sabato 19 luglio 2008

La città in vendita

«Mondo finanziario e politici compiacenti
ecco gli autori del grande sacco di Roma»

Gianni Ventola Danese
Leggendo il suo libro ("La città in vendita", Edizioni Donzelli) si ha l'impressione, confermata dai dati e dalla realtà dei fatti, che le città siano state espropriate: al tessuto urbano sono stati letteralmente requisiti spazi storici, luoghi pubblici e, in definitiva, la prospettiva di uno sviluppo a misura d'uomo. Ma chi sono gli espropriatori?
Gli espropriatori sono essenzialmente due. Uno è quello vero, ovvero chi detiene le leve dell'economia che ormai ragiona solo in termini di investimenti. L'altro è quello politico. Facciamo una precisazione, stiamo parlando delle grandi città italiane, quelle che generano un flusso mondiale perché nelle città minori il fenomeno si legge di meno, anche se anche lì è comunque rintracciabile. Facciamo due esempi: Roma e Milano. Oggi gli immobili si comprano per la loro "valorizzazione", per trarne il maggior profitto possibile e senza sottostare ad alcuna regola di programmazione urbanistica. Se per fare questa operazione devo trasformare un immobile storico o addirittura aggiungere un piano in più, come ha fatto il gruppo Boscolo a Roma in Piazza Esedra, lo si fa. E nessuno dice niente.

Ma questo accade anche all'estero?
Direi di no. Nessuno a Parigi si sognerebbe di aggiungere un piano a uno dei palazzi che contornano Place Vendôme. Qui da noi hanno proprio rotto gli argini, si tratta di una pressione gigantesca da parte del mondo finanziario e imprenditoriale, anzi più finanziario che altro, che deve trovare luoghi di collocazione di un grande flusso di denaro. Ma il secondo fattore espropriante è anche quello politico amministrativo delle città, un sistema servile che, da sinistra a destra, è assolutamente acritico nei confronti di questo modello. All'estero non è così, mi dispiace dirlo, ma negli altri paesi europei l'idea secondo la quale le città sono un patrimonio culturale comune, e pertanto da difendere, è largamente condivisa, anche sul piano politico. In Germania stanno facendo opera di sbarramento all'ingresso di Wal Mart sul loro mercato commerciale, in Italia le grandi catene internazionali aprono dove e quando vogliono, negli ultimi anni a Roma sono sorti 28 centri commerciali, e ora si prepara addirittura la terza Ikea, come se non ne bastassero due...

Insomma, ritmi costruttivi da Italia del dopoguerra, lei l'ha definita una vera e propria «alluvione di cemento»...
E non sono io a dirlo, è il centro di ricerca economica Cresme che lo ha denunciato. Da qualche anno siamo tornati a costruire ai ritmi degli anni Sessanta, e purtroppo lo facciamo in grande. Solo qualche settimana fa c'è stata l'inaugurazione del centro commerciale più grande d'Italia, all'Eur, con tanto di miss Italia. Duecentocinquanta negozi più 20mila metri quadrati di supermercato, 5mila posti auto. E queste cose possono accadere solo quando il pubblico non fa più il pubblico e si lascia libero spazio ai profitti privati.

Ma ora non c'è il boom economico degli anni Sessanta, come sono possibili questi investimenti?
Questo è il punto, queste sono operazioni essenzialmente finanziarie, slegate dagli indicatori economici. Sono operazioni di land banking , cioè, una volta rotte le regole urbanistiche - facciamo un altro esempio, quello della Roma Calcio e la speculazione del Quartaccio - il privato decide come e quanto costruire in base alle sue esigenze di ritorno economico e in cambio concede un piccolo tornaconto al Comune: una strada, un giardinetto, un asilo. Insomma, per violare la legge, perché il piano regolatore fino a prova contraria è legge, in Italia è sufficiente pagare. Ma l'esempio paradigmatico di queste operazioni è quello della collina della Magliana dove ora c'è il più grande hotel di Roma con 2mila posti letto. Nel 2000 l'Alitalia, in crisi oggi come allora, chiese per esigenze di bilancio di poter valorizzare quei terreni, che il piano regolatore destinava altrimenti, attraverso la costruzione di un imponente hotel. Il piano regolatore è stato saltato a piè pari attraverso lo strumento dell'accordo di programma. E con il solo cambio della destinazione d'uso di un terreno si possono fare enormi profitti.

Già, mi spiega allora come è possibile acquistare terreni e case nel comune di Roma a 2 euro al metro quadro?
Si riferisce alle ex proprietà Borghese, e in effetti questo è un altro caso eclatante. Una holding lussemburghese ha acquistato in blocco 500 proprietà nel comune di Roma per 14 milioni di euro, spiccioli. E oggi hanno incominciato a metterle a frutto attraverso operatori spregiudicati che riescono anche a corrompere i poteri pubblici con lo stesso meccanismo dello scambio: edificabilità in cambio di strutture pubbliche. I profitti per il privato sono astronomici. Ed è questo secondo me il tema dei temi. Se in Italia, uno dei paesi più ricchi del mondo, si fa economia e profitto in questo modo truffaldino da paese arretrato, è chiaro che non andremo da nessuna parte. Questo malaffare negli altri paesi europei non esiste, non puoi comprare un terreno agricolo e poi piazzargli sopra un ipermercato, e se da noi si lascia spazio a queste operazioni spericolate poi non chiediamoci perché almeno quattro regioni del nostro paese sono in mano alla criminalità organizzata...

