martedì 27 ottobre 2009

Chomsky & C.

http://www.zmag.org/

domenica 18 ottobre 2009

Film premiati

http://it.wikipedia.org/wiki/Premio_Oscar

http://it.wikipedia.org/wiki/Oscar_al_miglior_film

http://it.wikipedia.org/wiki/Oscar_al_miglior_film_straniero

http://www.mymovies.it/premi/?anno=2009

sabato 17 ottobre 2009

Vincitori del Blog Fest 2009

Miglior Blog 2009 voti %
Blogger dell’anno 2009 voti %
Blog Rivelazione voti %
Spinoza 3427 46% Paul The Wine Guy 3532 48% L’AnteFatto 3127 42%
Voglio Scendere 1765 24% Beppe Grillo 1891 26% Spinoza 1598 22%
Piovono Rane 829 11% Qualcosa del genere 825 11% Qualcosa del genere 1513 20%
Leonardo 757 10% Leonardo 632 9% Ma che davvero? 635 9%
Poca Cola 603 8% Alessandro Bonino 501 7% Educazione Cinica 508 7%
Migliore Community voti % Miglior Blog di opinione voti % Miglior Blog collettivo voti %
Spinoza 2072 28% Voglio Scendere 3180 43% Spinoza 3125 42%
Macchianera 1986 27% Beppe Grillo 1767 24% Cloridrato di Sviluppina 1299 18%
Blogosfere 1415 19% La Z di Zoro 995 13% Collettivovoci 1095 15%
Splinder 1101 15% Leonardo 831 11% Girl Geek Life 980 13%
Girl Geek Dinners Italia 807 11% Retropensiero Liberale 608 8% Metilparaben 882 12%
Miglior Blog giornalistico voti % Miglior Blog tecnico voti % Miglior Blog televisivo voti %
Piovono Rane 2607 35% Il Disinformatico 3038 41% TvBlog 3077 42%
L’AnteFatto 2336 32% Geekissimo 1920 26% Daveblog 1804 24%
Voglio Scendere 1251 17% Downloadblog 1029 14% Davide Maggio 973 13%
Wittgenstein 782 11% Andrea Beggi 910 12% BlogPosh 851 12%
Camillo 405 5% Catepol 3.0 484 7% CaroTeleVip 676 9%


http://www.blogfest.it/2009/10/08/mba-macchianera-blog-awards-4-i-risultati-finali-e-i-vincitori/

Frattura

Un sondaggio Ipsos di qualche settimana fa confermava tre dati interessanti. Il primo è che in Italia il 54 per cento delle persone si informa prevalentemente attraverso la televisione (il 25 per cento con i quotidiani, il 12 su internet e il 3 con la radio). Il secondo è che il 53 per cento degli italiani considera i mezzi d’informazione molto o abbastanza autorevoli, mentre il 41 pensa che non lo siano. Il terzo è che le persone convinte dell’autorevolezza dei mezzi d’informazione sono le stesse che guardano la tv, e appartengono ai ceti più popolari. L’aspetto preoccupante di tutto questo è che la spaccatura del paese sembra essere più profonda di una semplice divisione tra nord e sud, ricchi e poveri o destra e sinistra. È una frattura narrativa: gli italiani sono convinti di guardare tutti lo stesso film, ma i film sono due – uno raccontato dalla tv, l’altro dal resto dei mezzi d’informazione – e i personaggi e la storia sono molto diversi. Il rischio è che le due Italie non riescano più a parlare tra loro perché non condividono più la stessa realtà, e forse neanche le parole per definirla.
- Giovanni De Mauro

http://www.internazionale.it/sommario/?issue_id=408

giovedì 15 ottobre 2009

L'Eni va in Iraq

Baghdad ha raggiunto un accordo con un consorzio guidato da
Eni per lo sfruttamento del giacimento petrolifero di
Zubair. Quarant'anni dopo la nazionalizzazione
dell'industria petrolifera irachena, quest'accordo segnala
la volontà dell'Iraq di attirare sul suo territorio le più
grandi società petrolifere del mondo. Paolo Scaroni,
l'amministratore delegato dell'Eni, ha dichiarato che
"Zubair è uno dei più importanti giacimenti petroliferi del
mondo, in grado di produrre più di un milioni di barili al
giorno".

Financial Times, Gran Bretagna

http://www.ft.com/cms/s/0/9f3214fe-b823-11de-8ca9-00144feab49a.html

Eni wins Iraq oil field deal

By Carola Hoyos in London

Published: October 13 2009 19:22 | Last updated: October 13 2009 19:22

Iraq has given a consortium led by Eni, the Italian oil group, the right to develop its giant Zubair field, in a deal that signals the country’s desire to attract more of the world’s biggest oil companies 40 years after nationalising its oil industry.

Tuesday’s breakthrough, which needs cabinet approval, came after Iraq sweetened its terms following the failure of a June auction. It could lead to further foreign investment in a country with the world’s third-largest oil reserves.

As part of the agreement, the Iraqi government told the Eni consortium to drop Sinopec, the Chinese state-owned oil company, as a partner.

Baghdad has vowed to block Sinopec from its oil resources because of its entry into Kurdistan, the oil-rich semi-autonomous region in northern Iraq. In June Sinopec agreed to a C$8.3bn (US$7.2bn) takeover of Addax, which had a stake in the Kurdish Taq Taq field.

Eni and its minority-share partners – Kogas of Korea and Occidental of the US – are only the second group of international oil companies to enter Iraq since it nationalised its industry four decades ago. BP and CNPC were the only companies willing to accept Iraq’s tough fiscal terms in the country’s June auction.

Paolo Scaroni, Eni chief executive, told the Financial Times: “Zubair is one of the most important oil fields in the world. It is one of very few that is capable of producing more than 1m barrels a day. Because we are going to Iraq, it means we will not be doing other things.”

Mr Scaroni said the project to boost the field’s production from 200,000 barrels per day to 1.125m bpd within seven years, as Eni has promised, would require an investment of about $10bn.

Under the agreement, Eni and its partners will receive $2 for each barrel over 1.125m bpd they are able to pump from the field, which holds reserves of 4bn barrels and is Iraq’s fourth-largest. In the first bidding round, Eni – like many of its peers – refused to accept the $2 payment. Eni had asked for more, but agreed on $2 after Baghdad sweetened other terms that raised the overall value of the contract.

Iraq is in talks with other companies that walked away in June. Lukoil of Russia on Tuesday confirmed that it and US partner ConocoPhillips would restart discussions for Iraq’s West Qurna field on Wednesday. Royal Dutch Shell said it was still in talks with Baghdad.

