martedì 31 agosto 2010

Quotidiano Cinque Giorni

http://www.cinquegiorni.it/

Libia-Italia affari incrociati. Gheddafi il colonizzatore

Ironia della storia. Il leader dell'ex colonia italiana fa shopping nel Belpaese

Simonetta Cossu
"It's the economy, stupid!" è la frase che rese celebre Bill Clinton nella sua corsa alla presidenza degli Stati Uniti. Oggi, quando il colonnello Gheddafi atterrerà a Roma sarà bene che anche gli italiani se la ricordino: "E' l'economia, stupido!" Forse andrebbe un po' adattata allo spirito di questo decennio che più di economia parla di affari.
La torta in gioco infatti in questo campo è bella ricca. Ettore Livini su Repubblica parla di un giro da 40miliardi di euro. "Un pirotecnico giro d'operazioni -si legge - gestite in prima persona dai due leader e da un piccolo esercito di fedelissimi ("gli imprenditori sono i soldati della nostra epoca", dice il Colonnello) che ha già mosso in 24 mesi quasi 40 miliardi di euro e che rischia di cambiare - non è difficile immaginare in che direzione - gli equilibri della finanza e dell'industria di casa nostra".
Allora incominciamo con vedere quali sono i settori interessati. Direttamente Mohamed e Silvio detengono quote nella Quinta Communications, società di produzione cinematografica di Tarak Ben Ammar, l'imprenditore franco-tunisino tra i principali fautori dell'asse Arcore-Tripoli. Spiccioli, in quanto i grossi affari sono di ben altra portata. L'Italia ha dimostrato di saper essere un mercato tra i più aperti, e spesso gli interessi stranieri si sono indirizzati verso società leader in settori strategici.
La Libyan investment Authority (Lia) è stata creata nel dicembre di tre anni fa con una dotazione di 50 miliardi di dollari di capitale. E Gheddafi ha sottolineato che il 90% degli investimenti libici all'estero avranno come destinazione privilegiata l'Italia. E' da comprendere quindi il ricevimento in pompa magna da parte di Berlusconi. Solo quest'affermazione vale un fiume di denaro da 45 miliardi di dollari diretto sia verso le blu chip italiane che verso le pmi, tanto che Mediobanca ha un ruolo non secondario nell'indirizzare questi investimenti.
In cambio di questo fiume in entrata la Libia è pronta ad assicurare alle industrie italiane affari di non poco conto. Poco prima di firmare il trattato di accordo nel 2008, il segretario libico che lavorava alla stesura del trattato si presentò in Assolombarda a Milano per presentare il piano di investimenti previsti per modernizzare la Libia: 153 miliardi di dollari. Una cifra che fece cadere più di una mascella. Per questo il dossier Libia è su tutte le scrivanie che contano, non importa se sul lato della domanda o dell'offerta.
Oggi l'Italia è il primo partner commerciale per la Libia. Una posizione che vale 20 miliardi di euro nel 2008, in crescita del 27% sull'anno precedente.
Le imprese italiane sono già in Libia pronte a costruire strade e reti telefoniche. Da lì l'Eni, che è a Tripoli dal 1959 era Mattei, oggi ricava non meno di 250 mila barili di petrolio al giorno, il 30% delle importazioni italiane. E sempre dalla Libia arriva il 12& del gas importato. l'a.d. dell'Eni, Paolo Scaroni, solo pochi giorni fa ha detto di ritenere la Libia «come la pupilla dei miei occhi perchè con questo paese abbiamo relazioni importanti. Pensiamo che in Libia investiremo 25 miliardi di dollari». Scaroni ha aggiunto di considerare tutti i propri interlocutori «da Gheddafi a Chavez, tutti belli, bravi e buoni. Perchè per me sono tutti clienti». Alla faccia dei diritti umani.
Così come la costruzione della mega-autostrada da tre miliardi di dollari che attraverserà il litorale libico dalla Tunisia all'Egitto, 1700 chilometri è parco gioco per le aziende italiane. Alla fase di prequalifica, secondo quanto risulta all'agenzia Radiocor, parteciperanno infatti la cordata formata da Impregilo e Cmc di Ravenna, il consorzio fra Astaldi, Toto, Grandi Lavori Fincosit e Ghella, il gruppo Condotte. Alla finestra al momento il gruppo Salini-Todini, Pizzarotti, Cmb di Carpi, il gruppo Gavio tramite Itinera e diverse realtà del mondo cooperativo. L'opera è infatti prevista dal trattato di amicizia siglato nel 2008 fra Berlusconi e Gheddafi.
Dulcis in fondo le banche. Il colonnello è riuscito in due anni a diventare il primo azionista della prima banca italiana (Unicredit) con una quota vicina al 7% (valore quasi 2,5 miliardi) e grazie allo storico 7,5% che controlla nella Juventus è il quinto singolo investitore per dimensioni a Piazza Affari. Le finanziarie di Tripoli hanno studiato il dossier Telecom, puntano a Terna, Finmeccanica, Impregilo e Generali. Palazzo Grazioli, nell'ambito del do ut des di questa realpolitik mediterranea, ha dato l'ok all'ingresso di Tripoli con l'1% nell'Eni ("puntiamo al 5-10%", ha precisato l'ambasciatore Hafed Gaddur). E la Libia ha allungato di 25 anni le concessioni del cane a sei zampe in cambio di 28 miliardi di investimenti. Un patto quello con la Libia che Berlusconi riassume così: «scuse e risarcimenti contro meno clandestini e più gas e petrolio».

Liberazione 29/08/2010, pag 2

sabato 28 agosto 2010

Un fantasma si aggira per l'Italia: il popolo sovrano

Tonino Bucci
Nessuno è in grado di pronosticare quanto lunga sarà ancora la vita della Seconda Repubblica. Anche perché da nessuna parte è scritto quale sia l'ordinamento costituzionale su cui essa si fonderebbe. Quasi bastasse evocarne il nome ossessivamente per decretarne l'esistenza. Di certo c'è soltanto che di Seconda Repubblica si è iniziato a parlare con sempre maggiore frequenza dal 1993, anno a partire dal quale si sono succedute le diverse leggi elettorali che hanno introdotto il maggioritario. Da allora, benché la Costituzione sia sempre quella del '48, si è iniziato a parlare di costituzione materiale divergente da quella formale. S'è detto e ripetuto che il maggioritario avrebbe concesso ai cittadini la possibilità di scegliersi i propri rappresentanti e, per estensione, di eleggere direttamente il premier, trasformando radicalmente la nostra Repubblica da parlamentare a presidenzialista. Non c'è dubbio che la destra berlusconiana abbia investito l'intero suo progetto politico sulla scommessa di una democrazia populistica, maggioritaria e presidenzialista, comportandosi nella prassi politica come se l'elezione diretta del premier fosse una realtà consolidata e non - come di fatto è - uno stravolgimento della Costituzione. L'errore della sinistra è di non aver capito la gravità di questo processo e di non averlo contrastato a sufficienza. Semmai si è illusa di cogliere, nello schema bipolare della Seconda Repubblica, un'opportunità anche per se stessa.
In questi giorni di fibrillazione della maggioranza di governo i politici di destra hanno fatto continui riferimenti alla sovranità popolare. Con l'intento di far passare nell'opinione pubblica l'idea che il governo sarebbe diretta espressione del popolo e che, quindi, in caso di una sua crisi, il ritorno alle urne sarebbe d'obbligo. Un tentativo di contrapporre il presidenzialismo (immaginario) alla forma parlamentare della nostra Repubblica (scritta nella Costituzione), come spiega Carlo Galli, docente di storia delle dottrine politiche all'università di Bologna.

Lo schema è chiaro: il Popolo contro gli intrighi del Palazzo. Eppure questo popolo assomiglia di più a un'immagine vuota agitata strumentalmente, non le pare?
Il popolo di cui parla la destra è un sovrano a intermittenza, a sprazzi, un sovrano che si manifesta solo episodicamente, in occasione delle elezioni. Ma tra un'elezione e l'altra questo popolo scompare, senza che se ne veda traccia negli atti e nelle decisioni di governo. E' un sovrano che emette un soffio vitale e poi sparisce, investendo il Capo di un'autorità definitiva e svincolata da qualsiasi limite. Il popolo è, per la destra, un'entità informe da sottoporre a manipolazioni mediatiche o un fantasma da evocare solo nella misura in cui la sua presunta volontà si incarni nel leader, l'unico legittimato a rappresentarlo. Siamo di fronte a un espediente narrativo, o meglio ideologico.

C'è un curioso capovolgimento. La destra, oggi, si candida come l'unica forza in campo disposta a difendere le prerogative della sovranità popolare, facendo appello al popolo e alla sua energia rivoluzionaria per spazzare via gli assetti formali di potere esistenti. Curioso che sia la destra a detenere il monopolio simbolico della rivoluzione, no?
C'è una bella differenza. Intanto, le rivoluzioni non si dichiarano, ma si fanno. La rivoluzione è la massima espressione politica del potere costituente del popolo ed è, per così dire, un'autoaffermazione immediata che si enuncia nel momento stesso in cui si compie. Nessuno si sognerebbe di dire che in Italia, oggi, esista una situazione rivoluzionaria. Semmai è vero il contrario, prevalgono la disaffezione per la politica, la sfiducia, il distacco. Ma soprattutto la destra attribuisce alla categoria di popolo un significato completamente diverso da quello che, storicamente, le ha attribuito la sinistra. Nella tradizione di destra il popolo è un'unità organicistica, una comunità chiusa cui si appartiene o non appartiene per requisiti "naturali" e che va mantenuta e difesa nei suoi confini. La sinistra invece ha sempre pensato che la società fosse un luogo di conflitti e che il popolo, ben lontano dall'essere una comunità organica, fosse all'opposto una comunità da allargare, attraverso l'estensione dei diritti politici, della cittadinanza e della libertà. Se c'è un compito urgente per la sinistra è quello di difendere la Costituzione, come ha sempre fatto del resto. Non sarà la rivoluzione bolscevica, ma non è neppure poco. Bisogna contrastare questa visione demagogica della destra secondo la quale il dettato costituzionale sarebbe soltanto una questione formale. Berlusconi è quasi riuscito a far passare nell'opinione pubblica l'idea che applicare le norme previste dalla nostra Carta - per esempio, che il potere di scioglimento delle Camere spetta al Capo dello Stato e non al Presidente del Consiglio - equivalga pressapoco a un intrigo di palazzo. Credo che questa versione populistica e plebiscitaria della democrazia sia davvero un pericolo da scongiurare.

