzionario ma in cui si afferma che la detenzione amministrativa deve costituire l'extrema ratio e non la norma per affrontare l'immigrazione non regolare. In Italia il governo Maroni (non è un refuso) fa esattamente il contrario. In 13 anni, malgrado i continui mutamenti introdotti - dalla Bossi Fini che ha raddoppiato i tempi di trattenimento fino alle reiterazioni dei "pacchetti sicurezza" - il numero di persone effettivamente rimpatriate è rimasto pressoché inalterato, una percentuale che non raggiunge il 40% in media. Tante invece le vite rovinate di persone che dai centri escono e entrano; mandate via, senza identificazione da parte delle rispettive autorità consolari, restano invisibili e vulnerabili, sono riprese e rimesse in gabbia (di gabbie in gran parte si tratta) in una sequela senza fine.
Un destino amaro che produce degrado, crollo fisico e psichico, distrugge le persone, le annienta nel profondo. Un uomo o una donna usciti da un Cie li si riconosce da come camminano, da quel misto di rabbia, senso di ingiustizia, paura e rassegnazione verso il futuro che li accompagna. Questo infernale meccanismo concentrazionario costa ogni anno centinaia di milioni di euro, ne beneficiano gli enti gestori dei centri; crea, soprattutto al sud, una occupazione precaria e di stampo clientelare, trasforma gli agenti dei corpi dello Stato in secondini, realizza insomma vere e proprie polveriere sociali disumane la cui esistenza non trova ragion d'essere. Se le stesse risorse fossero investite in processi di inclusione sociale, non solo si distruggerebbero meno vite ma si migliorerebbe la qualità sociale della vita per migranti e autoctoni. Ma viene il dubbio retorico che l'incubo dei Cie sia ancora funzionale al mantenimento, in condizione di maggiore subalternità, di un esercito di manodopera di riserva e di un movente intimidatorio di carattere fortemente razzista.
Bisognerebbe ripartire da questo punto per pensare al futuro; un futuro in cui, grazie anche all'arrivo di giovani generazioni pronte alla ribellione, le gabbie dei centri non saranno sufficienti a fermare la richiesta di diritti ma serviranno solo ad accrescere l'immagine di una potenza in declino, opulenta ma cattiva verso chi pretende una più equa distribuzione di beni e chi nutre ancora aspettative di eguaglianza. Domani saremo davanti ai Cie per chiedere libertà di accesso ma dobbiamo prepararci a dire che il tempo della detenzione e delle frontiere asimmetriche volge al termine.


Liberazione 24/07/2011, pag 7

Segreto di Stato sulle armi sparite. Lettera aperta della Rete italiana per disarmo e la Tavola della pace

Perché il segreto di Stato deve servire per nascondere i traffici di armi?. E' il titolo del comunicato che accompagna la "Lettera aperta" al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, firmata dalla Rete italiana per disarmo e la Tavola della pace. Le organizzazioni reclamano l'attenzione sulla recente notizia dell'imposizione del segreto di Stato da parte del governo sulla "sparizione" di 400 missili Fagot, 30 mila mitragliatori AK-47, 5 mila razzi katiuscia, 11 mila razzi anticarro, 32 milioni di proiettili per mitragliatori. Decisione che ha bloccato le indagini che la magistratura di Tempio Pausania stava conducendo sulla destinazione finale del carico di armamenti sequestrati nel 1994 e che, su ordine del Tribunale di Torino, avrebbero dovuto esser distrutti. Un arsenale che invece, due mesi fa, è stato portato via dal bunker della Marina militare dell'isola di Santo Stefano, consegnato all'Esercito e sparito nel nulla. E nel merito, ricordano le organizzazioni, lo stesso governo già nel 2009 autorizzò l'invio a Gheddafi di oltre 11mila tra pistole e fucili semiautomatici di alta precisione della ditta Beretta decidendo di non comunicarlo all'Ue. Grazie al fatto che «l'Italia non possiede una legislazione specifica su trafficanti e broker di armi» pur esistendo dal 2003 una "Posizione comune dell'Ue" che obbligherebbe ad un adeguamento legislativo.


Liberazione 24/07/2011, pag 6

Quel giornalismo immaginifico di “Libero"

Islamofobie

Spettacolari, davvero spettacolari le pagine che Libero consacra alla strage di Oslo. Una testimonianza di fanta-giornalismo da mostrare nelle scuole; esemplare nel rovesciamento tra realtà e desiderio, fatti e ideologia, speranza e verità. Il sospetto che dietro i massacri ci fosse la mano levantina di al Qaeda, si trasforma in una demenziale requisitoria contro l'Islam e contro il lassismo di alcuni governi occidentali che permettono alla cultura musulmana di prosperare in seno alla nostra civiltà.
Certo, quando scrivi ispirato dal fanatismo la penna rischia di scivolare verso approdi fiabeschi, i meccanismi pavloviani prendono il sopravvento e il pensiero lascia il posto al riflesso condizionato (è accaduto in parte anche al Giornale e al Foglio). Ma stavolta il quotidiano diretto da Maurizio Belpietro si è superato. Si comincia dalla "prima"; scatola alta con titolo inequivocabile: "Con l'Islam il buonismo non paga: Norvegia sotto attacco". Poi tre pagine interne su cui svetta l'eloquente testatina "Jihad in Norvegia". Articolessa di apertura con titolo a cinque colonne: "Terrore islamico a Oslo". In controapertura un focus sui musulmani nel paese scandinavo : "E' il paradiso dell'integrazione, ma l'islam vuole tutto il potere". Infine l'approfondimento internazionale con l'ansiogeno "Fine di un'illusione: è ancora l'11/9. Rischia anche l'Italia". Dopo aver letto la sequenza, sapendo che l'autore del massacro è un suprematista cristiano, si resta smarriti. E ci si incazza anche un po'.
Naturalmente la pista jihadista era più che plausibile: il ruolo della Norvegia nella missione Nato in Afghanistan, le vignette dissacratorie su Maometto apparse su alcuni quotidiani nazionali, la condanna per terrorismo del mullah di origine curda Krekar avvenuta lo scorso mese, sono tutti elementi che inizialmente hanno accreditato la tesi di un attacco di al Qaeda. La rivendicazione (sciacallesca) del sedicente gruppo ricoluzionario Ansar al-Jihad al-Alami apparsa poche ore dopo gli attacchi su alcuni forum islamisti sembrava avesse chiuso il cerchio. In molti sono caduti nella trappola, ma con il beneficio del dubbio.
Libero no, è andato oltre la trappola, oltre il dubbio, oltre il reale. E ha costruito un climax di eventi immaginari e immaginifici dall'effetto psichedelico. Ma dal retrogusto avariato.
d.z.


