lunedì 31 gennaio 2011

«C'è, ci deve essere una "bella politica"»

Torna "Presa diretta": Riccardo Iacona racconta la tragica vicenda di Angelo Vassallo

Stefano Galieni
Angelo Vassallo, il "sindaco pescatore" di Pollica, nel Cilento, ha incontrato i suoi sicari la sera del 5 settembre del 2010, neanche 5 mesi fa. Un delitto di camorra, a quanto emerge finora dalle indagini: eletto nelle liste del Pd aveva forse detto troppi no.
Riccardo Iacona e il suo piccolo gruppo di giornalisti autori di "Presa Diretta" è un esempio di come anche nella tv di oggi si possano realizzare inchieste e approfondimenti senza ritrovarsi nel chiasso assordante dei talk show. Ha preso spunto da questa storia tremenda e dimenticata per la prima delle 8 puntate di un programma destinato, anche in questo ciclo, a far discutere e indignare. Domani alle 21.30, su Rai 3, saranno due ore intense: «Il titolo è "La bella politica" - racconta Iacona - Cercheremo di raccontare chi era Angelo Vassallo, un amministratore critico anche verso il proprio partito. Parleremo dell'inchiesta "Crimine" condotta tra l'altro da Ilda Boccassini e che dimostra come la 'ndrangheta imperversi ormai anche in Lombardia. Il rapporto fra politica e organizzazione criminale ormai si è rovesciato, è la politica ad essere divenuta gregaria della 'ndrangheta. Partiamo con questa puntata proprio perché crediamo sia necessario riflettere su questa relazione perversa e perché crediamo che occorra una profonda riforma della politica nonostante la presenza di un enorme tappo che i partiti impongono a livello nazionale. Non vogliamo alimentare il distacco o l'indifferenza, ma far notare che coloro che vogliono rompere certi meccanismi sono costretti ad assumersi anche responsabilità enormi. Noi vorremmo che la politica tornasse ad occuparsi dei problemi reali e non resti impantanata nelle vicende di Berlusconi. Tornando a Vassallo, probabilmente a breve ci saranno notizie importanti nell'inchiesta: si parla molto di interessi degli speculatori per il parco del Cilento».
Riccardo Iacona parla con passione dell'intero ciclo di temi che, di domenica in domenica, entreranno in prima serata: «La successiva puntata sarà sulla spazzatura, in particolar modo cercheremo di capire qual è lo stato dell'arte a Napoli e il giro di sprechi di risorse pubbliche. Non vogliamo soltanto restare nella cronaca ma fare approfondimenti; siamo interessati alla pratica e alla teoria della politica. Per questo ci servono argomenti politicamente densi. Poi affronteremo il buco nella sanità del Lazio con una puntata dal titolo "Profondo Rosso". Questa regione è ormai come una piccola Grecia, e chi la governa dovrà metterci mano garantendo il sostegno alle fasce più povere. Ovviamente vogliamo anche ragionare sul rapporto fra sanità pubblica e privata, sul fatto che nei bilanci i consultivi siano esageratamente maggiori dei preventivi, sulla mala gestione che paghiamo tutti. Vogliamo anche mostrare i tanti beni immobili di proprietà delle aziende sanitarie. E poi ancora: la "parentopoli a Roma" con le aziende in rosso a causa delle spese inutili sostenute dai clan vincenti. Non ci importa sapere se il sindaco era informato o meno di quanto accadeva, quello che ci interessa è l'assenza di meccanismi di controllo e di autodifesa, notare come partiti e sindacati abbiano dimostrato in questo caso una capacità onnivora di produrre politica malata. Una storia in cui ce ne è per tutti. Quindi affronteremo le tematiche legate alla scuola, all'università e al precariato, gli eventi sportivi e la gestione che ne viene fatta, i tagli che si vanno delineando al già scarso sistema di welfare e, infine, una puntata sulla corruzione, vero abito del paese in cui si può vantare un non invidiabile record».
E se si prova a obiettare che in questa maniera si rischia di alimentare ancora di più il distacco dei cittadini dalla politica e la logica del «tanto sono tutti uguali», Iacona risponde rilanciando: «No, perché cercheremo di far vedere anche come si sta reagendo e cosa accade quando la politica non sceglie di abdicare al proprio ruolo. Le soluzioni ci sono, anche se sono complesse. Si tratta di temi che non sembrano interessare al Paese perché portano a ragionamenti di medio e lungo periodo, preludono alla progettazione di un modo di vivere migliore. E' vero che questo Paese è annichilito dalla crisi economica, che si deve combattere giorno per giorno per garantire il presente a se stessi e ai propri figli, ma è ancora possibile proporre un patto con e fra i cittadini. Qui rischiamo di essere schiacciati fra la Lega Nord e un "Partito del Sud". Invece, dovremmo pensare ad una vera riforma elettorale e a rendere i partiti più trasparenti, obbligati a contrarre un rapporto con il proprio elettorato, costruire una informazione pulita che metta in condizione i cittadini di poter valutare le scelte di chi governa e comprenderne gli effetti anche nel lungo periodo. Una politica, insomma, che non si riduca ad uno scontro per abbattere l'avversario».
Per il giornalista è essenziale ribaltare l'agenda politica imposta: «Io penso che si debba parlare della "vicenda Ruby" perché segna un punto di non ritorno. E' una vicenda da cui potrebbe uscire un paese diverso, con una magistratura più debole e una democrazia svilita. Tra l'altro queste storie sono una cartina di tornasole che dimostrano come è ridotta oggi l'Italia. Le donne contano poco o nulla, anche nei partiti (in tutti), mentre invece c'è un utilizzo devastante del corpo femminile. E Berlusconi, in questo contesto, sembra rappresentare una parte importante del pensiero comune nel Paese. Chi, come Liberazione, sceglie però di parlare soprattutto di lavoro, si ritrova a camminare in salita. Il sistema informativo italiano è anomalo, ancora imbrigliato nel conflitto di interessi. Chiaro che se si taglia l'editoria si fa qualcosa di grave perché si toglie la voce a quanti vogliono poter introdurre contenuti diversi. Se certe testate le butti sul mercato non le vedi più. Se diminuiscono i punti di vista si crea un corto circuito che rende difficile produrre innovazione, valore aggiunto, spazi dialettici. Si resta ancorati ai dibattiti stantii che dal 1994 ci ripropongono, per esempio, gli slogan contro i "comunisti". Ecco il pericolo. Certo, ci sono segnali positivi come l'ascolto ricevuto da programmi come "Vieni via con me" o tg laici come quello di Mentana. Anche noi proviamo a fare il nostro lavoro in trincea, con l'elmetto in testa e la voglia di dire cose sensate riempiendo due ore. Ma i meccanismi di controllo ci sono e questo paese è già meno libero rispetto ad alcuni anni fa. Oltre, c'è la sommossa, il dramma che deriva da un incagliamento della democrazia. C'è bisogno di più politica, della possibilità di partecipare, di rimuovere una legge elettorale che impone scelte fatte dall'alto. Penso anche alla riforma della scuola: nessuno dei soggetti che la subiranno è stato coinvolto nella sua realizzazione».
Riccardo Iacona si dichiara preoccupato per Liberazione, Il manifesto e le altre testate che rischiano di chiudere: «Avete molte cose interessanti da dire e dovete risalire la china per non far diventare questo Paese ancora più conformista. Ai tagli si somma una crisi enorme, anche nel mercato pubblicitario (si pensi agli investimenti che non arrivano per i canali aperti del digitale terrestre), ma dovete insistere. Del resto il vostro partito ora è fuori dal parlamento e quando sei fuori è facile essere cacciati alla periferia, cancellati dal sistema dell'informazione. Le frecce che vi restano nell'arco sono legate alla capacità di ricostruire dibattito a partire dal basso».