Si dice che ormai sia in vigore una costituzione materiale e che la nostra democrazia, di fatto, sarebbe una democrazia presidenziale...
Qui bisogna fare un discorso molto chiaro. La nostra è per Costituzione una repubblica parlamentare. Certo, la sovranità appartiene al popolo, ma la esercita nei limiti e nelle forme previste dalla Costituzione. Il popolo elegge i parlamentari, non il governo, il quale, a sua volta, è un organo esecutivo legittimato a governare esclusivamente in virtù del voto di fiducia che ottiene dal Parlamento. Il premier (anzi, il Presidente del Consiglio dei ministri) non è eletto dal popolo come surrettiziamente si vuol dare a intendere, ma ottiene il suo mandato da una maggioranza parlamentare. L'unico organo che secondo Costituzione incarna legittimamente la sovranità popolare è il Parlamento. Negli Stati Uniti il presidente è eletto direttamente dal popolo, ma quella è un'altra storia, una diversa forma di Stato (federale) e di governo (costituzionalismo puro), e un diverso assetto sociale (veramente pluralistico). In Europa un modello di repubblica (semi-)presidenziale è quello francese, un modello venato da accenti autoritari. Quello che mi sorprende favorevolmente è constatare come in Italia, nonostante i tentativi di far passare nell'opinione pubblica l'idea che saremmo già ora una repubblica presidenziale, ci sia una capacità di resistenza da parte dei poteri istituzionali garantiti dalla Costituzione, del Parlamento, della Corte costituzionale e della magistratura.

Fini si accredita come il leader di una destra nuova, moderna, liberale. Eppure se per un verso il Presidente della Camera insiste molto sulla partecipazione e i diritti individuali, per un altro continua a fare riferimento a un'idea di comunità-nazione. Nel migliore dei casi, la sua assomiglia a una destra neogentiliana, a un neoliberalismo autoritario incentrato su uno Stato forte. Non è così?
Anche se si è spinto ad affermare che la nazione non è più l'unico fondamento di legittimità della politica, e che - davanti al fenomeno del multiculturalimso - questo fondamento è piuttosto la Costituzione, Fini è e resta un uomo di destra. Definirlo di sinistra sarebbe un'offesa per tutti. La destra cui fa riferimento è una destra conservatrice, il che beninteso non significa statica. Il conservatorismo può colorarsi - soprattutto in Italia - di accenti progressivi. Il Presidente della Camera si è pronunciato più volte a favore di aperture sul terreno dei diritti civili; e anche sul tema dell'immigrazione Fini ha più volte accennato alla necessità di allargare la sfera della cittadinanza. Ma questo non è un fatto nuovo nella storia della destra italiana. Anzi, direi che è una costante nel pensiero politico di destra rendere fluttuante la frontiera della cittadinanza al fine di stabilire chi è dentro e chi è fuori della comunità nazionale. E' in fondo la vecchia politica della cooptazione, la stessa attuata da Giolitti. Certo, sempre meglio un Giolitti che un Roudini che sparava sulla folla dei manifestanti o un Pelloux. Aggiungerei che oltre al populismo mediatico di Berlusconi e al conservatorismo illuminato di Fini, esiste anche un terzo modello di destra, quella di Tremonti e Bossi. Non è da sottovalutare, anzi credo che sia questa la destra che comanda davvero ed è quella più legata agli interessi materiali sui territori.

Liberazione 28/08/2010, pag 8

Libro: Ubik. Di Philip K. Dick

Titolo Ubik
Autore Dick Philip K.
Prezzo
Sconto 10% € 8,91
(Prezzo di copertina € 9,90 Risparmio € 0,99)
Prezzi in altre valute

Dati 2008, 240 p.
Editore Fanucci (collana Tif extra)

http://www.ibs.it/code/9788834714324/dick-philip-k/ubik.html

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Libri di Philip K. Dick

http://www.ibs.it/libri/dick+philip+k./libri+di+dick+philip+k..html

Libri: Guido Saramani

2010
Cina, ventunesimo secolo
Samarani Guido, 2010, Einaudi
€ 9,00 (Prezzo di copertina € 10,00 Sconto 10%)

2008

La Cina del Novecento. Dalla fine dell'impero ad oggi
Samarani Guido, 2008, Einaudi
€ 21,60 (Prezzo di copertina € 24,00 Sconto 10%)


2005
La Cina e la storia. Dal tardo impero ad oggi
De Giorgi Laura; Samarani Guido, 2005, Carocci
€ 17,70

2004
La Cina del Novecento. Dalla fine dell'Impero a oggi
Samarani Guido, 2004, Einaudi
€ 36,00

1988
Una modernizzazione mancata
Samarani Guido, 1988, Libreria Editrice Cafoscarina
€ 11,36


http://www.ibs.it/libri/samarani+guido/libri+di+guido+samarani.html

Antonio Moscato

http://antoniomoscato.altervista.org/

Egyptian drama stirs controversy

Ramadan is a festive month for Muslims around the world, and in the Middle East it is a time when families get together and tune in to their favourite TV programmes.

But there is one show in Egypt that is causing some problems.

Al Jazeera's Ayman Mohyeldin reports from Cairo where a Ramadan TV series about the Muslim Brotherhood is striking a cultural nerve.

http://english.aljazeera.net/news/middleeast/2010/08/20108261411963984.html

Libro: Alex Spinelli

Titolo Baro romano drom. La lunga strada dei rom, sinti, kale, manouches e romanichals
Autore Spinelli Alexian S.
Prezzo € 17,00
Prezzi in altre valute

Dati 2005, 192 p., ill., brossura
Editore Meltemi (collana Meltemi.edu)

http://www.ibs.it/code/9788883534645/spinelli-alexian-s/baro-romano-drom.html

Città del Sole Edizioni

La Città del Sole Edizioni è l'editore ufficiale della Fondazione Italo Falcomatà, per conto della quale sta curando la redazione e la pubblicazione delle opere del sindaco scomparso, e del Premio plurinazionale e multimediale di poesia Nosside e Nosside Caribe con la pubblicazione dei relativi annuari e delle antologie, in coedizione con la casa editrice Editorial Letras Cubanas La Habana di Cuba.

http://www.cdse.it/

Dalla destra alla destra. Postfascisti nel XXI secolo, ma con Gentile nel cuore

Fondazioni, giornali, webmagazine, libri. Il progetto culturale dei finiani

Tonino Bucci
Tutti ne parlano. La destra moderna e liberal del XXI secolo può contare su un leader, nella persona del Presidente della Camera, su una pattuglia di parlamentari, su un'eccellente visibilità politica, su un giornale quotidiano di riferimento - il Secolo d'Italia - su fondazioni come FareFuturo (che pubblica anche l'omonimo webmagazine) e Generazione Italia. In questa struttura sono coinvolti politici e intellettuali, giornalisti ed esponenti istituzionali, ex militanti del vecchio Msi e nuovi "compagni di strada". Tutti chiamati, ognuno a diverso titolo, a concorrere alla costruzione di quella che ormai viene definita la nuova destra del XXI secolo. Già da tempo, ben prima che la maggioranza di governo entrasse in fibrillazione, i periodici e le fondazioni dell'area finiana producono una quantità impressionante di iniziative politiche, dibattiti, tavole rotonde, riviste e saggi.
Ma quel che colpisce di questo intenso lavorìo è soprattutto la dimensione culturale, perché è sull'elaborazione teorica che in prevalenza la destra finiana ha puntato per definire la la sua immagine pubblica. Del resto, non c'è di che sorprendersi se un pezzo di classe dirigente politica erede nientemeno che dell'Msi investa così tanto nel proprio sdoganamento culturale.
Nessuno però sa dire con precisione cosa sia questa destra tanto rumorosa. Nonostante oggi conti quanto un drappello di parlamentari l'area finiana si candida a diventare la destra del XXI secolo e accredita di sé l'immagine di una destra nazionale, popolare, plebiscitaria. Al momento abbiamo solo nudi nomi, stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. Postfascisti o liberali, statalisti ma anche mercatisti, cultori del merito e delle competenze ma sensibili ai diritti civili, garanti dell'ordine e degli obblighi ma non a discapito delle libertà degli individui, gelosi custodi della propria memoria (mettiamoci pure dentro il Ventennio, la Repubblica di Salò, Evola, Schmitt, Nietzsche, i campi hobbit) eppure disincantati, lanciati a passo spedito verso una politica postideologica, verso un immaginario leggero e un populismo-pop, tanto da accaparrarsi qualsiasi icona culturale di massa, da Zorro a Capitan Harlock, da Love Story a Giovanna d'Arco. Una destra che ama gli eroi ribelli e anarchici epperò anche l'ordine e il conformismo. Ce n'è per tutti i gusti in questa rapida carrellata (leggere il Secolo per credere).
Non c'è altro modo che entrare per il corridoio centrale se se ne vuol venire a capo, ad esempio sfogliando le pagine di uno dei (tanti) libri dedicati direttamente o indirettamente a Fini. Ci riferiamo a La destra e le libertà di Agostino Carrino, docente di diritto costituzionale all'Università di Napoli Federico II nonché editorialista del Secolo (edizioni Guida, pp. 368, euro 20,50). Una scelta non a caso, visto che del Presidente della Camera il saggio di Carrino porta anche la firma della prefazione. A voler fare uso della sintesi sono due gli ingredienti della ricetta di questa immaginaria destra del futuro, perfettamente integrata nella società multietnica in piena globalizzazione. Primo, si vagheggia una destra che non faccia più sfoggio della propria antimodernità, che non abbia nostalgie per comunità perdute o per un qualche ordine rintracciabile nell'epoca premoderna. Secondo, il requisito che si richiede alla destra perché possa diventare una forza nazionale-popolare è di andare "oltre gli steccati", oltre la contrapposizione fascismo-antifascismo. Punto d'approdo dichiarato, un immaginario postideologico e spregiudicato, capace di utilizzare a proprio vantaggio anche temi raccattati nel campo avversario della sinistra. Fino a sfiorare - altro cliché di destra - il gusto della provocazione beffarda, à la Prezzolini («la Costituzione di Stalin non era male», scrive Carrino).
Con orgoglio sprezzante viene esibita una certa disinvoltura nell'andare incontro al disordine, quasi una dichiarata esaltazione del fluire del tempo - ma in fondo fa parte della destra, tradizionalmente forza d'ordine, giocare anche col disordine. Carrino non lo smentisce, anzi cita pure Mao, «c'è un grande disordine sotto il cielo: la situazione è eccellente». «Il disordine ha valore perché è presago di ordine, così come l'ordine precede inevitabilmente qualche disordine». Può anche essere che l'uomo di destra del XXI secolo si lasci alle spalle il mito (risalente a Julius Evola) dell'eroe irriducibile in piedi in un mondo decdente di rovine, ultimo discendente di un'antica stirpe, una sorta di eroe ribelle in piedi in un mondo decadente di rovine. Ma non è - non illudetevi - una conversione, non è la rinuncia a un ideale di comunità fondata sulla gerarchia dei valori, sugli obblighi degli individui nei confronti dell'interesse generale, sull'armonia tra lavoro e impresa, su uno Stato "decisionista" o presidenzialista che sia. C'è ancora molto Gentile e della sua versione forte del liberalismo nelle affermazioni di Carrino. La svolta, semmai, sta nella consapevolezza che a una comunità nazionale a misura di ceti medi, pacificata in una sorta di neocorporativismo, non ci si può arrivare cancellando le istituzioni della democrazia rappresentativa, i diritti e la libertà degli individui. Non si può essere per la tradizione contro il futuro, per l'ordine contro il disordine, per gli obblighi contro i diritti, per la comunità contro l'individuo, per lo Stato contro il mercato. Questa destra non vuole più costruire il suo discorso politico sulla difesa di un ordine collocato in un passato premoderno, non se la sente più di contrapporre la fede identitaria in una comunità perduta «alla volontà di libertà che vive nell'uomo e che è altrettanto naturale del desiderio di ordine, pur se talvolta la libertà è costretta ad affermarsi esattamente rovesciando l'ordine tramandato».
Ma allora se non si può lottare contro la modernità, non resta che agire dentro di essa, utilizzarne gli strumenti, adottarne le forme sì, ma per stravolgerne i contenuti, per neutralizzarne gli effetti ritenuti più pericolosi, più nocivi e più disgreganti in una comunità che ha da essere il più omogenea possibile. «E' stato l'errore fondamentale di una certa vecchia destra - scrive Carrino - non riuscire ad accettare la crisi della modernità come fenomeno strutturale col quale convivere». Un discorso non contro le istituzioni della democrazia rappresentativa, ma comunque orientato a modificarle nel senso del patriottismo repubblicano, del populismo, del presidenzialismo, del decisionismo. L'apertura sui diritti civili, le concessioni sulla cittadinanza agli immigrati e agli stranieri vanno di pari passo con la riaffermazione del «senso di responsabilità verso l'intera comunità nazionale», degli obblighi dei cittadini rispetto «a un destino nazionale comune» (citazione dalla prefazione di Fini). Ordine e comunità non spariscono, né tntomeno lasciano la scena all'individuo. E anche quando si cerca tener dentro l'individuo e le sue libertà e i suoi diritti si tratta di un «rinnovato liberalismo», di un individuo che deve «custodire» la sua libertà manco fosse un segreto, in ogni caso piegandola al legame sociale. «Essere di destra significa, ancora oggi, rifiutare l'ideologia e la retorica dei diritti che si espandono e crescono su se stessi, senza limiti, e affermare la pari dignità dell'individuo e della comunità». Individui «che sappiano rischiare, agire, impegnarsi, lavorare senza intendersi attendersi a priori che lo Stato intervenga a aiutarli». Il circolo si chiude, nella comunità perfetta il mercato prescrive ai cittadini come rapportarsi gli uni agli altri e lo Stato decide quale sia l'interesse generale al quale - gentilianamente - il singolo ha da conformarsi. Non sarà una comunità-nazione definita da requisiti naturali, chiusa entro appartenenze di razza o stirpe o religione, ma l'ideale di un'entità omogenea rimane e per costruirla possono risultare utili anche gli strumenti del diritto costituzionale (da Schmitt a Kelsen). La nuova frontiera mobile è la cittadinanza, il confine che definisce e separa chi farà parte del corpo elettorale e chi no.