Liberazione 24/07/2011, pag 2

Strappo dello Zimbabwe: torna lo sporco traffico dei diamati insanguinati

Africa a rischio il Processo di Kimberley che regola la vendita delle pietre

Hélène Buzzetti
I diamanti di guerra (o di sangue come si dice in inglese) hanno iniziato ad attirare l'attenzione verso la fine degli anni 90. Diversi gruppi umanitari avevano dimostrato che le scintillanti pietre che De Beers e soci (la compagnia sudafricana che controlla fino al 70% della produzione mondiale) smerciavano in Occidente come simbolo dell'amore eterno servivano a finanziare le guerre in Angola, Liberia, Repubblica democratica del Congo (Rdc) e Sierra Leone. I gruppi ribelli di questi paesi si appropriavano dei giacimenti per foraggiare la guerriglia e la destabilizzazione. E' per questo che nel 2003 è nato il processo di Kimberley. Si tratta di un organismo di controllo che mette intorno a un tavolo i 74 paesi implicati nel commercio di diamanti, le compagnie industriali e membri della società civile. Ogni paese è incaricato di controllare l'infiltrazione dei diamanti di guerra nei lotti ufficiali. Ogni lotto deve in tal senso possedere il suo certificato Kimberley. Il sistema funzionava, tanto che il commercio mondiale dei diamanti di sangue è passato dal 15 all'1%. Fino a quando lo Zimbabwe ha fatto saltare il patto. Nel 2006 lo Zimbabawe ha infatti recuperato i diritti di sfruttamento del sito di Marange, un giacimento così abbondante che nei prossimi anni potrebbe rappresentare il 20% dell'estrazione mondiale. Nel 2008 il paese sprofonda in una crisi economica senza precedenti, il tasso d'inflazione schizza all'11.000.000 %. Medici, funzionari e altri lavoratori lasciano il proprio posto e si riversano a migliaia nei campi diamantiferi. Il governo ricorre alla violenza per sloggiare questi minatori "illegali". Nel dicembre 2008 circa duecento civili vengono uccisi in un raid compiuto con due elicotteri da guerra. In seguito a questo massacro, nel 2009 i membri del Processo di Kimberley vietano allo Zimbabwe l'esportazione di diamanti.
Ma dopo due anni di trattative e discussioni, lo scorso 23 giugno i Processo di Kimberley presieduto dalla Rdc ha cambiato rotta: il commercio dei diamanti di Marange viene autorizzato in quanto le violenze sono state compiute da «un governo legittimo e non da un gruppo di ribelli che tentava di ususrpare il potere». Nonostante l'opposizione di alcuni paesi come il canada, gli Stati Uniti e l'Unione europea, il presidente Mathieu Yamba è andato avanti.
Facendo infuriare i membri della società civile africana seduti al tavolo: «Noi rappresentiamo le comunità che hanno subito le violenze alimentate dalla guerra dei diamanti, delle comunità che sperano di poter usufruire delle richezze delle propria terra. Ora non possiamo più guardare la gente negli occhi e dirgli che il Porcesso difende i loro interessi quando in realtà non lo sta più fecendo», si legge in un comunicato del Network Mouvement for justice and developpement, un gruppo della Sierra Leone. Questi gruppi sono essenziali poiché assicurano più degli Stati il controlo del Processo di Kimberley.
Il problema è che ormai nazioni come il sudafrica e l'emirato del Dubai accettano tranquillamente i diamanti dello Zimbabwe, contaminando la catena di approvvigionamento. «E' molto difficile distinguere la provenienza delle pietre che sono mischiate le une con le altre», spiega Alan Martin dell'associazione Afrique Canada, sottolineando che «i paesi africani si stanno dando la zappa sui piedi, perché ora l'Occidente dovrà rifiutare i loro prodotti». Inviato in Zimbabwe per osservare la situazione, Martin ha raccolto diverse prove di come le richezze generate dal commercio di diamanti finiscono essenzialmente nelle tasche delle forze armate a discapito dei cittadini. Secondo lui la decisione del 23 giugno segnerà probabilmente la fine del Processo di Kimberley, il quale non è stato in grado di comprendere l'evoluzione dei conflitti nei paesi diamantiferi. E' necessario a questo punto istituire nuovi meccanismi di controllo più efficaci. Ad esempio gli Usa, con la legge Dodd-Frank obbliga le imprese quotate in borsa a certificare la provenienza dell'oro, del coltan e del wolfram contenuti nei prodotti elettronici. Se questi metalli vengono da paesi sospetti, le imprese devono dimostrare che la loro raccolta non contribuisce a violenze e conflitti. «Questa sarebbe l'arma migliore», conclude Martin.
da "Devoir"


Liberazione 23/07/2011, pag 7

Finmeccanica, holding fondi neri. Indagato per false fatture e frode fiscale il presidente Guarguaglini

Il presidente di Finmeccanica, Pier Francesco Guarguaglini indagato per frode fiscale e false fatturazioni nell'ambito dell'inchiesta condotta dalla procura di Roma su presunti fondi neri nella holding dell'aerospazio e della difesa. La vicenda riguarda un giro di false fatturazioni da parte della Selex Sistemi Integrati (società del gruppo amministrata dalla moglie di Guarguaglini, Marina Grossi) alla Print System di Marco Iannilli e Tommaso Di Lernia, cui venivano subappaltate le gare Enav. In base a quanto dichiarato da Lorenzo Cola, consulente e mediatore di Finmeccanica, e Di Lernia ai pm, i fondi neri servivano a finanziare settori del mondo politico italiano in moto tale da favorire l'aggiudicazione a Selex delle gare Enav.