Liberazione 29/01/2011, pag 12

Basta sviluppismo ma la decrescita tocca ai ricchi

"Oltre il Pil, un'altra economia", un saggio di Aldo Eduardo Carra
Tonino Bucci
«Di statistiche ci nutriamo tutti e tutti i giorni. Ce le scodellano a tutte le ore politici e giornalisti e ce le mostrano con grafici allettanti le Tv invadendo tutti i campi della nostra vita: dalle grandi questioni di economia, a come e quanto viviamo, da quanti figli facciamo a quanto e cosa leggiamo ecc. ecc. Negli ultimi tempi, poi, il debito pubblico, la crisi finanziaria ed il fatto che il Pil non cresce ci ossessionano fino a toglierci il sonno perché, ci dicono, se il Pil non cresce non c'è benessere».
Il prodotto interno lordo è un po' come l'oracolo delfico per gli antichi greci. Nelle sue cifre sta la verità. Soltanto che oggi a fare da tramite tra i mortali e il dio non è più la Pizia. Le sacerdotesse dei giorni nostri, semmai, sono gli statistici, detentori della verità, gli unici in grado di misurare la fatidica percentuale di crescita del Pil, l'indicatore per eccellenza della salute dell'economia, lo specchio del futuro di una società. E' una verità rimasticata nei salotti televisivi: se il Pil cresce l'economia va bene, se diminuisce o, peggio, si approssima allo zero, il nostro benessere va a farsi benedire. Ma sarà poi vero? Neanche per sogno, le cose non stanno affatto in questo modo. Leggere per credere l'ultimo saggio di Aldo Eduardo Carra (da cui proviene la citazione di sopra), Oltre il Pil, un'altra economia, (Ediesse, pp. 144, euro 10), che segue di un paio d'anni il precedente Ho perso la sinistra, pubblicato sempre per Ediesse.
Carra - che di statistica se ne intende, «avendo lavorato per moltissimi anni all'Istat» - sostiene tre tesi: la prima, che il Pil è un indicatore importante perché non è soltanto il termometro dell'economia, ma una bussola, una modalità politica di orientare le scelte future; la seconda (che precisa il senso della prima affermazione) è che il Pil non è affatto una fotografia della realtà, ma una costruzione o, meglio, una misura relativa e non assoluta, di alcuni indicatori della vita economica e sociale a discapito di altri; la terza affermazione è che il Pil comincia a mostrare segni d'invecchiamento, fondato com'è sul presupposto implicito di un modello di sviluppo ormai insostenibile, inadeguato a dar conto della qualità reale della vita.
Andiamo con ordine. Il Pil è «il valore che si crea in un dato periodo (anno o trimestre) utilizzando materie prime ed energia e trasformandole». In altre parole, il Pil è la somma di tutti i «valori aggiunti» alle materie prime per mezzo del lavoro e delle attività svolte in un paese, dall'agricoltura all'industria ai servizi e alla pubblica amministrazione. «Ma c'è un altro effetto che il Pil produce: poiché esso cresce quando crescono le "merci", cioè i beni e servizi che stanno sul mercato, si crea la tendenza a trasformare in merci i beni ed i servizi pubblici e comuni che prima non stavano sul mercato. Perciò la tendenza ad abbandonare o privatizzare le attività sociali, di cura, quelle dedicate alla persona ed alla solidarietà è anche una precisa conseguenza di un modello di società orientato solo alla crescita di cui il Pil è stato e continua ad essere termometro e bussola». Parliamo quindi di un indicatore che misura il valore aggiunto incorporato nelle merci e lascia però al di fuori tutto ciò che non può essere merce, quella parte di produzione di servizi che incidono sulla qualità della nostra vita. «Occorrono nuovi indicatori per misurare meglio come stiamo». Ma come si fa a misurare la qualità del lavoro, del tempo libero, dei trasporti pubblici nelle città, dell'aria che si respira, delle acque del mare, della salute, della cultura? Per stare al caso italiano, il 27% del valore aggiunto deriva da agricoltura e industria, mentre il 29 per cento proviene dall'intermediazione finanziaria e dalle attività immobiliari. E' interessante anche osservare, a margine, che il reddito prodotto si distribuisce in parti ineguali tra lavoro dipendente, lavoro autonomo e capitale. Al primo va il 43 per cento del Pil (nel 1970 era il 46%), agli altri redditi il rimanente. Infine, salari e profitti finiscono in consumi e in risparmi che a loro volta vengono investiti. «Insomma il Pil resta ancora uno strumento utile per spiegare la crescita dell'occupazione, la sostenibilità delle finanze pubbliche, il futuro dei sistemi pensionistici». Ma non ci è di nessun aiuto se volessimo misurare quei valori d'uso che non sono merci (valori di scambio) e che non si collocano sul mercato. Il Pil, per intenderci, non misura i servizi offerti dagli asili nido, dagli ospedali, dalle attività culturali, né tantomeno è in grado di fornirci una misura della vivibilità delle città, dell'aria che respiriamo, dell'acqua che beviamo dai rubinetti. Il Pil - ricorda Carra - è nato quando l'obiettivo principale della società era la crescita economica - negli Usa, non a caso, in piena crisi del '29 - impensabile quindi che possa funzionare alla perfezione in una società, come quella contemporanea, alle prese con problemi d'altro genere - la disuguaglianza, il disastro ambientale, la globalizzazione, lo squilibrio nell'accesso ai saperi, solo per citarne alcuni. In tutte le società avanzate, oggi, il potenziale di crescita delle economie si sta strutturalmente abbassando, cioè non è più possibile, stando ai parametri misurati dal Pil, portare il tasso di crescita ai livelli dell'età aurea del dopoguerra. L'Italia degli anni Sessanta cresceva a ritmi del 5 per cento, oggi è grasso che cola se si avvicina all'uno per cento. «Ma d'altra parte se tutti vivessero come i francesi ci vorrebbero tre pianeti e se vivessero come gli americani ce ne vorrebbero sei... E allora? O la terra è troppo piccola (ma non si può allargare) o la popolazione è troppo grande (ma al massimo si può rallentarne la crescita), o... o si cambia modello di vita». Che la soluzione sia quella che già da tempo indicano i teorici della decrescita à la Latouche? Sì e no. Che ci si debba dare una calmata forse è inevitabile, che si debbano moderare i consumi pure. Ma dove sta scritto che di questo obiettivo dobbiamo farcene carico tutti e tutti allo stesso modo? «Vogliamo dire a chi soffre la fame di moderare i consumi? E allora questa volta nella storia tocca ai ricchi fare i sacrifici o meglio le
scelte necessarie. Tocca ai ricchi e dovranno farsene una ragione perché la possibilità di continuare a reperire risorse si concentra
nelle aree povere del mondo e tra quei popoli che hanno come unica fonte di reddito le risorse della Terra». Ed è, tra l'altro, proprio in queste aree - aggiunge Carra - che stanno nascendo movimenti di protesta a difesa «di quello che resta della Terra» - una sorta di nuovo ecologismo dei poveri, come è stato definito.
E' tempo di pensare a nuovi indicatori della qualità di vita che non siano semplicemente la produzione di merci, a una qualche idea di economia fondata sul controllo di cosa e come si produce. Già ora si fanno avanti ipotesi di nuovi indicatori del benessere. «Bene, ma chi deciderà quali saranno e come metterli insieme? E quale idea di benessere essi rifletteranno? Possiamo lasciare questo compito a tecnici, statistici o economisti che siano, visto che decidere come misurare il nostro futuro significa anche decidere come vogliamo che esso sia»? Sta a noi, società avanzate, modificare modello economico e stili di vita. «Sviluppo economico sostenibile non significa crescita zero, ma ristrutturazione dei sistemi produttivi per creare più
benessere (e quindi anche lavoro) mentre contemporaneamente si
riduce l'impatto sull'ambiente. Perché si stimolano investimenti in
apparecchiature ambientali e servizi e perché un uso ambientale più efficiente genera una maggiore efficienza nel sistema economico e lo rende più competitivo». Sarà una forzatura, forse no, ma sembra di risentire le parole del Berlinguer del famoso discorso sull'austerità.


Liberazione 29/01/2011, pag 9

Governatori repubblicani all'assalto dei diritti sindacali

Governatori repubblicani all'assalto dei diritti sindacali. Se l'amministrazione Obama aveva promesso di far approvare una legge per favorire la presenza delle Trade Unions nei luoghi di lavoro, il risultato delle leggi statali sarà - se venissero approvate - esattamente l'inverso. Già l'amministrazione federale ha congelato gli stipendi dei dipendenti pubblici per due anni. Ora i governatori democratici Cuomo (New York) e Brown (California), alle prese con dei deficit di bilancio molto difficili da domare, vogliono ripetere la cosa a livello locale. Si tratta di risparmi molto relativi e le scelte sembrano dettate piuttosto dall'idea di togliere un'arma retorica dalle mani dell'opposizione repubblicana nei due Stati.
Quanto prevedono di fare i neo eletti governatori di Ohio e Wisconsin va molto aldilà. Tra le prime scelte annunciate per la uova legislatura Scott Walker, appena eletto in Wisconsin, promette di vietare gli scioperi agli insegnanti. In Ohio, il suo collega John Kasich vorrebbe anche impedire il diritto all'organizzazione sindacale negli asili e nelle residenze finanziate con soldi pubblici. Oltra che dal populismo di destra, queste misure sono dettate da una forma di vendetta contro i finanziamenti che ad ogni ciclo elettorale le Unions versano al partito democratico. Tra le leggi proposte, alcune colpiscono anche le finanze sindacali. Molte delle misure, prevede il New York Times, non passeranno. La nuova maggioranza repubblicana però, comincia a far capire cme saranno i prossimi anni.


Liberazione 05/01/2011, pag 2

venerdì 28 gennaio 2011

Libro: Voi li chiamate clandestini

Titolo Voi li chiamate clandestini
Autore Galesi Laura; Mangano Antonello
Prezzo
Sconto 10% € 14,40
(Prezzo di copertina € 16,00 Risparmio € 1,60)
Prezzi in altre valute

Dati 2010, 143 p., brossura
Editore Manifestolibri (collana Esplorazioni)

Un'inchiesta da Castel Volturno a Foggia, da Rosarno a Cassibile, sulle terribili condizioni di vita e di lavoro dei migranti. Un viaggio nel Sud invisibile, nelle campagne degli stagionali, dei rumeni, dei maghrebini, degli africani, degli imprenditori senza scrupoli, della 'ndrangheta e della camorra. Cosa sappiamo della produzione dei pomodori, dei vini doc, delle arance? Questi tradizionali prodotti italiani sono spesso il frutto di lavoro nero, malpagato e ricattato. Il libro smonta uno dopo l'altro i pregiudizi e i luoghi comuni veicolati dalla retorica della "clandestinità", smaschera quella "filiera lunga" dei prodotti agricoli meridionali fatta di passaggi inutili, mediazioni estorsive e caporalato, un'economia dell'assurdo i cui costi sono pagati dagli anelli più deboli della catena, i lavoratori stranieri e i consumatori finali. Un'inchiesta che vuole ristabilire la verità sulla situazione di lavoratori stretti tra uno Stato sempre più pressante e razzista e una criminalità organizzata violenta e feroce.

http://www.ibs.it/code/9788872856512/galesi-laura-mangano-antonello/voi-li-chiamate-clandestini.html

Libro: Strozzateci tutti

Titolo Strozzateci tutti
Prezzo
Sconto 20% € 16,00
(Prezzo di copertina € 20,00 Risparmio € 4,00)
Prezzi in altre valute

Dati 2010, 635 p., brossura
Curatore Ravveduto M.
Editore Aliberti (collana Yahoopolis. Guide postmoderne)

Ventitré scrittori del Sud, uniti dall'impegno antimafia, si sono incontrati per dare una risposta civile a Silvio Berlusconi che, a Olbia nel novembre 2009, ha giurato di voler "strozzare quelli che scrivono libri di mafia". Strozzateci tutti propone un'altra idea di scrittura: mettere a disposizione dei lettori un'osservazione partecipata della realtà mafiosa. Un'analisi declinata in ambienti, territori e professioni eterogenee. Un'indagine materiale e culturale che scandaglia il senso comune dei fenomeni, i riflessi psicologici e le risorse per liberare i corpi e le coscienze dalla costrizione criminale. L'obiettivo finale è raccontare come e perché la criminalità organizzata sia entrata nel corpo vivo del Paese definendo e realizzando un sistema economico e sociale parallelo e alternativo, efficiente e moderno. Informare sulla mafia, discuterne per uscire dall'indifferenza e dall'omertà è un altro obiettivo di questo libro, che ha donato i diritti d'autore a un social network per garantire la libera diffusione delle informazioni. La prefazione è di Marco Travaglio.