Liberazione 27/08/2010, pag 8

«Basta salari da fame» Il Sudafrica si ferma

Continua lo sciopero senza precedenti dei lavoratori della funzione pubblica

Francesca Marretta
Passata la sbornia allegra dei mondiali di calcio, riusciti a ricompattare quella Nazione Arcobaleno che pareva il sogno incompiuto del padre della Patria Nelson Mandela, il Sudafrica di Jacob Zuma è ora alle prese con una protesta di popolo senza precedenti nell'era post-Apartheid. I lavoratori dell'intero settore pubblico scendono in piazza da ormai dieci giorni. Insegnanti, infermieri, guardie carcerarie, impiegati della Pubblica Amministrazione, marciano per le strade di Johannesburg, Pretoria, Città del Capo, Durban contro il governo dell'Anc. Chiedono aumenti di salario nella misura dell'8,6% e mille rand al mese in benefits (circa cento euro), rispedendo al mittente quel 7% e 500 rands messi sul tavolo dell'offerta. Mancano giusto i poliziotti che non possono aderire allo sciopero, pena il licenziamento, per un'ingiunzione della Magistratura che l'Esecutivo è riuscito ad ottrenere ieri. L'intervento del Tribunale del lavoro è scattato dopo che il sindacato di categoria aveva cominciato a mobilitare le forze dell'ordine per unirsi alle proteste. Nei giorni scorsi lo stesso Tribunale aveva decretato che servizi pubblici essenziali, come gli ospedali, riprendessero a finzionare immediatamente. E' stato invece necessario mandarci l'esercito. Ma persino sindacati che rappresentano i lavoratori del settore Difesa hanno minacciato l'adesione allo sciopero. Che potrebbe allargarsi ora anche al settore industriale. I sindacati sudafricani, come il Cosatu, che rappresenta oltre un milione di lavoratori, hanno annunciato che indietro non si torna, che la battaglia continua.
Picchetti e manifestazioni dunque continuano, e non è da escludere che si ripetano scene già viste in questi giorni di folla dispersa con lacrimogeni e proiettili di gomma. Il ministro della Sanità sudafricano Aaron Motsoaledi, medico, ha attaccato gli scioperanti del settore ospedaliero con parole pesanti, dicendo che chi lavora in strutture sanitarie non può permettersi di trasformarsi nel "killer" dei pazienti. Infermieri e addetti alle pulizie del Rahima Moosa Mother & Child Hospital di Johannesburg hanno rimandato l'accusa al mittente: «E' il ministro deve rispondere dei bambini morti negli ospedali». Un'insegnante che ha inviato un messaggio anonimo al quotidiano di Città del Capo "City Press" scrive: «Questa è una guerra. Purtroppo come in ogni guerra ci sono effetti collaterali. Fa male vedere infermieri che rifiutano di curare bambini e chi soffre, ma che scelta gli è rimasta?». Parole che gettano benzina sul fuoco in uno scontro sociale che mostra ferite profonde nella società sudafricana.
La rabbia portata in piazza in questi giorni fa tornare in mente le proteste nelle Township dell'anno scorso. Già allora, a cento giorni dall'elezione di Zuma, si protestava contro le mancate promesse dell'Anc per sollevare la popolazione da povertà e bassi salari. La rabbia dell'esercito di lavoratori del settore pubblico che si mobilita nell'intero Sudafrica dà la misura del fallimento del cosiddetto Black Economic Empowerment. Una politica che ha funzionato solo per pochi.
Secondo un rapporto pubblicato quest'anno dall'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo (Osce), dal titolo "Tendenze nella distribuzione del reddito e della povertà in Sudafrica dalla fine dell'Apartheid", mentre gli indicatori sulle differenze sociali tra bianchi e cittadini di sangue misto permangono, ma mantegono gli stessi livelli che in precedenza, tra i neri sudafricani, la forbice si è allargata e si va allargando. Ed è contro i privilegi sociali ed ecomomici della classe dirigente sudafricana che i lavoratori del paese scendono in piazza.
Un dato particolarmente allarmante su come vanno le cose in Sudafrica, arriva inoltre dalla legge-bavaglio per la stampa e la libertà di espressione che l'African National Congress sta cercando di fare approvare. La legge (Protection of Information Bill) che sta attualmente seguendo l'iter parlamentare, darebbe potere ad agenzie governative di vietare la diffusione di informazioni su argomenti definiti di "interesse nazionale". Si dà ora il caso che contro una legge caratterizzata da vaghezza e discrezionalità relativa a tali presunte questioni di Stato, abbiano alzato gli scudi personalità perseguitate durante il regime dell'Apartheid. Per esempio il premio Nobel per la letteratura Nadine Gordimer. La scrittrice è firmataria di una petizione che intende fermare quella che è vista come una forma di censura assimilabile a quelle dei tempi dell'Apartheid. La petizione è sottoscritta da altri intellettuali sudafricani i cui lavori furono banditi ai tempi del regime segregazionista.

Liberazione 27/08/2010, pag 7

La sinistra che non può vivere se non immagina un altro futuro

"L'assalto al cielo", un libro che raccoglie gli atti di un convegno sulle ragioni del comunismo