Liberazione 23/07/2011, pag 5

Gli intoccabili della Casta che più Casta non si può

Maria R. Calderoni
Intoccabile. Innominabile. Quella che nel loro libro Rizzo e Stella chiamano la Casta nel cuore della Casta - gli invisibili più potenti dei potenti - non ha nulla da temere, la manovra non la sfiora nemmeno. C'è di che arrabbiarsi, stiamo parlando dei manager pubblici, i grand commis di Stato, i detentori di incarichi e prebende plurimi ancorché alti, altissimi.
Il tema non è nuovo, ma nemmeno la manovra lo è, tutto già visto e toccato con mano: paga il pensionato, mai il manager; paga il povero, mai il ricco. Il trend antico e collaudato è infatti ampiamente ribadito anche nella finanziaria testè approvata, come si sa.
Arrabbiatevi. Arrabbiamoci. Razza di vigliacchi, voi ci chiedete ticket sanitari, ci chiedete 25€ di "codice bianco" al pronto soccorso, congelate le nostre pensioni se solo sono un po' più alte del minimo da fame? E per di più andate blaterando che ci torchiate perché ciò è necessario per il nostro bene, al fine di mettere ordine nei conti dell'Italia, a 150 anni dall'Unità? Accidenti, uno vede blu e va a rinfrescarsi la memoria, accidenti. Perché i conti sono i conti.
Masi Mauro, toh, è il primo che ci viene sott'occhio. Area Rai, vediamo un po' i conti dell'ultimo direttore generale, recentissimamente dimissionato. Secondo i dati forniti dalla Rai medesima all'Espresso, il Mauro Masi non ha niente di che lamentarsi: non meno di 715mila all'anno, un sessantamila mensili (mica uno di voi miserabili, che per guadagnare 715mila dovete lavorare cinquant'anni e più...). Dite che il Masi è un tecnico bipartisan che fu già Capo gabinetto sia di D'Alema sia di Berlusconi; e dirigente alla Banca d'Italia; e capo della segreteria del ministro Dini e direttore dell'ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, ecc? Ebbene, il fatto resta: quella cifra continua a non tornare, "normalmente" parlando.
Tuttavia, Masi non è solo, nel parterre Rai degli alti emolumenti, ci sono tanti altri "bei" nomi. Fabrizio Del Noce all'anno se ne becca 400mila; Antonio Marano 350mila, Giancarlo Leone 470mila, Paolo Garimberti 448mila, un Gianfranco Comanducci 440mila (dai "soli" 235mila che percepiva nel 2002, quel che si dice un bello scatto...). E Claudio Cappon, l'ex direttore generale voluto da Prodi? Beh, lui se ne prende 600mila senza fare un bel niente, essendo senza incarico da quel dì (grazie del canone). E Giovanni Minoli fa 550mila, e Bruno Vespa 1,2 milioni, e Floris 450mila, e Minzolini oltre 600mila e Santoro 700mila. E al signor Emanuele Filiberto furono elargiti 20mila a puntata («lordi, però»). In compenso, la Rai, lei si esibisce in rosso shocking, dicesi eutanasia finanziaria: debiti per 320 milioni e perdite per 180 milioni (li pagheremo noi, tranquilli).
Le cifre non sono poesie, ma servono. Così arrabbiamoci ancora un po' e sorbiamoci queste altre (conoscere è rivoluzionario, l'ho sentito dire...). Nel 2010 l'ineffabile ministro Brunetta proclama con gran spolvero che lui adesso userà le forbici e ai manager pubblici lui, Brunetta medesimo, taglierà i macro-stipendi. Il nuovo regolamento approvato dal Consiglio dei ministri stabilisce infatti che mai più nessuno di loro - grand commis e manager delle Authorities che siano - dovrà superare i 311mila l'anno, un tetto equivalente al trattamento di cui gode il primo presidente della Cassazione (non poco, peraltro).
Bufala. Era una bufala. Bisognava leggerlo bene, il regolamento Brunetta. Là dove dice che «la retribuzione annuale "globale" è esclusa dal tetto»; così come restano parimenti esclusi, dal famoso tetto, «il trattamento pensionistico e i versamenti obbligatori destinati ai fondi». Perbacco, «soltanto i compensi aggiuntivi dovranno essere contenuti entro il limite di 311mila» (che avevate creduto...). In più, un bel mazzo scelto di 25 super-previlegiati (tra i quali i dirigenti della Banca d'Italia e delle Authority indipendenti) è totalmente risparmiato da qualsivoglia taglio, per piccolo che sia.
Bene bene. Non più tardi di un anno fa, esattamente l'11 giugno 2010 - a regolamento debitamente approvato - Il Giornale ha fatto "lo scherzo" di pubblicare uno dietro l'altro gli emolumenti di 89 grand commis. Ecco. Antonio Catricalà, presidente dell'Antitrust, 512 mila; Antonio Pilati, amministratore delegato della suddetta Antitrust, 427mila (idem gli altri tre del board, tali Piero Barucci, Carla Rabitti Bedogni, Salvatore Rebecchini). Il Corrado Calabrò, Agicom, si prende 477.752mila; il Lamberto Cardia, Consob, 430mila; il Pietro Ciucci, Anas, 750mila; il Massimo Varazzani, Cassa Depositi e Prestiti, 530mila; il Maurizio Prato, Fintecna, 520; il Guido Pugliese, Enav, 460mila... Cercasi "tetto" disperatamente, scomparso. Per farla breve, tutti insieme i magnifici 89, ci costano, a noi cittadini tutti, un 22 milioni l'anno.
Volete imbufalire ancora di più? Allora prendete e portatevi a casa anche quest'altra roba (dati 2009-10). L'ad di Finmeccanica Guarguaglini (oggi indagato per fondi neri) è un tipo da 5 milioni annuali; l'ad dell'Enel Fulvio Conti da 3 milioni e rotti; l'ad dell'Eni Paolo Scaroni, da 3 milioni. Mentre quello delle Ferrovie, Mauro Moretti, è da 870mila (previa liquidazione milionaria)...
Si incazzerebbe anche San Francesco.


Liberazione 23/07/2011, pag 5

Contro la crisi occupiamo il Principato di Monaco

Paolo Mossetti
Mentre il mondo s'interroga se il baldo principino, che a cinquantasette anni ha finalmente impalmato la bionda natante, fosse o no gay e se fossero due o tre i figli illegittimi che adesso rischiano di rovinargli il viaggio di nozze, c'è qualcun altro che ha fatto due conti: lo Stato monegasco estende la sua sovranità su due chilometri quadrati appena - praticamente lo spazio di una tavola imbandita in un matrimonio siciliano; ha 36mila abitanti - Scampia o Quarto Oggiaro li superano; ha, però, ed è questa la cosa che più ci interessa, riserve finanziarie tali da sfamare il globo per i prossimi trecento anni, se è vero che il 84% dei suoi residenti è costituito da dichiarati evasori fiscali, il cui reddito medio si aggira intorno ai 300mila euro - venti volte quello di un calabrese medio.
«I fatti parlano chiaro: i Dolce & Gabbana di questo mondo abitano in questi paradisi fiscali», si legge su Indymedia. «La maggior parte degli oligarchi al top della mappa del potere Europea, siano essi Svedesi, Italiani, ecc. mantengono una presenza a Monaco mentre alla popolazione del Vecchio Continente viene detto che non c'è possibilità di resistere contro questo fenomeno». Ma ancora più grave, ci sembra, è la melassa gossippara che i quotidiani pseudo-progressisti come di destra continuano a somministrarci, oggi come nei patinati anni Cinquanta, nell'eterna convinzione che gli eventi regali servano ad annacquare le tensioni sociali: vedi il matrimonio del Principe William, etc. È nato così su Facebook uno dei più originali gruppi che si siano mai visti, dal titolo Occupy Monaco, occupare monaco, tradotto in più lingue, che si pone una semplice domanda: «se c'è stato detto che in un'economia globale il capitale è mobile e non c'è niente da fare al riguardo, perché non possono esserlo anche le persone che vivono nell'Ue e altrove?». Una data è stata già scelta, il primo di Agosto. E già diverse discussioni si sono tenute, tra il serio l'ironico, nelle piazze virtuali, per decidere modalità e tattica della protesta. Occupare, fisicamente e a lungo, uno spazio simbolo degli sperperi e delle iniquità dell'Occidente sviluppato ma di perdurante barbarie, ci sembra un'idea straordinariamente efficace.
Vorremmo essere al fianco di questi ragazzi - e se dal virtuale la mobilitazione diventerà reale forse molti di noi lo saranno davvero - consapevoli che in tempi di crisi occorrono gesti di crisi. L'ironia post-moderna non può infatti svilire tutto, come ci è stato falsamente spiegato da vari maestri di cinema e di letteratura, che però sono riusciti ad anestetizzarci con il loro inganno. Pensate: vi sono circa cinquecento poliziotti in Monaco - ne vediamo impegnati molti di più davanti gli stadi italiani, e non sempre hanno la meglio - mentre l'unico esercito effettivo è composto dalle cento guardie del corpo della Famiglia Reale. Non ci vogliono armate colossali a difendere i simboli di ingiustizia, se si sono convinti tutti che quei simboli sono inviolabili.