Copyright The Financial Times Limited 2009. You may share using our article tools. Please don't cut articles from FT.com and redistribute by email or post to the web.

http://www.ft.com/cms/s/0/9f3214fe-b823-11de-8ca9-00144feab49a.html

sabato 10 ottobre 2009

Il rapporto Onu su Piombo fuso mette Abbas e Fatah nei guai

Al Jazeera parla di un nastro contenente un colloquio tra funzionari israeliani e palestinesi

Francesca Marretta
Israele si prende Gerusalemme e il mondo arabo sta a guardare, ha detto ieri in un'intervista alla televisione yemenita il presidente palestinese Abbas, che invoca «azioni per fermare il tentativo di Israele di cambiare la città e bloccare la marcia sionista verso Gerusalemme».
Ma in West Bank, Gaza e nel mondo arabo sono rimasti in pochi ad ascoltarlo. L'indifendibile posizione assunta da Abbas favorendo il rinvio del voto sulla mozione Onu di condanna a Israele per l'operazione Piombo Fuso a Gaza, le traballanti scuse per giustificarsi e i presunti motivi alla base di tale decisione di cui si parla sulla stampa araba e israeliana, hanno infiammato la piazza di Ramallah che lo ha additato come "traditore".
Ma andiamo con ordine.
Il rinvio a marzo 2010 del voto sulla risoluzione basata sul rapporto Goldstone che accusa Israele di "crimini di guerra" a Gaza è stato richiesto dalla stessa Anp, nonostante le possibiltà di successo.
Lo ha confermato ieri ad al-Jazeera un alto diplomatico del Qatar alle Nazioni Unite, lo sceicco Khaled Bin Jassem al-Thani, spiegando che la risoluzione sarebbe stata approvata dato che godeva del sostegno di molti paesi. «Credo che i palestinesi abbiano perso un'opportunità che potrebbe non ripetersi» ha aggiunto il diplomatico qatariota.
Tutta colpa dei consiglieri di Abbas, che ora il Presidente vuole mettere alla porta, è stata la goffa giustificazione che fonti della presidenza dell'Anp hanno presentato al quotidiano israeliano Jerusalem Post. Cattivi consiglieri che avrebbero «ingannato» Abbas. Non è chiaro quale consulenza tecnica fosse necessaria al Presidente, evidentemente l'unico, nell'intera nazione palestinese a non capire che si trattava di una mozione in favore del suo popolo. Eppure anche il premier Fayyad, ha dichiarato che lui era contrario al rinvio della mozione, nonostante le pressioni degli Stati Uniti. Pressioni smentite, per ovvie ragioni da Washington, che in questo momento sta spendendo ben 161 milioni di dollari per un programma di training delle forze di sicurezza dell'Anp.
Che Hamas attaccasse a testa bassa il presidente palestinese sulla vicenda della mozione, per «l'insulto» al sangue dei martiri palestinesi, con la ovvia conseguenza del rivio dei negoziati tra Hamas e Fatah al Cairo, era scontato. La debacle di Abbas rappresenta tra l'altro un vantaggio strategico per il movimento islamico tuttora in aperto conflitto con l'Anp. Nelle carceri di Gaza sono morti torturati uomini di Fatah e in quelle della West Bank si consuma la tortura e la detenzione illegale di esponenti ed anche semplici simpatizzanti di Hamas (tra i settecento e gli ottocento). Tanto che diverse Ong palestinesi, come al-Haq parlano di stato di polizia in Cisgiordania.
Ma Abbas ha perso la faccia anche nel resto del mondo arabo. Lo dimostra l'annullamento dell'ultimo minuto di una visita a Damasco. «La leadership siriana ha deciso di cancellare la visita del capo dell'autorità palestinese (prevista ieri ndr ) in segno di rispetto per il sangue dei martiri di Gaza che gli israeliani hanno assaltato per 23 giorni», ha scritto il quotidiano filogovernativo al Watan , citando una fonte diplomatica. Un vero e proprio schiaffo al leader dell'Anp.
Che rischia molto di più se le indiscrezioni circolate sulla stampa araba e israeliana fossero suffragate da prove. L'agenzia di stampa palestinese Shehab , citando fonti diplomatiche Usa, rivela che alla base della decisione di bloccare la mozione Onu, oltre alle pressioni Usa, ci sarebbe stata una proposta israeliana che Abbas non poteva rifiutare. Nel corso di un recente incontro israelo-palestinese a Washington in cui si discuteva del rapporto Goldstone, l'Anp sarebbe stata messa con le spalle al muro con la minaccia di rendere nota una registrazione telefonica tra l'ex consigliere di Ariel Sharon e capo dello staff israeliano Dov Weisglass e il segretario alla presidenza palestinese Tayeb Abdel Rahim, ai tempi di Piombo Fuso, in cui quest'ultimo dichiara di ritenere mature le condizioni per l'invasione di terra di Jabalya che avrebbe posto fine al governo di Hamas a Gaza. Si sbagliava. Tale notiza, non confermata da fonti internazionali, è stata ripresa nell'edizione in arabo di al Jazeera e su media arabi anti-occidentali come al Manar e il sito ufficiale della fratellanza musulmana Ikwanweb .
Poi ci sono le rivelazioni dell'israeliano Maariv su un affare di concessioni di frequenze da parte di Israele per un secondo network di telefonia cellulare in West Bank, accordate a patto di fare retromarcia sulla mozione Onu. Business gestito dal figlio di Abbas.

Liberazione 07/10/2009, pag 6

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Piombo fuso, rapporto Onu: Hamas contro Abu Mazen

Hamas ha accusato ieri il presidente dell'Anp, Abu Mazen di «tradimento» per aver tacitamente consentito al rinvio del voto della Commissione Onu per i diritti umani di Ginevra sul rapporto redatto sotto la direzione del giudice Richard Goldstone. L'esame del rapporto - che valuta le violazioni denunciate durante l'operazione militare Piombo Fuso, rivolgendo accuse a Hamas, ma soprattutto a Israele - è slittato su impulso Usa, dopo le veementi proteste del governo israeliano. Ma il rinvio ha avuto il sostegno attivo di alcune delegazioni del mondo islamico, pur dichiaratesi favorevoli al testo. Un atteggiamento che secondo il portavoce di Hamas Taher Nunu rappresenta «un tradimento del sangue dei nostri Martiri».

Liberazione 04/10/2009, pag 8

Perché i poveri votano per i ricchi?