Tonino Bucci
Piangersi addosso è inutile. Non ridere, non lugere, neque detestari, sed intelligere scriveva Spinoza nel Trattato politico per esemplificare lo stile di vita da prendere a modello. Non ridere, non piangere, non odiare, ma comprendere. Non che manchino motivi per autocommiserarsi alle forze che ancora oggi, a vario titolo, si riconoscono nella grande tradizione comunista. In alcuni paesi, quelli un tempo appartenenti all'ex blocco socialista, i partiti comunisti sono stati travolti da un processo di damnatio memoriae che ha finito col criminalizzare l'intera storia del comunismo - e, in via speculare, col riabilitare parzialmente i crimini commessi dai nazisti sul fronte orientale durante la Seconda guerra mondiale. In altri paesi, oltre alla memoria storica, è stata spazzata via anche l'agibilità politica dei partiti comunisti, privati della stessa possibilità di usare i propri simboli, messi fuori legge. Persino in Italia, dove il partito comunista ha giocato un ruolo nazionale determinante, nella lotta antifascista, nella Resistenza, nella scrittura della Costituzione, nella costruzione della Repubblica, nell'organizzare masse storicamente distanti dalla politica, si registra oggi una delegittimazione mirata a cancellare i comunisti dal discorso pubblico e dalla memoria storica del paese. Dallo scioglimento del Pci a oggi sono trascorsi vent'anni, un ventennio di sconfitte e di arretramenti. Il panorama che si offre allo sguardo presente indurrebbe allo scoramento chiunque sia dotato di un minimo senso di realismo. La galassia della sinistra è polverizzata in piccole formazioni, poco efficaci e perciò dotate di scarso appeal agli occhi degli elettori.
Cosa ne è oggi delle ragioni che nel Novecento hanno fatto del comunismo un movimento di dimensioni planetarie in grado di scrivere la storia? Se lo chiedono gli autori che hanno partecipato al volume collettivo L'assalto al cielo, sottotitolo Le ragioni del comunismo, oggi (edizioni La Città del Sole, a cura di Marco Albeltaro, pp. 132, euro 12). Le contraddizioni che Marx aveva meticolosamente descritto nel Capitale sono tutt'altro che sparite dalle società capitalistiche attuali. Sfruttamento del lavoro, crisi economica, devastazioni ambientali, involuzioni autoritarie, razzismo, rischio di soluzioni alla Weimar, pericolo di contraccolpo nelle classi medie, avanzata della destra e tanto altro ancora si potrebbe aggiungere a dimostrazione che ancora oggi un punto di vista comunista può esibire - rispetto alle visioni del mondo concorrenti - un sufficiente livello di verità nel descrivere le strutture profonde della società. Perché mai, allora, tra il discorso dei comunisti e la coscienza comune rimane una frattura, uno iato?
Mai come oggi la crisi politica della sinistra coincide con la crisi della teoria, con la difficoltà di elaborare un punto di vista sistemico. Lo spappolamento delle organizzazioni politiche di classe ha generato nella sinistra anche una confusione di punti di vista, di linguaggi, di rappresentazioni del mondo. Quell'ampia fetta di società italiana che abitualmente veniva indicata con l'etichetta di "popolo di sinistra" è diventata terra di conquista per forze politiche estranee alla tradizione del movimento operaio (come l'Italia dei valori) e, persino, per le ideologie dominanti dell'avversario, come il leghismo o il berlusconismo. Sulla superficie della società sono visibile le stesse caratteristiche che Gramsci, nei Quaderni, attribuiva al senso comune: «il suo carattere fondamentale è di essere una concezione del mondo disgregata, incoerente, inconseguente». Appunto. Non è sufficiente sperimentare il disagio sociale sulla propria pelle per riuscire a connettere la causa delle proprie sofferenze al funzionamento della società capitalistica. Si può essere disoccupati, precari, cassintegrati e convinti, al tempo stesso, che la causa di tutti mali sono gli immigrati o i troppi pensionati o le eccessive tutele previste dal contratto nazionale a difesa di immaginari lavoratori "ipergarantiti".
Se ci fermassimo alla superficie delle cose, così come queste si presentano a prima vista, sarebbe meglio smettere di parlare di comunismo e lasciar perdere. Ma l'apparenza non contiene tutta la realtà e non tutto quello che si vede a occhio nudo ha il livello di verità di quel che si muove nel sottosuolo della società. Per dirla in altro modo, se il punto di vista dei comunisti è quasi sparito dal senso comune del paese non è affatto detto che quel punto di vista non possa elaborare un suo discorso di verità.
Il problema era già noto a Gramsci. «Ogni rivoluzione - scriveva - è stata preceduta da un intenso lavorio di critica, di penetrazione culturale, di permeazione di idee attraverso aggregati di uomini prima refrattari e solo pensosi di risolvere giorno per giorno, ora per ora, il proprio problema economico e politico per se stessi, senza legami di solidarietà con gli altri che si trovano nelle stesse condizioni». L'assalto al cielo rischia d'essere un mito nostalgico, il comunismo una moda retrò, l'anticapitalismo un discorso retorico se agli occhi del popolo di sinistra appaiono insufficienti a render conto della vita, dei bisogni, delle condizioni reali. Non ci sono scorciatoie a un lavoro di scavo teorico. La frattura tra masse subalterne e riferimenti politici tradizionali è talmente profonda oggi che «sarebbe del tutto illusorio - come scrive Burgio - pensare che la condizione sociale e lavorativa parli da sé, spinga automaticamente a sinistra e verso opzioni critiche. Non è così. Il nesso tra condizione sociale e opzione politica è sempre stato complesso e oggi lo è più che mai». Gramsci - ancora lui - la chiamava «connessione sentimentale»: nel senso di una conoscenza che dovesse essere non calata dall'alto, a mo' di filastrocca, bensì radicata nella concretezza dell'esperienza. Come si trova il giusto equilibrio tra la necessità di una teoria organica, di un modello analitico capace di render conto dell'aspetto sistemico della società, da un lato, e l'altrettanto necessario studio della molteplicità di fenomeni del nostro tempo? «Credo - ancora Burgio - che lo sforzo di analisi della realtà da parte nostra debba tenere sempre sullo sfondo l'analisi del modo di produzione e mai prescinderne quando la lente si concentra sull'analisi di specifiche contraddizioni (la questione dell'ambiente, la differenza di genere, i problemi della democrazia, la questione della pace e della guerra, il risorgente incubo del razzismo)». A patto che ciò non implichi alcuna forma di economicismo o gerarchia di importanza tra questioni economiche ed altri temi. Ma c'è anche chi vede la necessità di elaborare una concezione autonoma della democrazia, come Gian Mario Bravo, capace di tenere assieme l'«autogoverno dei produttori» (di marxiana memoria) con il «governo delle leggi», democrazia formale e democrazia sostanziale, solidarismo e aspetti procedurali. E che la «questione del potere politico» sia centrale «per la transizione al socialismo», lo ricorda anche Andrea Catone. Chissà che qualcosa non si possa imparare - come suggerisce Antonino Infranca - dall'America Latina. E chissà se - per dirla con le parole di Imma Barbarossa - non occorra cominciare a distinguere la rivoluzione degli uomini dalla rivoluzione delle donne.

Liberazione 25/08/2010, pag 8

Crisi, Stiglitz: «Europa rischia una seconda recessione»

In una intervista alla radio irlandese Rte di Dublino, il professore della Columbia University di New York ha detto che «tagliare a casaccio negli investimenti ad alto rendimento solo per fare in modo che il quadro del deficit appaia migliore è veramente insensato». In particolare, il premio Nobel ha puntato il dito contro l'obiettivo di tenere il deficit al di sotto del 3% del Pil. «Europa rischia una seconda recessione perchè molti in Europa si stanno concentrando sul numero artificiale del 3%, che non è reale e guarda solo a un lato dei bilanci». Per Stiglitz è inquietante che le persone parlino di questo «come di una nuova normalità», soprattutto alla luce del fatto che una disoccupazione al 10% «sarebbe devastante».

Liberazione 25/08/2010, pag 7

«Il carbone uccide». Savona interroga il numero uno del Pd

Dieci domande dei comitati a De Benedetti cui fa capo la centrale

Checchino Antonini
Non ci sono più api a Savona. A stento ci crescono i licheni e le piogge acide ammazzano gli alberi. Ma soprattutto la gente, a Savona, muore più che in altri posti. Via Diaz, via Griffi, via Pertinace - nei comuni di Vado Ligure e Quiliano - sono dei cimiteri. «Ci sono malattie che si verificano in 2-3 casi ogni 300mila abitanti e qui ne trovi due, tre, nello stesso palazzo». Dati angoscianti spiegati a Liberazione da Paolo Franceschi, medico pneumologo all'ospedale di Savona, referente scientifico della commissione salute e ambiente dell'ordine dei medici provinciale e membro dell'associazione internazionale dei medici per l'ambiente. Franceschi è di Quiliano che, con la vicina Vado, è occupata da una quarantina d'anni da una gigantesca centrale a carbone che occupa l'aria e il paesaggio. Ha 49 anni e faceva le elementari mentre costruivano la centrale dove prima c'erano orti e vi cresceva l'albicocca tipica, quella di Valleggia. 8mila abitanti Vado e altrettanti Quiliano ma la zona industriale su cui la centrale ha le ricadute è abitata da 75mila persone. La centrale è proprio nel centro abitato: la gente vive, lavora, va a scuola tra frastuono e fumi e polveri. E s'ammala e crepa. Quando fu costruita i due paesi vennero "compensati" uno con un palazzetto dello sport, l'altro con uno stadio. Ma, i 550 addetti originari si sono ridotti a 250 dopo la privatizzazione dell'Enel. Ci lavora meno gente di quanta ne ammazza. Produce già molta più energia di quanta ne serva alla provincia ma ora i padroni privati la vorrebbero ampliare. La Tirreno Power preme da un paio d'anni almeno. Tirreno power, 100 milioni di utili netti l'anno, è controllata da Cir Sorgenia che, a sua volta fa capo alla holding di De Benedetti. Ossia della tessera numero uno del Pd. E' proprio a lui che i comitati no coke hanno indirizzato dieci questioni contenute in una lettera aperta i cui primi firmatari sono, tra gli altri, Maurizio Maggiani, Carlotto, Ferrero, Staino. Margherita Hack, De Magistris, Agnoletto, Paolo Cacciari, Diliberto, Cannavò.
Dieci domande, come quelle che un noto quotidiano di De Benedetti rivolse a Berlusconi e che invece balbetta sui misfatti del carbone. Ecco le domande in sintesi. La versione completa è consultabile su Liberazione on line. Perché si ostina nel progetto di ampliamento di fronte alla contrarietà di una città intera? Perché non ammette che le centrali a carbone uccidono? Perché ampliare quando il protocollo di Kyoto prevede di smantellare il carbone (tanto saranno i cittadini a pagare le multe)? Perché gli impianti non sono allineati alle normative? Perché negare che l'ampliamento aumeterà l'inquinamento? E' vero che la centrale sarà utilizzata anche come inceneritore di rifiuti? Perché accetta il paradosso che il controllo delle emissioni alle ciminiere sia eseguito dalla stessa Tirreno Power? Perché rifiuta il confronto con i comitati, i medici e la città? Perché ampliare quando già si produce energia per cinque città grandi come Savona? Perché non investire nel metano e nelle rinnovabili?
Perché il carbone è, senza dubbio, la fonte energetica più inquinante. Lo ha scritto il Nobel Carlo Rubbia. E la centrale di Savona produce l'80% delle polveri sottili primarie e secondarie deell'area, il 65% degli ossidi di azoto e il 91% degli ossidi di zolfo, quelli delle piogge acide. E poi c'è il 90% delle emissioni di mercurio: le cozze di Vado hanno più veleni e metalli pesanti dei loro cugini liguri. Riprende Franceschi:«Non c'è una una zona in Liguria con i valori dei tumori maligni più alti». E le morti per tumore (a polmoni, vescica e laringe) sono solo un terzo del totale, poi c'è il record di bambini asmatici e allergici, di morti per infarto, ictus, emorragie cerebrali, ischemie. E molte volte nelle cartelle cliniche le morti per cancro diventano blocchi respiratori.
«Abbiamo notato una sovrapponibilità molto pecisa tra le zone rosse delle aree inquinate e quelle con maggiore mortalità». Le zone rosse corrispondono alla Val Bormida, all'area di Vado-Quiliano-Savona e a Varazze dove si registra la sovrapposizione tra la centrale di Vado (660 megawatt a carbone e 780 a gas naturale) e quella di Genova (300 megawatt, inquina come tutte le fabbriche e tutte le macchine della provincia). Più che dalla potenza l'inquinamento dipende da tecnologia adoperata. Ma non esiste il carbone pulito spacciato dalla propaganda di Enele Tirreno Power. Due gruppi della centrale funzionano ancora con tecnologie anni '60, 4 volte più inquinanti delle migliori tecnologie moderne. L'inquinamento di Savona è pari a una città cinque volte più grande. Solo la turbogas inquina più di tutto il porto e di tutte le fabbriche. Il "civilissimo" Texas, ad esempio, mantiene la pena di morte ma nel 2006 ha bocciato il progetto di 17 nuove centrali a carbone "pulito". In California non ce n'è neanche una.
Anziché ampliare, Tirreno Power dovrebbe «depotenziare e metanizzare», dice a Liberazione, Franco Zunino, ingegnere, ex assessore regionale all'Ambiente per Rifondazione comunista. Come chiede la città. La Regione mantiene il 27% del carbone rimasto in Italia. La Giunta ha già dato parere negativo nella valutazione di impatto ambientale ma, non accadeva da almeno 10 anni, è stata smentita dal ministero dell'Ambiente. Ora ha impugnato al Tar il decreto nazionale «perché in contrasto col piano energetico regionale che punta sulle rinnovabili e non sull'ampiamento del fossile ed è in contrasto col piano di risanamento della qualità dell'aria. La Regione, su mia delibera, non darà l'intesa in conferenza dei servizi, il Via, infatti, non basta». Da parte sua l'azienda fa sapere che «De Benedetti, che non ha alcun ruolo in Tirreno Power».