Liberazione 22/07/2011, pag 6

Le resistenze politiche e sociali contro il governo unico Ue-Bce

Sinistra Critica Unità delle “piazze”, la rivoluzione possibile


Aurelio Macciò*
L'appuntamento per il decennale di "Genova 2001 - Genova 2011" può rappresentare un'utile occasione. Un'importante occasione di incontro per le ragioni dei movimenti e delle resistenze politiche e sociali alla crisi della globalizzazione capitalista, beninteso se si rifugge dai rischi del "reducismo" o da impropri istituzionalismi. Insomma, se questo appuntamento riuscirà ad attualizzare le ragioni di ieri, di dieci anni fa, per saperle reinterpretare nelle ragioni dell'oggi. In connessione con le piazze degli "indignati" delle due sponde del Mediterraneo, di Barcellona e Madrid, di Atene e di Tunisi, del Cairo, e di tutte quelle "piazze" sociali che tentano di opporsi alla pesante dittatura del mercato e del profitto capitalistico.
E questo è l'intento con cui Sinistra Critica ha aderito al percorso "Verso Genova luglio 2011", lavorando perchè diventasse il più inclusivo possibile, partecipato e aperto alle diverse aree dei movimenti, nel rispetto della pluralità di strategie e di pratiche di azione e dell'autonomia dei diversi soggetti.
Per noi, occorre lavorare all'unità sociale delle lotte, a connettere le "piazze" nordafricane ed europee con le "piazze" sociali italiane che si sono espresse in quest'ultimo anno, quelle delle lotte operaie contro la Fiat e Marchionne, delle lotte degli studenti, di quelle ambientali e contro la devastazione del territorio, quelle dei comitati per l'acqua pubblica. Anche per questo, insieme al nostro contributo unitario alla costruzione di questo appuntamento, abbiamo organizzato un incontro pubblico, come iniziativa autogestita da Sinistra Critica, per questa sera di venerdì 22 luglio, alla Sala di Rappresentanza di Palazzo Tursi, dal titolo "La rivoluzione è possibile! Le risposte alternative alla crisi: le resistenze politiche e sociali in Europa e le rivoluzioni popolari arabe", a cui parteciperanno esponenti di movimenti politici della sinistra anticapitalista di paesi nordafricani ed europei (dalla Tunisia, dall'Egitto, da Spagna e Francia) insieme con alcuni rappresentanti delle "piazze sociali" italiane: il Movimento No Tav, i Comitati per l'Acqua Pubblica, un delegato Fiom delle Fiat Mirafiori, uno studente di "Atenei in Rivolta". L'obiettivo dell'oggi, fuori da ogni politicismo, deve essere quello di una iniziativa di convergenza delle opposizioni politico-sociali contro il governo unico della UE e della BCE, che sappia affermare che "Il vostro debito non lo paghiamo!".
Il massacro sociale e le draconiane manovre di rientro dai debiti sono un'impostazione condivisa in Europa da governi di destra come di centrosinistra, e non a caso in Italia le opposizioni parlamentari hanno dato la loro totale disponibilità all'approvazione immediata della manovra, persino affermando - insieme a Napolitano - che serve una manovra con ancora più lacrime e più sangue. Con le politiche liberiste di questo centrosinistra non è possibile alcuna convergenza. La situazione è tale che ormai cacciare Berlusconi senza mettere in chiaro cosa ciò voglia dire, non è sufficiente. La manovra disegnata da questo governo è chiaramente di classe e colpisce i lavoratori, i precari, le donne e i giovani. La manovra che farebbe un governo di "unità nazionale" potrebbe essere addirittura ancora più dolorosa. Il vertice del G20 a Cannes a novembre e, prima ancora, l'appuntamento di mobilitazione europea del 15 ottobre lanciato dagli "indignados" spagnoli, e già raccolto da numerose realtà di tutto il continente, possono essere le occasioni in cui concretizzare la convergenza di tutte le opposizioni politico-sociali. L'appuntamento di Genova può costituire l'occasione per cominciare a discuterne.
* Coordinamento nazionale di Sinistra Critica


Liberazione 22/07/2011, pag 4

Libro: Il caro armato

Titolo Il caro armato. Spese, affari e sprechi delle Forze Armate italiane
Autore Vignarca Francesco; Paolicelli Massimo
Prezzo € 12,00
Prezzi in altre valute

Dati 2009
Editore Altreconomia

http://www.ibs.it/code/9788865160046/vignarca-francesco-paolicelli-massimo/caro-armato-spese-affari.html

"Il caro armato" è la puntigliosa ricognizione che mancava sulla struttura delle Forze Armate e sulle spese militari del nostro Paese (somme spesso non facili da tirare) e sugli sprechi che a volte sarebbe possibile e doveroso evitare. Il "Nuovo Modello di Difesa" ha spostato la linea del fronte dai confini geografici a quelli degli interessi economici occidentali, ovunque siano considerati a rischio. La leva obbligatoria è stata sospesa. Ma scopriamo che, nonostante le "riforme", il nostro esercito professionale conta ancora 190mila uomini, tra i quali il numero dei comandanti - 600 generali e ammiragli, 2.660 colonnelli e decine di migliaia di altri ufficiali - supera quello dei comandati. Scopriamo che il nostro Governo continua ad acquistare "sistemi d'arma" sempre più costosi, dalla portaerei Cavour, alle fregate FREMM (5.680 milioni di euro) al cacciabombardiere Joint Srike Fighter (13 miliardi di euro); e che il "mercato" delle armi, con i Governi principali committenti, è tutt'altro che libero: sono al contrario stretti i rapporti tra Forze Armate e industria bellica e frequenti i passaggi di militari a fine carriera dall'una all'altra schiera.