A proposito, che ruolo ha avuto in questo senso la legge Tremonti sul rientro dei capitali dall'estero?
Su questo sono sinceramente sconcertato. Grazie a quella legge sono rientrati in Italia flussi spaventosi di denaro di provenienza molto dubbia immediatamente reinvestiti in speculazioni edilizie. Io mi chiedo, quando Tremonti si erge a paladino contro il liberismo sfrenato e la globalizzazione, perché la sinistra non gli chiede come mai abbia fatto rientrare 70 miliardi di euro dal nulla? Mafia e camorra sono i principali attori del boom edilizio in Italia, con la complicità del mondo politico. Di tutto il mondo politico. Fu Fassino a dichiarare al Sole24Ore , nell'estate del 2005 a proposito dei furbetti del quartierino, che per lui «non c'era alcuna differenza tra Ricucci e un imprenditore che investe i propri soldi in una impresa, perché tutti e due creano ricchezza». Ebbene, uno che ha una tale confusione nella testa, cioè che non sa distinguere tra rendita speculativa e impresa, non credo possa portare il Paese da nessuna parte. Mi chiedo, perché la sinistra alternativa non declini più questi argomenti, che sono fondamentali per il passaggio a una nuova stagione storica. La mobilità nelle città, ad esempio.

Sarebbe a dire?
Perché è anche la mutazione delle grandi città che sta impoverendo molti italiani. Le faccio un esempio. Negli ultimi anni sono andate via da Roma 300mila persone, persone di ceto sociale debole costrette a trovare una nuova casa fuori Roma. Per la cronica mancanza di mezzi pubblici e di ferrovie, queste stesse persone sono condannate a usare l'automobile ogni giorno per tutto l'anno e, con i costi attuali del petrolio, è una spesa insostenibile per molti. Voglio dire, lo sfruttamento dei più deboli è anche questo, oggi è soprattutto questo. Ma perché il mondo politico non vede queste cose?

Le città vittime del pensiero unico?
Mi dispiace dirlo, ma sono uomini della sinistra a dire certe cose. Bersani ha spinto per sveltire le pratiche necessarie per aprire un nuovo esercizio commerciale. Senza alcuna regola, si pensa di poter lasciare le città in mano all'economia di mercato. Il più devastante di tutti è stato Capezzone, un fulgido esempio di coerenza, dai Radicali alla Rosa nel Pugno, ora con Forza Italia. Anche lui paladino della libera impresa in libera città. Ignorando che la città non è un mercato aperto dove l'impresa deve vincere su tutto, la città è uno spazio di relazioni sociali in cui tutti devono poter vivere. Oggi molti rioni del centro storico sono letteralmente morti, la vita è sparita, è rimasto solo un ceto sociale ad alto reddito, non c'è più stratificazione, non c'è più la società.

Ma ci sono forme di resistenza a questi processi?
Per fortuna sì, per esempio si guardi al caso della ex scuola Angelo Mai nel pieno centro di Roma, prima destinata a centro commerciale, poi a hotel di lusso. Fortunatamente nel rione Monti c'è ancora un tessuto popolare, una rete civica forte che si è opposta e il progetto fortunatamente non è andato in porto. Ma l'unica forma di resistenza efficace che vedo è il ritorno alle regole, il ritorno al rispetto del piano regolatore. Oggi con l'accordo di programma, tra la giunta comunale e l'operatore economico, tutto avviene in segreto, e il Consiglio comunale ratifica la decisione della giunta. Ma a quel punto chi legge i pacchi di migliaia di carte? Si ratifica e si va avanti. O ci rivolgiamo nella direzione del rispetto delle regole e della trasparenza nei processi decisionali, o il sistema paese è destinato a crollare sotto il peso dell'illegalità.

Ma ci si può realmente aspettare il ripristino della legalità e del rispetto della sfera pubblica da una classe dirigente che oggi più che mai coincide con i poteri forti del mercato?
Da questa sicuramente no, è tempo sprecato, ma dalla sinistra alternativa e dalle nuove forze sociali del paese ci si può aspettare un programma politico sui grandi temi che vada oltre le sacrosante battaglie contro la Tav o contro la base Nato di Vicenza. E penso al tema dell'energia, della mobilità, del lavoro che deve essere, quando possibile, sempre di più telelavoro, dei diritti, del Welfare, della libera comunicazione nella Rete, e in sostanza di un pubblico che deve riconquistare qualità e autorevolezza nei confronti di un privato che oggi sembra sempre più arrogante e invadente. E il mio libro parla essenzialmente di questo problema, drammaticamente evidente nei nuovi assetti urbanistici delle grandi città.


Liberazione 19/07/2008

G8, la protesta dei filippini

Il sindacato denuncia la crisi e i licenziamenti

Li abbiamo visti in migliaia nella provincia
filippina di Laguna, testimonianze
e foto dei lavoratori picchiati e
licenziati in mano, a protestare contro
la Nestlé per quei comportamenti iniqui
dei quali ancor oggi la corporation
cerca di non rispondere. Ancor prima
li abbiamo visti piangere i propri attivisti
sequestrati e uccisi, e condurre
con coraggio un’indagine indipendente
che ha collegato quei crimini al Governo
di Gloria Marcapagal Arroyo.
Non era la prima volta che si opponevano
a volto scoperto alla politica del
proprio Paese. Kilusang Mayo Uno, il
sindacato filippino Primo Maggio, è
nato proprio così: nel 1980 ha unito
un gruppo di attivisti democratici e
sindacali nella lotta contro la dittatura
di Ferdinand Marcos. In seguito ha tenuto
testa a Corazon Aquino e continua
ad opporsi ai potenti interessi statunitensi
che colonizzano ancora, basi
militari e imprese al seguito, sempre
più campi e fabbriche di quella manciata
di isole del Pacifico.
Nel giorni del G8 si sono piazzati davanti
all’ambasciata giapponese di Manila.
Mentre i Grandi cucinavano a Tokyo,
tra una portata di gala e l’altra, i
loro accordi altisonanti sui destini del
mondo, Elmer Labog, leader degli attivisti
del Primo Maggio, ricordava loro
a distanza qualche semplice numero.
L’Organizzazione Mondiale del Lavoro
ha previsto nei primi mesi di questo
anno, molto prima che la crisi economica
mordesse più forte, che entro
il 2008 più di 5mila lavoratori si sarebbero
uniti al gruppo dei 190 milioni
che in tutto il mondo già alla fine del
2007 risultavano disoccupati. A tutto
questo non si arriva dopo anni di sacrifici
per tutti: mentre sempre più persone
perdevano il loro posto negli stabilimenti
e nei campi di tutto il mondo,
perché nelle tasche delle grandi imprese
hanno continuato ad entrare tanti
soldi: le mille imprese più importanti
del mondo dal 2001 al 2005 hanno visto
crescere come mai in passato i propri
guadagni. Parliamo di un’impennata
del 328%, che significa un aumento
di soli utili da 10 miliardi di dollari.
Se diamo retta ad un’altra agenzia
delle Nazioni Unite, l’UNDP stima
che in 53 dei 73 Paesi del mondo dei
quali ha a disposizione dati comparabili,
che insieme fanno circa i quattro
quarti della popolazione mondiale,
ha registrato da cinque anni a questa
parte un aumento inedito delle diseguaglianze
nella distribuzione dei
redditi ancora più drammatiche che
negli ultimi vent’anni. In soldoni, ci
dice ancora l’ILO stima che più di
151 milioni di persone lavorano ma
guadagnano meno di un dollaro al
giorno, e più di 235 milioni l’equivalente
di due dollari.
Anche nel documento patinato consegnato
agli Otto Grandi dal Trade
Union Advisory Committee presso
l’OCSE, e scritto in collaborazione
con le centrali sindacali europee e le
Global Unions, le cifre tornano, sono
sempre le stesse. Se il lavoro finisce,
non si può contare nemmeno sulla carità:
al di là delle tante promesse dei
Grandi, nel 2007 i cosiddetti Aiuti allo
sviluppo che i Paesi più ricchi hanno
regalato ai più poveri sono diminuiti
di oltre l’8%, ed oggi rappresentano
circa 100 milioni di dollari, un ridicolo
0,25% di tutto il loro Prodotto
interno lordo. Una buona parte, per di
più, se li sono ripresi mandando sul
campo e caricando sul conto merci,
servizi e cooperanti di casa propria. E
la carovana del G8 continua imperterrita
il suo giro turistico intorno al
mondo.