http://www.ibs.it/code/9788874246137/zzz99-ravveduto-m/strozzateci-tutti.html

AJ: The Palestine Papers

Aj Jazeera
http://english.aljazeera.net/palestinepapers/

Palestina, nelle carte segrete l'Anp "regala" Gerusalemme

I "Palestinian papers", 1700 documenti svelano i "cedimenti" di Abbas a Tel Aviv
Francesca Marretta
In questi anni di negoziati falliti, l'Anp ha fatto grandi concessioni a Israele. Offerte di cui non si conosceva la portata. Lo rivelano documenti noti come "Palestinian papers", diffusi nelle scorse ore dalla televisione qatariota al Jazeera e dal quotidiano britannico The Guardian. Dossier redatti da funzionari palestinesi, americani e britannici, di cui l'Anp di Abbas respinge la veridicità, gridando allo scandalo e al complotto.
Finora, dei circa 1600 documenti da cui provengono le rivelazioni, si conoscono quelli relativi alle trattative avviate subito dopo la conferenza di Annapolis. Rvelazioni che evidenziano concessioni dei negoziatori palestinesi alla controparte israeliana, sia sugli insediamenti, che sul negoziato relativo ai luoghi sacri di Gerusalemme. Nel 2008, ad esempio, l'ex premier dell'Anp Ahmed Qurei avrebbe detto si all'annessione a Israele di tutti gli insediamenti ebraici costruiti illegalmente dopo il 1967, a Gerusalemme, tranne che Har Homa (Jabal Abu Ghneim).
I palestinesi sarebbero stati disposti anche a scambiare parte del quartiere di Sheikh Jarrah, a Gerusalemme est, con altri territori. L'Anp era pronta anche a trattare con Israele per affidare il controllo della Spianata delle Moschee a un comitato internazionale. Sarebbe stata questa la «soluzione creativa» proposta dal capo-negoziatore palestinese Saeb Erekat a George Mitchell (inviato Usa per le trattative di pace in Medio Oriente) in un incontro dell'ottobre 2009. «Per la Città Vecchià, sovranità alla Palestina, eccetto il quartiere ebraico e parti di quello armeno. Haram può essere lasciato da discutere. Avete i parametri della formula Clinton. L'unica cosa che non posso fare è convertirmi al sionismo», avrebbe detto Erekat.
Altri leaks che seguiranno, ha anticipato al Jazeera, mostrano un livello di cooperazione per la sicurezza tra Israele e l'Anp che va ben oltre ciò che appare ufficialmente.
Di fronte alla diffusione dei dossier riservati, il Presidente pakestinese Abbas, dirigenti importanti dell'Olp come Yasser Abed Rabbo e diretti interessati nel negoziato, come Eraket, accusano al Jazeera e l'emiro del Qatar di tramare contro Ramallah agendo in favore di Hamas e Israele. Il movimento islamico che controlla Gaza cavalca la tigre, e coglie l'occasione per attaccare a testa bassa il Presidente Abbas e l'Anp. Ancora ancora una volta, come già accaduto per le rivelazioni di WikiLeaks, Bibi Netayahu, capo del governo di destra israeliano, gongola. L'esecutivo di cui è vice lo xenofobo Avigdor Lieberman, si rallegra sia di assistere all'ennesimo confronto nell'arena palestinese. Come pure di fare la parte di chi non chiede, in fondo, oggi, più di quello che i palestinesi stessi si erano già impegnati a dare a Olmert e Livni, massimi esponenti di un'Amministrazione schierata nettamente più a sinistra rispetto a quella attuale.
Al di là dei contenuti, le rivelazioni dei documenti riservati relativi alle trattative degli ultimi anni tra Anp e Israele, diffusi nelle scorse ore, mettono sotto gli occhi di tutti, un elemento preciso. E peraltro noto. Ovvero che il confronto tra palestinesi e israeliani, nelle trattative per il processo di pace su questioni come il diritto al ritorno dei profughi, gli insediamenti o lo status di Gerusalemme, è quello che esisterebbe tra Davide e Golia. Senza bisogno di specificare chi sia il gigante. Le stesse rivelazioni mostrano poi che nonostante la portata delle concessioni offerte dai palestinesi a Israele, la risposta, è stata la solita porta sbattuta in faccia. E senza che gli Usa intervenissero per dire a Israele: «Ma che volete di più?». Se è vero, che le cose dette tra i negoziatori palestinesi a porte chiuse non sono state presentate nella loro integrità al popolo palestinese, è vero anche che si trattava di negoziati, per i quali è sempre valso il principio del «nulla è concordato, finché tutto è concordato». Mentre non cambia niente nella sostanza dell'encefalogramma piatto di un processo di pace in cui Israele fa l'asso pigliatutto, continuando a costruire su quello che dovrebbe, un giorno, diventare lo Stato palestinese, le rivelazioni diffuse da al Jazeera mettono in luce la disperazione, ma anche la pochezza, di una debolissima leadership palestinese. Contro cui ora Hamas, impopolare nella Gaza che governa (basta restarci per qualche giorno e parlare con la popolazione, le donne in particolare), punta il dito, per il proprio tornaconto politico, gridando al tradimento del popolo. Abbas ha detto ieri al Cairo, ospite dall'omologo Mubarak, che la faccenda delle rivelazioni fa deliberatamente confusione sulle posizioni dei negoziatori israeliani e palestinesi. Insomma, dice Abbas, le proposte attribuite a noi venivano da parte israeliana e mischiare le carte è intenzionale. Il quotidiano israeliano Ma'ariv ha suggerito che la gola profonda dell'intera operazione per screditare l'Anp sia il silurato numero uno di Abbas, l'ex pupillo Mohammed Dahlan. Ex ministro ed ex capo dei servizi di sicurezza, Dahlan è attualmente sottoposto a indagini per verificare se il suo patrimonio personale sia frutto di sottrazioni illecite alle casse dell'Anp. Ma l'ex uomo forte di Gaza è caduto dalle stelle alle stalle, in seguito a un braccio di ferro col Presindente palestinese. Dahlan era sospettato di preparare un golpe contro Abbas. A rimetterci, in questa situazione, sono, tanto per cambiare, i palestinesi. Indipendentemente dal colore politico.


Liberazione 25/01/2011, pag 7

Il fascismo e la via italiana alla "soluzione finale"

La "Storia della Shoah in Italia", un'opera fondamentale proposta da Utet
Guido Caldiron
«Collocare la Shoah e, complessivamente, le persecuzioni degli ebrei italiani tra il 1938 e il 1945, nella storia d'Italia del Novecento, nell'ambito di una più ampia crisi dell'Europa, che trova le sue più remote radici già negli ultimi due decenni dell'Ottocento e, attraversata la Grande guerra, culmina nei fascismi e, infine, nello sterminio degli ebrei nell'ambito del secondo conflitto mondiale». Questo l'obbiettivo principale della Storia della Shoah in Italia - un cofanetto che raccoglie due volumi di 1.275 pagine complessive che comprendono 50 saggi di storici, ricercatori e giornalisti, e una serie di immagini significative selezionate dall'Agenzia Contrasto - che Utet propone quest'anno in occasione del Giorno della Memoria, dopo aver realizzato nel 2005 la Storia della Shoah, un'opera monumentale forte di ben cinque volumi.
Anche in questo caso, proprio come già accaduto con la Storia della Shoah si ha l'impressione di trovarsi di fronte a un'opera definitiva, se in questi termini si può parlare per la ricerca storica, materia di per sé in continuo progresso e aggiornamento, nel senso che raccogliendo quanto è stato prodotto fin qui sull'argomento i due volumi della Utet costituiscono una nuova partenza di cui nessuno, ricercatore accademico come semplice lettore, potrà in futuro non tener conto. Coordinata da quattro tra i più noti studiosi della Shoah in Europa - Marcello Flores, Storico e Professore di Storia Contemporanea all'Università di Siena; Simon Levis Sullam, Ricercatore in Storia Europea presso l'Università di Venezia; Marie-Anne Matard-Bonucci, Professore di Storia Contemporanea all'Università di Grenoble e Enzo Traverso, Professore di Scienze Politiche all'Université de Picardie di Amiens -, questa ricerca non si limita infatti a ricostruire le condizioni storiche, politiche e sociali che fecero da sfondo allo sviluppo del razzismo e dell'antisemitismo nel nostro paese, e che prepararono tra la costruzione dell'Impero e l'emanazione delle Leggi razziali nel 1938, la via italiana al genocidio, ma giunge fino al dibattito che circonda oggi nel nostro paese la stessa celebrazione del 27 gennaio. Così, se nel primo volume vengono sfatati i luoghi comuni sugli "italiani brava gente", coinvolti più o meno forzatamente dall'alleanza con la Germania nazista nel progetto di sterminio, nel secondo sono gli oltre sessant'anni che ci separono dalla liberazione di Auschwitz ad essere esaminati alla luce della memoria della Shoah, delle tendenze conosciute dalla ricerca storiografica su questa materia e, infine, della percezione della presenza ebraica nella società italiana.
«La storia dell'antisemitismo e del razzismo ebbe (...) sinistri capitoli italiani e nessun aspetto intrinseco del carattere nazionale italiano mise l'Italia al riparo dalle tragiche vicende dell'Olocausto, dopo che essa aveva dato all'Europa, almeno fin dall'Ottocento, una tradizione consistente e influente di antigiudaismo e antisemitismo cattolici e, nel Novecento, un'ideologia e un movimento politico come il fascismo», scrivono i curatori nell'introduzione al primo volume, sintetizzando quando emerge dai saggi che prendono in esame la storia degli ebrei nel nostro paese dall'emancipazione dell'Ottocento - i primi a concederla furono i Savoia nel 1848 - fino alla deportazione, per molti senza ritorno, verso i lager nazisti di Germania e Polonia.
Questo mentre nel secondo volume dell'opera, dopo aver descritto il progressivo affiorare della memoria collettiva del paese di ciò che Primo Levi definiva come il "buco nero" della coscienza europea e l'evoluzione della percezione degli ebrei nella società - dove al ricordo dell'Olocausto si sono sempre più spesso aggiunti gli echi del conflitto tra israeliani e palestinesi -, si giunge ad interrogarsi proprio sulle forme attuali di ricordo e "celebrazione" della Shoah. «La memoria culturale che si profila a conclusione di questo processo è un campo magnetico - scrivono Flores, Levis Sullam, Matard-Bonucci e Traverso - in cui interagiscono elementi diversi, dalla trasmissione transgenerazionale del ricordo dei testimoni alla reificazione dell'industria dello spettacolo, dalle politiche educative della scuola alla liturgia commemorativa dei governi, e dei poteri locali. Alcuni saggi indicano lucidamente la coesistenza problematica e conflittuale delle virtù civiche e dei pericoli di banalizzazione, talvolta anche di strumentalizzazione politica, che caratterizza la massiccia presenza della Shoah nello spazio pubblico». E' in questo contesto che è emersa proprio la scelta di fare dell'anniversario della liberazione di Auschwitz "il Giorno della Memoria", in ricordo della Shoah. Un'occasione che, a dieci anni dalla sua istituzionalizzazione, rappresenta ancora oggi una "possibilità" più che un dato acquisito. Come inducono a pensare anche le parole di David Bidussa che, non a caso, concludono questa Storia della Shoah in Italia. Il problema, spiega infatti il direttore della Biblioteca della Fondazione Feltrinelli di Milano, non è tanto "se", ma "come" ricordare e se poter «considerare quell'occasione (il 27 geannio) come il momento in cui (...) il singolare, il familiare, il collettivo e molte forme, figure, livelli e funzioni della storia e della sua narrazione danno luogo a un modo adulto di confrontarsi con il passato». «Non è solo un dato tecnico in un paese che complessivamente ha un rapporto instabile con la propria storia - scrive Bidussa -, e che anzi ha fatto spesso del rifiuto di riflettere sul proprio passato il viatico per coltivare un'immagine mitica del proprio Io. Anche per questo il Giorno della Memoria potrebbe costituire un'opportunità, se rappresenterà un possibile percorso di fuoriuscita dalla metafisica dell'identità. Il futuro del Giorno della Memoria come dimensione pubblica e, soprattutto, come dimensione civica sta in questa consapevolezza».
Gu. Ca.