Un estratto dall'introduzione a "La destra sociale" in libreria in questi giorni per la Manifestolibri

Guido Caldiron
Nell'anno che segna l'anniversario del "giovedì nero" del 25 ottobre del 1929, il mondo torna a misurarsi con lo scenario della crisi (...). Immaginare un parallelo, per altro non fondato sul piano della concretezza, tra il 1929 e il 2009, significa fare i conti con una parte delle radici culturali della destra europea che seppe allora, come sta cercando di fare oggi, costruire una propria "cultura della crisi" e darsi un forte profilo "sociale" (...).
La cultura della destra nel periodo tra le due guerre mondiali fu infatti soprattutto "cultura della crisi": indicò il declino in atto e propose le sue terribili soluzioni. Gli intellettuali della cosiddetta Rivoluzione Conservatrice tedesca furono gli interpreti
più noti di quella fase della cultura europea che, anche se solo in parte, contribuì alla genesi dei fascismi continentali. Con Il tramonto dell'Occidente (Longanesi, 2008), Oswald Spengler si fece interprete di quella sorta di senso comune che cominciava a prendere piede, propugnando un rinnovamento della società a partire dai suoi valori "tradizionali" e in opposizione sia alle istanze socialiste che allo sviluppo di un capitalismo senza regole. «Comprendere se la cultura occidentale è al tramonto e quali sono le ragioni della decadenza, diventa la condizione necessaria per affidarsi a un destino di declino e prepararsi all'evento della rinascita», scrive Stefano Zecchi nell'introduzione al libro di Spengler, sottolineando che «quando il partito di Hitler prese il potere, la sua propaganda si preoccupò subito di mostrare l'inversione di un processo: contro la coscienza della disgregazione e del tramonto furono usate parole come "risveglio", "rottura", "insurrezione", per sottolineare che se l'epoca borghese stava per finire, qualcosa di nuovo stava nascendo. Il nazionalsocialismo si presentava in questo modo come superamento del nichilismo, dell'ideologia scientista del progresso e della dittatura del denaro».
Ma, anche al di là del caso tedesco, si chiede uno dei maggiori storici europei, Walter Laqueur in Fascismi. Passato, presente, futuro (Tropea, 2008), «quali settori della popolazione erano affascinati dal fascismo? Essi variavano da paese a paese, a seconda delle tradizioni politiche e delle condizioni sociali. In genere, la piccola borghesia mostrò più affinità col fascismo, specie gli individui che avevano sofferto maggiormente gli effetti della depressione». Quanto agli operai, «uno degli assiomi fondamentali del fascismo era la sua contrarietà alla lotta di classe. A un certo punto, gli elementi di sinistra nell'ideologia fascista (tedesca e italiana) vennero cassati (...) Il conflitto venne in teoria risolto con la fondazione dello Stato corporativo, la cui legge sui rapporti di lavoro collettivo proibiva sia gli scioperi sia le serrate. In Germania l'istituzione del Fronte del lavoro, col suo relativo codice, si fondava sul principio autoritario e mise fine a qualsiasi azione indipendente da parte della classe operaia».
Ma nella genesi del fascismo in Europa, c'è chi ha voluto leggere anche altro. Già nel 1972 con la pubblicazione di Maurice Barrès et le nationalisme francais (Pfnsp éditions) la prima di una serie di ricerche dedicate alle radici culturali del fenomeno, lo storico Zeev Sternhell ha avanzato la sua ipotesi che identifica nel fascismo una "nuova destra" anti-borghese e rivoluzionaria, contrapposta alla vecchia tradizione conservatrice. Così, come ha spiegato Marco Revelli nell'introduzione a Nascita dell'ideologia fascista (Baldini & Castoldi, 2002), il libro forse più importante di Sternhell, l'essenza più profonda del fascismo andrebbe cercata nello spostamento di centralità dalla "classe" alla "nazione" come nuovo "soggetto rivoluzionario": «Che qualifica, appunto, il fascismo come "ideologia di rottura" per definizione, radicalismo allo stato puro, capace di catalizzare tutte le istanze antagonistiche (...) al di là del loro fondamento materiale, sostituendo alla "rivoluzione sociale" una "rivoluzione etica" (una "rivoluzione senza proletariato") e all'inerzia deterministica delle forze sociali la potenza volontaristica dello Stato».
Ma se queste sono state le forme con cui "i fascismi" hanno cercato di intercettare nel corso del Novecento le trasformazioni sociali e le conseguenze della grande crisi della fine degli anni Venti, con quali caratteristiche "le nuove destre" cercano di darsi oggi un profilo sociale nel pieno di una nuova tempesta dell'economia internazionale?
«La crisi del movimento operaio crea condizioni favorevoli per uno spostamento verso l'estrema destra di settori interi del proletariato, in particolare di vittime della crisi o di quanti temono di diventarlo. (...) A questo punto, una domanda sorge spontanea: il movimento di Le Pen potrebbe essere capace di mobilitare dietro di sé la maggioranza del proletariato? In altri termini, potrebbe risultare capace di ricomporre, sotto la propria egemonia, un movimento operaio in crisi?». Era questo il quesito che all'inizio degli anni Novanta il filosofo e sociologo francese Alain Bihr poneva a fondamento della sua ricerca sull'exploit della nuova destra razzista del Front national nella società francese: L'avvenire di un passato (Jaca Book/BFS, 1997).
Il quesito di Bihr resta, con tutta evidenza, di stretta attualità in tutto l'Occidente, anche al di là delle evoluzioni specifiche conosciute dalla situazione francese (dove Sarkozy ha recuperato i temi cari a Le Pen costringendo alla marginalità elettorale il Fn). I crescenti consensi popolari alle destre indicano che, almeno in parte, lo "sfondamento" presso i settori del mondo del lavoro, è effettivamente avvenuto. Non nella forma apocalittica enunciata dall'intellettuale francese, ma certo in una misura che non può più essere ignorata. Per capire di quale natura sia questo successo, si devono però considerare i due elementi che lo hanno reso possibile: da un lato le trasformazioni che hanno interessato "la destra", dall'altro quelle che hanno riguardato il "mondo del lavoro". Due elementi che risultano, se osservati lungo l'arco degli ultimi trent'anni, inestricabilmente e inesorabilmente legati tra loro, fino a far emergere la constatazione che per molti aspetti "le destre" hanno saputo leggere profondamente quanto stava cambiando nella società, candidandosi a rappresentarlo. (...)
Così la "rivoluzione neoliberale", che si è andata definendo alla fine degli anni Settanta attraverso una progressiva privatizzazione e finanziarizzazione dell'economia, si è accompagnata a una sorta di "rivoluzione conservatrice" diffusa: la sua visione economica si è dotata di un potente strumento ideologico che ha ricominciato a far circolare un'idea "organica" della società all'insegna di quel "Dio, patria e famiglia" che si pensava ormai inutilizzabile dopo il 1945 e che il Sessantotto aveva contribuito a seppellire ancor più profondamente un po' in tutto il mondo.
Il percorso iniziato alla fine degli anni Settanta, e simboleggiato, pur con le loro evidenti differenze, da Reagan e Thatcher ha aperto la strada a una radicalizzazione della destra conservatrice e a un allargamento della sua base sociale, con la conquista di settori crescenti del mondo del lavoro. Questa prospettiva incrocerà alla fine del decennio successivo l'emergere di un'altra destra, quella che il politologo Piero Ignazi definisce come "estrema destra postindustriale", per indicare un fenomeno che trae origine dalle trasformazioni sociali e culturali
più recenti. Un destra "radicale" che farà soprattutto dell'immigrazione il proprio cavallo di battaglia: dal Front national in Francia alla Lega Nord nelle regioni settentrionali del nostro paese, per non citare che i movimenti più noti. Formazioni politiche che «offrono una risposta ai conflitti della società contemporanea (ed è questa la chiave del loro successo). - spiegava ancora Ignazi in L'estrema destra in Europa (il Mulino, 2000) - La difesa della comunità naturale dalle presenze straniere (da cui razzismo e xenofobia) una risposta in termini di identità all'atomizzazione e alla spersonalizzazione; l'invocazione di legge ed ordine, l'appello diretto al popolo e il fastidio per i meccanismi rappresentativi rispondono al bisogno di autorità e di guida di una società dove l'autorealizzazione e l'individualismo hanno lacerato le maglie protettive dei legami sociali tradizionali». Queste forze "anti-sistema" hanno spesso programmi sociali e economici che più che mettere in discussione l'iniquità delle formule redistributive imperanti, propugnano l'adozione di una preferenza "etnica" per l'accesso al lavoro, alla casa o, più in generale, alle risorse del welfare. Con proposte del genere, dalla Scandinavia alla Francia, passando per le Fiandre, l'Austria, l'Italia e più di recente per i paesi dell'Europa dell'Est, partiti populisti, di estrema destra e xenofobi sono diventati i più votati dagli operai nel corso degli anni Novanta.
Il convergere di una destra conservatrice e liberista sempre più radicale e di una nuova destra postindustriale e xenofoba ha dato così vita negli ultimi anni a un fenomeno inedito. Con modalità e forme che rimandano alle diverse culture politiche e storie nazionali, si è infatti andati verso la progressiva definizione di una "destra plurale", in grado cioè di tenere al proprio interno spinte e suggestioni anche molto diverse le une dalle altre e offrire rappresentanza a ampi settori della società. E' solo grazie a questa capacità di sintesi o di giustapposizione, a seconda dei casi, che le destre sono riuscite ad assumere fino in fondo il loro attuale volto "sociale", candidandosi a interpreti della crisi globale.