L’Italia spende 23 miliardi per la guerra ma non lo dice

Conti pubblici sulla carta sono 20 ma nel conto c’è lo Sviluppo economico

Fabio Sebastiani
All'ottavo posto al mondo per spese militari, nel 2010 l'Italia spende oltre i 20 miliardi di euro per la difesa. Mentre la spesa complessiva per le strutture e il personale ha subito ritocchi, anche per "far posto" agli oneri del modello dell'esercito professionale, quella specifica per gli armamenti si avvicina sempre di più ad incrementi a due cifre. Luca Galassi ha fatto i conti in tasca alla difesa dalle colonne di "PeaceReporter": a lievitare sono i fondi destinati agli "acquisti" per i nuovi armamenti, un incremento dell'8,4%, (mentre l'incremento complessivo è almeno un terzo di questa percentuale) pari a quasi tre miliardi e mezzo, ovvero 266 milioni in più rispetto al 2010.
L'Italia spende mezzo miliardo di euro all'anno per la campagna in Afghanistan, ed ha messo in cantiere una operazione da 16 miliardi per acquistare 131 bombardieri invisibili F-35, aerei "stealth" di ultima generazione, attrezzato per trasportare Nh-90testate nucleari (471,8 milioni di euro l'uno). Altri 309 milioni saranno destinati all'acquisto degli elicotteri Nh-90 della AgustaWestland, mentre la lista della spesa militare 2011 contempla anche due sottomarini U-212, del costo di 164,3 milioni, e di altri elicotteri Ch-47 F Chinhook (per 137 milioni), oltre all'ammodernamento dei caccia multiruolo Tornado (178,3 milioni). Per il caccia Eurofighter Typhoon, il jet Aermacchi M-346 da addestramento, le modernissime fregate Fremm e i veicoli corazzati da combattimento Freccia verranno reperite risorse dal ministero dello Sviluppo economico, «chiamato a contribuire con poco meno di un miliardo di euro». E' proprio tenendo conto della "partecipazione" del ministero dello Sviluppo economico che la spesa complessiva lievita di ben tre miliardi.
Alla luce dei vincoli finanziari, e secondo i documenti ufficiali, il volume finanziario complessivo a disposizione del ministero della difesa è pari a 20 miliardi e 494,6 milioni di euro, nel 2011, a 21 miliardi e 16 milioni di euro, nel 2012, e a 21 miliardi e a 368 milioni di euro, nel 2013.
Quindi, nonostante la crescita in valore assoluto della spesa rispetto al 2010, si registra tuttavia una diminuzione del rapporto percentuale della spesa rispetto al Pil che passa dall'1,31 per cento del 2010 all'1,28 per cento del Pil del 2011. Non è così se si tiene conto delle cifre che il ministero dello Sviluppo economico destina alle imprese degli armamenti.
Secondo quanto riportano Massimo Paolicelli e Francesco Vignarca nel loro libro «Il caro armato. Spese, affari e sprechi delle Forze Armate italiane» nel 2010 il nostro Paese ha previsto di spendere in spese militari qualcosa come 23 miliardi di euro. La struttura delle nostre Forze Armate, secondo quanto prevede il cosiddetto Nuovo Modello di Difesa, è profondamente cambiata rispetto agli anni passati. Tra le righe, scopriamo che gli arsenali non conoscono crisi. Per non parlare poi delle vicende controverse legate alle servitù militari e il destino degli immobili della Difesa. A quanto ammontino i "fondi-stampella" dello Sviluppo economico le carte ufficiali però non lo dicono: sono circa 900 milioni per il 2011, rispetto ad almeno 1.200 milioni degli anni precedenti, secondo una stima che circola tra esperti della difesa. Il governo non ha pubblicato un quadro trasparente di tutta la spesa. A questi vanno aggiunti il miliardo e mezzo di tutte le missioni. E quindi ecco spiegati i tre miliardi in più.
Dal punto di vista dell'attività produttiva in Italia, il settore è in piena espansione: con un fatturato record da 3,7 miliardi, alla fine del 2008, come si è appreso lo scorso anno, l'Italia ha superato la Russia, divenendo il secondo esportatore mondiale di armamenti, dopo gli Stati Uniti. Tra i "gioielli" dell'industria militare nostrana, il veicolo tattico multiruolo Lince e l'elicottero d'attacco A-129 Mangusta, ma far lievitare il made in Italy sono anche armamenti meno "prestigiosi", come le bombe a grappolo messe al bando da recenti convenzioni internazionali, non ancora ratificate nella loro piena applicazione.
Tra gli ultimi arrivi, i nuovi impianti radar per potenziare la rete operativa dell'Aeronautica militare italiana ed integrarla ancora di più nella catena di comando, controllo, comunicazione ed intelligence dell'Alleanza atlantica. Dodici sistemi Fixed Air Defence Radar (Fadr) Rat31-Dl sono stati commissionati alla Selex Sistemi Integrati, società del gruppo Finmeccanica, e sono in via d'installazione in altrettanti siti dell'Ami sparsi in tutta Italia. Ad essi si aggiungeranno anche due sistemi configurati nella versione mobile Dadr (Deployable Air Defence Radar) che saranno consegnati entro il 2013.


Liberazione 22/07/2011, pag 3

L’assurda escalation delle spese militari

Giulio Marcon *
L'Italia continua a spendere troppo per le missioni militari all'estero e le forze armate. Soprattutto in un momento di grave crisi economica e finanziaria che sta costringendo altri paesi a ridurre gli organici militari, ridimensionare i programmi di riarmo, contenere i costi delle missioni all'estero.
Questo in Italia non sta succedendo, anzi. Mentre con l'ultima manovra finanziaria si fa macelleria sociale e si azzera il welfare, l'Italia continua ad avere un altissimo bilancio militare, a mantenere in vita il costosissimo programma della costruzione ed acquisizione dei caccia bombardieri F35 (ben 16 miliardi di euro) e a spendere tantissimo per le missioni militari all'estero.
Tra queste missioni, quella in Afghanistan - che incide in modo pesantissimo nei costi sostenuti per l'intero complesso delle missioni- rappresenta l'iniziativa più contestabile: si tratta di un intervento di guerra, spacciato per missione di pace ed attività di cooperazione, che contraddice l'articolo 11 della nostra Costituzione ("L'Italia ripudia la guerra") e che - concretamente - può essere valutata dopo quasi 10 anni di presenza sul campo come un autentico fallimento. Miliardi di euro buttati in tanti anni per una missione che non ha portato la pace nel paese, non ha migliorato la condizione di vita della popolazione civile, non ha costruito maggiore sicurezza nella regione. Ecco perché andrebbe posta fine a questo intervento,
Tra l'altro, il finanziamento della missione militare viene a scapito delle risorse per la cooperazione civile (che vengono ulteriormente falcidiate) e questo fa cadere in modo definitivo il velo dell'ipocrisia di un intervento militare presentato come aiuto per la ricostruzione economica e sociale del paese.
Le missioni militari all'estero vengono finanziati con fondi extra bilancio (della difesa) i cui costi non sono mai computati nei calcoli ufficiali delle spese militari del nostro paese. Lo stesso si fa con i costi sostenuti dal Ministero dello Sviluppo Economico per i programmi di riarmo in cui è protagonista la nostra industria militare. Trasparenza vorrebbe che invece questo avvenisse evidenziando quanto effettivamente l'Italia spende (ed è tanto) per l'apparato della difesa ed i suoi interventi in giro per il mondo.
Ed Ecco perché la campagna Sbilanciamoci ha proposto anche nella sua recente contromanovra (le proposte sono su www.sbilanciamoci.org) il taglio radicale della spesa militare del 20% e la fine della missione in Afghanistan. Va anche abolito il capitolo di spesa speciale sulle missioni militari all'estero e riportato tutto dentro il bilancio della difesa. Si risparmierebbero in questo modo - nel periodo 2012-2014 ben oltre 6 miliardi di euro che potrebbero essere utilmente spesi oltre che per interventi rivolti a fronteggiare la crisi economica, anche per le attività di cooperazione civile e per le iniziative di pace - quelle vere - nelle aree di conflitto.
Bisognerebbe poi intervenire in modo più strutturale sulla struttura delle Forze Armate riducendo, nel corso di 10 anni, l'organico di almeno un terzo e portandolo a non più di 120mila unità, più che sufficienti a garantire la funzione costituzionale di difesa del paese e gli impegni di pace all'estero. Bisognerebbe poi cancellare il programma dei cacciabombardieri F35: anche in questo caso ci sarebbe un risparmio di oltre 16 miliardi di euro, che potrebbero essere spesi per gli ammortizzatori sociali e a favore di interventi di natura fiscale per i redditi più bassi.
Si tratta di misure che andrebbero collocate dentro una filosofia diversa del ruolo delle nostre Forze Armate: un ruolo ridisegnato dentro un autentico orizzonte di pace, ancorato al ruolo di peace building delle Nazioni Unite e non di quello militar-interventista della Nato, di costruzione di quella "sicurezza comune" che è cosa radicalmente diversa dalla logica dell'interventismo militare (soprattutto in Iraq ed in Afghanistan) che coincide largamente con la logica della guerra. Ecco perché non si tratta solo di soldi, ma anche di ripristinare i principi ed i valori della Costituzione. E di rimettere al centro il ruolo di pace di una politica estera del nostro paese, protagonismo che in questi anni è stato sacrificato sull'altare della geopolitica e degli interessi delle alleanze internazionali.
* Portavoce di Sbilanciamoci!