Liberazione 23/01/2011, pag 16

Tra Stati Uniti e Cina trionfa la realpolitik

La visita di Stato di Hu Jintao termina a Chicago, la città più "cinese" degli Usa
Simonetta Cossu
La storica visita di quattro giorni del presidente cinese Hu Jintao negli Stati Uniti si è conclusa ieri a Chicago. I media cinesi hanno lodato la visita di Hu, definendola uno "colpo da maestro storico" per allentare le tensioni. E i canali della televisione di stato hanno trasmesso integralmente la cerimonia della cena di Stato a cui ha partecipato Hu e il suo benvenuto alla Casa Bianca, un evidente segno di come la Cina voglia che il suo leader sia rappresentato come un importante protagonista del panorama mondiale.
Diverso il punto di vista dei media americani. Paul Krugman, commentatore del New York Times ha lanciato un nuovo attacco alla politica del renminbi debole. Il Washington Post racconta la censura sfacciata che ha tagliato in Cina tutti i passaggi del discorso di Hu Jintao in risposta alle critiche sui diritti umani. Lo specialista della Cina Nicolas Kristof sul New York Times boccia le pseudo-aperture di Hu sui diritti umani: "la Cina sta attraversando la sua epoca-Bush, al potere a Pechino ci sono gli equivalenti di Dick Cheney".
Ma proprio mentre Hu era in America è uscito il dato sulla crescita cinese che si è ancora rafforzata: 9,8% nell'ultimo trimestre. Un dato che spiega meglio di qualsiasi commento le ragioni per cui Obama ha accolto Hu con il tappetto rosso. L'economia cinese è cresciuta nel 2010 del 10,3 percento, con un Prodotto Interno Lordo che supera quello del Giappone, mettendo Pechino al secondo posto tra le economie del mondo, dopo quella degli Usa.
Quindi a parte la retorica la visita del presidente cinese ha concretizzato accordi commerciali per 45 miliardi di dollari, alla faccia dei diritti umani. Il più importante, l'acquisto cinese di 200 aerei dalla Boeing per un valore di 19 miliardi dollari.
Se la visita sembra non aver risolto gli spinosi problemi legati alla valuta, ha fatto registrate qualche passo in avanti sulla crisi coreana. Obama sarebbe riuscito a
convincere Pechino a premere su Pyongyang perchè si sieda a una tavolo di negoziato con Seul (il New York Times, ha riferito una fonte ufficiale anonima secondo cui Obama ha minacciato che, in caso contrario, Washington ridistribuirà le sue forze in Asia per proteggersi da un potenziale attacco nordcoreano). E in effetti Seul e Pyongyang hanno accettato,
nella notte di giovedì, di tenere colloqui militari ad alto livello, i primi dopo l'attacco di artiglieria contro un'isola sudcoreana.
Una vista quella di Hu assai diversa di quella che compì nel 2006 quando alla Casa bianca c'era George W. Bush. Una visita che fu costellata di incidenti diplomatici, come la presenza di un rappresentante del gruppo Falungong alla conferenza stampa congiunta che mise in imbarazzo per ben tre minuti Hu. Una svista o atto provocatorio da parte del protocollo, fu in ogni caso una delle tantissime ragioni che resero quella visita sgradita a Pechino.
Ben altra aria in questi giorni. A Washington il presidente cinese è stato accolto con tutti i crismi. All'aeroporto a riceverlo il vice presidente Biden, ben due cene di gala alla Casa Bianca con Obama. E se i media occidentali hanno dato risalto alla contestazione del Congresso nei confronti del presidente cinese (in Cina la notizia è stata oscurata), la cosa non ha disturbato più di tanto la delegazione di Pechino. Una visita di Stato che si è chiusa trionfalmente a Chicago. La scelta della "windy city" non è stato solo perchè è il cuore del business e sede della Boeing, ma perchè Chicago è anche la sede principale negli Stati Uniti di Wanxiang International, una società che produce componenti auto, e che da lavoro a più americani di qualsiasi altra azienda cinese. Inoltre Chicago sta diventando il maggior centro americano di studio della lingua cinese. Infatti è lì che si trova il Confucius Institute (la risposta della Cina al Goethe Institut della Germania e all'Alliance Francaise della Francia). Quello di Chicago, che Hu ha visitato ieri, è diventato il più grande "Istituto di Confucio" al mondo. Dal 2006, il governo cinese ha inviato circa 1.6 milioni di dollari in fondi e attrezzature alle scuole di Chicago. In città lavorano 58 insegnanti di lingua cinese; supervisionano 12mila studenti di scuole pubbliche che stanno imparando il cinese. Il sindaco Richard Daley ha detto di voler fare di Chicago la città più
"China-friendly" negli Stati Uniti.
Ma soprattutto Hu Jintao torna a casa avendo incassato una cosa importante: il riconoscimento della Cina come partner paritario degli Usa, una nazione con cui Washginton dovrà confrontarsi e non più considerare una nazione a cui si limitava a comunicare le proprie scelte.


Liberazione 22/01/2011, pag 9

Blair ora ammette: la nostra guerra era fuorilegge

L'ex premier a commissione di inchiesta
Francesca Marretta
Londra
«Le tue bugie hanno ucciso mio figlio», ha gridato ieri a Tony Blair, Rose Gentle, madre del fuciliere Gordon Gentle, morto a Bassora, in Iraq, a 19 anni, nel 2004. L'ex Premier britannico è apparso ieri, per la seconda volta, davanti alla commissione d'inchiesta sulla guerra in Iraq, guidata da Sir John Chilcot. Un anno fa la sua deposizione destò indignazione tra i parenti dei soldati morti presenti in aula. Senza mai voltarsi verso la platea, Blair disse di non avere rimorsi per la scelta di entrare in guerra. Ieri ha spiegato di essere stato frainteso. Ha espresso «profondo rimorso» per la perdita di vite umane tra soldati britannici e civili iracheni. «Troppo tardi» gli ha risposto ancora la madre del fuciliere Gentle. Dispiacere tardivo a parte, la musica della canzone di Blair sull'Iraq rimane la stessa. La guerra fu giusta e legittima. Blair ha insistito ancora sulla litanìa del pericolo terrorismo dopo l'11 settembre. Sui rischi da non assumersi in un momento in cui i terroristi avevano ucciso tremila persone, ma potendo ne avrebbero uccise volentieri trecentomila. Peccato solo che al-Qaeda con l'Iraq di Saddam Hussein non c'entrasse un fico secco. I seguaci di Bin Laden si infiltrarono in Iraq solo dopo la caduta del regime del vecchio dittatore. Il petrolio invece era già lì. L'invasione rappresentava l'occasione migliore per ristabilire il controllo su una ex colonia. Durante l'inchiesta Chilcot è emerso inoltre con chiarezza che Blair ha mentito al suo paese non solo sulla pistola fumante di Saddam Hussein, le famose, inesistenti, armi di distruzione di massa, ma anche sulla legittimità dell'intervento.
Il 15 gennaio 2003, a due mesi dall'entrata in guerra, Blair disse alla Camera dei Comuni che se la Francia avesse posto un «irragionevole veto» in sede di Consiglio di Sicurezza, la Gran Bretagna avrebbe potuto ancora unirsi agli Usa per l'invasione. Una successiva risoluzione Onu, pur essendo «preferibile», non era necessaria dal punto di vista legale per giustificare l'invasione, disse il Premier.
Ma l'allora del consigliere legale del governo e della Corona, l'Attorney General Lord Goldsmith, aveva precedentemente detto a Blair che la risoluzione 1441 dell'Onu, che condannava l'Iraq per non aver adempiuto agli obblighi di disarmo, non sarebbe stata sufficiente a giustificare legalmente l'uso della forza nel paese arabo. Blair mentì sapendo di mentire, per fare un favore all'amico Bush. Ma lo fece per due validi motivi, sostiene oggi. Perchè il parere del consigliere legale del suo governo era «provvisorio» (come se la non ufficialità ne cambiasse la sostanza) e perchè era certo che lo stesso Goldsmith si sarebbe di certo convinto della necessità dell'uso della forza, una volta a conoscenza delle trattative britanniche e americane. Quando poi l'Attorney General ribadì l'opinione originaria, Blair «non comprese». Per una ragione suprema: «La scelta era decidere, sulla base delle informazioni disponibili, se unirsi alla coalizione Usa e rimuovere Saddam, o tenersene fuori. Decisi che noi saremmo stati dentro». Gli oltre centotrenta morti civili provocati nelle scorse ore dalle violenze settarie che ancora insanguinano l'Iraq, mostrano che quella guerra di cui Blair si è assunto la responsabilità assieme a Bush, continua a uccidere.
Purtroppo, delle conversazioni chiave tra i due architetti dell'invasione del 2003, nei giorni che precedettero la guerra, non è dato sapere, nemmeno in occasione dell'inchiesta. Una decisione di cui si è assunto responsabilità il capo della Pubblica Amministrazione britannica, Sir Gus O'Donnell, dopo essersi consultato con lo stesso Blair. La scelta è stata definita dal giudice Chilcot «un serio colpo alla trasparenza».
Da inviato per la pace in Medio Oriente, assoluto paradosso per molti, Blair ha oggi una nuova preoccupazione: l'Iran. Teharan finanzia il terrorismo e vuole destabilizzare il processo di pace in Medio Oriente, dice Blair, indicando, senza pudore, che è ora di affrontare questa una nuova battaglia. Considerati i trascorsi nella Regione, Blair non parla certo in termini metaforici.
All'esterno dal Queen Elizabeth Convention Center, che si trova a a Westminster, come già accadde per l'udienza del gennaio scorso, erano ieri riunite diverse centinaia di manifestanti. Al grido di «All'Aja, all'Aja», hanno invocato il rinvio a giudizio di Blair per crimini di guerra presso la Corte penale internazionale. Una battaglia finora persa.


Liberazione 22/01/2011, pag 2

La Cina va veloce: Pil al 10%

Nonostante la crisi economica globale, la Cina contiua a crecsere, nel 2010 ha registrato un pil in crescita del 10,3%. Lo rende noto l'istituto di statistica nazionale. Nel quarto trimestre dell'anno il pil è cresciuto del 9,8% contro 9,6% nel terzo trimestre. Ma l'istituto ha sottolineato come lo scorso anno l'inflazione abbia toccato il 3,3 per cento, sforando l'obiettivo del 3 per cento fissato dal governo di Pechino. A sostenere la corsa dei prezzi, i forti rialzi dei prodotti alimentari, cresciuti del 7,2 per cento. Sempre molto evelato il dato dell'inflazione che nel mese di dicembre ha toccato il 4,6 per cento su base annua, con un leggero calo rispetto al 5,1 per cento di novembre, il livello più alto degli ultimi 28 mesi.


Liberazione 21/01/2011, pag 7

Agire subito, prima che la cancrena soffochi la democrazia

Giovanni Russo Spena
Il Paese sembra sprofondare nell'abisso della degenerazione del potere. Ha ragione Mario Tronti: avevamo detto, ormai alcuni decenni fa, «Siate realisti, chiedete l'impossibile; l'impossibile è diventato reale. E l'immaginazione al potere ce la siamo ritrovata nei festini di casa Berlusconi». Condivido l'amaro sarcasmo di Tronti. Un sarcasmo che è anche autocritica per avere troppo spesso sottovalutato che la Seconda Repubblica era la protesi sistemica del liberismo; per avere abbandonato il terreno della cultura politica che ci avrebbe aiutato a capire per tempo che mediatizzazione e populismo presidenzialista spossessavano dei poteri decisionali la cittadinanza; per avere sottovalutato che la difesa della Costituzione sta nella democrazia organizzata e conflittuale come paradigma formativo della formazione sociale e che ogni personalizzazione (anche quando sembra rigogliosamente fiorire a sinistra) è la catastrofe dell'alternativa politica. La Seconda Repubblica è nata sull'antipolitica (che è cosa ben diversa dalla sacrosanta critica del potere e dei partiti corrotti); ha distrutto partiti, sindacati, senza riformarmarli né rivoluzionarli; ha portato alla degenerazione di gran parte del senso comune, ha corrotto costumi individuali e di massa. Paolo Flores D'Arcais, direttore di Micromega, scriveva ieri: «Continuare a discutere se Berlusconi possa ancora governare è privo di senso. L'Italia è, grazie alla disinformazione mediatica e alla mancanza di una vera opposizione, completamente immersa nella sindrome»; e propone una nuova «sala della Pallacorda», come il famoso Terzo Stato nel 1789. Dal sarcasmo si passa, dunque, alla preoccupazione, all'angoscia. Decenni di antipolitica ci restituiscono un Paese incapace di uno scatto democratico, di un sommovimento profondo delle coscienze. Esso sembra sfibrato sul piano della coscienza democratica e della difesa dei diritti. Sessismo patriarcale che mercifica il corpo, con la politica che entra nel corpo delle donne; razzismo di Stato; ferocia repressiva e carceraria; tutto viene metabolizzato dentro lo spettacolo abominevole del presidenzialismo libertino e porcone. Sarei preoccupato se in questi giorni non prendesse corpo, contro questo potere dominante repressivo e immorale (che non è una patologia, ma una fisiologia sovversiva) un processo di rigenerazione che abbia come punto di riferimento la Costituzione, la difesa dello stato sociale e dell'autonomia dei poteri costituzionali.
E' impressionante che, di fronte allo "scandalo" (nella versione evangelica), non ci siano sussulti nella maggioranza; ricordo a noi stessi che, dopo il delitto Matteotti, lo stesso Mussolini dovette subire nelle sue fila sbandamenti individuali e collettivi. Quando Berlusconi, ieri, nel solito videomessaggio, ripetendo grottescamente la storia della nipote di Mubarak, ha gridato, con occhi feroci, «Bisogna punire quei giudici», ha dato il segno del passaggio definitivo dalla democrazia alla satrapia; ha pronunciato parole indicibili degne di un despotismo autoritario. Ora siamo ad un bivio: o Berlusconi verrà spazzato via o sarà lui a spazzare via il simulacro di Parlamento che ci resta, il controllo giurisdizionale, insediandosi nel futuro al Quirinale. «Punire quei giudici»: Berlusconi come in un incubo ossessivo ha in mente l'ultima scena de Il Caimano (film profetico), in cui la plebe rancorosa e festante osanna il Caimano e dà fuoco al palazzo di Giustizia che aveva osato condannarlo. Ma mi chiedo: hanno compreso le sinistre che siamo di fronte ad un bivio drammatico? Che non è il tempo di arrovellarsi attorno a governi di unità nazionale o di giochini tattici correntizi, ma di guidare uniti una sollevazione popolare e di andare alle elezioni? Possiamo prendere esempio dalla dignità e dalla cultura del popolo tunisino che ha organizzato i comitati popolari pretendendo «Se ne vada Ben Ali, se ne vadano tutti i predoni?». Ieri Paolo Ferrero ha proposto a tutte le forze di opposizione una manifestazione nazionale contro il regime, una mobilitazione permanente: è possibile evitare che la conflittualità sociale, non trovando sbocchi né rappresentanza, venga neutralizzata dall'orgia del potere ed indirizzata verso processi di alienazione politica? Siamo giunti al punto massimo, io credo, della sfida; come a Pomigliano, come a Mirafiori; se riusciremo a costruire un processo di assunzione di responsabilità civile e democratica potrà anche improvvisamente cambiare il terreno. Non viviamo, infatti, fasi di gradualismo, di lente accumulazioni di forze; siamo nel terremoto. L'abbattimento dei diritti, in fabbrica, come nella scuola, come nell'autonomia dei poteri costituzionali, ha la stessa matrice: la società autoritaria pretende una organizzazione del lavoro autoritaria. I diritti costituzionali non vengono devastati per la cattiveria di Berlusconi e per il cinismo di Marchionne, ma perché essi rappresentano il capitalismo autoritario in crisi che ha bisogno, per sopravvivere, di distruggere tutte le soggettività organizzate e tutte le autonomie. La speranza della rinascita democratica non è, allora, altra cosa rispetto al conflitto sociale; viene da lì, dalla splendida e intelligente difesa della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori, degli studenti, dei ricercatori, dei precari, degli occupanti di case. Questa volta, sul serio, nessuno si salverà da solo.