Liberazione 11 Luglio 2008

India, la sinistra lascia il governo

India, la sinistra lascia il governo dopo patto nucleare con gli Usa

I partiti comunisti indiani sono usciti ieri dal governo di coalizione che avevano sostenuto per
quattro anni. Gli accordi con gli Stati Uniti sul nucleare civile hanno provocato la rottura dei comunisti in segno di protesta. "Non ci saranno problemi di stabilità per il nostro governo", ha dichiarato il primo ministro indiano Manmohan Singh, oggi a Sapporo in Giappone in occasione del summit del G8.
Singh è arrivato ieri a Toyako dove dovrebbe incontrare George Bush per confermare l'intesa siglata nel 2005 sulla tecnologia nucleare, nonostante l'opposizione interna. Prakash Karat, il leader del maggior partito di sinistra, ha chiesto «un incontro con il primo ministro indiano per ritirare formalmente l'appoggio». E ha poi aggiunto: «Abbiano chiesto di essere ricevuti domani dal presidente per ritirare formalmente il nostro sostegno» al governo. Che comunque, secondo gli osservatori, non dovrebbe cadere grazie ad un accordo sottoscritto la settimana scorsa tra il Partito del Congresso (che guida la coalizione) e un partito regionale.
La vita politica indiana è stata gravemente appesantita dalle polemiche successive all'accordo sul nucleare civile, elaborato con gli Stati Uniti di Bush tra il 2005 e il 2007 e considerato una pietra militare del riavvicinamento tra i due paesi. Singh e la leader del Partito del Congresso Sonia Gandhi, vogliono mettere in pratica il testo dell'accordo concludendo i negoziati con l'Aiea, l'Agenzia internazionale dell'energia atomica, e con i 45 paesi del Gruppo dei fornitori nucleari (Nsg). Solo dopo i due via libera sarà consentito all'India, che necessita di quantità sempre maggiori di energia, di acquistare reattori e combustibile. L'ennesima conferma della politica dei due pesi e delle due misure adottata in politica estera dal governo statunitense, considerato che l'India, impegnata da decenni in una guerra fredda con il vicino Pakistan, finora si è sempre rifiutata di firmare il Trattato di non proliferazione. L'accordo, secondo i sostenitori, farà arrivare potenzialmente milioni di dollari alle compagnie americane ed europee. Oltre a dare a Nuova Delhi una copertura energetica alternativa ai combustibili fossili - ma non pulita -, che sostenga la sua economia in vertiginosa crescita.