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Grandi opere, ecco come si costruisce il consenso. Se no c'è il solito ricatto
«Quella ciminiera falla azzurra Così farà meno paura alla gente»

Tirreno Power, la proprietaria della centrale a carbone di Vado Ligure, è anche lo sponsor dell'estate savonese e di qualsiasi iniziativa culturale nella zona. Compra paginate sui quotidiani locali. Sul suo sito - dove prevalgono colori che evocano il cielo - si sorvola sulla ricca letteratura scientifica a proposito della mortalità impressionante entro 50 chilometri dalla centrale, ma si valorizza l'impegno della Spa che fa capo all'ingegner De Benedetti per lo sport. Loro dicono che sia perché lo sport insegna le regole del vivere comune ma è più probabile immaginare che associare il marchio allo sport evochi l'empatia tipica dei tifosi (noi contro loro) e un immaginario legato alla salute, alla forza, alla giovinezza, alla vita. Ossia a tutto ciò che un mostro come quello piantato tra Vado e Quiliano ruba da quarant'anni agli abitanti. Anche a Civitavecchia, in provincia di Roma, l'Enel utilizza mezzi simili per far ingoiare alla città le polveri sottili e i veleni di Torre Valdaliga. «Non c'è torneo, festival o rifacimento di strada che non porti la firma dell'azienda», conferma Simona Ricotti, no coke civitavecchiese a Liberazione. «Hanno comprato tutto. E non è per caso che il governo abbia modificato il testo unico sull'ambiente inserendo la possibilità di accordi economici che era stata esclusa dai referendum contro il nucleare». Ma come si fa a corrompere le comunità locali? Un documento che la galassia ambientalista ha intercerttato a Verona spiega come si fa a "liberare" i sindaci ostaggio di «minoranze fortemente motivate» e dalle loro «strategie di contrasto, spesso demagogiche o politicamente interessate». Si tratta di una relazione della municipalizzata veronese per l'esecuzione degli interventi relativi al termovalorizzatore di Ca' del Bue. Un testo degno di diventare il canovaccio per un recital teatrale di Dario Fo o Michele Paolini. Il "piano di comunicazione" fa alcune raccomandazioni per «ingenerare fiducia nel proponente», limitando il ricorso a metodi assembleari (gli ambientalisti tendono ad essere ideologici!) in favore di stratagemmi che potrebbero «migliorare efficacemente la percezione». Così, nell'esempio citato, a una vera macchina da cancro come il termovalorizzatore di Brescia è bastato dipingere il camino di blu per diventare parte del paesaggio. «Ma l'arsenico che esce è sempre lo stesso», commenta Simona Ricotti annunciando per settembre il varo di un coordinamento nazionale contro le centrali a carbone che coinvolgerà i cittadini di Rossano Calabro, Gualdo Cattaneo, Porto Tolle, Brindisi. Oltre ai liguri e a chi vive all'ombra di Torre Valdaliga Nord (anche qui il progetto prevede una torre azzurra) e Torre Valdaliga Sud. La prima è di Enel, funziona da un anno ed è già al centro di alcune inchieste sull'occultamento di rifiuti, sull'eccesso di fumi e rumori, e rischia il sequestro per esercizio in assenza di autorizzazione. Tirreno Power spunta nella torre sud dove vorrebbe far funzionare a ciclo continuo il gruppo di riserva che risale al '74 e avrebbe già effettuato indagini di mercato per farlo funzionare a carbone.
E quando il marketing non è sufficiente si ricorre al ricatto occupazionale. Un evergreen. «A Savona Tirreno Power tenta di superare gli ostacoli rivolgendosi alle categorie sindacali nazionali per sponsorizzare l'ampliamento arrivando ad ipotizzare la chiusura dell'impianto qualora il potenziamento non venisse concesso», dice il segretario provinciale del Prc, Marco Ravera. «E' grave che i sindacati, regionali e nazionali, abbiamo scelto di scavalcare il territorio. Tutto per una cinquantina di posti di lavoro in più. Le rinnovabili ne creerebbero molti di più».
Dal punto di vista politico l'avvento di giunte di centrodestra in provincia e al comune di Vado ha complicato la situazione: «Qui siamo nella sfera d'influenza di Scajola», dice anche Simone Falco, ex consigliere Prc a Vado dove lo scontro sulle questioni ambientali si sta consumando anche sul progetto Margonara (nel quale è stato bocciato un grattacielo firmato dall'archistar Fuksas) e sui 250mila metri cubi di cemento che la multinazionale danese Maersk vorrebbe far galleggiare in mezzo al porto.
Di carbone si muore ma l'azienda ha tappezzato la città con poster che dicono: «La tecnologia esiste Tirreno Power la possiede». Intanto continua a far funzionare due gruppi vetusti e obsoleti in barba ai piani regionali su energia e qualità dell'aria e continueranno a funzionare così anche dopo l'ampliamento. Tanto sulle ciminiere solo il padrone ci può mettere le mani e l'Arpal, secondo l'Ordine dei medici, può fare solo misurazioni «superficiali e insufficienti».
che.ant.

Liberazione 25/08/2010, pag 6

Vendola, l'aedo del riformismo

Eleonora Forenza
Una intervista doppia, a testate unificate, il manifesto e la Repubblica, in questa torrida estate da basso impero: il nostro versatile aedo lancia, a dire il vero con una tempistica un po' surreale, la sfida salvifica delle primarie, per uscire dal pantano della seconda repubblica. Le due interviste di Nichi Vendola propongono con tonalità diverse (a ciascuno il suo, il marketing è una scienza seria) la stessa tesi: per il pubblico "adulto" del manifesto non mancano i riferimenti a Melfi e Pomigliano e una differenziazione dalla analisi propostaci dalla lettera di Veltroni sulla sconfitta del 2008. Ma il senso delle due interviste è identico: Vendola si propone di «incarnare in progettualità», la «spinta innovativa» che sente «in Veltroni». Si propone di tradurre in «narrazione», o meglio di essere il narratore, di un compiuto progetto riformista. Di realizzare, cioè, in salsa euromediterranea, il sogno americano di Walter. Certo, «ci sono diversi e divaricati riformismi», e Vendola ne interpreta una variante meno moderata.
Non è un caso che la sfida delle primarie sia rivolta al Pd, e circoscritta nell'ambito di un Pd per entrambi, Vendola e Veltroni, onnicomprensivo, cioè votato a cancellare a suon di sbarramenti, o a cancellare sussumendolo, tutto quello che si trova alla sua sinistra. Poco importa che l'aedo sia convinto di poter sussumere nelle affascinanti spire della sua poesia la prosa del fallimento riformista, mentre rischia di essere il cantore di una storia non sua, cioè sembri essere sussunto da una narrazione altrui. Tra Nichi e Walter non c'è conflitto di interessi. Anzi.
Vendola sembra in grado di poter realizzare compiutamente il progetto veltroniano di piena relizzazione dalla seconda repubblica, bipolare e bipartitica e con venature presidenzialiste, attraverso una più radicale americanizzazione del sistema politico: il superamento del contributo dei partiti nella formazione della decisione democratica, in una ottica saldamente postideologica, quando non retoricamente anti-ideologica; una definitiva stabilizzazione di un sistema dell'alternanza (e, dunque, la necessità di cancellare chi si propone di rappresentare l'alternativa al sistema economico e politico); una sublimazione carismatica del conflitto sociale come surrogato di una sua semplice espunzione dal sistema politico. Una dilatazione parossistica del "ma anche": diritti civili, ma anche Family day; Pomigliano, ma anche Marcegaglia e De Benedetti; il Pride ma anche Padre Pio.
Vendola, dunque, come evidente nella risposta indiretta a De Magistris, non si pensa come possibile leader di una sinistra unita, né di governo né di alternativa, perché semplicemente non pensa ad uno spazio autonomo di sogettivazione e ricostruzione della sinistra. Il progetto di Vendola non è quello di costruire una sinistra per uscire dal capitalismo in crisi, ma appunto, quello di essere il narratore del riformismo più moderno. Perché Vendola è già oltre l'idea di sinistra: Vendola si propone di rappresentare una interclassista "Italia migliore".
Ecco perché relega elegantemente nell'iperuranio il ritorno ad un sistema proporzionale (per cui invece la Federazione della sinistra si batte) e si propone di giocare la partita con una legge elettorale, che oltre ad aver regalato l'Italia a Berlusconi, ha cancellato il pluralismo e soprattutto ha definitivamente reso il sistema istituzionale italiano impermeabile al conflitto sociale. Ed ecco perché il nemico da cancellare, da confinare tra la mucillagine dei partiti, e nell'oltretomba del Novecento, sono quelli brutti, sporchi e cattivi, che sostengono che oggi sia ancora più maturo il bisogno di comunismo: essi vengono dipinti nel "discorso della luce" tenuto al meeting della "fabbriche di Nichi" come chi «ha introiettato l'etica e l'estetica della sconfitta». "Che palle", queste bandiere rosse che avvolgono il corpo agonizzante della sinistra comunista, esclama Vendola, con un linguaggio che forse vorrebbe essere giovanilistico e invece è semplicemente inelegante. E quanta paura dovrebbe provocare in un orecchio di sinistra questa retorica del "vincere", della sinistra che vince… Non importa che provi a vincere diventando altro, cioè muoia compiendo definitivamente quella metamorfosi degenerativa che in Italia è iniziata col suicidio del Pci. Questi vecchi prigionieri dell'idea della democrazia come conflitto e partecipazione non "romperanno" ancora con la storia della personalizzazione della politica? Con l'idea che le convention siano saldamente costruite in un ottica postideologica, interclassista? Votate appunto a un'idea della democrazia easy, senza faticose assemblee, senza lo stress dei gruppi dirigenti, tanto votiamo alle primarie?
Poco importa che questo formidabile strumento di Opa sul centrosinistra si collochi in un'idea della politica anch'essa votata al compimento della parabola della seconda repubblica attraverso una definitiva cancellazione della democrazia dei partiti e delle ideologie.
Dunque, l'"Italia Migliore scende in campo", "mette a Vendola". Si libera dei pregiudizi ideologici: Fini non può essere un alleato stabile, ma un alleato sì. Così come "l'io Sud" della Poli Bortone rappresentava per Vendola nella prima legislatura pugliese una possibile chance per allargare una giunta colpita dalla questione morale.
Dunque la sinistra può anche scomparire, sussunta in un progetto "oltre la sinistra". No, non citerò quello che diceva D'Alema, commentando "l'oltre la sinistra" di Adornato. E non farò nemmeno riferimento alle analogie fra l'anello che unisce il popolo e l'unto del Signore. Quelle davvero mi fanno troppo male. Sono comunista, e ho molto rispetto per le speranze dei compagni. Ovunque esse siano riposte.
Eleonora Forenza