Liberazione 21/01/2011, pag 1 e 2

Usa-Cina, accordi commerciali per 45 miliardi e 200 Boeing

Nel giorno in cui Usa e Cina hanno raggiunto accordi commerciali sulle esportazioni per un totale
di 45 miliardi di dollari, Obama ha fatto appello al suo vis-à-vis cinese Hu Jintao, in visita di stato per quattro giorni negli Usa, per un maggiore rispetto dei diritti umani. Il presidente statunitense ha detto che i paesi prosperano quando vengono rispettati i diritti umani fondamentali. «La storia dimostra che le società sono più armoniose e il mondo è più giusto quando i diritti delle nazioni e dei popoli sono accolti», ha detto Obama. "Società armoniosà" è uno slogan molto ricorrente nell'armamentario ideologico di Hu, che sta tentando di mantenere il potere, nonostante un'economia sempre più libera. Nei due anni alla Casa Bianca Obama è stato spesso criticato dai media per esser apparso reticente nell'affrontare la repressione in paesi come Cina, Russia, Egitto. In un delicato discorso alla vigilia della visita di Hu, la scorsa settimana, il segretario di stato Usa Clinton aveva esortato Pechino a rilasciare Liu Xiaobo, il dissidente premio Nobel per la Pace 2010.


Liberazione 20/01/2011, pag 8

Parmalat, metafora del capitalismo italiano

Nicola Melloni
Il processo Parmalat offre uno spaccato interessante ed istruttivo sui cambiamenti che hanno caratterizzato il capitalismo negli ultimi trent'anni. Un capitalismo che in Occidente si è via via spostato dal settore produttivo a quello finanziario, emarginando il lavoro ed intaccando il tessuto sociale delle democrazie emerse dal secondo conflitto mondiale. In questo contesto le banche sono emerse come nuovo soggetto dominante, soprattutto nel mondo anglosassone e questo ha modificato drammaticamente il rapporto tra finanza ed industria. L'enorme massa di liquidità formatasi sui mercati internazionali ha fatto sì che le istituzioni finanziarie si siano trasformate da intermediari in investitori, in molti casi assumendo il controllo indiretto delle imprese. Grazie alla mobilità e alla flessibilità del capitale, questi grandi investitori hanno imposto all'industria la necessità di concentrare i propri sforzi nella massimizzazione del valore di breve periodo delle azioni, drogando il mercato oltre ogni limite. E' stata questa la base del sistema di bolle e crash finanziari che ha sconvolto l'economia internazionale negli ultimi anni, dall'Asia alla Russia, dalle DotCom alla presente crisi dei subprime. Il capitale finanziario si è mosso in maniera vorticosa, ricercando le possibilità di guadagno più facili ed immediate, ma dimenticando che gli obiettivi economici delle imprese non possono giudicarsi solamente sul valore corrente della capitalizzazione. Anzi. L'investimento industriale, soprattutto quello innovativo, è necessariamente una scommessa sul futuro, ma non c'è futuro per il capitale speculativo che vive solo sul presente.
Lo strapotere dell'industria finanziaria ha modellato a sua immagine e somiglianza il nuovo capitalismo neo-liberale, cancellando il compromesso capitale-lavoro su cui si fondavano le democrazie occidentali. Redistribuendo una parte del profitto dalle imprese ai lavoratori si aumentava il potere di acquisto dei cittadini (che quindi sostenevano le vendite dell'industria) e si permetteva la riproduzione delle relazioni di produzione in un contesto di relativa pace sociale. Nel nuovo ordine economico, invece, il lavoro è diventato solamente un costo da comprimere il più possibile. In quest'ottica non è dunque sorprendente che le borse calino quando giungono notizie di miglioramento dell'occupazione - agli occhi degli investitori-speculatori questo vuol semplicemente dire che una parte maggiore del reddito nazionale va in salari, cioè, dal loro punto di vista, in costi.
Si tratta di un sistema fortemente antidemocratico che stravolge le relazioni sociali di produzione e ha portato, come abbiamo visto in questi anni, alla dittatura del mercato. Un sistema con dei costi sociali immensi e che si porta dietro l'instabilità economica, la speculazione finanziaria ed i crolli ad essa associati.
Questo tipo di organizzazione economica comporta però un altro rischio, quello della corruzione. Ovviamente, in una situazione in cui il tipo di incentivi porta a gonfiare artificialmente i guadagni di breve periodo, il rischio di operazioni fraudolente è sempre presente. Lo aveva dimostrato in maniera eclatante il caso Enron e lo conferma il processo Parmalat. Le banche che stavano dietro Tanzi erano perfettamente al corrente dell'andamento dei conti di Parmalat e ne hanno lucrato a spese dei piccoli investitori che si sono trovati con pungo di mosche allorquando l'azienda fallì. Qui però interviene una differenza di grande rilievo tra il capitalismo finanziario nella sua forma pura, quella anglosassone, e quella spuria che vediamo nel nostro paese. In Italia, è sotto gli occhi di tutti, le regole sono costantemente ignorate. Certo, i furti e gli aggiotaggi avvengono anche negli Stati Uniti, dove però esiste un sistema sanzionatorio che cerca di riequilibrare la naturale tendenza del sistema alla violazione delle regole. In Italia, invece, è l'intera organizzazione economica ad essere bloccata dalla cancrena della corruzione. Si tratta di una forma di capitalismo drammaticamente arretrato, da periferia del mondo industrializzato. E' un capitalismo basato sulle relazioni personali e non su quelle di mercato, impersonali per definizione; un modello economico in cui i piccoli risparmiatori vengono sfruttati e lasciati sul lastrico senza nessuna possibilità di difendersi. Un sistema che porta agli eccessi che sono sotto gli occhi di tutti, dai furbetti del quartierino ai palazzinari, tutti membri di quel paludoso intreccio di interessi tra finanza, industria e politica che crea oscuri giochi di potere. Un obbrobrio che ha come suo epifenomeno più visibile il conflitto d'interessi ma che non si limita certamente a Berlusconi e alla sua maleodorante truppa di faccendieri, avvocati, nani e ballerine. In Italia manca da sempre una cultura dignitosamente liberale e borghese: imprenditoria e politica sono sempre andate a braccetto per salvaguardare i propri interessi e le banche sono divenute lo strumento privilegiato di questa orgia di potere. La concentrazione finanziaria ha generato anche la concentrazione del potere, ed un potere politico-economico monopolistico senza regole e contrappesi è l'anticamera della dittatura. Un capitalismo corrotto non può che produrre un sistema politico corrotto. Come direbbe Marx, le relazioni di produzione determinano la propria sovrastruttura politica ed il corrispondente tipo di coscienza sociale. Credere che si possano risolvere i problemi dell'Italia con la sola cacciata di Berlusconi - cosa per altro indispensabile - sarebbe dunque illusorio e deleterio. Di cambiamenti ben più profondi ha bisogno il nostro paese.


Liberazione 20/01/2011, pag 1 e 5

Libro: Nuova Panda, schiavi in mano

Titolo Nuova Panda, schiavi in mano. La strategia Fiat di distruzione della forza operaia
Prezzo € 12,00
Prezzi in altre valute

Dati 2011, 120 p.
Curatore Centro per la riforma dello Stato
Editore DeriveApprodi (collana Samizdat)

http://www.ibs.it/code/9788865480113/zzz99-centro-per-la/nuova-panda-schiavi-in.html

mercoledì 26 gennaio 2011

Liberiamo

Quel che è peggio è che ci ha colonizzato. Ha colonizzato la vita politica e il dibattito culturale, le chiacchiere nei bar e le pause pranzo, la televisione, la radio, pagine e pagine di giornali e libri, ha colonizzato le barzellette e lo sport, il linguaggio di tutti i giorni e l’immaginario erotico di uomini e donne, i nostri comportamenti e le nostre paure, ha colonizzato telefonate e email, Facebook e YouTube, ha colonizzato anche la sinistra e il sindacato, l’economia, la religione, le aule dei tribunali, ha colonizzato anni della nostra vita, ore e ore delle nostre conversazioni, delle nostre attenzioni, dei nostri interessi. Ha colonizzato perfino i sogni. Ha colonizzato la nostra vita privata e la nostra mente. I suoi guasti continueranno a farsi sentire a lungo, affioreranno nei tic, nei modi di dire, nei gesti. Anche per questo, prima ce ne liberiamo e meglio è.
Giovanni De Mauro

Internazionale 871 (5 / 11 novembre 2010)
http://www.internazionale.it/sommario/871/

Viaggi: autobus

http://www.mavibus.it/

giovedì 20 gennaio 2011

«L'immigrazione? Capirla per capire l'Italia del futuro»

Franco Pittau Caritas, coordinatore
del "Dossier Immigrazione"

Stefano Galieni
Franco Pittau è coordinatore del "Dossier Statistico Immigrazione" Caritas/Migrantes, un documento fondamentale per chiunque voglia occuparsi di questo tema. Spesso i suoi percorsi si sono incontrati con quelli di Liberazione che ha sempre utilizzato il dossier come strumento prezioso. Partiamo dal fatto che chi segue dall'interno le tematiche dell'immigrazione e la loro narrazione attraverso i media, si fa una immagine del Paese molto particolare. «La presentazione dell'immigrazione è scarsamente improntata a una visione positiva. Dipende solo dai giornalisti? Questa spiegazione, seppure ricorrente, è parziale e anche inesatta. I giornalisti sono espressione di una società che fa fatica a inquadrare correttamente gli immigrati. Ciò influisce anche sui politici, sugli amministratori, sugli uomini di cultura, sugli operatori sociali e pastorali, su tutti insomma. A mio avviso sarebbe più opportuno rendersi conto di questo deficit e adoperarsi per favorire dei cambiamenti, che, partendo dalla base, avrebbero un effetto a catena. Se in tanti si pensasse così, il cambiamento sarebbe assicurato, quello dei giornalisti come quello dei politici e delle altre categorie».