Liberazione 09/07/2008

mercoledì 16 luglio 2008

Auto, così è finita la corsa

Repubblica — 30 giugno 2008 pagina 1 sezione: AFFARI FINANZA
La tempesta si è abbattuta sull' Europa e sul Giappone, l' incubo del mondo delle quattro ruote è divenuto realtà. La crisi del mercato dell' auto ormai non è più solo nordamericana, è diventata globale: il mondo dell' auto teme un Sunset Boulevard, un doloroso viale del tramonto. I grandi produttori nipponici e del Vecchio continente ne sono investiti in pieno. E' forse la sfida più dura che il settore abbia mai affrontato, più di ogni domenica senza auto dopo una guerra in Medio Oriente, accentuata giovedì scorso dal crollo in borsa di General Motors: meno 12 per cento, i minimi dal ' 95, un tonfo che ha colpito l' intero comparto.E' una sfida pesante, perché nel complesso della hard economy, l' economia manifatturiera, l' auto ha un ruolo più importante nella Ue e nel Sol Levante che non negli States. "L' auto ha ancora un futuro, e quale?". L' interrogativo pesa come un macigno. Da Tokyo a Wolfsburg, da Torino a ParigiBillancourt, spazza via ottimismi, certezze, speranze. E' un colpo al cuore del sistema industriale europeo e giapponese. Un colpo al cuore, avvertono gli analisti rassicurando solo in parte, da cui ci si può salvare. Ma solo facendo scelte senza compromessi: più competizione sui nuovi mercati, a cominciare dall' area Bric (Brasile Russia India Cina) e nel contempo auto più ecologiche che mai per i mercati interni ormai saturi. Insomma, siamo entrati in una fase di svolta nella storia industriale del mondo. Toccherà al comparto auto una sorte di declino, come è avvenuta nelle vecchie potenze industriali per il tessile, l' acciaio, le tipografie? Antiche aristocrazie operaie, che in decenni e generazioni di duro lavoro hanno messo su famiglia, comprato case, si sono quasi imborghesite, devono temere il precipizio della nuova povertà con altre grandi parti delle società in cui vivono? La situazione, secondo i dati di maggio, è dura. Non crolla più solo il mercato americano, dove l' onda lunga della crisi dei mutui subprime e delle tempeste finanziarie ha abbattuto la voglia di comprare dei consumatori, e dove euro e yen con cui paghi Bmw o Lexus, Golf o Toyota, sono troppo più forti del dollaro. I big dell' auto euronipponici non scontano più solo l' effetto della fine inevitabile della lunga guerra a chi offriva più sconti. Diamo un' occhiata ai dati. A maggio, nell' Unione europea e nei paesi Efta (Norvegia, Svezia, Islanda) la vendita di auto nuove è calata dell' 8 per cento. "Affrontiamo un rally dei prezzi che sta creando un fardello non trascurabile per i costruttori", afferma Juergen Geissinger, vicepresidente del Vda, la potente associazione tedesca dei produttori d' auto. Non pesa solo il caropetrolio. Aumentano anche le materie prime vitali per il comparto e per l' indotto: più 174 per cento per il rame, più 176 per cento per i metalli riciclati, più 55 per cento per l' alluminio, più 60 per cento per l' energia elettrica. E comunque, proprio per i produttori che vendono di più negli Usa (tedeschi e giapponesi, appunto) il contemporaneo calo dell' 11 per cento delle vendite in America è un colpo storico. Si teme per il futuro di una branca decisiva in Europa: dall' auto dipendono circa dodici milioni di posti di lavoro. La paura corre sul filo, unisce produttori di massa e costruttori di modelli premium (di lusso o superlusso), accomuna nella stessa barca concorrenti e rivali di un solo paese o di diversi paesi e continenti: Vw e RenaultNissan, PeugeotCitroen e Toyota. Solo in Francia le vendite sono cresciute a maggio, mentre in Italia e Spagna sono crollate rispettivamente del 18 e del 24 per cento e nel regno Unito del 3,5. Se l' Europa piange, il Sol Levante non ride. Proprio loro, gli ex nemici mortali dell' America piegati dai B29 e da due bombe atomiche, si erano presi la rivincita della pace: erano diventati numero due mondiale mondo come primi esportatori di auto negli States. Adesso la bolla esplosa li colpisce duro. Toyota, numero uno mondiale, lamenta un prevedibile calo degli utili del trenta per cento. Nissan, la poderosa testa di ponte americana che il geniale Carlos Ghosn ha dato a Renault, è a meno 29,5 per cento. «I costruttori giapponesi soffrono ora di quello che era fino a poco fa la loro priorità strategica, il mercato americano», denuncia Ichiro Takamatsu di Alphex Investments. E anche in Europa il loro consolidato successo ora diventa un problema. Per i nipponici come per gli europei, la svolta strategica è inevitabilmente duplice, ma è la stessa. Primo, puntare sui nuovi mercati: Cina, Russia, le altre potenze emergenti. Secondo, offrire auto sempre più ecologiche, puntare sempre più sull' ibrido e domani sull' elettrico. A lungo andare, sarà inevitabile l' addio al motore a scoppio e il passaggio all' auto elettrica. Ciò imporrà investimenti enormi di ricerca che non tutti i produttori si potranno permettere. - ANDREA TARQUINI

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2008/06/30/auto-cosi-finita-la-corsa.html

Nell'Iraq post Saddam tornano le Sette sorelle

Dopo trent'anni le grandi compagnie riprendono il controllo
Senza legge e senza limiti