Liberazione 26/08/2010, pag 1 e 3

Trockij. Diceva di ripartire dai bisogni, più attuale di così...

Cosa ci resta di lui? Ad esempio, il programma di transizione e la polemica contro il patriarcato

Antonio Moscato*
Non sorprende tanto che a settanta anni dalla morte Lev Trockij non sia stato dimenticato come la quasi totalità dei suoi nemici, quanto che si continui a cercare di sminuirlo riciclando vecchie calunnie e un po' di gossip, come ha fatto ad esempio Siegmund Ginzberg su La Repubblica, in anticipo di una settimana sull'anniversario della morte.
In tanti continuano a ripetere che "la sua inattualità è totale", ma non si capisce perché sentano ancora il bisogno di parlarne malissimo. Soprattutto in Russia, le stesse persone che in epoca sovietica avevano denunciato Trockij come "agente dell'imperialismo" lo accusano ora dell'opposto crimine di essere un rivoluzionario avventurista che avrebbe portato l'Urss e il mondo a una catastrofe…
Anche in Italia ci sono molti che ripetono che se fosse arrivato al potere avrebbe fatto peggio di Stalin o che comunque lo identificano con Stalin (ma la stessa sorte tocca a Lenin, un tempo osannato senza leggerlo, poi calunniato anche da gran parte della sinistra italiana).
Molti argomenti sono tratti dal vecchio armamentario staliniano: la ferocia nella repressione di Kronstadt, e l'odio verso i contadini. Due falsi clamorosi ripetuti incessantemente, perfino dagli anarchici. A Kronstadt Trockij non andò neppure per un giorno durante la rivolta della fortezza che minacciava direttamente Pietrogrado, anche se condivise con tutto il gruppo dirigente la responsabilità per la decisione, basata sulla convinzione di un collegamento tra gli insorti e le forze appena sconfitte dei Bianchi rifugiati all'estero. Non ho mai avuto dubbi che fosse una decisione sbagliata, anche se comprensibile nel clima di stato d'assedio creato con la guerra civile e gli interventi internazionali contro la giovane repubblica sovietica. Inaccettabile fu la fucilazione di molti insorti, che cominciò nei mesi successivi alla conquista della fortezza (che tra l'altro era costata più vittime agli assalitori che ai difensori). Ma quasi un secolo dopo si continua ad attribuire la repressione solo a Trockij, che non vi partecipò, con abbondanza di cifre inventate e particolari sulla sua crudeltà efferata.
Anche l'odio contro i contadini (che oggi diversi "storici" provenienti dal Pci attribuiscono a Lenin come a Trockij), deriva da una calunnia del grande sterminatore di contadini. E' diventato un luogo comune dire che Trockij avrebbe elaborato il progetto di collettivizzazione ripreso da Stalin, mentre si trattava di cose ben diverse. Nel 1923, di fronte alle differenziazioni sociali provocate dalla Nep, l'Opposizione di sinistra aveva proposto di orientare l'industria verso la produzione di beni necessari ai contadini, per invogliarli con incentivi materiali ad entrare in cooperative e fondare su basi solide e volontarie l'alleanza con la classe operaia. La collettivizzazione forzata invece fu inevitabilmente a mano armata, dato che nel 1929 i kulaki si erano molto rafforzati ed erano in grado di affamare di nuovo le città.
Che Stalin sentisse nel 1940 la necessità di inseguire Trockij per ucciderlo fino in Messico, dove era facilissimo controllarlo, conferma che temeva che, di fronte alla guerra, qualcuno dei dirigenti sovietici pensasse di richiamare il leggendario organizzatore dell'Armata Rossa. Il bilancio politico di Stalin era catastrofico, la collettivizzazione brutale non aveva eliminato ma aggravato la carestia, il rifiuto del fronte unico in Germania aveva aperto le porte a Hitler, e l'intervento in Spagna aveva indebolito con la repressione lo schieramento antifranchista; ma la situazione militare era ancora più allarmante. Il fallimento dell'invasione della Finlandia aveva dimostrato infatti che le purghe feroci avevano disorganizzato gravemente l'Armata Rossa.
Inoltre erano passati poco più di dieci anni dall'espulsione e dall'inizio delle peregrinazioni di Trockij in un difficile esilio, braccato e controllato dagli agenti staliniani e dai governi di destra o anche socialdemocratici, e il suo ricordo in Urss non poteva essersi sbiadito del tutto, nonostante le repressioni diventate sempre più feroci dopo l'assassinio di Kirov e i processi alla maggior parte dei dirigenti dell'Ottobre.
Trockij era stato uno dei protagonisti principali delle due rivoluzioni, ed anzi in quella del 1905 aveva avuto un ruolo superiore a quello dello stesso Lenin, grazie alla comprensione piena della funzione dei soviet, verso cui gran parte dei bolscevichi erano diffidenti. Lenin stesso ne tenne conto quando si riavvicinarono, e dichiarò (nel Comitato centrale dell'11 novembre 1917) che "da allora non c'è stato bolscevico migliore di lui.".
Trockij aveva giganteggiato nella giovane repubblica sovietica anche per la sua cultura, che nasceva, come per Lenin, da anni di studio, ma anche dalle straordinarie esperienze accumulate. Non a caso ebbe scambi con Gramsci, durante la sua permanenza a Mosca, sulla valutazione del fenomeno futurista nei due paesi, oltre che del fascismo. Inoltre si era impegnato a fondo a contrastare il permanere di vecchie concezioni patriarcali e maschiliste, con articoli sulla Pravda ed altri giornali sovietici, raccolti poi in un libro attualissimo: Rivoluzione e vita quotidiana.
A differenza di Stalin, era un grande oratore, ed era rimasto popolarissimo tra i giovani e tra i quadri dell'esercito che lo avevano visto tra loro giorno dopo giorno durante la lunga guerra civile, su quel treno blindato che aveva perfino una tipografia che stampava un quotidiano per i soldati e anche i versi di Esenin. Ma quando, in esilio, qualcuno gli chiese perché non aveva usato l'esercito per fermare Stalin, rispose inorridito che se lo avesse fatto avrebbe solo accelerato l'involuzione burocratica.
Trockij gode della fama di profeta, grazie al titolo della fortunata trilogia di Deutscher, ed effettivamente aveva previsto "controcorrente" moltissimi processi storici, dall'ascesa degli Stati Uniti, al riflusso dell'ondata rivoluzionaria al momento della crisi economica mondiale (mentre gli stalinisti lo accusavano di proporre l'attacco sempre e ovunque). Aveva soprattutto colto il significato dell'ascesa di Hitler, che non poteva che portare a una seconda guerra mondiale. Dopo Monaco, tra gli insulti del movimento comunista aveva previsto anche l'insensata alleanza di Stalin con Hitler (si veda l'intervista raccolta da Georges Simenon il 7 giugno del '33, ndr). Ma non era "un profeta", era solo uno dei pochi che continuava ad applicare un metodo materialista.
Contrariamente alle leggende denigratorie, non proponeva la rivoluzione ovunque e subito: la sua ultima elaborazione teneva conto delle sconfitte durissime provocate dalle direzioni staliniste e socialdemocratiche, e proponeva un "programma di transizione" per ripartire dai bisogni delle masse, centrato sulla proposta del Fronte Unico tra i partiti del proletariato, e basato su obiettivi semplici e chiari come la scala mobile dei salari e quella dell'orario, cioè sulla ridistribuzione del lavoro esistente tra tutti, un programma che ci serve ancora.
*antonio.moscato.altervista.org