Da Salò a Tremonti. Alla conquista dei lavoratori

Da Junger e la Rivoluzione conservatrice tedesca alla Rivoluzione neoliberale e al populismo liberista di Berlusconi. Con La destra sociale (pp. 160, euro 15), in libreria per la Manifestolibri, Guido Caldiron compie un viaggio dalle radici della destra europea fino ai suoi approdi attuali: "da Salò a Tremonti".

Liberazione 04/10/2009, pag 9

venerdì 9 ottobre 2009

Walter Benjamin la storia liberata dal mito del progresso

Filosofo, comunista, amico di Adorno. Si tolse la vita il 26 settembre 1940

Massimiliano Tomba
Walter Benjamin nato a Berlino il 15 luglio 1892, si è tolto la vita il 26 settembre 1940 presso Port Bou, nella Catalogna spagnola. Benjamin aveva solo 48 anni, era noto come saggista e critico letterario, anche se l'Università tedesca non volle mai concedergli la libera docenza. [...] Quando i nazisti presero il potere, Benjamin, ebreo e militante comunista, lasciò la Germania per trasferirsi a Parigi. Con l'invasione della Francia da parte dei tedeschi, decise, sollecitato dagli amici, di prendere la strada dell'esilio e di imbarcarsi per gli Stati Uniti. Non giunse mai a destinazione perché, sulla frontiera franco-spagnola, gli fu negato il visto necessario per attraversare la Spagna e imbarcarsi. Decise di togliersi la vita ingerendo della morfina [...].
Benjamin scrive le sue celebri Tesi sul concetto di storia tra il 1939 e il 1940, nell'attimo di pericolo «che minaccia tanto l'esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari». Il contesto storico è la vittoria del nazionalsocialismo e lo spaesamento delle classi operaie europee all'indomani del patto di non-aggressione firmato da Stalin e Hitler nel 1939. Ma il quadro non sarebbe completo senza la corresponsabilità della socialdemocrazia: essa avrebbe infatti corrotto i lavoratori tedeschi con la persuasione di nuotare con la corrente. Ovverosia il progresso. Per quanto possa ancora suonare stridulo agli orecchi dei benpensanti, Benjamin mostrava come il nazionalsocialismo, la socialdemocrazia e lo stalinismo stavano lavorando di concerto alla liquidazione della tradizione della lotta di classe per il comunismo. L'idea di progresso è infatti direttamente contraria a quella di comunismo. Essa, da un lato suppone che la liberazione sarebbe giunta attraverso «il progresso del dominio della natura», mentre oggi è chiaro che il dominio della natura in forza dello sviluppo tecnico minaccia di distruggere il pianeta, svelando solo il carattere intrinsecamente distruttivo del modo di produzione capitalistico; dall'altro crea la falsa concezione che i diritti sociali e collettivi della classe operaia si diano come naturale evoluzione della civiltà giuridica. Cioè, che il modo di produzione capitalistico sia progressivamente addomesticabile e civilizzabile. Quelle conquiste, invece, si oppongono punto su punto alla guerra del capitale contro i diritti collettivi. Sono il prodotto di un'anomalia e perdurano solo fintanto che l'anomalia è mantenuta. Solo se la classe si presenta come soggetto collettivo titolare di un proprio diritto all'uso della forza, è possibile contrapporre diritti sociali e collettivi alla normalità dello Stato moderno e del modo di produzione capitalistico, ovvero all'atomizzazione dei diritti e dei contratti di lavoro. Ecco l'anomalia: la classe operaia è stato l'unico soggetto che riuscì a conquistare, con il diritto di sciopero, un diritto di esercitare la forza parallelamente e contro lo Stato. Ciò riuscì ad aprire spazi politici di agire collettivo che vengono oggi erosi in un processo di implosione dello Stato di diritto. Serve oggi recuperare il gesto benjaminiano, spostare il punto di osservazione e rovesciare ciò che sembra consolidato: l'anomalia fu la democratizzazione prodotta dalla lotta di classe, la normalità è l'atomizzazione e la depoliticizzazione del sociale. Cioè la rivoluzione conservatrice in corso non solo in Italia.
Lo «stato di eccezione in cui viviamo è la regola», scriveva alla fine degli anni '30 Benjamin nelle sue Tesi , aggiungendo che «lo stupore perché le cose che noi viviamo sono ancora possibili nel ventesimo secolo non è filosofico». Così noi, oggi, dobbiamo trovare la forza per mostrare che l'implosione dello Stato di diritto e la distruzione dei contratti collettivi di lavoro non devono suscitare alcuno stupore, perché non rappresentano altro che il ritorno alla normalità del capitalismo. Per evitare il declino autoritario sarebbe stato sufficiente incoraggiare la lotta di classe invece di cercare improbabili pacificazioni sociali. Il corso normale può essere nuovamente spezzato e l'anomalia riprodotta. Ma questo è possibile solo considerando il conflitto una modalità della politica e abbandonando la concezione unilienare del tempo storico.
Quest'ultima conquista, che Benjamin ricava dal pensiero ebraico, era condivisa anche da Ernst Bloch che, pensando a un tempo storico plurale, tentò un'ultima opposizione al fascismo cercando di recuperare alla lotta di classe operaia gli strati anacronistici della società, come contadini e ceti medi, prima che questi venissero completamente fagocitati dalla sincronizzazione nazionalsocialista. Lo spartiacque era netto: il marxismo ufficiale, considerando residuali alcuni strati della società non ancora proletarizzati, li abbandonò al fascismo; Bloch, in forza di una diversa concezione della storia che rifiuta la distinzione gerarchica tra punti avanzati e residui di una pretesa tendenza storica, indicò una possibilità politica di lotta al fascismo. Vinse la prima concezione. E con essa, una rappresentazione della storia.
Nel nostro tempo globalizzato, invece di omaggiare un multiculturalismo che si riduce spesso a inefficace erogazione di riconoscimento giuridico, abbiamo bisogno di ripensare quell'idea di multiverso storico, affinché concezioni religiose e politiche diverse da quella occidentale non vengano incasellate tra i momenti arretrati o residuali della linea storica europea. Affinché la democrazia occidentale non venga considerata il fine ultimo del progresso storico, un valore talmente elevato da poterlo esportare. Anche con le bombe. Affinché le forme di produzione altamente tecnologiche di alcune parti dell'Occidente non siano presentate come i momenti trainanti dello sviluppo capitalistico, che è invece il prodotto della combinazione di elementi diversi, incluso lo schiavismo crescente in diverse parti del pianeta. Piace all'autorappresentazione liberale considerare lo schiavismo un orribile residuo dei tempi passati, mentre invece esso è il prodotto sempre ricombinato degli attuali rapporti di produzione capitalistici.
Di fronte a questi problemi, abbiamo bisogno di una nuova pratica della politica. Ma questa non è possibile senza una diversa concezione della storia. Walter Benjamin torna qui d'attualità come pensatore politico.