Sabina Morandi
La notizia è approdata sui media internazionali con i titoli cubitali delle grandi occasioni: dopo più di trent'anni le grandi compagnie internazionali tornano in Iraq.
Il ministro del Petrolio Hussein Shahristani ha messo sul piatto sei giacimenti considerati «la spina dorsale» dell'industria petrolifera irachena, e ha invitato le compagnie qualificate - 41 straniere e sei irachene - a piazzare le proprie fiches. Stranamente i nomi delle compagnie irachene non sono stati resi noti mentre sono notissimi quelli delle 35 straniere: dai giganti come ExxonMobil, BP, Total, Royal Duch Shell alle piccole ma aggressive compagnie asiatiche come Mitsubishi (Giappone), Petronas (Malesia), Kogas (Corea del Sud), Lukoil (Russia) e le cinesi Cnpc e Cnooc.
Chi conosce la situazione irachena e soprattutto i tentativi, fino a questo momento respinti, di far passare una legge petrolifera confezionata sui desideri delle multinazionali, è rimasto un po' spiazzato. Ma come, e l'annoso conflitto sulla suddivisione dei proventi petroliferi fra il governo centrale e le zone sciite e curde ricche di giacimenti? E la questione delle royalties, ovvero i diritti che vanno versati allo stato sovrano e che la legge petrolifera tentava vergognosamente di ridimensionare su percentuali coloniali? Che fine ha fatto il progetto di privatizzazione del greggio? E che fine farà il personale qualificato iracheno, che rischia di ritrovarsi fuori mercato con l'arrivo di Big Oil?
Insomma, come è possibile che tutti questi nodi, su di un argomento sensibile come il petrolio - la vera causa dell'invasione americana secondo la maggior parte degli iracheni - siano stati sciolti così facilmente? Certo, senza le tecnologie e gli investimenti delle compagnie straniere non si va da nessuna parte e i giacimenti continuano a girare col motore al minimo, fermi su di una produzione di 2 milioni e mezzo di barili al giorno quando se ne potrebbero pompare fuori quasi il doppio. Ma fino a questo momento, in mancanza di una cornice legale - e di sicurezza - le compagnie hanno continuato a lavorare col telecomando, ovvero impartendo ordini ai dipendenti iracheni dai loro uffici d'oltremare.
A pensar male ci si azzecca quasi sempre, diceva uno che di intrighi se ne intendeva, e infatti basta un'occhiata al piano di Shahristani per imbattersi in una serie di escamotage che lasciano i suddetti problemi irrisolti e rischiano anzi di alimentare nuovi conflitti. Ci sono problemi nel calcolo delle royalties? Il ministro del Petrolio ha risolto chiedendo alle compagnie di lavorare come fornitori di servizi - e di venire pagate di conseguenza - invece di dare loro una percentuale del greggio estratto. Gli iracheni hanno paura di perdere il lavoro? Ma le majors verranno solo a fare corsi di formazione per gli ingegneri locali e comunque, in ogni progetto, le compagnie irachene dovranno avere almeno una partecipazione del 25% secondo modalità che verranno rese note con la pubblicazione degli accordi tecnici di servizio. Peccato che dei suddetti accordi non ci sia ancora traccia come, del resto, non c'è traccia delle compagnie irachene che dovrebbero lavorare insieme a quelle straniere. Va detto anche che la durata dei contratti è molto breve: dai due anni previsti a uno soltanto, vista la delicatezza dell'argomento.
Un colpo al cerchio del nazionalismo e uno alla botte delle Sette sorelle, insomma, che però rischia di rendere l'offerta molto poco allettante per gli investitori anche se il piatto è certamente ricco: ci sono i grandi giacimenti del Sud come West Qurna (7,4 miliardi di barili stimati), South Rumalla (7,3 miliardi di barili) e Zubar (4 miliardi), cui seguono quelli del Nord: Misan Group (2,5 miliardi), Bai Hassan (2,3 miliardi) e Kirkuk (6,5 miliardi). Com'è noto le stime delle riserve lasciano il tempo che trovano, ma di sicuro si tratta di giacimenti importanti e ancora relativamente poco sfruttati rispetto alle riserve di altri paesi del Golfo.
Anche la tabella di marcia prevista dal governo pecca di ottimismo. Alla lista dei campi presentata ieri da Shahristani dovrebbe seguire, a giorni, la firma degli accordi tecnici di servizio. A settembre le compagnie che hanno firmato dovranno presentare al governo di Baghdad dettagliati piani di sviluppo per partecipare alle gare d'appalto che si dovrebbero tenere fra la fine del 2008 e l'inizio del 2009. La prima ondata di contratti firmati è prevista per il giugno prossimo, dopodichè si spera di partire con la fase due che è quella relativa all'esplorazione di nuovi giacimenti, fase nella quale sono richiesti investimenti molto maggiori e quindi, un maggiore tornaconto per le compagnie interessate. Una lista di pie intenzioni, dunque, che non dissipa i sospetti degli iracheni né rassicura più di tanto le compagnie, restie ad inviare uomini e mezzi finché la controversa legge petrolifera non sarà stata approvata.