Liberazione 22/07/2011, pag 1 e 2

Capitalismo "tossico"

Bertorello e Corradi Contro i luoghi comuni

Vladimiro Giacchè
In questi giorni, in cui la crisi sembra riesplodere con la violenza dell'autunno 2008, è particolarmente importante possedere delle bussole per capire cosa accade. Anche oggi - come allora - la stampa e la pubblicistica dominanti ci parlano di "speculazione da imbrigliare". Ma mentre allora si "riscopriva" lo Stato, implorandolo di fare il bagnino e di riportare a riva le grandi imprese finanziarie (e non solo) che affogavano nei loro debiti, oggi la parola d'ordine è "disciplina di bilancio!". E sul banco degli accusati ci sono gli Stati, a causa dei debiti di cui si sono fatti carico. Il conto lo presentano proprio quei "mercati" che erano stati salvati. E gli Stati, contriti e ubbidienti, stanno girando la parcella ai lavoratori.
Per combattere contro questa ennesima beffa è importante capirne i meccanismi di fondo. Contro tutti i luoghi comuni. E' quanto fanno Marco Bertorello e Danilo Corradi nel loro Capitalismo tossico. Crisi della competizione e modelli alternativi (Roma, Alegre, 2011, euro 16). Smontando la tesi, in fondo rassicurante, che contrappone una finanza "malata" ad un'economia reale "sana". Al contrario: è proprio "l'intreccio inestricabile tra finanza e produzione" ciò che caratterizza lo sviluppo economico degli ultimi trent'anni, che ha risolto a suo modo la crisi degli anni Settanta. Soprattutto nei paesi anglosassoni (ma non soltanto lì), lo sviluppo del credito e della finanza ha fatto da contrappeso alla caduta dei salari e alimentato i consumi grazie alla crescita di valore delle azioni e allo sviluppo del credito al consumo, dando così respiro a imprese industriali dei settori maturi (si pensi all'industria dell'auto), che oltretutto sempre più spesso hanno ricavato profitti direttamente da attività speculative. La storia di questa crisi è la storia dell'implodere di questo modello di crescita drogata. Gli autori lo dimostrano con semplicità argomentativa ma anche con il sostegno di molti dati. Il problema è che a questa crisi, che ha posto in luce con straordinaria chiarezza l'incapacità di autoregolazione del capitalismo, non ha corrisposto un riequilibrio dei poteri dal privato verso il pubblico: lo Stato ha accettato di fare il maggiordomo. È stata così possibile quella che Slavoj Zizek chiama "la spoliticizzazione della crisi": le scelte di violenta ristrutturazione delle imprese, e adesso di drastica riduzione dei servizi offerti dallo Stato, vengono così presentate non come scelte di classe, ma come risposte tecniche e necessarie. Ma è proprio questo assunto che deve essere rovesciato praticamente. In che modo? Facendo emergere "nuove rigidità con cui quelle dominanti dovranno fare i conti", ricostruendo un pensiero e una volontà popolare radicalmente antagonistici. È un compito difficile. Ma - come ci ricorda Riccardo Bellofiore nella preziosa postfazione che chiude il volume - "o la sinistra recupera il senso dell'utopia, il senso della possibilità contro il senso della realtà, o è un morto che cammina".


Liberazione 21/07/2011, pag 5

Quei terremoti nei mercati finanziari creati ad arte dagli speculatori

Il doppio gioco delle borse e delle agenzie di rating internazionale

Paolo Persichetti
Di fronte all'ennesima tempesta che si è abbattuta sui mercati finanziari sono state riproposte grosso modo due chiavi di lettura. La prima, sostanzialmente assolutoria nei confronti dei circuiti borsistici, si ispira alla teoria liberista che postula la piena efficienza dei mercati finanziari. La ricerca sfrenata di ricchezza privata che muove le speculazioni borsistiche - sostengono i paladini di questa posizione - non entrerebbe in contrasto con l'interesse generale delle economie dei vari Paesi, perché il principio di concorrenza sarebbe in grado di generare delle mediazioni finanziarie efficaci. Insomma il giudizio dei mercati non si discute poiché sarebbe il solo in grado di produrre soluzioni razionali e performanti capaci di offrire quella liquidità monetaria indispensabile agli Stati per finanziare il debito pubblico interno. Più che una filosofia siamo di fronte ad una teologia che introduce nei fatti un nuovo fondamento della sovranità. Le implicazioni collegate a questo assunto sono gravide di conseguenze importanti. Esse fuoriescono dalla semplice sfera economica per investire dimensioni politico-filosofiche che modificano il funzionamento, oltre che il significato, dei modelli politici pluralisti che per comodità passano sotto il nome di democrazie. In Italia il Pd ha sposato integralmente questa lettura dei fatti cercando nella sanzione espressa dai gruppi speculativi che hanno attaccato i bond governativi una legittimità alla propria candidatura alla guida del Paese. Perplessità sull'operato dei mercati borsistici sono venute, invece, da settori della destra di governo fornendo l'ennesima prova di quel paradossale capovolgimento di senso dei punti cardinali della politica. L'altra chiave di lettura ricorre, al contrario, alla tesi dell'anomalia dei comportamenti tenuti in Borsa, al mancato rispetto delle regole finanziarie. E' grosso modo la strada perseguita dalle associazioni che hanno denunciato azioni di manipolazione del mercato, depositando degli esposti presso la magistratura nei quali additano il ruolo ambiguo delle agenzie di rating, ritenute le capofila della filiera speculativa. In questo caso il profitto speculativo, oltre ad essere ritenuto un vettore che provoca danni per la comunità, bruciando risorse, impedendo investimenti keynesianamente virtuosi nel ciclo produttivo, è percepito come immorale. Posizione ideologica che trae legittimità dalla vecchia etica calvinista del capitale e rispecchia gli interessi dei ceti medi, dei piccoli azionisti vittime delle bufere che traversano i mercati finanziari. Un atteggiamento ammantato d'ipocrisia morale poiché trova al contrario accettabile l'estrazione di plusvalore, la spremitura della forza lavoro umana. Esiste tuttavia una terza interpretazione che non considera le ricorrenti crisi dei mercati finanziari degli ultimi 30 anni l'effetto di errori, incidenti o comportamenti irrazionali ma il risultato del pieno rispetto del libero gioco borsistico. E' la tesi sostenuta in particolare da André Orléan, studioso francese di scuola regolazionista, che in un volume apparso nel 2010 (Dall'euforia al panico. Pensare la crisi finanziaria, Ombre corte) ritiene le crisi conseguenza «non del fatto che le regole del gioco finanziario siano state aggirate ma del fatto che sono state seguite». A differenza di quel che accade nell'economia reale, sui mercati finanziari domanda e offerta agiscono in modo diverso, nota l'autore. L'aumento della domanda di un bene non ne fa aumentare solo il prezzo ma anche la richiesta, a causa dei rendimenti accresciuti che lo rendono ancora più attraente. Le crisi, in sostanza, sarebbero il fondamento stesso del funzionamento del sistema borsistico che agisce in modo autoreferenziale, investendo su prodotti finanziari "derivati" alla ricerca di rendimenti decorrelati, cioè sempre più scollegati dall'economia reale. Orléan ne indaga in modo accurato la dimensione ideologica ed emotiva, la rincorsa mimetica dei diversi operatori che suscitano momenti di euforia (da cui fuoriescono la cosiddette "bolle") e le fasi di panico che caratterizzano la sua strutturale volatilità. La finanziarizzazione dell'economia capitalistica agisce come un continuo processo d'inclusione-esclusione che per certi versi sembra una riedizione continua dell'accumulazione primitiva con i suoi caratteri brutali. Esistono delle soluzioni?
A parte il superamento del capitalismo, utili ma non risolutivi sarebbero interventi in favore della tassazione delle operazioni borsistiche, la messa al bando di alcuni prodotti finanziari. Gran parte del problema riguarda il debito pubblico e il suo finanziamento, attorno al quale ruota il problema della sovranità. La globalizzazione ha tolto agli Stati la capacità di controllo sull'andamento dei titoli un tempo confinati nel mercato nazionale. Le proposte fioccano: separare i circuiti bancari e finanziari, ristabilire il controllo politico sulle banche centrali, favorire un fondo comune per il finanziamento del debito, liberarsi dalla dittatura delle agenzie di rating, tornare all'economia reale.
2/fine