Liberazione 26/09/2009, pagina 8

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La sua attualità
Un convegno
organizzato dal Prc

La memoria è "sovversiva", spezza il dominio, è "inattuale" perché rompe con quella presunta normalità che governerebbe la storia verso il progresso. Quest'uso alternativo della storia capace di riassorbire e tradurre in politica la memoria di tutti coloro che hanno lottato contro il capitalismo sarà al centro del convegno "L'attualità politica di Walter Benjamin" con Massimiliano Tomba, Gianfranco Bonola, Mario Tronti, Paolo Virno e Paolo Ferrero (mercoledì 30 settembre, ore 17, aula magna facoltà valdese di teologia, via Pietro Cossa, 40, Roma). La politica deve farsi carico della «trasmissione del passato», sempre sul punto di essere soggiocata dal conformismo al presente. Basterebbe ricordare qualche aforisma: «nulla di ciò che è avvenuto deve essere mai dato per perso», «salvare la memoria dei vinti, dei senza nome», «riattizzare nel passato la scintilla della speranza».
Tonino Bucci

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Un pensatore della crisi
Senza passato
non c'è futuro
per la politica

Paolo Ferrero
Il convegno che abbiamo organizzato per il 3 ottobre vuole costruire un momento di riflessione sull'attualità politica di Walter Benjamin che nella quarta di copertina dei suoi libri editi da Einaudi viene definito come "intellettuale ebreo berlinese, critico letterario, filosofo e militante comunista". Nel convegno, che vuole anche essere un momento di ricordo, di "rammemorazione" come avrebbe detto Benjamin, non intendiamo muoverci su un piano accademico. Vogliamo suscitare una riflessione sui presupposti della cultura politica, di cui oggi sentiamo particolarmente il bisogno perché l'assenza di dibattito culturale o il piegare questo o quell'autore alla bisogna del momento rappresentano solo la testimonianza di una sinistra largamente nichilista.
Da questo punto di vista Benjamin mi interessa innanzitutto perché noi viviamo in una situazione che è simile alla sua. Meno drammatica, per carità, ma l'impressione che si ripresentino nella storia comportamenti e culture politiche che - a livello di massa - pensavamo sepolte una volta per tutte con la trasformazione in tabù dell'olocausto ci lascia sbigottiti. Benjamin si trova a confrontarsi con la barbarie nazista nel momento della sua vittoria. Noi ci troviamo in una sorta di repubblica di Weimar al rallentatore in cui l'insicurezza, la paura del futuro, la ricerca di capri espiatori, il dissolversi di solidarietà e identità consolidate, la fanno da padrone. Ci troviamo in un tempo in cui l'idea stessa di progresso è in crisi verticale. Da questo punto di vista Benjamin è un nostro contemporaneo, un maestro da cui abbiamo molto da imparare.
In questo contesto vorrei proporre un percorso della rifondazione comunista che sappia misurarsi con chi ha vissuto "nei" e riflettuto "sui" momenti di sconfitta. Quando pensiamo alla storia del movimento operaio e comunista abbiamo sovente in mente i punti alti: la rivoluzione russa, il biennio rosso, la lotta di liberazione, il '68/69. Propongo una ricerca teorica e di cultura politica che si confronti in modo particolare con chi ha vissuto e ha ragionato nelle fasi di crisi. In questo senso non solo Benjamin, ma anche il Gramsci dei Quaderni del carcere , Panzieri e molti altri, sono nostri contemporanei. Si trovarono ad analizzare problemi e situazioni diverse dalle nostre ma con lo stesso stato d'animo di chi, sconfitto collettivamente e sovente isolato individualmente, prova ad analizzare i propri errori e a capire come modificare la situazione. Noi questo percorso di riflessione non lo facciamo in quanto individui ma lo vogliamo fare come corpo collettivo, come partito. La rifondazione comunista non può essere l'adesione superficiale ad una serie di intuizioni estemporanee, ma piuttosto un percorso consapevole di modifica della nostra cultura politica. Il convegno su Benjamin vorrebbe dare un contributo in tal senso su un tema decisivo che è quello del nostro rapporto con la storia. In questi anni ci siamo scontrati contro il progressismo evoluzionista che porta all'ideologia della modernità come fine della storia, così come abbiamo subito il nichilismo che vuole tutto distruggere per poter tutto ricostruire. Questi due approcci portano agli stessi esiti disastrosi. Io penso che per poter correttamente impostare il tema della rifondazione comunista occorre chiarirci le idee su come costruire uno spazio dell'agire politico che tematizzi correttamente il rapporto tra la nostra storia, il nostro presente e il nostro futuro. Benjamin può darci una mano in questa riflessione. Di questo e di molto altro discuteremo al convegno.