Liberazione 02/07/2008

Petrolio, punto di non ritorno

Sabina Morandi
Alla fine anche il tetto dei 140 dollari al barile è stato superato nei mercati di Londra e New York, dove ci si scambiano freneticamente i barili virtuali determinando il prezzo di quelli veri. Una sbornia speculativa largamente prevista dai teorici del picco, quella congrega sempre più ampia di petrolieri pentiti che hanno messo insieme i propri studi e le proprie competenze arrivando a delineare con precisione, già all'inizio del 2000, lo scenario attuale. Del resto non bisogna essere né economisti né geologi per capire che una risorsa in via di esaurimento è destinata ad attirare ogni sorta di speculazione e che un mercato del genere è molto sensibile a ogni più insignificante notizia. E di notizie sul petrolio, nella scorsa settimana, ce ne sono state tante.
La più allarmante riguarda certamente le stime rilasciate dalla Pemex, la compagnia petrolifera messicana che ha ammesso un declino della produzione del 10% in un solo anno. Un declino consistente e repentino nel terzo più importante fornitore degli Stati Uniti, già alle prese con la crisi del prezzi alimentari innescata dalle speculazioni e dall'aumento del costo dei trasporti. A rincarare la dose sono arrivate le dichiarazioni di Shokri Ghanem, capo della compagnia nazionale libica, che ha parlato per la prima volta di picco annunciando la fine del petrolio «facile ed economico» cui eravamo avvezzi. Poi la Energy Information Administration statunitense ha ridimensionato le produzioni non-Opec - sulle quali l'Occidente punta moltissimo - e alla fine ci si è messo pure George Soros sostenendo che i prezzi continueranno a salire e che è perfettamente inutile insistere con i paesi produttori perché aumentino il ritmo delle estrazioni. Secondo il finanziere i prezzi alti costringeranno i paesi industrializzati a consumare di meno e a investire sull'efficienza energetica, come vanno consigliando i geologi e gli economisti che, ormai da settimane, sono chiamati a dire la loro davanti al Senato Usa.
Dalle nostre parti, com'è noto, il governo non viene nemmeno sfiorato da un'idea del genere e i media nostrani continuano a recitare lo spartito degli sceicchi avidi e crudeli (ora anche anti-occidentali) fuori corso già dagli anni Settanta. Dopo la nascita dell'Opec e lo shock petrolifero i paesi consumatori avevano cominciato a rivolgersi alle produzioni non-Opec (Russia, Mare del Nord, ecc..) che disponevano di un petrolio più costoso da estrarre ma politicamente più gestibile. Allora, approfittando delle loro enormi riserve e dei bassissimi costi di estrazione, i sauditi riversarono sul mercato internazionale una quantità tale di greggio da provocare il crollo dei prezzi e la successiva rovina di molti i concorrenti, ma oggi non sono più materialmente in grado di farlo a causa del declino produttivo.
Ora, a parte il fatto che anche la favoletta dei perfidi sceicchi era una balla confezionata per nascondere il patto di ferro siglato negli anni Cinquanta fra la casa di Saud e quella di Washington, va detto che i produttori non hanno alcun interesse a danneggiare l'economia globale. Un prezzo insostenibile costringerebbe i paesi industrializzati (almeno lo speriamo ardentemente) a investire nelle rinnovabili e nell'efficienza energetica innescando una spirale al ribasso - almeno questo è quello che temono i paesi Opec quando continuano a insistere sulle distorsioni del mercato speculativo. «Non possiamo aumentare la produzione» ha dichiarato il presidente dell'Opec Chakib Khelil il 24 giugno «a meno che non ci sia davvero un aumento della domanda nel mercato internazionale». E la domanda, malgrado le isterie anti-cinesi che vanno di moda a casa nostra, non è affatto aumentata perchè i cinesi impiegano ancora molto carbone, di cui dispongono in abbondanza.
Ai limiti fisici che cominciano a farsi sentire vanno aggiunti i venti di guerra, anch'essi sottostimati dai giornalisti italici. Certamente, se all'aumento vertiginoso del petrolio fossero seguiti annunci di grandi investimenti nelle rinnovabili, i prezzi sarebbero scesi immediatamente. I venti di guerra invece, concretizzati nelle massicce esercitazioni che l'aviazione israeliana ha condotto all'inizio di giugno e nel pressing che la Casa Bianca (o almeno il vice-presidente Cheney) continua a fare sull'Iran, mandano ai mercati un messaggio molto chiaro: ci massacreremo fino all'ultimo barile e quindi il valore del greggio continuerà a salire. La fretta degli americani ha motivazioni reali: prima di tutto il continuo va e vieni di allarmi e rassicurazioni sul nucleare di Teheran (indice, secondo tutti i commentatori, del fatto che l'amministrazione è spaccata su questa guerra) sta di fatto provocando ciò che voleva evitare, ovvero un avvicinamento dell'Iran alla Cina mediante trasferimento massiccio di capitali in fuga dalle sanzioni verso l'Asia. In secondo luogo Washington teme come la peste il mega-oleodotto che dovrebbe unire i giacimenti iraniani alla zona industriale cinese passando per il Pakistan e l'India. Va detto che la decennale strategia degli oleodotti, a cui si deve l'intervento Usa (e italiano) nei Balcani, rischia di essere spazzata via da un progetto che sta diventando sempre più concreto. A questo si deve l'oscillazione di Washington nei confronti di New Delhi, incomprensibile se non si tengono presenti anche i progressi della mega-pipeline e la posizione dell'India. La propaganda anti-iraniana rende quasi necessario il bombardamento - prima appunto che i petrodollari di Teheran se ne vadano tutti a ingrassare la borsa di Shanghai - e soprattutto il cambio di regime necessario per stracciare i contratti che l'Iran ha firmato con le compagnie cinesi, indiane, malesi, russe ed europee (vedi l'Eni) e per fare spazio alle Sette sorelle, cacciate a furor di popolo dal paese insieme allo Scià.
Il problema, come ben sa Condoleeza Rice che infatti cerca di mettere i bastoni fra le ruote al governo israeliano, è che Teheran è fondamentale per mantenere la fragilissima "pace" irachena e che difficilmente un bombardamento potrà favorire un cambio di regime - sul famoso nucleare c'è poco da dire visto che perfino la Cia ammette che la bomba è lontana e che, comunque, anche se fosse in costruzione sarebbe difficilissima da individuare. L'attacco all'Iran, soprattutto da parte di un paese dotato di centinaia di testate nucleari e inaccessibile a qualunque ispezione internazionale come Israele, provocherebbe se mai la ricomposizione di ogni dissidio interno in nome della resistenza all'aggressore e, alla lunga, avrebbe sicuramente il risultato di accelerare la costruzione della famosa bomba come avvenne dopo la guerra con Saddam, che era stato dotato di ogni sorta di armi non convenzionali dal civile Occidente. Nel breve periodo tuttavia, il risultato di un'operazione analoga a quella che nell'estate del 2006 Israele scatenò sul Libano sarebbe uno solo: petrolio in ascesa libera, probabilmente oltre i duecento dollari al barile.


Liberazione 28/06/2008

mercoledì 2 luglio 2008

Chomsky: US public irrelevant

Chomsky says the US can learn something from Bolivia's democracy [GALLO/GETTY]


Noam Chomsky, the renowned US academic, author and political activist, speaks to Avi Lewis on Al Jazeera's Inside USA.

They discuss whether the US election this year will bring real change, the ongoing conflict in Iraq and why Americans should look to their Southern American counterparts for political inspiration.

Avi Lewis: I'd like to start by talking about the US presidential campaign. In writing about the last election in 2004, you called America's system a "fake democracy" in which the public is hardly more than an irrelevant onlooker, and you've been arguing in your work in the last year or so that the candidates this time around are considerably to the right of public opinion on all major issues.

So, the question is, do Americans have any legitimate hope of change this time around? And what is the difference in dynamic between America's presidential "cup" in 2008 compared to 2004 and 2000?

Noam Chomsky: There's some differences, and the differences are quite enlightening. I should say, however, that I'm expressing a very conventional thought – 80 per cent of the population thinks, if you read the words of the polls, that the government is run by a few big interests looking out for themselves not for the population [and] 95 per cent of the public thinks that the government ought to pay attention to public opinion but it doesn't.

As far as the elections are concerned, I forget the exact figure but by about three to one people wish that the elections were about issues, not about marginal character qualities and so on. So I'm right in the mainstream.

There's some interesting differences between 2004 and 2008 and they're very revealing, it's kind of striking that the commentators don't pick that up because it's so transparent.

The main domestic issue for years … is the health system - which is understandable as it's a total disaster.

The last election debate in 2004 was on domestic issues ... and the New York Times the next day had an accurate description of it. It said that [former Democratic presidential candidate John] Kerry did not bring up any hint of government involvement in healthcare because it has so little political support, just [the support of] the large majority of the population.

In focus

In-depth coverage of the US presidential election
But what he meant was it was not supported by the pharmaceutical industry and wasn't supported by the financial institutions and so on.

In this election the Democratic candidates all have [health] programmes that are not what the public are asking for but are approaching it and could even turn into it, so what happened between 2004 and 2008?

It's not a shift in public opinion - that's the same as before, what happened is a big segment of US corporate power is being so harmed by the healthcare system that they want it changed, namely the manufacturing industry.

So, for example, [car manufacturer] General Motors says that it costs them maybe $1,500 more to produce a car in Detroit then across the border in Windsor, Canada, just because they have a more sensible healthcare system there.