Liberazione 21/08/2010

Trockij, l'eresia possibile

Checchino Antonini
Il 17 agosto un certo Jackson, amante di un'attivista, si presentò a casa Trockij per sottoporgli un articolo sulla Quarta Internazionale. Era la prova generale. Ma già il 24 maggio, all'alba, una banda agli ordini del pittore Siqueiros aveva provato un blitz. Il 20 agosto, Jackson tornò, alle cinque della sera nella casa di Avenida Viena, nel quartiere di Coyocan. Aveva lo stesso impermeabile di tre giorni prima ma un viso più pallido e un portamento che Natalia, la moglie del rivoluzionario in esilio, definì nervoso e assente. Pochi minuti e dallo studio, dove suo marito stava lavorando a una biografia di Stalin, le giunse un grido terribile. L'assassino aveva una piccozza nascosta nell'impermeabile, colpì da dietro, con gli occhi chiusi e con tutta la forza. Jackson, in realtà, era Ramon Mercader, uno spagnolo, fratello di Marina, moglie di De Sica. Ci vorranno tredici anni per scoprire la sua vera identità e altri quaranta perché fosse noto il suo rapporto con la polizia staliniana. All'uscita dal carcere, vent'anni dopo, sarebbe stato accolto a Cuba e poi a Mosca come un eroe. Sulla sua tomba c'è un altro nome ancora: Ramon Ivanovich Lopez.
Il 21 agosto del 1940, alle sette e venticinque della sera, Lev Davidovic Brontejn, meglio conosciuto come Trockij, moriva in un ospedale di Città del Messico. Aveva quasi sessantun'anni ed era stato uno dei leader dell'Ottobre e prima ancora della Rivoluzione del 1905. Dopo le purghe era stato deportato e, dal 1929, viveva in esilio. Nel 1938 aveva fondato la Quarta Internazionale. Poco prima di essere ucciso aveva annotato sul diario: «Quali che siano le circostanze della mia morte, io morirò con la incrollabile fede nel futuro comunista. Questa fede nell'uomo e nel suo futuro mi dà, persino ora, una tale forza di resistenza che nessuna religione potrebbe mai darmi... La vita è bella. Possano le generazioni future liberarla di ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore».
Con gli articoli di Pier Paolo Poggio e Antonio Moscato Liberazione prova a impostare un confronto polarizzato sull'attualità o meno della sua lezione per uscire comunque dalle secche di una vulgata che lo disegna come «improbabile icona di un comunismo senza peccato» speculare a Stalin con narrazioni che evitano accuratamente di sfiorare quanto l'eredità di Trockij e l'elaborazione della Quarta c'entrino con l'esperienza dei movimenti no global o quanto siano attuali certe sue pagine cpme quelle su pubblico e privato (si veda "Rivoluzione e vita quotidiana" (Savelli, '77).
Quasi un secolo di scomuniche non è servito a evitare che la figura del rivoluzionario facesse breccia nell'immaginario di diverse generazioni non solo militanti. Il giallista francese, Leo Malet, lo chiamerà con ammirazione «la bestia nera del ratto della Georgia». La sua ombra, solo per citare, spunta in film come "Terra e libertà" di Ken Loach o nei romanzi di Stefano Tassinari. Cinzia Leone, fumettista e corsivista del Riformista, ne ha messo in scena l'unico buco della biografia nel "Il diamante dell'Haganah" (Rizzoli Milano Libri, 1990): «Ho scoperto che Trockij era stato ingaggiato a Hollywood come esperto di divise russe - spiega a Liberazione - ho voluto
raccontare la nascita dell'Haganah, l'esercito di liberazione ebraico con una storia che ruota attorno a un diamante rubato dal fuochista del treno dell'Armata Rossa a un principe russo. Così ho immaginato Mae West e Trockij a Gerusalemme per vendere quel diamante. Cose che non sono accadute ma sarebbero potute accadere».

Liberazione 21/08/2010

«Questo Veneto ridotto ad un'immensa betoniera»

Maria Vittoria Vittori
Non mancano di sicuro i commissari nella nostra narrativa, da alcuni anni particolarmente sensibile al filone delle indagini poliziesche, però il commissario Stucky, protagonista dei libri di Fulvio Ervas, dal primo della serie intitolato Commesse di Treviso (Marcos y Marcos, 2006) fino al recentissimo Finché c'è prosecco c'è speranza (Marcos y Marcos, 2010 pp. 302 € 16,50) non è come gli altri. Figlio in egual misura dell'Iran e della Serenissima - con un retroterra di antiche tradizioni e nuovissimo disincanto - e domiciliato nel centro storico di Treviso, ha costituito una squadra che, tra Venezia Roma e Napoli, è un vero e proprio sberleffo alle smanie separatiste del Veneto. Non solo: in ogni romanzo (compresi Pinguini arrosto del 2008 e Buffalo Bill a Venezia del 2009) l'indagine poliziesca appare poco più che un pretesto per inoltrarsi più a fondo nella confusa commedia umana del nostro tempo. Commedia che va in scena in magnifici borghi assediati da cementifici, nelle calli di una Venezia prossima al collasso, oppure in un paesaggio reso irriconoscibile da capannoni industriali e centri commerciali che si susseguono senza soluzione di continuità; recitata giorno dopo giorno con toni sempre più bugiardi e arroganti che relegano al ruolo di comparsa chi non appartiene alla schiera dei furbetti e/o esibizionisti.
Servendosi di una ben collaudata capacità di osservazione "sul campo" e di un'ironia sapientemente declinata in tutte le sue forme, dal fioretto all'arma da taglio, Ervas - agronomo prestato alla letteratura - racconta dunque, al di là dei casi risolti dal suo commissario, un duplice avvelenamento: dell'ecosistema naturale e dell'ecosistema umano, non meno fragile e delicato del primo. Parliamo di questo, e di altro ancora, nella cornice intatta di Cison di Valmarino, il borgo trevigiano sulle colline del prosecco che fa da sfondo al suo ultimo libro.

Come nasce il personaggio di Stucky, commissario dalla doppia appartenenza?
E' un omaggio al mio migliore amico. Che è un medico del lavoro iraniano, vive a Padova ed è responsabile di un'associazione che si batte per il rispetto dei diritti umani. Le storie di famiglia del commissario - ma il cognome è un chiaro riferimento al veneziano Mulino Stucky - sono ispirati a quelle del mio amico, che viene da una famiglia di produttori di tappeti schierata contro il regime dello Scià.

C'è sempre un controcanto dissonante nelle vicende: il diario, o le lettere, o le considerazioni di qualcuno che è e vuole rimanere fuori dal coro. Quanto è importante questa prospettiva, all'interno della narrazione?
Conta molto, perché mi rappresenta. Trovo un personaggio che mi piace e gli faccio dire le cose che vorrei dire io. Questa prospettiva è la lucidità dello stravagante che mette il dito su ciò che la logica spesso nasconde sotto il tappeto. Così, in Commesse di Treviso è Max Pierini, gestore di discariche, che s'incarica di ricordare ai trevigiani che le loro camicie firmate e le loro belle vetrine trovano il loro riscontro nella spazzatura indiscriminata e tossica; la badante rumena di Pinguini arrosto è una che giocando intelligentemente sulle statistiche dice cose molto importanti sul nostro rapporto con i vecchi; Isacco Pitusso, personaggio del mio ultimo libro, ha nostalgia del passato e dunque effettua un lavoro di recupero, una sorta di Spoon River del paese. In questo mondo che spacca le comunità e che sta diventando sempre più cemento e supermarket è importante che ci sia qualcuno che ricorda di quando avevamo meno cose da scegliere ma più tempo per scegliere.

Altra componente fondamentale delle sue storie è l'ambientalismo.
In quanto agronomo non posso non amare moltissimo il territorio: la sua tessitura, la sua integrità. Il cambiamento è fisiologico, certo, ma produrre un cambiamento veloce è follia. Il territorio va conservato perché è un valore: una quercia non vale meno di una comodità.

Come sono cambiati i luoghi delle sue storie e della sua vita?
La Marca trevigiana è stata lungamente attraversata e raccontata da un poeta come Zanzotto. Ha quasi novant'anni e dunque ha potuto vedere un paesaggio ancora integro, un paesaggio che oggi è irriconoscibile. Nel suo ultimo libro Trevisan, per raccontarlo, adopera la metafora della betoniera. Questo Veneto è un'immensa betoniera: negli ultimi cinquant'anni c'è stata una trasformazione molto più intensa e veloce di quanto il territorio possa sopportare. Gli scrittori veneti manifestano da sempre una forte sensibilità verso questa tematica, a partire da Rigoni Stern e da Zanzotto per arrivare a Mauro Corona, Trevisan, Carlotto che ha approfondito il discorso sulla criminalità del Nord est. Io vedo fiumi rovinati, boschi tagliati, cemento e capannoni ovunque e sono colpito soprattutto dallo stretto rapporto che c'è tra la speculazione edilizia, lo smaltimento dei rifiuti e l'infiltrazione criminale.

Una parola chiave, in quello che scrive, sembra essere biodiversità: non solo delle specie vegetali e animali, ma anche della specie umana.
Bisognerebbe partire dalla mucca Burlina, sulla cui salvaguardia ho scritto la mia tesi di laurea. E' una mucca autoctona, di dimensioni piccole che consuma poco ma produce un ottimo latte. Una vacchetta sopravissuta, un po' come la gente che riesce a sopravvivere al di fuori dei meccanismi dell'omogeneizzazione e del mercato. Mi piacciono quelle persone che sono sempre un po' distaccate dal contingente, che guardano a sghimbescio, hanno magari delle piccole manie eppure riescono a cogliere e valorizzare i piccoli dettagli del mondo. C'è una teologia della resistenza, in tutto questo. Ma per teologia intendo qualcosa di diverso dall'accezione usuale: la spiritualità di quegli esseri che hanno ancora una quota di umanità in azionariato di maggioranza, un fuoco che non si piega alle mode e all'omogeneità.

Lei insegna da molti anni e alla scuola ha dedicato un libro significativamente intitolato "Follia docente". A che punto è la notte, nell'impero della Pubblica Istruzione?
E' molto profonda, perché quando si toglie dalla narrazione della scuola il concetto di formazione, la scuola si trasforma in un luogo alienato e assurdo. I docenti diventano una specie di tritacarne che macina insensatamente nozioni di ogni genere e poi finiscono anch'essi nel meccanismo. L'unica strada percorribile consiste nell'intercettare quel bisogno di relazioni che viene alimentato ancora da molti ragazzi. Dobbiamo tornare ad essere maestri di relazioni umane, stare davvero dentro una classe, sporcarci le mani.