26/09/2009

Benjamin e il futuro

Si è svolto a Roma un incontro promosso da Rifondazione sull'attualità politica del filosofo berlinese
La memoria delle lotte


Guido Caldiron
«Per il materialismo storico l'importante è trattenere un'immagine del passato nel modo in cui s'impone imprevista al soggetto storico nell'attimo del pericolo, che minaccia tanto l'esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari (...) In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla».
Con il linguaggio metaforico e a tratti enigmatico, a metà strada tra le intuizioni illuministiche e l'eco dell'eredità religiosa che gli era proprio, Walter Benjamin scriveva così nella VI delle sue "tesi" Sul concetto di storia redatte tra il 1939 e il 1940 (l'ultima edizione è stata pubblicata da Einaudi nel 1997). Si tratta dell'ultima opera del filosofo e critico letterario berlinese, ebreo e militante comunista che, in fuga dalla Germania, avrebbe deciso di suicidarsi il 26 settembre del 1940, a Port Bou in Catalogna, di fronte alla prospettiva di essere consegnato dalle autorità franchiste ai nazisti.
"L'attimo di pericolo" in cui Benjamin scrisse le "tesi" era rappresentato concretamente dalla vittoria di Hitler e dall'affermazione del fascismo in Europa, ma anche dagli esiti del patto Ribbentrop-Molotov del 1939 che lasciavano intravedere tutta l'ampiezza della sanguinosa deriva staliniana dell'Urss. Quanto alla "minaccia" che pesava "sull'esistenza stessa della tradizione", vale a dire sull'idea di una possibile trasformazione radicale delle forme della produzione e dei rapporti sociali, per Benjamin non vi erano dubbi: la responsabilità della sconfitta che si stava consumando in tutta Europa andava ricercata anche nella linea della socialdemocrazia che aveva convinto i lavoratori che diritti e liberazione sarebbero arrivati per così dire naturalmente, coltivando "il mito del progresso" e continuando a "nuotare nella corrente", senza alcuno strappo e senza alcun atto che cercasse di imporre quella trasformazione. Di fronte a questo quadro - vittoria dei fascismi e normalizzazione del movimento operaio - Benjamin proponeva invece di riattivare la memoria della lotta di classe, certo che la storia non segua un processo lineare e sia invece il risultato di quanto è stato conquistato dai lavoratori. Solo sottraendo questa memoria "al conformismo", spiegava il filofoso, si potrà invertire la tendenza e riproporre l'attualità della possibile liberazione.
Basterebbe questa breve e sommaria ricostruzione delle tesi di filosofia della storia proposte poco meno di settant'anni fa dall'intellettuale berlinese, per spiegare le ragioni dell'incontro promosso da Rifondazione mercoledì pomeriggio a Roma, presso la Facoltà Valdese di Teologia, con il titolo di "L'attualità politica di Walter Benjamin". Incontro che apre una nuova fase del dibattito pubblico proposto intorno al tema della "rifondazione comunista": un altro appuntamento è già fissato a Torino nell'anniversario dell'autunno caldo del 1969.
A Roma, Mario Tronti, Paolo Virno, Massimiliano Tomba e Paolo Ferrero hanno costruito, in oltre tre ore di confronto ricco di spunti critici e appassionati, un percorso che dalla lezione di Benjamin è giunto fino all'impasse dell'attuale situazione italiana. Se infatti è alla riflessione dell'autore di Angelus Novus sulla storia che era dedicato l'incontro, è a quelle che si potrebbero definire come le sue caratteristiche di "intellettuale della crisi" che si è guardato richiamando tutta l'attualità della ricerca benjaminiana. «Ci interroghiamo su Benjamin quasi come fossimo suoi contemporanei - spiega infatti Paolo Ferrero - Nel senso che stiamo attraversando una temperie, certo molto meno drammatica di quella che visse lui, ma con più di un punto di similitudine in particolare con gli anni Venti. Credo infatti che ci troviamo in una specie di Weimar al rallentatore. Faccio riferimento a Weimar per indicare la fase in cui è cresciuta la Rivoluzione conservatrice. Ci troviamo in un periodo in cui il capitale si mostra con il suo volto "rivoluzionario", frutto di continue e rapide trasformazioni produttive. E questo si accompagna allo sviluppo di ideologie reazionarie, razziste che evocano il peggio della storia e che stanno progressivamente colonizzando l'intero spazio pubblico. In questo senso la destra rappresenta oggi una sorta di cocktail ultramoderno esattamente come lo fu in quell'epoca. Si assiste inoltre alla dissoluzione di molte cose che erano state fin qui certe e alla liquidità dei passaggi di campo - quanti intellettuali della destra vengono ad esempio dal campo della sinistra? -. Vecchie identità si dissolvono rapidamente mentre se ne formano rapidamente di nuove. In questo contesto anche la sconfitta della sinistra sembra assumere le proporzioni di quella del periodo tra le due guerre mondiali».
E' in questa prospettiva che liberare la Storia dal mito del progresso e "rammemorare", per dirla con Benjamin, come nulla, a partire dai diritti civili e dalla stessa democrazia, sia stato ottenuto in passato se non con la lotta e l'insorgenza sociale, acquista il ruolo di strumento decisivo per invertire la tendenza attuale, per trasformare "l'attimo di pericolo" in una possibilità di ripresa dell'agire politico. Per Benjamin attualità e possibilita "della rivoluzione" si fondano infatti sulla memoria di quanti, sconfitti, hanno cercato di realizzarla in passato. Il nodo della "momoria delle lotte" assume così tutta la sua rilevanza in una stagione dominata nel nostro paese dalla riscrittura della Storia da parte sia delle "classi dominanti" che della "parte maggioritaria della sinistra italiana", nelle sue componenti moderate come anche in parte delle sue componenti radicali: uno sforzo convergente nell'obiettivo di espellere la parte ribelle e di classe della storia italiana, dalla Resistenza al Settantasette.
Il passaggio non è però così facile. Si tratta infatti di comprendere con quali strumenti si possa attuare questa ripresa della memoria e soprattutto quali siano i contorni e i confini, i "materiali" in ultima analisi, da utilizzare in questa prospettiva.
«Benjamin sottolinea come l'adesione del movimento operaio all'idea di progresso ne abbia sancito la sconfitta sul piano teorico prima ancora che nella pratica», spiega Massimiliano Tomba. Questo perché «l'atomizzazione sociale e la negazione dei diritti» non rappresentano un'eccezione, bensì la normalità del capitalismo, cui solo l'assunzione della forza da parte della classe operaia può porre un argine. La prospettiva dell'etica benjaminiana mette però in guardia dal fatto che gli esiti delle lotte siano un processo che si verificherà solo alla fine del percorso: al contrario: «Per l'autore delle "tesi" sulla storia, il Messia ti giudica per quello che stai facendo in quel determinato momento. Tutti i rapporti esistenti all'interno della società - dal lavoro alla famiglia al genere - devono essere compresi nel processo di liberazione, non affrontati solo dopo il suo compimento».
Per Paolo Virno da Benjamin arriva un'indicazione chiara: quella per cui «il repertorio delle nostre possibilità è nel nostro passato», ma in primo luogo non nelle realizzazioni concrete, bensì in «un passato potenziale, un pasato irrealizzato». Così oggi, dopo la crisi degli Stati-nazione, lo stesso riferimento al messianesimo che torna sovente nei testi del filosofo berlinese, può essere letto principalmente in una «prospettiva di autogoverno, lontano da ipotesi statuali» e nello sviluppo di «una sfera pubblica post-statale».
«Dagli anni Ottanta stiamo assistendo a una sorta di racconto "ideologico" della fine delle grandi narrazioni ideologiche collettive», osserva ironico Mario Tronti, sottolineando come ci sia bisogno in questa situazione di utilizzare gli strumenti proposti da Benjamin non solo rispetto alla memoria ma anche all'analisi dell'oggi: «Illuminando ad esempio il XX secolo attraverso il presente». Ci si renderà così conto, sostiene ancora il filosofo dell'operaismo, che «non solo la socialdemocrazia ma anche parti importanti del movimento comunista hanno creduto a un processo lineare della storia e si sono identificati con una visione del moderno che prevedeva ad esempio la prospettiva "occidentale" di portare lo sviluppo nelle società e nei paesi "arretrati"». Quanto alla necessità di utilizzare la memoria per l'agire odierno, Tronti è netto e spiega: «Dobbiamo ricordarci che non siamo solo un esercito di sconfitti: dobbiamo ricordare anche le nostre vittorie».
«Credo che il nostro maggiore problema sia proprio questo - gli fa eco Paolo Ferrero concludendo l'incontro - Le nostre vittorie sono un problema per la nostra memoria. Perché sulle nostre sconfitte - che so la Comune di Parigi - problemi non ce ne sono. Mentre invece è evidente come ci siano molti problemi sulle purghe staliniane. Dove abbiamo vinto, siamo stati vittime e carnefici. Su questo nodo dobbiamo fare un passo in avanti perché abitualmente si arriva a un bivio: da un lato chi dice "quelle cose lì non hanno nulla a che fare con noi e quindi non mi dichiaro più comunista", dall'altro chi afferma "sono comunista, quella è la nostra storia e come tale va difesa". Per uscire da questo impasse propongo di modificare radicalmente lo schema di ragionamento assumendo a pieno due affermazioni: che tutta la storia del movimento comunista è nella sua contraddittorietà "la nostra storia" e che nella nostra storia ci sono stati errori ed orrori che sono la negazione totale del comunismo. A partire dalla consapevolezza di questa contraddizione proponiamo la rifondazione comunista, cioè l'impietosa individuazione nella nostra storia dei nostri errori al fine di non ripeterli. Padroneggiare il carattere contraddittorio della storia del comunismo è necessario, oppure non saremo più in grado di pensare la nostra storia e di capire quali elementi del passato possiamo utilizzare oggi per dare forza al nostro agire politico, come ci invitava a fare Walter Benjamin».