Well, when a big segment of corporate America shifts its position, then it becomes politically possible and has political support. So, therefore, you can begin to talk about it.

But those aren't changes coming from pressure from below?

No, the public is the same, it's been saying the same for decades, but the public is irrelevant, is understood to be irrelevant. What matters is a few big interests looking after themselves and that's exactly what the public sees.

And yet, you can see people agitating against the official story, even within the electoral process. There is definitely a new mood in the US, a restlessness among populations who are going to political rallies in unprecedented numbers.

What do you make of this well branded phenomenon of hope - which is obviously part marketing - but is it not also part something else?

Well that's Barack Obama. He has his way, he presents himself - or the way his handlers present him - as basically a kind of blank slate on which you can write whatever you like and there are a few slogans: Hope, unity …

Change?

Change. And it does arouse enthusiasm and you can understand why. Again 80 per cent of the population thinks the county is going the wrong way.

Chomsky: Understandable that Obama is generating "enthusiasm" [Reuters]
For most people in the US the past 30 years have been pretty grim. Now, it's a rich country, so it's not like living in southern Africa, but for the majority of the population real wages have stagnated or declined for the past 30 years, there's been growth but it's going to the wealthy and into very few pockets, benefits which were never really great have declined, work hours have greatly increased and there isn't really much to show for it other than staying afloat.

And there is tremendous dissatisfaction with institutions, there's a lot of talk about Bush's very low poll ratings, which is correct, but people sometimes overlook the fact that congress's poll ratings are even lower.

In fact all institutions are just not trusted but disliked, there's a sense that everything is going wrong.

So when somebody says "hope, change and unity" and kind of talks eloquently and is a nice looking guy and so on then, fine.

If the elite strategy for managing the electorate is to ignore the will of the people as you interpret it through polling data essentially, what is an actual progressive vision of changing the US electoral system? Is it election finance, is it third party activism?

We have models right in front of us. Like pick, say, Bolivia, the poorest county in South America. They had a democratic election a couple of years ago that you can't even dream about in the US. It's kind of interesting it's not discussed; it's a real democratic election.

A large majority of the population became organised and active for the first time in history and elected someone from their own ranks on crucial issues that everyone knew about – control of resource, cultural rights, issues of justice, you know, really serious issues.

And, furthermore, they didn't just do it on election day by pushing a button, they've been struggling about these things for years.

A couple of years before this they managed to drive Bechtel and the World Bank out of the country when they were trying to privatise the water. It was a pretty harsh struggle and a lot of people were killed.

Well, they reached a point where they finally could manifest this through the electoral system - they didn't have to change the electoral laws, they had to change the way the public acts. And that's the poorest country in South America.

Actually if we look at the poorest country in the hemisphere – Haiti - the same thing happened in 1990. You know, if peasants in Bolivia and Haiti can do this, it's ridiculous to say we can't.

The Democrats in this election campaign have been talking a lot, maybe less so more recently, about withdrawing from Iraq.

What are the chances that a new president will significantly change course on the occupation and might there be any change for the people of Iraq as a result of the electoral moment in the US?

Well, one of the few journalists who really covers Iraq intimately from inside is Nir Rosen, who speaks Arabic and passes for Arab, gets through society, has been there for five or six years and has done wonderful reporting. His conclusion, recently published, as he puts it, is there are no solutions.

This has been worse than the Mongol invasions of the 13th century - you can only look for the least bad solution but the country is destroyed.

The war on Iraq has been a catastrophe, Chomsky says [AFP]
And it has in fact been catastrophic. The Democrats are now silenced because of the supposed success of the surge which itself is interesting, it reflects the fact that there's no principled criticism of the war – so if it turns out that your gaining your goals, well, then it was OK.

We didn't act that way when the Russians invaded Chechnya and, as it happens, they're doing much better than the US in Iraq.

In fact what's actually happening in Iraq is kind of ironic. The Iraqi government, the al-Maliki government, is the sector of Iraqi society most supported by Iran, the so-called army - just another militia - is largely based on the Badr brigade which is trained in Iran, fought on the Iranian side during the Iran-Iraq war, was part of the hated Revolutionary Guard, it didn't intervene when Saddam was massacring Shiites with US approval after the first Gulf war, that's the core of the army.

The figure who is most disliked by the Iranians is of course Muqtada al-Sadr, for the same reason he's disliked by the Americans – he's independent.

If you read the American press, you'd think his first name was renegade or something, it's always the "renegade cleric" or the "radical cleric" or something - that's the phrase that means he's independent, he has popular support and he doesn't favour occupation.

Well, the Iranian government doesn't like him for the same reason. So, they [Iran] are perfectly happy to see the US institute a government that's receptive to their influence and for the Iraqi people it's a disaster.

And it'll become a worse disaster once the effects of the warlordism and tribalism and sectarianism sink in more deeply.

Chomsky: US public irrelevant

Chomsky says the US can learn something from Bolivia's democracy [GALLO/GETTY]


Noam Chomsky, the renowned US academic, author and political activist, speaks to Avi Lewis on Al Jazeera's Inside USA.

They discuss whether the US election this year will bring real change, the ongoing conflict in Iraq and why Americans should look to their Southern American counterparts for political inspiration.

Avi Lewis: I'd like to start by talking about the US presidential campaign. In writing about the last election in 2004, you called America's system a "fake democracy" in which the public is hardly more than an irrelevant onlooker, and you've been arguing in your work in the last year or so that the candidates this time around are considerably to the right of public opinion on all major issues.

So, the question is, do Americans have any legitimate hope of change this time around? And what is the difference in dynamic between America's presidential "cup" in 2008 compared to 2004 and 2000?

Noam Chomsky: There's some differences, and the differences are quite enlightening. I should say, however, that I'm expressing a very conventional thought – 80 per cent of the population thinks, if you read the words of the polls, that the government is run by a few big interests looking out for themselves not for the population [and] 95 per cent of the public thinks that the government ought to pay attention to public opinion but it doesn't.