In un paese che sta mutando, che è già mutato, si scontrano spesso forze contrarie a questi cambiamenti, che non li comprendono, e forze che tentano di accompagnare il percorso senza aumentare le fratture.
Purtroppo è vero che il nostro paese è, nei confronti dell'immigrazione, esattamente spaccato: una metà disposta ad accompagnare l'immigrazione e l'altra metà che si sente di contrastarla. Cosa dire in questa pessima situazione? A quelli favorevoli, si può raccomandare di avere più tenacia nel portare avanti la propria linea, ma anche una maggiore preparazione nel motivarla e un garbo ben diverso nel presentarla agli altri, cercando di convincere chi è dubbioso, senza disprezzare, senza insultare e senza perdere la pazienza perché una quota di quelli che stanno dall'altra parte serve per far prevalere la linea giusta della quale si è portatori. Qualche parola va detta anche per i recalcitranti, non per quelli che lo fanno per partito preso, ma per quelli (molto numerosi) che sono ispirati a un senso positivo della vita e del rapporto con gli altri, ma vedono ancora l'immigrazione in maniera strabica: a loro si può dire che non è giusto trascurare i dati statistici e i ragionamenti a medio e a lungo termine. A me piace ricordare che tante cose che a noi sembrano un diritto scontato (la copertura sanitaria, il pagamento in caso di malattia e maternità, l'indennizzo in caso di infortunio o la partecipazione elettorale di ogni cittadino) venivano ritenute assurde e da rigettare dal buon senso dell'epoca.

A dare però la linea sono poche fonti di informazione e poche forze politiche che sembrano decidere e decifrare per tutti mentre sotterraneamente si muovono spesso altre forze, meno visibili, più positive, che lavorano incessantemente per percorsi di inclusione biunivoca. Condividi?
Non esito a riconoscere che non necessariamente le fonti di informazione con maggiore capacità di presa sono quelle più apprezzabili sull'immigrazione, non necessariamente perché dicono il falso: tra la falsità e la correttezza vi sono diverse sfumature, spesso fuorvianti. Detto questo, ritorno sulla posizione in precedenza espressa. Un operatore presidia la base e lo fa a contatto diretto con i destinatari. Ad esempio, una volta che un lettore del "Dossier" o uno che ha partecipato ai nostri incontri di sensibilizzazione si è convinto dell'autenticità dei numeri che presentiamo, viene immunizzato rispetto alla superficialità che si ritrova in alcune testate. Anche se molte persone lavorano in senso positivo e con efficacia, non mi pare così diffusa la convinzione che questa nostra forza può cambiare in meglio la situazione.

Alcuni fra gli strumenti di informazione come "Liberazione", che hanno cercato di informare e formare attorno a questi temi, oggi rischiano di scomparire perché l'informazione viene trattata come una qualsiasi merce, quindi se non si regge il mercato da soli si deve soccombere. Sei d'accordo con questa logica?
Provengo e lavoro nel mondo della solidarietà, che non è una pura e semplice merce come non lo è l'informazione. Se si realizzassero, attraverso i cambiamenti ipotizzati prima, i cambiamenti alla base, il mercato concepito in maniera diversa reagirebbe in maniera diversa. Naturalmente questa reazione potrebbe essere agevolata da disposizioni legislative e da supporti economici più adeguati.

Molti strumenti informativi, non solo dei partiti ma anche legati alla editoria sociale e al non profit, sopravvivono ancora grazie alla legge sul finanziamento pubblico. E' previsto un taglio che non terrà conto del valore sociale o culturale delle testate ma che dovrebbe agire indiscriminatamente, cosa ne pensi?
Tutti gli operatori sociali che svolgono un lavoro impegnativo e prezioso, quasi sempre a fronte di un compenso molto limitato, avrebbero tanto da dire sulla ineguale ripartizione delle risorse, riscontrando vistose e ingiustificate sproporzioni. Come cristiano, poi, mi pare doveroso insistere sulla virtù della sobrietà e sul senso della solidarietà con chi ha di meno. Le dimensione sociale e culturale, che a torto possono essere giudicate realtà evanescenti, sono il vero collante della convivenza.

Spesso i problemi per chi come noi si occupa di determinati temi, non nascono solo da avversari esterni quanto dalla nostra difficoltà ad elaborare proposte convincenti, efficaci, a comunicarle con semplicità e senza arroganza. O no?
Condivido pienamente questa tesi. Ci mancano spesso capacità di convinzione, efficacia, semplicità e strategia comunicativa. Non siamo semplici ma arroganti. Ciò porta a concludere che siamo abilitati a muovere critiche nei confronti degli altri e di ciò che non riteniamo giusto, ma dobbiamo anche essere per prima cosa critici nei nostri stessi confronti perché, se le cose stanno andando in modo non soddisfacente, noi non siamo immuni da colpe.

Nell'ultimo Dossier "Per una cultura dell'altro", ponete molto l'accento sulla necessità di fare un salto in avanti nella comprensione di chi è arrivato. Non credi che dal punto di vista dell'informazione continuiamo a produrre giornali "italocentrici", restando incapaci di suscitare l'interesse di chi si è stabilito in Italia? Cosa potremmo fare in proposito?
E' sorprendente che gli immigrati, arrivati alla soglia di cinque milioni, contino così poco nell'ambito delle notizie, eccetto, in negativo, in occasione di qualche fatto di cronaca nera. Come abituarsi a capire che il fenomeno migratorio è di straordinario interesse e in filigrana ci mostra l'Italia del futuro? Non sono in grado di presentare ricette generali, ma una cosa la posso dire. Noi del mondo sociale, che siamo ricorrenti produttori di notizie sull'immigrazione, molte volte siamo straordinariamente noiosi e allontaniamo i giornalisti, giustamente tenuti a suscitare l'interesse nei loro lettori. Perciò, ancora una volta, alla domanda se si può cambiare, rispondo dicendo: si può, a partire da noi stessi.