Liberazione 02/10/2009, pag 9

martedì 6 ottobre 2009

Picture perfect: How the story of Dubai's other side can never be told

Issue 2, Summer 2007

By Dana El-Baltaji
Assigned to 'investigate' the joys of a luxury Italian cruise: exactly the sort of thing that journalists can get sucked into when working in Dubai. Courtesy of Dana El-Baltaji.

Assigned to 'investigate' the joys of a luxury Italian cruise: exactly the sort of thing that journalists can get sucked into when working in Dubai. Courtesy of Dana El-Baltaji.

I hesitate to call myself a journalist. Technically, I am one, but I haven’t broken ‘news’ since the day I took up my position on Time Out in Dubai. Still, I take comfort in knowing that most journalists in the emirate are equally frustrated working in a media industry that ‘makes nice, not news’.[1]

On a recent visit to Dubai, a freelance journalist whom I met in Beirut a year earlier asked, ‘where’s the scoop?’ If you flip through Dubai’s newspapers and magazines, you won’t find it there. Instead, you’ll read about what the rulers ate and whom they greeted, and what record-breaking new venture the emirate has just embarked on.

It’s a well-known fact that Gulf Cooperation Council (GCC) countries and emirates like to keep their news to themselves, leaving their dirty laundry to dry in their private gardens rather than the public sphere. And while other emirates and GCC states can get away with censoring the media, Dubai, by virtue of planting itself firmly in the world’s limelight and differentiating itself as a cosmopolitan haven in midst of its traditional neighbors, consequently lends itself to criticism.

Unlike its Emirati brothers and GCC neighbors, Dubai has emphasized and capitalized on its modernity, no matter how contrived it may be. This is why when a journalist is punished for breaking a political story or insinuating the emirate condones the consumption of alcohol within the legal confines of a licensed hotel, the media is taken aback.

While the local government refuses to admit that censorship is practiced, journalists and readers are well aware that the media follows a simple, but infuriating guideline: keep it clean and pretty, or else. The repercussions vary with the crime and who takes offence, so you never know whether you’ll simply be reprimanded and asked not to repeat your ‘mistake’, or whether you’ll know first hand if Dubai’s jails are like people say they are: a three-star hotel.

But there are several fundamental contradictions at play here. As an Arab journalist, I’m aware that there are subjects I can’t explore; namely sex, drugs, alcohol and local politics. However, Arab journalists working on English publications are rare breeds, leaving most magazines in the hands of foreign, usually British reporters who are accustomed to breaking news, getting scoops, exposing wounds. They transfer their journalistic practices from their home countries to Dubai, and are very quickly catapulted into a media wasteland. They realize soon after they arrive that they cannot pursue the grit and grime inherent in any cosmopolitan city, not because it doesn’t exist in Dubai, but because the government is keen on keeping its glossy image as perfect as it appears in the multitude of advertising campaigns it pays so much to produce.

And it’s this image that journalists in Dubai are so wary of tarnishing; plastic fantastic Dubai, where anything is possible and opportunities abound for Arabs and Europeans alike. In many ways, the emirate shoulders its success on this construct, using it to lure more and more professionals from across the world with promises of a better life, a higher standard of living, and more job opportunities. While the reality for many expatriates isn’t far from this glowing image, as journalists, we’re trained to analyze the basis of all this success, and sadly, it’s seldom clean or pretty.