As far as the elections are concerned, I forget the exact figure but by about three to one people wish that the elections were about issues, not about marginal character qualities and so on. So I'm right in the mainstream.

There's some interesting differences between 2004 and 2008 and they're very revealing, it's kind of striking that the commentators don't pick that up because it's so transparent.

The main domestic issue for years … is the health system - which is understandable as it's a total disaster.

The last election debate in 2004 was on domestic issues ... and the New York Times the next day had an accurate description of it. It said that [former Democratic presidential candidate John] Kerry did not bring up any hint of government involvement in healthcare because it has so little political support, just [the support of] the large majority of the population.

In focus

In-depth coverage of the US presidential election
But what he meant was it was not supported by the pharmaceutical industry and wasn't supported by the financial institutions and so on.

In this election the Democratic candidates all have [health] programmes that are not what the public are asking for but are approaching it and could even turn into it, so what happened between 2004 and 2008?

It's not a shift in public opinion - that's the same as before, what happened is a big segment of US corporate power is being so harmed by the healthcare system that they want it changed, namely the manufacturing industry.

So, for example, [car manufacturer] General Motors says that it costs them maybe $1,500 more to produce a car in Detroit then across the border in Windsor, Canada, just because they have a more sensible healthcare system there.

Well, when a big segment of corporate America shifts its position, then it becomes politically possible and has political support. So, therefore, you can begin to talk about it.

But those aren't changes coming from pressure from below?

No, the public is the same, it's been saying the same for decades, but the public is irrelevant, is understood to be irrelevant. What matters is a few big interests looking after themselves and that's exactly what the public sees.

And yet, you can see people agitating against the official story, even within the electoral process. There is definitely a new mood in the US, a restlessness among populations who are going to political rallies in unprecedented numbers.

What do you make of this well branded phenomenon of hope - which is obviously part marketing - but is it not also part something else?

Well that's Barack Obama. He has his way, he presents himself - or the way his handlers present him - as basically a kind of blank slate on which you can write whatever you like and there are a few slogans: Hope, unity …

Change?

Change. And it does arouse enthusiasm and you can understand why. Again 80 per cent of the population thinks the county is going the wrong way.

Chomsky: Understandable that Obama is generating "enthusiasm" [Reuters]
For most people in the US the past 30 years have been pretty grim. Now, it's a rich country, so it's not like living in southern Africa, but for the majority of the population real wages have stagnated or declined for the past 30 years, there's been growth but it's going to the wealthy and into very few pockets, benefits which were never really great have declined, work hours have greatly increased and there isn't really much to show for it other than staying afloat.

And there is tremendous dissatisfaction with institutions, there's a lot of talk about Bush's very low poll ratings, which is correct, but people sometimes overlook the fact that congress's poll ratings are even lower.

In fact all institutions are just not trusted but disliked, there's a sense that everything is going wrong.

So when somebody says "hope, change and unity" and kind of talks eloquently and is a nice looking guy and so on then, fine.

If the elite strategy for managing the electorate is to ignore the will of the people as you interpret it through polling data essentially, what is an actual progressive vision of changing the US electoral system? Is it election finance, is it third party activism?

We have models right in front of us. Like pick, say, Bolivia, the poorest county in South America. They had a democratic election a couple of years ago that you can't even dream about in the US. It's kind of interesting it's not discussed; it's a real democratic election.

A large majority of the population became organised and active for the first time in history and elected someone from their own ranks on crucial issues that everyone knew about – control of resource, cultural rights, issues of justice, you know, really serious issues.

And, furthermore, they didn't just do it on election day by pushing a button, they've been struggling about these things for years.

A couple of years before this they managed to drive Bechtel and the World Bank out of the country when they were trying to privatise the water. It was a pretty harsh struggle and a lot of people were killed.

Well, they reached a point where they finally could manifest this through the electoral system - they didn't have to change the electoral laws, they had to change the way the public acts. And that's the poorest country in South America.

Actually if we look at the poorest country in the hemisphere – Haiti - the same thing happened in 1990. You know, if peasants in Bolivia and Haiti can do this, it's ridiculous to say we can't.

The Democrats in this election campaign have been talking a lot, maybe less so more recently, about withdrawing from Iraq.

What are the chances that a new president will significantly change course on the occupation and might there be any change for the people of Iraq as a result of the electoral moment in the US?

Well, one of the few journalists who really covers Iraq intimately from inside is Nir Rosen, who speaks Arabic and passes for Arab, gets through society, has been there for five or six years and has done wonderful reporting. His conclusion, recently published, as he puts it, is there are no solutions.

This has been worse than the Mongol invasions of the 13th century - you can only look for the least bad solution but the country is destroyed.

The war on Iraq has been a catastrophe, Chomsky says [AFP]
And it has in fact been catastrophic. The Democrats are now silenced because of the supposed success of the surge which itself is interesting, it reflects the fact that there's no principled criticism of the war – so if it turns out that your gaining your goals, well, then it was OK.

We didn't act that way when the Russians invaded Chechnya and, as it happens, they're doing much better than the US in Iraq.

In fact what's actually happening in Iraq is kind of ironic. The Iraqi government, the al-Maliki government, is the sector of Iraqi society most supported by Iran, the so-called army - just another militia - is largely based on the Badr brigade which is trained in Iran, fought on the Iranian side during the Iran-Iraq war, was part of the hated Revolutionary Guard, it didn't intervene when Saddam was massacring Shiites with US approval after the first Gulf war, that's the core of the army.

The figure who is most disliked by the Iranians is of course Muqtada al-Sadr, for the same reason he's disliked by the Americans – he's independent.

If you read the American press, you'd think his first name was renegade or something, it's always the "renegade cleric" or the "radical cleric" or something - that's the phrase that means he's independent, he has popular support and he doesn't favour occupation.

Well, the Iranian government doesn't like him for the same reason. So, they [Iran] are perfectly happy to see the US institute a government that's receptive to their influence and for the Iraqi people it's a disaster.

And it'll become a worse disaster once the effects of the warlordism and tribalism and sectarianism sink in more deeply.

http://english.aljazeera.net/news/americas/2008/06/2008624202053652281.html