Liberazione 22/07/2011, pag 6

Mercati borsistici L'attacco ai titoli di Stato

Paolo Persichetti
La magistratura ha cominciato a interessarsi alla "casta" dei mercati finanziari. Parlare di casta, in realtà, è improprio. Anzi per nulla esatto. Si tratta di una concessione all'imperante linguaggio populista. Però in una fase come quella attuale, dove grande è la confusione, una semplificazione del genere può tornare utile per chiarire alcune cose. Per esempio: al cospetto degli «uomini d'oro della finanza-ombra», come li ha definiti recentemente il Sole24 ore, la "casta dei politici", di cui tanto si parla dopo la manovra economica dei giorni scorsi, o quella dei magistrati, visti al contrario come l'alternativa ad un ceto politico autoreferenziale e corrotto, ma ai cui alti stipendi e privilegi di status sono agganciati i compensi dei parlamentari, sono tutto sommato poca cosa. Una realtà subalterna, epifenomeno i cui costi sono inferiori ai milioni di euro bruciati in una sola giornata di speculazioni borsistiche. Come al solito il populismo ha il grande demerito di stornare l'attenzione: si sofferma sul dito e perde di vista la luna; s'indigna per la pagliuzza e non s'accorge della foresta.
Su esplicita richiesta della Consob il procuratore aggiunto della Capitale, Nello Rossi, coordinatore del pool sui reati economici, ha aperto un fascicolo. L'autorità di controllo per le società quotate in Borsa ha inviato anche alla procura di Milano un dossier su quanto accaduto nei mercati finanziari a ridosso del varo della manovra correttiva. Sotto osservazione è il comportamento tenuto dalle due maggiori agenzie di rating, Moody's e Standard and Poor's, nelle giornate più critiche della crisi borsistica, il 24 giugno, l'8 e l'11 luglio scorsi.
Nel rapporto la Consob propone un'analisi complessa di quanto accaduto, identificando diverse cause che agendo congiuntamente avrebbero provocato una serie di movimenti anomali e il crollo dei titoli. Tra questi, alcuni ordini cospicui di "vendita allo scoperto", a cui avrebbero fatto seguito una cascata di ordini automatici di vendita al ribasso, predeterminati sulla base di programmi informatici di acquisto e vendita gestiti da computer. Ad uno stato più avanzato è invece l'inchiesta condotta dal pm di Trani, Michele Ruggiero, che si è attivato dopo le denuncie presentate da Elio Lannutti, presidente di Adusbef, e Rosario Trefiletti della Federconsumatori, nelle quali si profilavano i reati di insider trading e market abuse (manipolazione del mercato) e si chiedeva il blocco delle diverse tipologie di "vendita allo scoperto". «Tutti sanno bene - affermano in un comunicato stampa Lannutti e Trefiletti - che la speculazione deriva soprattutto da fondi inglesi ed americani. In realtà lo sa anche la Consob, che interfacciandosi con Borsa Italiana (che ha i tabulati di tutte le contrattazioni) ben vede chi sono gli speculatori». I responsabili di Adusbef e Federconsumatori rompono un tabù, dicono ad alta voce quello che sanno tutti gli addetti ai lavori. il Sole24 ore del 10 luglio fa i nomi di alcuni hedge fund, confermati anche dal Financial Times, i super fondi speculativi ad alto rischio che hanno come propria ragione sociale il ruolo di corsari dei mercati borsistici, che nei giorni della manovra stavano vendendo importanti quote di titoli governativi italiani per comprare "credit default swap", ovvero speciali polizze assicurative che proteggono dal rischio di default. Cosa significa? Che alcuni potenti fondi speculativi, specializzati nell'arricchimento attraverso la variazione dei prezzi futuri, hanno deciso di guadagnare su un'operazione al ribasso dei titoli pubblici italiani. «Offrono al prezzo di oggi - ha spiegato Francesco Gesualdi sul manifesto del 17 luglio - titoli che si impegnano a dare fra una settimana, un mese o altra data futura». L'azzardo e soprattutto il trucco stanno nel fatto che questi fondi non possiedono ancora i titoli che offrono. Il mercato speculativo vende fuffa. Aspettative spacciate per previsioni razionali.
La scommessa su cui si fonda l'intera operazione speculativa sta nel provocare un forte ribasso del prezzo dei titoli promessi quando il loro valore era più alto, in modo da poterli acquistare al momento del loro costo più basso e guadagnare sul differenziale. Ovviamente perché ciò sia possibile occorre saper manovrare in modo da orientare il mercato, influenzare le fonti d'informazione, attuando attacchi concentrici, movimenti di panico, giocando anche sugli automatismi tecnici. Una somma di fattori che fanno aperto ricorso a tecniche manipolative del mercato e alla raccolta e controllo di notizie riservate. Il confine con l'aggiotaggio e l'insider trading è praticamente impercettibile, anzi nullo se si tiene conto del livello di connivenza già accertata in passato tra operatori dei fondi speculativi e vertici delle grandi corporation. Un recente verdetto della corte federale di Manhattan ha evidenziato la natura sistemica di questa collusione che vedeva nel libro paga del fondo Galleon un consigliere d'amministrazione di Goldman Sachs, un alto funzionario della Ibm, un consulente della McKinsey. Visti con la lente d'ingrandimento i mercati si dematerializzano, perdono il loro vantaggioso anonimato. Dietro l'astrazione dei rapporti sociali capistalistici emerge un brullichio d'attori animati da spietati interessi, ambizioni, una sfrenata sete di ricchezza. Dove sta scritto che devono essere loro i nuovi detentori della sovranità?
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Liberazione 21/07/2011, pag 4