Liberazione 18/01/2011, pag 12

L'implosione del regime e una gioventù in rivolta Ma con poche prospettive

Leonardo Palmisano
Fino a pochi mesi fa, quando i bagnanti affollavano le spiagge di Djerba, La Marsa, Hammameth, Porte el Kantaoui, Sousse e Nabeul, nessuno poteva sospettare che sotto il regime di questo azzimato imprenditore della politica covasse la brace della protesta e della rivolta. A ben guardare, sgombrando la cortina fumosa dall'onnipresente Ben Alì, da tempo la Tunisia covava l'uovo della rivolta. Già nel dicembre del 2001, durante l'Eid el Fitr (il piccolo Eid, che segna la fine del Ramadan), si erano verificati tumulti in seguito all'innalzamento imprevisto dei prezzi della frutta e del pane, complici i grossisti alimentari - foraggiati dal Presidente, da sua moglie e dai suoi sostenitori internazionali. Parlando con gli oppositori inermi, carcerati nelle loro case nella Medina di Tunisi, scoprimmo che qualcosa si muoveva, che il molle felino della Tunisia aveva voglia di scuotersi e di scrollarsi di dosso un presente di retorica senza pane.
Della Tunisia si parla sempre poco all'estero. Non si sa, per esempio, che Ben Alì prende il potere internando il vecchio dittatore socialista Bourguiba, ultraottuagenario, definendolo pazzo sulla stampa nazionale. È il 7 novembre 1987, data ricordata dalle intestazioni di piazze, viali, vie e monumenti in tutto il paese, per inculcare la memoria della presa del potere e incutere timore alla vecchia nomenclatura laica e socialista. Ben Alì si attesta subito come delfino delle grandi potenze europee, ma soprattutto come grande amico degli Usa. Grazie a lui, la Tunisia si libera dell'ingombrante presenza di rifugiati palestinesi dell'Olp, si distacca da Gheddafi e si avvicina all'Italia di Craxi e agli Usa, divenendone uno Stato satellite. È in quegli anni che investitori italiani intensificano i rapporti con quella porzione della sponda sud del Mediterraneo, trovando lavoratori a buon mercato e ottime condizioni fiscali. L'Italia da bere usa la Tunisia come nuovo terreno di conquista, delocalizzando temporaneamente produzioni importanti come quella della Piaggio.
Ora le cose paiono essere cambiate. Da meno di dieci anni l'economia reale è in caduta libera. Gli interessi degli Usa si sono spostati sull'Algeria e sul Marocco di Mohamed VI, Gheddafi fa meno paura e i rapporti commerciali con i grandi paesi europei sono in netto calo, colpevole anche la crisi finanziaria. A condire il tutto, la chiusura delle frontiere Ue, la proroga a vita della carica presidenziale di Ben Alì e la castrazione mediatica dell'opposizione intellettuale, tutta o quasi fuggita in Francia.
Il regime televisivo e cartellonistico di Ben Alì non regge di fronte all'emergere di interessi reali della popolazione. La Tunisia fa vanto dei suoi laureati, tuttavia non riesce a impiegarne che una misera quantità. Questi nuovi poveri che gravano sulle famiglie sono allo sbando, vivono della speranza di espatriare, condividono aspettative via Facebook con i loro tanti coetanei sparsi nel mondo. Che la protesta serpeggiasse sul web, era chiaro da tempo. I social network sono gravidi di questa intelligenza resistente, di questo cervello giovane che non ce la fa più. E poi c'è il pane quotidiano. Il rincaro dei prezzi al dettaglio, non all'ingrosso come avrebbe voluto farci credere il truffaldino Ben Alì, è la consueta manovra dei grandi fornitori tunisini. Che ramazzano grano, lo stoccano nei silos delle città industriali, per immetterlo sul mercato quando l'innalzamento della domanda produce rendite esagerate. Il paradosso è che parte di questo grano finisce perfino nelle grandi industrie para-statali della pasta come la celeberrima Epi-D'or. Un meccanismo perverso che affama due volte la popolazione: gravando sulle tasse e sul prezzo al dettaglio.
Anche questo spiega perché la protesta non nasce a Tunisi, ma nelle città del poverissimo est, per estendersi al sud, e infine nei centri della gestione politico-finanziaria. A Tunisi, dove vive oltre il 30% della popolazione, gli effetti persuasivi della dittatura sono più forti. Il dispiego di forze militari e poliziesche, la gendarmeria ovunque e il controllo dei media è paragonabile a quello del gemello dittatore algerino Bouteflika. Ma fuori Tunisi, nell'entroterra rurale e pastorale, tra pietre, campi essiccati, colture di sostentamento e allevamenti di accatto, una ignorata carestia due anni fa ha mietuto decine di morti per fame, e qui il regime non attecchisce, non sfonda il muro della miseria e della povertà. Qui i giovani si riprendono il destino. Scendono in piazza, male organizzati ma arrabbiati. Non è un movimento democratico rivoluzionario, perché l'opposizione ai partiti è disarticolata, e difficilmente potrà emergere un nuovo scenario politico a breve termine. Piuttosto una repressione o la presa del potere da parte dei capi storici dell'opposizione interna o dei fedelissimi del presidente dittatore.
Riemergono dagli scantinati le immagini di Bourguiba, viene riesumata la salma iconografica del precedente Presidente, osannato come il fondatore della patria. Questo la dice lunga sulla miopia del movimento contro Ben Alì. Evidentemente Ben Alì è stato abbandonato dalle superpotenze alleate, messo alle strette per sbrigarsela da solo, lui che non ha competenze militari, che ha rimosso il Ministro degli Interni ma non il capo della Polizia, che ha fatto sfoggio nei decenni di diplomazia cenando con tutti i leader europei che gli garantivano prebende (Berlusconi in testa), che ha liberato i manifestanti a cui, più tardi, avrebbe raso certamente al suolo la casa. Questo è l'ultimo vigliacco Ben Alì, diverso dallo sfavillante Presidente che campeggiava nei ritratti posti ovunque, perfino nei cessi dei caffé. Lui non è più lo specchio del paese, se mai lo è stato, perché le sue politiche sono il fallimento definitivo dei processi di democratizzazione dall'alto nel Maghreb.
Lo dicono le rare immagini trasmesse in Italia dalle Tv. I manifestanti sono per lo più giovani, non giovanissimi. Siamo lontani dalle piazze iraniane dei fazzoletti verdi. Qui c'è un'opposizione viscerale che sta assaltando i simboli del potere: sportelli bancomat, supermercati, sedi della polizia governativa. Un'opposizione che vorrebbe legarsi alla vecchia, stanca opposizione culturale chiusa nelle medine, nelle case private dei feaubourg popolari come Bab Djedid, a Tunisi, dove nei covi dei tifosi del Club Africain - la squadra di calcio dell'opposizione che sbeffeggia Ben Alì e la coiffeuse, sua moglie - e nei caffé come l'Etoile du Nord da un decennio si biasima il Presidente a mezza voce, con barzellette e sberleffi in rima. Non c'è ancora una regia, per tutto questo, ma i tentativi sarebbero in corso. Non i media ufficiali, ma gli sms, i telefonini e i caffé sono i luoghi del ritrovo degli oppositori: giovani laureati, periferici, scontenti, anime indomite, donne che alla partenza per l'estero preferiscono una più equa distribuzione del lavoro e delle risorse. Riunioni di condominio, per dividersi il pane e lo zucchero, i beni di prima necessità. Sono i caffè e le case sulle quali incombe la mannaia del coprifuoco, la scure delle perquisizioni e delle sparizioni. Perché il regime è noto per l'uso scientifico che fa del rapimento, dell'occultamento dei cadaveri, del nascondimento della verità.
Ben Alì arrancava prima di partire, mentre ghignavano soddisfatti i suoi vicini d'Algeria, Bouteflika e la sua giunta militare, e il libico Gheddafi che già si propone come modello politico per la nuova Tunisia. La popolazione giovane si mostra già scettica su una ripresa del potere che riconsegni il paese a un presidente più forte. Sta finendo un'epoca? Sì, ne sono certi i nostri coraggiosi informatori. Quelli che nottetempo, in deroga al coprifuoco, trasmettono via sms la battaglia del giorno, superando l'oscuramento. Non ci raccontano dei morti, ma delle vite che erano in piazza. Non i casseurs, incontrollabili nella loro veemenza fisica, ma gli universitari, gli aspiranti medici e avvocati, i figli della Tunisia che ci credeva davvero nel riscatto.
Alla domanda "dov'è l'opposizione?", ci hanno risposto in coro, via Facebook, "l'opposizione è il popolo". Ecco, ancora populismo in un paese che ne ha prodotto in eccesso sin dalla sua indipendenza. Il popolo è stretto intorno al suo destino di classe media nordafricana che scivola velocemente dentro il baratro dell'insussistenza. Le aspirazioni di almeno due generazioni decadono con la velocità degli eventi, e crolla un sistema che si reggeva sulla corruzione, sulla svendita delle coste, sulla rincorsa del modello occidentale. La Tunisia manca di una identità che ne definisca la sorte. Questo ci spiega la rassegnazione dei più colti, già scontenti delle elezioni fissate tra 60 giorni. E questo ci spiega perché in alcune città i saccheggi siano venuti dopo le proteste di piazza. C'è stato un avvicendamento. I manifestanti politici - studenti e laureati - sembrano essersi accontentati dell'autodeposizione di Ben Alì. Il sottoproletariato delle medine e delle banlieues, invece, tira fuori una rabbia compressa e quasi dissennata. Quartieri come Ras Ettabia o Din Din, a Tunisi, rappresentano una concentrazione di miseria violenta, esplosiva, dove non attecchisce ancora l'islamismo acceso perché il modello occidentale è stato davvero interiorizzato via satellite. Qui i giovani non si fanno di colla come nelle periferie o nel centro di Algeri, ma di risse, di sbruffoneria, di occidentalismo raccogliticcio, di calcio, di aspirazioni spropositate: così sfogano la rassegnazione. Bighelloni che intasano i marciapiedi di avenue Bourguiba, nel centro di Tunisi, vendendo sigarette sfuse o mazzetti di gelsomini, lustrando scarpe, quando va bene. Come i gatti della Medina portano i segni delle lotte: chi orbo, chi pieno di cicatrici, chi scalfito precocemente dal tempo. Due gioventù che rimarranno lì, nel limbo, invecchiando nell'attesa che il popolo - questa entità - decida di volta in volta a chi affidare un futuro governo del nulla: fermo restando che non tutti hanno diritto di voto, e che l'iscrizione alle liste elettorali è più una coscrizione per clan che un atto volontario. Ecco perché ogni governo futuro dovrà ricorrere al sostegno dei paesi vicini, quello dell'infida Arabia Saudita, che rammenta la sua presenza con la costruzione di nuove moschee. Quando non alla scaltrezza di Gheddafi, il cui peso nell'Union du Maghreb Arabe (UMA) - di cui fanno parte Libia, Tunisia, Mauritania e i belligeranti Algeria e Marocco per via dell'irrisolta vicenda del Sahara Occidentale - si è accresciuto da quando egli si è autodefinito il miglior capo di stato dell'Africa Settentrionale, il secondo dopo Mandela nell'intero continente. Il panafricanismo del colonnello libico potrebbe svolgere un ruolo di argine contro le idiosincrasie guerreggianti in Tunisia, ma a detrimento, questo è ovvio, della civiltà. In sostanza, il futuro della Tunisia non sembra essere ancora, o per nulla, nelle mani dei soli tunisini.

Liberazione 18/01/2011, pag 2

Lumumba, l'africano che guardava a Rousseau

Mezzo secolo fa veniva ucciso il patriota congolese che non si piegò ai belgi e alla Cia

Daniele Barbieri
Ci sono voluti 42 anni perchè il Belgio riconoscesse che dietro l'assassinio di Patrice Lumumba c'erano «alcuni membri del governo di allora». Il 17 gennaio sono 50 anni esatti dalla sua morte. Sarà ricordato in molte città (una porta oggi il suo nome: Lumumbashi) del Congo come in altre parti dell'Africa. La sua storia ha molto da dirci anche oggi perchè il colonialismo e il saccheggio del Terzo Mondo non sono mai cessati, hanno solo mutato volto e metodi.
Non è un Paese povero il Congo come si è sentito dire anche di recente da un giornalista italiano che chissà se lo confondeva con il piccolo Togo o con il Gabon. Anzi, è uno dei Paesi più ricchi al mondo per risorse naturali. «Uno scandalo geologico» fu definito: diamanti, foreste, oro, uranio (proprio quello usato per le prime atomiche), rame, cobalto, radium, zinco fino al coltan che, pur se i profani non lo hanno mai sentito nominare, muove oggi settori importanti dell'economia globale e causa guerre con milioni di morti.
Un grosso affare per re Leopoldo del Belgio avere il Congo come «possedimento personale». Nel passaggio fra '800 e '900 sono 10 milioni - quasi metà popolazione - i congolesi morti come schiavi nella raccolta del caucciù o nella repressione delle rivolte. Uno dei più famosi scrittori del mondo, Mark Twain, fatica a trovare editori quando scrive Soliloquio di re Leopoldo, un durissimo atto d'accusa. E' il 1905. Tre anni prima esce Cuore di tenebra di Joseph Conrad che si chiude con la famosa frase di Kurz «sterminate quelle bestie» a ben sintetizzare la missione civilizzatrice della "razza" bianca. Il termine genocidio allora non esiste ma è al sistematico massacro di quei "non-umani" che Kurk si riferisce.
Le accuse internazionali contro Leopoldo lo costringono a una retromarcia, meglio a un gioco di bussolotti: rinuncia al "suo" possedimento per cederlo al Belgio. I genocidi continuano. Quando nasce (il 2 luglio 1925) Patrice Lumumba le "bestie" congolesi non hanno alcun diritto. Nel 1950 su 14 milioni di persone solo 1500 vengono considerate "evolute" cioè hanno un libretto che riconosce loro una sorta di (pur dimezzati) diritti. Il giovane Lumumba si forma su Rousseau ma anche su Jacques Maritain e sulle voci dell'orgoglio africano come Senghor. Inizia a guardare verso un «Congo unito in un'Africa unita» e questo sarà poi uno dei suoi slogan.
Inizia il suo impegno politico, subisce un primo arresto e nei primi mesi del 1958 si trasferisce nella capitale Leopoldville (oggi Kinshasa). Dà vita al Mnc (Movimento nazionale congolese) che esige l'indipendenza subito attraverso negoziati pacifici e il rispetto dei diritti dell'uomo. Lumumba è quasi uno sconosciuto quando va alla Conferenza panafricana di Accra ma ne esce da leader. Dato che il Belgio fa orecchie da mercante, in Congo iniziano manifestazioni e rivolte. Si chiede l'indipendenza entro il 1961 e si annuncia la «non collaborazione» a oltranza. Le truppe belghe sparano: centinaia i morti. Lumumba viene arrestato e condannato a 6 mesi di carcere.
Finalmente il 22 maggio 1960 si vota: Lumumba è eletto, il suo movimento conquista quasi un terzo dei voti. Così il 30 giugno re Baldovino dichiara l'indipendenza del Congo e Lumumba diventa capo del governo. Ha già detto in più occasioni che non si riconosce in nessuno dei due blocchi ma nel movimento dei "non allineati".
Ma le compagnie minerarie belghe d'intesa con la Cia (lo si legge oggi nei documenti statunitensi non più segreti) hanno già preparato la secessione del Katanga, una delle regioni più ricche. La indipendenza congolese diventa un elemento centrale nel nuovo scacchiere internazionale. Il 14 luglio 1960 l'Onu chiede l'allontanamento delle truppe belghe e affida al suo segretario, Dag Hammarskjold, il compito di collaborare con il governo congolese. Mentre il kaos cresce e la Cia vuole "sbrigare" la faccenda prima che entri in carica il nuovo presidente (John Kennedy del quale i "servizi" non si fidano) Hammarskjold - dopo qualche incertezza - si schiera con decisione per una vera indipendenza del Congo. Pagherà con la vita, come Lumumba, la sua onestà. Dell'assassinio di Lumumba si saprà con un mese di ritardo: le immagini di quell'uomo legato fanno il giro del mondo. Solo dopo molti anni si saprà che sono i ribelli, con la complicità di militari belgi, a bastonare Lumumba, finirlo a colpi di baionetta e poi sciogliere il suo cadavere nell'acido.
Qualche mese dopo tocca ad Hammarskjold: il 18 settembre l'aereo che lo porta in Congo, a una nuova conferenza di pace, cade; solo nel 1992 una inchiesta dirà che fu sabotato, probabilmente da agenti statunitensi per conto dell'Union Miniere belga.
Non ci resta molto degli scritti di Lumumba: qualche poesia e un paio di discorsi. Probabilmente a costargli la vita fu quello del 30 giugno, giorno dell'indipendenza, pronunciato davanti al re belga: Baldovino si aspettava ringraziamenti e umiltà non certo che gli venissero ricordati 80 anni di «lavoro spossante in cambio di salari che non ci permettevano di sfamarci», 80 anni di «ironie, insulti, colpi perchè eravamo negri», 80 anni di sparatorie, ingiustizie, oppressioni, sfruttamento.
Dopo la morte di Lulumba - e l'ammonimento all'Onu - il Congo precipita nel kaos, poi - dal 1965 - in una lunga dittatura, la "cleptocrazia" di Mobutu che in 32 anni renderà grandi servigi (cioè soldi) a Belgio, Francia e Usa mentre impoverisce sempre più i congolesi.
Solo alla fine degli anni '80 i riflettori dell'informazione mondiale tornano ad accendersi, per qualche attimo, sul Congo acccennando a due guerre che squassano il Paese finendo per coinvolgere mezzo continente con 4 milioni di morti mentre (le cifre sono di Amnesty International) altri 16 milioni sono vittime di violazioni, privi di alimenti sufficienti o di farmaci, costretti alla fuga. Nel "cuore di tenebra" ancora una volta a tirare i fili sono i nuovi Kurz. I rapporti delle Nazioni Unite (resi pubblici solo in parte) indicano nella guerra per il coltan, finanziata dalle compagnie occidentali, le vere ragioni di questa tragedia che i media scelgono di non raccontare.
Nel 2006 torna un po' di pace nel Congo e finalmente si tengono elezioni libere ma sembra solo una tregua: nelle zone minerarie continuano gli scontri e soprattutto lo sfruttamento. Il Congo è sempre più povero perchè le sue ricchezze vengono saccheggiate senza tregua.
A proposito del "mea culpa" prima citato del governo belga è interessante notare che è avvenuto solo su pressione dell'opinione pubblica choccata prima per il film Lumumba (in Italia non ha quasi circolato) del regista haitiano Raoul Peck, poi per un libro di Ludo De Witte che, partendo da documenti segreti de-classificati, ha inchiodato compagnie minerarie e potere politico dell'epoca alle loro responsabilità.
Frantz Fanon, un grande intellettuale caraibico di nascita e algerino di elezione, aveva scritto: «se l'Africa fosse raffigurata come una pistola, il grilletto si troverebbe in Congo». Una profezia che si è avverata per Lumumba e continua a pesare anche dopo 50 anni.