But for those professionals who hover over the working class, Dubai really is the modern day gold mountain, complete with sandy beaches and a multi-cultured society. It seems as though someone cultured this city in a laboratory and created a Frankensteinian emirate, and they love it to bits. Which is why we journalists here tread on brittle glass when we choose and pursue our stories, always searching out novel ways of getting our messages across without putting the spotlight on the emirate’s flaws—at least not outwardly anyway.

Because of the nature of Time Out, I don’t have to contend with the drawbacks of censorship too often. My work, in fact, is based loosely on the idea of journalism. Unlike journalists who work on newspapers and business magazines, who struggle everyday to find or feign news stories, I write about what the emirate does best: service.

My work requires that I visit the emirate’s best spas and restaurants, go to lavish parties and gallery openings, and I get presents from public relations executives hoping I’ll give their clients a little coverage in the magazine. Through my capacity as assistant editor of Time Out Visitor, I bagged a night at the Burj Al Arab, where I was treated to a stunning aromatherapy bath and a seven-course meal created and cooked just for me. And when I shifted to Time Out Guides, I found myself in the middle of Bahrain, lounging in my own Jacuzzi and looking around a villa worth a little over 2,500 GBP per night at the Banyan Tree Desert Spa and Resort, Al Areen. Even if I had all the funds in the world, you wouldn’t get me to spend that kind of money for a bed and pillow. But I was ecstatic to be there, even more so when the PR manager booked me in for an hour-long Balinese massage, my third spa treatment during my four-day Bahrain trip.

In short, there is no place in the Middle East, and possibly on earth, that can make you feel more like a pampered princess (or prince) than Dubai, and I get to experience it all for free.

In fact, I’m convinced that new spa openings, a fashion show, or even the recent Gulf Art Fair is as close to news as I’m going to get. For a place like Dubai, which banks on its commercial pull and provides a wealth of consumer outlets, these cotton candy additions to an already superficial emirate really are news. For Dubai, it means it has even more to offer those looking for a spot of affordable luxury; if the emirate didn’t offer visitors and residents the opportunity to feel like jetsetters, it would be just another sand pit with unbearable summer heat. Instead, it’s a luxury godsend, with more five-star hotels and restaurants than most people would care to visit in a year.

For a journalist based in Dubai, I couldn’t have it any better. But even as I sip champagne served in crystal glasses and nibble on handpicked caviar (with my pinky raised delicately in the air), I have to ask: ‘where are all the Emiratis?’ Throughout my four years here, I have yet to go to a PR event and meet an Emirati man or woman.

They’re neither present at most media functions, nor are they at the forefront of my mind when I sit down to write my articles and reviews. Which brings me to another basic contradiction: the English media rarely, if ever, considers the local population as its target audience. In fact, the dichotomy between Emiratis and the rest of society is so severe that one wonders whether locals get to enjoy the freedoms and luxuries the emirate is so keen on producing and promoting.

But no one’s to blame; it’s how this city was built. Dubai’s rapid growth means that while the city itself is mushrooming, breaking world records and attracting global companies and Western professionals to its sandy shores, the local population is struggling to reconcile itself with an alien reality. And what makes that reconciliation so difficult is the extreme openness Westerners are accustomed to enjoying back home, verses the conservative nature of Emirati culture and tradition.

It’s inevitable, then, that I sometimes forget Emiratis may even read my articles. I resort to using British idioms and words I know they wouldn’t understand, but it isn’t something I’m conscious of; the sad reality is that I’m simply not conscious of them at all. Except, of course, when the government steps in to demand that we remove a chapter or an article from a guide or a magazine.

I am tempted to provide an example of this sort of censorship, but I have been asked not to. While the incident between the government and Time Out is common knowledge amongst journalists in both my company and in other publishing houses, Dubai isn’t ready to admit that it breaches the media’s right to freedom of speech. But I’ll allow myself this: the piece that offended the government was a guide to alcoholic beverages sold legally in Dubai; it is neither news nor a surprise that the emirate has licensed liquor outlets within its borders.

It isn’t just topics like alcohol, prostitution and drugs that could get journalists in hot water. Exposing business practices and malpractices can also get you in serious trouble. Back in 2005, when I was working as a freelance journalist for a marketing magazine, I wrote a comparative analysis of Nakheel and Emaar, Dubai’s biggest, richest and most influential property developers. More importantly, however, the government owns 100 percent of Nakheel and 30 percent of Emaar, making them, to a certain degree, untouchable.

While both property developers had had their fair share of criticism, their PR strategies hadn’t been analyzed thoroughly, and no publication had pitted the two against each other yet. When my article was published, one of the two property developers attempted to bully me into providing all my source materials to substantiate the accusations I had made. I would have gladly submitted everything, but I felt my statement—that their PR strategy was nonexistent—didn’t warrant the liveliness of their reaction. They eventually let the incident go, but a year later, when I met the people I had interviewed at the Arabian Travel Market in 2006, I was seen as the journalist who wrote that article. While the feature itself wasn’t censored, the magazine exercised self-censorship and decided not to mention either company in its upcoming issues, at least until their bruised corporate egos healed.

You can blame it on companies being unaccustomed and overly sensitive to criticism, or you can look at the reality of being an expatriate journalist in Dubai. One of the problems we face is that we rarely hear an Emirati voice. They haven’t had a chance to develop one that foreigners can understand or relate to just yet. They will in time, but until then, the expatriate community will have to continue guessing which subjects we can tackle without having to deal with censorship or corporate bullies.

Such incidents of sporadic censorship have made me, as well as other journalists hesitant to tackle the real stories. As mentioned, it isn’t that the stories aren’t there, but you’ll be hard pressed to find a journalist who’s willing to have their career shredded for a 300-word article.

The result is that Dubai’s stories are rarely told. The truth about the conditions within labor camps throughout the city, where the men who toil for hours in the region’s unforgiving sun live, isn’t exposed. And the women who suffer the injustices of a so-called traditional society, while their men indulge in the freedoms of a modern world, rarely have their say.

But like most journalists, I make mental notes of the laborers forced to defecate on street corners for lack of toilets, and the Emirati woman who calls me once every four or five months to remind me she’s willing to talk, but not today; I hoard these stories, knowing full well that if I pursue them I’ll get barred from the emirate. But I’m waiting for the day I leave and have the freedom to write with the sort of brutal honesty these stories deserve.

Dana El-Baltaji is the assistant guides editor for Time Out GCC in Dubai. She holds an MA in English Literature from the American University of Beirut, an MSc in Writing and Cultural Politics from the University of Edinburgh, and a BA in English Literature from the American University of Beirut. Prior to working for Time Out, Dana was a lecturer at the American University of Dubai and the American University of Beirut.

http://www.arabmediasociety.com/?article=224