Don Verzè, "uomo di Dio e di Denaro"

Maria R. Calderoni
Uomo di Dio e di Denaro. Per questo ha fatto miracoli. Don Luigi Maria Verzé, da Ilasi in provincia di Verona, 91 anni appena compiuti, laurea in filosofia, sacerdote, già segretario di un Santo - don Giovanni Calabria - e prediletto di un Beato - il cardinal Schuster -: don Verzé gran fondatore del San Raffaele, uno dei più grandi ospedali di eccellenza d'Europa. Prima pietra nell'ottobre 1969 - «non fredda pietra ma pietra di Dio che guarisce», dice lui -; tutto costruito e finito nel giro di due anni: infatti il 31 ottobre 1971 il primo malato fa il suo ingresso nel nuovo policlinico sorto al confine tra Sergrate e Milano.
Sorto come un vero "miracolo". A tirar su magistralmente e velocemente la nuova cittadella ospedaliera ha provveduto la "Fondazione del Centro San Raffaele del Monte Tabor", all'uopo fondata sempre da quel prete volenteroso ed efficiente che sa gestire insieme così bene scienza e business, carità cristiana e jet personale; sempre lui don Verzé. «Andate e guarite gli infermi!», è il motto ispiratore della Fondazione, che ha lo scopo - così si legge nello Statuto della medesima Fondazione - «di ricondurre il concetto e l'esercizio della medicina e dell'assistenza alla prassi e allo spirito del comando evangelico»; in linea con la legislazione italiana in materia di sanità, intende svolgere «una funzione di stimolo e contributo alla innovazione e modernizzazione del sistema scientifico-didattico-assistenziale». Secondo «il concetto cristiano di persona»: un grande ospedale, dotato di ogni confort e del massimo di assistenza e cura; «privato ma aperto indistintamente a ricchi e poveri». Ecco il San Raffaele, obbiettivo assolutamente raggiunto, è giusto darne atto.
Don Verzé, fortissimamente munito di Bibbia, di Monte Tabor (che è il monte della "Trasfigurazione di Gesù", si veda il bellissimo quadro di Giovanni Bellin), di Vangeli, carità cristiana e parecchio money (che pure fa miracoli, come si sa) diventa il Superman della sanità lombarda. San Raffaele e oltre. San Raffaele e altro.
Da quel primo ricoverato del 1971, oggi il policlinico di Milano conta 1367 letti, 700 medici, 1300 infermieri, 53 mila ricoveri e 8 milioni di prestazioni e esami ambulatoriali nel solo 2010; conta 11 dipartimenti e 45 specialità. Dal 1972 riconosciuto come Irccs, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico; e poi Polo universitario della Facoltà di medicina e chirurgia dell'Università statale di Milano; e poi dotato del Dimer (dipartimento di medicina riabilitativa; del Dicor (dipartimento malattie cardiovascolari); del Centro San Luigi Gonzaga per i malati di Aids; di Villa Turro, dipartimento di neuroscienze. Poi nasce il Dibit1 (bioctenologie e ricerca); e il Dibit2 (ricerca genomica e proteomica). Più una "Università Vita-Salute San Raffaele" (di cui sempre don Verzé è fondatore e rettore); più il "Movimento Medicina-Sacerdozio" (medicina come «scienza sacra»); più l'editrice San Raffaele (libri di saggistica divulgativa e una rivista, Kaos, bimestrale di cultura, medicina e scienze umane).
Prete e manager. Da via Olgettina 60 a quasi mezzo mondo. Dopo quella "prima pietra" datata 1969, ne ha inugurate molte altre. «Andate, insegnate, guarite», seguendo questo filo, ha creato tanti altri "San Raffaele per tutti": in Puglia, in Sardegna, in Sicilia, nel Veneto, a Roma. Non basta. Attraverso una Ong, l'Aispo (Associazione italiana per la solidarietà tra i popoli) da lui opportunamente fondata, don Verzé, si legge nella biografia ufficiale, «dà vita a grandi progetti nel mondo: l'Hospital Sao Rafael de Bahia e varie strutture sanitarie in altre difficili località del Brasile, in Africa, in Colombia, in India, in Afghanistan, in Iraq, in tanti altri paesi in via di sviluppo e in zone calde della terra».
Prete, manager, tycoon di Dio. Praticamente instancabile. Di già che c'è, perché fermarsi al solo settore sanità? Così nel nome di don Verzé c'è un hotel quattro stelle in Sardegna; una piantagione di frutta esotica nel Nord-est brasiliano; il jet privato Blu Energy; nonbché partecvipazioni varie in varie società.
Va da sé, il Monte Tabor non basta, e nemmeno il suo santo primigeno, quel Giovanni Calabria sostenitore del Santo Graal. Nella cerchia dei suoi fedelissimi (quelli che sono chiamati "i sigilli", una specie di "consorteria", di società semi-segreta), spiccano perciò banchieri (tipo Cesare Geronzi, Roberto Mazzotta, Gaetano Micciché), politici (soprattutto quelli con le mani in pasta dentro i posti che contano di Regioni, Province, Comuni), imprenditori (uno di nome fa Berlusconi, ad esempio). Insomma, Monte Tabor ma anche money money. Per esempio, tanto per citare, la Regione Lombardia è uno dei maggiori clienti e sostenitori dell'impero don Verzè: si parla di 340 milioni l'anno sotto la voce contributi sanità convenzionata. C'è Il "Giglio", un ospedale nuovo a Cefalù; c'è la "Cittadella della Salute" a Taranto. C'è anche il San Raffaele a Roma, quello della "brutta" storia. «Fui costretto a venderlo», dice don Verzè; e, vedi caso, fu costretto a venderlo «a un prezzo irrisorio», al noto imprenditore romano Angelucci; il quale, pochi mesi dopo, lo rivendette allo Stato. Uno scandalo, oggetto di molte interrogazioni parlamentari.
Andate, insegnate, guarite; e anche incassate. Nel suo quarantennale cammino, lo straordinario don Verzé ha dovuto subire qualche intoppo giudiziario - per esempio, 1976, un processo per tentata corruzione, c'era in ballo la concessione di due miliardi di lire da parte della Regione Lombardia - ma, tra prescrizioni, archiviazioni e assoluzioni, è sempre uscito indenne.
Secondo quanto racconta l'Espresso, una volta, anno 2005, dopo avere inaugurato quattro cantieri diversi in una stessa giornata, il Don si premurò di precisare: «Non chiedetemi dove trovo i soldi: noi sappiamo come incastrare la Provvidenza».
Il "buco" di un miliardo e un tragico colpo di pistola. Forse don Verzé l'ha incastrata troppo, la Provvidenza.


Liberazione 21/07/2011, pag 3