A quasi centocinquant'anni dall'Unità e dalla prospettiva di un Veneto che sembra sempre più intenzionato a mollare gli ormeggi, come le appare la situazione di questo paese?
Il Veneto è una regione particolare. Si ricorda di quando i Serenissimi scalarono il campanile di San Marco? Ci fu un errore di analisi. Quella era la coda di un leghismo veneto che andava a canalizzarsi in un partito. Era la fine di un ciclo, non l'inizio. I leghisti sono abilissimi a giocare sul malcontento, a creare parole d'ordine e strategie che attirino l'attenzione mediatica; aizzano il discorso sulla secessione ma il loro vero obiettivo, al di là di certo folclore non privo di danni, è il federalismo fiscale. Detto in parole povere: le tasse ce le teniamo qua. In quanto al profilo dell'Italia, mi sembra quello di un paese in grande difficoltà, con una storia complicata, una classe dirigente che arranca, uno scadimento etico sempre più evidente. Al tempo stesso ci sono grandi risorse e una grande capacità di reagire. Non rendono come dovrebbero, però, perché facciamo fatica a fare squadra: quello che manca, soprattutto, è l'idea di Stato.

Liberazione 22/08/2010, pag 7

Tijuana, dove il sogno americano è morto

Reportage dal confine tra Usa e Messico terra di maquilladoras

Daniele Nalbone
Tijuana - Messico
Aqui empeza la patria. La patria comincia da qui. Per chi attraversa la frontiera che separa gli Stati Uniti dal Messico attraverso "La Porta", Tijuana, è questa la prima frase che corre in mente. Perchè questo è il motto di Tijuana. Ci sono vari modi di varcare la frontiera per chi proviene dagli States. Quello più tranquillo è sicuramente in pullman o in automobile, come ogni sera fanno migliaia di "gringos" in cerca di droga e sesso. Quello invece più forte è come abbiamo deciso di farlo noi: tramite il Trolley, il treno leggero che collega il centro di San Diego con San Ysidro. Una corsa che dura poco più di mezz'ora attraverso colonie messicane in terra statunitense che iniziano subito dopo aver superato la base navale americana. Il paesaggio che cambia e i volti di chi sale sul Trolley diretto alla frontiera ti costringe, inevitabilmente, a voltare lo sguardo verso i grattacieli di San Diego, sempre più lontani. Scendere a San Ysidro ti mette addosso una sensazione bellissima e spaventosa al tempo stesso. Siamo alla frontiera, il muro che dal 1990 separa gli States dal Messico ancora non si vede e questo rende l'atmosfera più simile a quella di un grande mercato all'aperto. Indugiamo affascinati da cosa ci succede intorno e un poliziotto statunitense dai chiari tratti messicani ci indica la strada verso La Porta: una rampa stretta e buia che da accesso a un ponte che sovrasta l'autostrada.
Sotto di noi, guardando a destra, verso nord, in direzione San Diego, il traffico verso la frontiera messicana scorre regolarmente. Guardando invece a sinistra, verso sud, in direzione Tijuana ci rendiamo conto dell'enorme fiume di automobili, camion e autobus che dal Messico sono diretti agli Stati Uniti. Terminato il ponte, prima di iniziare a scendere la rampa, sotto di noi appare, all'infinito, il muro che separa i due stati, simbolo del fallimento delle politiche migratorie messicane e statunitensi. Terminata la rampa con le gambe che si fanno sempre più pesanti, ecco il famoso cancello sovrastato dalla scritta "Messico". Giriamo tra le porte metalliche ancora in territorio statunitense. Un rumore sordo ci fa capire che gli Stati Uniti, i grattacieli e la ricca San Diego sono ormai alle spalle. Ormai solo pochi passi ci separano dalla dogana. Compiliamo i moduli per ottenere il timbro turistico sul passaporto. Siamo in Messico. Sono da poco passate le 9 di mattina e alle 11 abbiamo appuntamento con Jaime e Manuèl presso la Casa de la Cultura Obrera, sede del Centro de Información para Trabajadoras y Trabajadores, nella frazione de La Mesa. Altro che Avenida Revolucion, l'arteria piena di ristoranti, bar e negozi di souvenir che ogni fine settimana si mette in mostra per l'arrivo dei gringos. Ad Jaime e Manuèl, due operai impegnati a livello sindacale per informare, prima ancora che difendere, i lavoratori delle grandi fabbriche sui loro diritti, abbiamo chiesto di mostrarci il vero volto di Tijuana: quello operaio, quello delle colonie che sorgono a ridosso dei parchi industriali, quello del muro che ogni notte viene, in qualche modo, scavalcato da decine di messicani in cerca del sogno americano. E' Jaime ad aprirci la porta del Cittac. Sul muro, decine di fotografie dell'Ezln, del Chiapas, della Lucha. Manuel ci porta immediatamente dell'acqua fresca. Jaime intanto ci mostra una enorme cartina di Tijuana che ci fa capire come, in realtà, la citta "turistica" vera e propria è solo un piccolo quadrante. Tutto il resto si divide tra sessanta immensi parchi industriali dove le grandi multinazionali occidentali e asiatiche hanno portato la loro produzione e centinaia di colonie, quartieri operai, in realtà un cumulo di baracche controllate da piccoli boss locali e niente più. La prima tappa del "vero tour" di Tijuana è La Playa. Per raggiungere il litorale prendiamo un taxi collettivo. Poco meno di un'ora di traffico congestionato dopo e venti pesos a persona, siamo nuovamente sotto il muro. Facciamo a piedi i pochi metri che ci separano da uno degli spettacoli più emozionanti che ci siano: a ridosso della spiaggia il muro si trasforma in una rete metallica alla quale sono attaccati migliaia di crocifissi sui quali è scritto un nome. Jaime ci spiega che sono in ricordo delle persone morte nel tentativo di raggiungere clandestinamente gli Stati Uniti. In silenzio, proseguiamo verso l'oceano finche la rete ricoperta di crocifissi diventa un enorme sbarramento. Solo che anziché pali di ferro, a delimitare la linea della frontiera sono stati usati i binari della ferrovia che corrono fin dentro l'acqua. Tra un binario e l'altro, dietro la frontiera, una bellissima spiaggia deserta abitata solo da migliaia di uccelli e, verso l'orizzonte, ecco ergersi gli immensi grattacieli di San Diego. Il sogno americano, costato la vita a migliaia di persone. Riprendiamo un taxi da La Playa alla volta della citta turistica. Scendiamo nei pressi della Revo, come i gringos chiamano Avenida Revolucion. A pochi metri da una stazione di polizia, decine di giovani ragazze, sulla strada, sono in attesa di un cliente a ridosso dei bar, deserti, dove è più facile ordinare della droga che un drink. Purtroppo Jaime ha il secondo turno in fabbrica cosi rientriamo a La Mesa per incontrarci con Manuèl per scoprire la Tijuana obrera, operaia. Manuèl opta per il Parque Industrial Pacifico, «quello in cui - ci spiega - sono oggi più dure le condizioni di lavoro». Prima però, facciamo tappa nella colonia di Camino Verde, un immenso quartiere che sorge su una collina in cima alla quale svettano le fabbriche della Sony e della Pan Bimbo, le due più importanti del Parque Pacifico. Camino Verde, non appena calato il sole, è una delle zone più pericolose di Tijuana «ma di giorno» ci spiega Manuèl «è operaia al 100%, digna y solidal». Per farci capire la vera vita di un operaio delle maquilladoras, Manuèl ci porta a casa di Machuca, un'operaio licenziato un anno fa e che da allora sbarca il lunario tra un impiego da muratore e uno da meccanico. Viene dalle terre indios dello stato di Veracruz, mentre sua moglie, dello stato di Chihuaua, lavora come domestica negli States, in Kentucky. «Quando mi hanno assunto» racconta Machuca «mi hanno fatto firmare un contratto a tempo indeterminato ma, al tempo stesso, mi hanno costretto a porre la mia firma sotto un foglio con cui presentavo, senza data, le mie dimissioni rinunciando perfino alla liquidazione». Questa, nelle grandi fabbriche di Tijuana, occidentali o asiatiche, è la prassi. Cosi come è normale che si possa lavorare per sette giorni a settimana, anche per dieci ore al giorno «e solo» ci spiega Manuèl «per circa un dollaro l'ora». E se ci si oppone a un trasferimento di reparto deciso da un superiore al quale non si va a genio, come accaduto a Machuca, ecco allora che sul foglio delle dimissioni firmato in bianco appare la data. Addio lavoro. «Tanto - racconta - in questa situazione di disperazione c'è sempre qualche ragazzo che accetta condizioni di lavoro teoricamente inaccettabili». Perchè il vero problema di Tijuana, «cosi come del resto del paese - ci spiega Manuèl - è che i lavoratori messicani non sono a conoscenza dei propri diritti e per questo vengono sfruttati fino allo sfinimento, soprattutto nelle grandi multinazionali che decidono di portare la propria produzione in questa nazione». Si avvicinano le 17, l'orario di uscita degli operai dalle fabbriche. Cosi salutiamo la famiglia di Machuca e ci arrampichiamo sulla collina della colonia di Camino Verde. Ci facciamo spazio tra strade sterrate, cani in cerca di cibo, bambini che giocano a pallone e cumuli di rifiuti. Dopo mezz'ora di strada in salita sotto un sole cocente, ecco apparire davanti a noi la prima grande fabbrica: è di una società affiliata alla Sony. Gli operai sono gia usciti: alcuni si fermano a mangiare qualche tacos ai carretti parcheggiati lungo le strade, «visto che per tutta la giornata» ci racconta Manuèl «hanno a disposizione una sola pausa e o si va in bagno, o si mangia: per entrambe le cose non c'è tempo». Un gruppo di ragazzi gioca a basket in un campo rimediato nel parcheggio dei tir della fabbrica mentre fuori due giovanissimi operai ai quali Manuèl lascia il bollettino mensile del Cittac ci raccontano come si lavora in una maquilladora messicana: «qui tutto è possibile» ci racconta Josè: «può accadere di essere mandati a casa al primo richiamo per un ritardo, può accadere di essere spostati di reparto perchè si è chiesto un giorno di malattia per una visita medica, ma soprattutto può accadere di essere licenziati perchè la produzione non corrisponde, secondo loro, agli standard». E, chiediamo, come viene calcolata la produttività di un obrero? E' Manuèl a rispondere: «con un semaforo: se si riesce a montare un televisore ogni venti minuti allora la luce della tua posizione è verde. Altrimenti gialla o rossa. E al primo rosso - spiega - sulla tua lettera di dimissioni che al giorno dell'assunzione hai firmato in bianco, ecco apparire la data».

Liberazione 22/08/2010, pag 6