Liberazione 16/01/2011, pag 12

Dalla "nakba" del 1948 al "piombo fuso" di Gaza, sessant'anni catastrofici

La storia di un conflitto e le prospettive in Medio oriente secondo Chomsky e Pappé
Vittorio Bonanni
Proprio pochi giorni fa gli israeliani hanno distrutto uno dei simboli della storia palestinese. Quell'hotel Sheperd, ormai abbandanato da tempo, di Gerusalemme est, il quale invece di essere ristrutturato farà posto a 20 appartamenti per gli israeliani. Un gesto simbolico, emblematico del disprezzo che lo Stato ebraico nutre nei confronti dei loro "vicinissimi" di casa, e che evidenzia, se ce ne fosse bisogno, l'assoluta mancanza di volontà anche solo di cominciare un percorso di pace.
Lo scenario che abbiamo di fronte deve o dovrebbe portare un po' tutti, israeliani ed ebrei in primo luogo, ad interrogarsi su che cosa è successo in questi oltre sessant'anni di esistenza dello Stato d'Israele e quali prospettive si aprono, o non si aprono, per la pace se anche il primo alleato di Tel Aviv, gli Stati Uniti, ha deciso di arrendersi di fronte all'arroganza dell'attuale governo Netanyahu. A questo proposito crediamo sia utile la lettura di un libro certamente controcorrente rispetto al pensiero dominante nei riguardi del conflitto mediorientale. Si tratta di Ultima fermata Gaza (Ponte alle Grazie, pp. 268, euro 16,80) scritto da Noam Chomsky e Ilan Pappé. Due nomi che non avrebbero bisogno di presentazione: il primo è professore emerito di linguistica presso il Massachussetts Institute of Technology e da sempre impegnato in una severa critica alla politica estera statunitense; il secondo è uno storico israeliano, nato ad Haifa, dove ha insegnato per diversi anni per poi essere costretto a trasferirsi in Gran Bretagna, all'Università di Exeter, perché dopo la pubblicazione in particolare di Storia della Palestina moderna. Una terra, due popoli (Einuadi, 2005) e La pulizia etnica della Palestina (Fazi, 2008) la sua vita in patria non era diventata così facile e sicura. Il libro ha il fine di offrire degli strumenti al lettore per capire al meglio la natura del drammatico conflitto che insanguina quella terra almeno da sessant'anni, analizzando sia vicende più attuali, come gli attacchi a Gaza del 2008 e del 2009 e l'assalto assassino alla Freedom Flotilla dell'anno scorso, come nodi più antichi, quali la nakba del 1948, la "catastrofe" secondo i palestinesi, che portò a quella prima cacciata di migliaia di persone dalla propria terra, un evento che proprio Pappé ha reinterpretato come un caso di pulizia etnica. Frank Barat, curatore del libro, è riuscito a combinare interviste e saggi. La prima parte del volume è infatti un dialogo con Chomsky sul grave attacco sferrato a Gaza dall'esercito israeliano. «Nel secondo e terzo capitolo - scrive Barat - Ilan Pappé fornisce lo scenario storico indispensabile per comprendere la Palestina di oggi», ricostruendo «lo sviluppo storico del coinvolgimento statunitense nella questione della Palestina e l'importanza, per Israele, della negazione della nakba. Capirla è fondamentale per comprendere la storia di Palestina e Israele». Nel quarto Chomsky ricorda l'attacco israeliano a Gaza, «nel quinto e nel settimo - scrive il curatore - la parola torna a Pappé, il quale descrive il progredire del movimento in favore di uno stato unico e, da ultimo, i massacri dell'esercito israeliano a Gaza. Il sesto è un dialogo a tre su "la ghettizzazione della Palestina" mentre il libro si chiude con le ultimissime riflessioni di Chomsky sul processo di pace.
La sapiente organizzazione del libro che mescola appunto dichiarazioni e analisi politica utilizza un metodo diacronico che mette con ancora più forza in evidenza il tratto che accumuna le diverse fasi della politica israeliana in tutti questi anni, ovvero l'annientamento di ogni legittima esigenza del popolo palestinese, politica, culturale, sociale e via dicendo. Forse fa eccezione lo storico processo di pace che portò alla firma del 13 settembre 1993, ma è stata quella una parentesi breve e debole, chiusa con il tragico assassinio di Rabin.
Del resto quello che è successo per esempio a Gaza diventa comprensibile solo se si capisce fino in fondo il 1948. Allora, come scrive Pappé, «la condotta militare dei soldati israeliani sul campo di battaglia è diventata un modello per le generazioni a venire e la saggezza degli uomini di Stato di quegli anni rappresenta ancora una pietra di paragone per le classi politiche del futuro». Questo atteggiamento psicologico ha permesso la «cancellazione dalla memoria collettiva dei capitoli sgradevoli del passato - scrive lo storico israeliano - lasciando intatti quelli piacevoli». Una distorsione degli avvenimenti che ha cancellato di fatto la nakba dalla cultura occidentale al punto tale da ignorarla, per esempio, a Torino nel 2008 quando la fiera del libro venne dedicata ad Israele che festeggiava i sessant'anni dalla nascita, "dimenticando" che quell'anno per i palestinesi e la loro storia ricordava al contrario una tragedia immane. Da allora ad ogni crimine commesso dalle autorità israeliana viene dato un peso relativo. Come i pesanti attacchi a Gaza degli anni scorsi. In quel caso i palestinesi pagarono il prezzo di aver votato Hamas e dunque in modo sbagliato. «Gli Stati Uniti - dice Chomsky - affiancarono immediatamente Israele per punire la cattiva condotta dei palestinesi, mentre l'Europa, come al solito, gli trotterelava dietro». Lo Stato ebraico invece può permettersi qualsiasi tipo di governo, anche quello attuale che vede come ministro degli Esteri Avigdor Lieberman, un razzista che odia i palestinesi e che non può certo essere considerato più evoluto dei dirigenti di Hamas su temi quali la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Del resto la logica dei due pesi e due misure è una costante nella storia del conflitto israelo-palestinese. Per esempio, ricorda sempre Chomsky, il 25 giugno 2006 i palestinesi commissero quello che gli occidentali dipinsero come un crimine orribile, la cattura del caporale Gilad Shalit. «Soltanto il giorno prima - scrive il linguista statunitense - Israele aveva rapito due civili a Gaza - crimine molto peggiore che catturare un soldato - e li aveva trasferiti in Israele, violando il diritto internazionale, ma la cosa è ormai routine. A tutto questo l'Occidente non riserva niente di più di uno sbadiglio». Di fronte a questo quadro disarmante, sigillato recentemente dalla resa del presidente degli Stati Uniti Obama di fronte al peggior governo che Israele abbia mai avuto, è lecito chiedersi quali prospettive ci possano essere per israeliani e palestinesi. In realtà chi dovrebbe chiederselo, e cioè gli Stati Uniti, l'Europa, gli Stati arabi, la Cina e l'India, per ragioni diverse, colpevolmente non lo fanno. Certo, alcuni stati latino-americani - Brasile, Argentina, Uruguay, Ecuador, Bolivia, Guyana e anche il Cile governato dalla destra - hanno riconosciuto lo Stato palestinese, e questo è un passo avanti importante, ma in realtà il dibattito sul che fare trova spazio nelle stanze universitarie piuttosto che nei luoghi della politica. Così Ilan Pappé ricorda come l'interesse per uno Stato unico «cresce di giorno in giorno» anche se «non compare sull'agenda di nessuno degli attori di rilievo sulla scacchiera palestinese». «Un'idea - ricorda lo storico - che in passato ha costituito un piano concreto, una strategia e una prospettiva». Lo studioso nel considerare questa opzione si fa parte del fatto che «all'interno e all'esterno della Palestina esiste un nuovo impulso al cambiamento di regime». E «nell'attuale repubblica di Israele, che di per sé rappresenta una soluzione dello Stato unico (oppressivo sul piano etnico e razziale verso i palestinesi, cittadini o assoggettati) si cerca ormai costantemente un mutamento della realtà». Chomsky, dal canto suo, ricorda come questo Stato unico debba essere necessariamente binazionale, pena l'espulsione e lo sterminio della popolazione indigena. E che lo stesso Edward Said, pur favorevole all'idea di una nazione in cui tutti i cittadini (arabi, ebrei, cristiani, ecc.) avessero gli stessi diritti democratici, era stato, ricorda il linguista, «uno dei primi e più espliciti fautori della soluzione dei due Stati». Si può discutere per molto tempo su quale delle due ipotesi sia più realistica. Di fatto possiamo ben dire, senza tema di smentita, che mancano i pressuposti per realizzare sia l'una che l'altra idea, e che per fare ciò servirebbe un mondo che non c'è, come ha dimostrato la rinuncia di Obama. O un mondo tutto da costruire, a partire dal citato riconoscimento sudamericano nei confronti dei palestinesi per finire al diffuso dissenso ebraico nel mondo nei confronti della politica israeliana. Ma, a quanto pare, dopo sessant'anni caratterizzati da morte e distruzione, la strada è ancora lunga e tanto per cambiare dolorosa.

Liberazione 16/01/2011, pag 9

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Titolo Ultima fermata Gaza. Dove ci porta la guerra di Israele contro i palestinesi
Autore Chomsky Noam; Pappé Ilan
Prezzo
Sconto 20% € 13,44
(Prezzo di copertina € 16,80 Risparmio € 3,36)
Prezzi in altre valute

Dati 2010, 220 p., brossura
Curatore Barat F.
Traduttore Manganelli M.
Editore Ponte alle Grazie (collana Saggi)

http://www.ibs.it/code/9788862202138/chomsky-noam-papp-eacute-ilan/ultima-fermata-gaza-dove.html