lunedì 31 maggio 2010

Free rm to mp3 converter

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Alle otto della sera

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Istanbul
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Arte
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Scienza
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Colombo
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Giappone
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Migrazioni
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Segreti d'Oriente
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Antropologi (Fabietti)
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sabato 29 maggio 2010

Operaie

Autore: Leslie T. Chang
Editore: Adelphi - La collana dei casi

Che cos’è Dongguan? Una città, verrebbe da rispondere, se il termine non si applicasse solo per difetto a un enorme agglomerato di fabbriche, collegate da una rete di tangenziali che non contemplano il passaggio, o anche solo la presenza, di pedoni. Ma perché a Dongguan arrivano ogni giorno, dalle sterminate campagne di tutto il paese, migliaia di ragazze? Qui la risposta è più semplice: intanto perché le loro braccia sono le più ambite nel mercato del lavoro cinese, e poi perché una ragazza, in un posto come Dongguan, può realizzare il suo sogno, l’unico apparentemente concesso, in Cina, oggi: fare carriera. Certo le condizioni di partenza sono durissime: turni massacranti, paghe minime, il tempo libero reinvestito nell’apprendimento coattivo di quei rudimenti di inglese senza il quale una carriera non può avere inizio. Ma le ragazze di Dongguan – e in particolare quelle che Leslie T. Chang, in questo suo magnifico e appassionante reportage, ha seguito per anni, un giorno dopo l’altro – sono disposte ad accettare tutto: un nomadismo incessante (per una fabbrica in cui si trova posto ce n’è sempre un’altra che offre di meglio, e in cui bisogna trasferirsi il prima possibile); relazioni personali fuggevoli, ma irrinunciabili, anche solo per le informazioni che ne possono derivare; e una vita interamente costruita intorno al possesso di un unico bene primario, il cellulare (perderlo, in un posto come Dongguan, significa conoscere all’istante una solitudine quasi metafisica). Sembra l’anticipazione di un incubo futuribile, ed è invece solo una scheggia di un presente parallelo al nostro, e molto più vicino di quanto vorremmo sperare.

http://www.adelphi.it/novita/244/4299/4300/4332/libri.asp?isbn=8845924823

In mano ai petrolieri (senza saperlo). L'Abruzzo si ribella

Trentamila firme e il 28 in piazza a Lanciano contro la devastazione ambientale

Paolo Persichetti
Norther petroleum, Petroceltic, Puma petroleum, Medoil & gas, Forest oil. Non siamo oltre Oceano come i nomi di queste grandi corporation degli idrocarburi potrebbero far credere. Ci troviamo nel verde dell'Abruzzo, ai piedi della Majella, tra parchi nazionali, aree protette, siti d'interesse naturalistico e comunitario, boschi e vigneti di pregiato Montepulciano, ulivi secolari, greggi di pecore e aziende che fabbricano pasta, formaggi, prosciutti, fino al mare dove sorge la costa dei Trabocchi amata da D'Annunzio. Un'oasi di verde e natura sottratta ancora alla grande speculazione turistica ma non a quella del petrolio. A causa anche dell'acquiescenza delle diverse maggioranze passate in regione negli ultimi anni, quasi la metà del territorio abruzzese è finito nelle mani delle grandi multinazionali degli idrocarburi. Senza saperlo il 90% della popolazione vive all'interno di un distretto petrolifero. 221 sono i comuni fino ad ora coinvolti, concentrati nella provincia di Chieti (77%), Pescara (71%) e Teramo (67,5%), secondo quanto riporta una relazione diffusa dal Wwf e da Legambiente. Alla fine del 2007 erano stati perforati 722 pozzi: 383 per produzioni a terra e 87 attivi in mare, ai quali tra breve se ne aggiungeranno altri 15. Più del Pecorino questa terra evoca ormai la Groviera. Una gigantesca piattaforma petrolifera della compagnia inglese Medoil è prevista a soli 4 km dalla costa teatina, tra San Vito e Ortona (nel Nord Europa il limite è di 50 km e negli Usa di 160 km, con i risultati comunque disastrosi che abbiamo visto recentemente nel golfo del Messico). Ad Ortona per costruire il "Centro oli", che non è un mega frantoio di olio vergine d'oliva ma un polo petrolchimico che raffina e stocca petrolio di bassa qualità da cui si ricaverà solo olio combustibile e non benzine, sono state tagliate le viti del Montepulciamo doc.
Tutto questo avverrà in cambio di niente. Le corporation non portano lavoro, hanno i loro tecnici super specializzati che vengono da fuori mentre gli impianti sono automatizzati. Le royalties previste sono ridicole, appena il 10% su terra e solo il 4% in mare, mentre all'estero arrivano fino al 90%. La Libia prende l'85%, il Kazakistan il 90%, la Russia l'80%. Per dire no a questo scempio del territorio che porta solo devastazione ambientale e rischi per la salute, i cittadini abruzzesi, che hanno già raccolto 30 mila firme, si sono dati appuntamento domenica 30 maggio a Lanciano per tenere una manifestazione sotto l'egida del comitato "No petrolio".
Il governo in questa partita sta giocando sporco. Silvio Berlusconi è venuto meno ai suoi impegni pubblici presi a Chieti e Pescara durante l'ultima campagna elettorale, quando aveva dichiarato che in Abruzzo non ci sarebbero state estrazioni di petrolio. Ma una volta incassati i voti il suo esecutivo ha impugnato di fronte alla Corte costituzionale la legge regionale 32/2009 varata dal suo stesso candidato, Chiodi. La legge tutela il territorio e la costa da perforazioni ed estrazioni selvagge d'idrocarburi liquidi. Una normativa virtuosa che però contiene una falla gigantesca. Permette, infatti, l'estrazione d'idrocarburi gassosi. Un difetto che se non verrà corretto al più presto consentirà il pompaggio di gas metano sotto il lago artificiale di Bomba e la costruzione a ridosso della diga in terra più grande d'Europa di una raffineria con una ciminiera alta più di 40 metri. Estrarre e raffinare gas altamente infiammabile a ridosso di una diga che trattiene 60 milioni di metri cubi d'acqua, in un'area ritenuta ad alto rischio idrogeologico e sismico con smottamenti e frane continue, per giunta in un paesino di nome Bomba, lascerebbe spazio a timori in chiunque. Non alla Forest Cmi spa, filiale italiana della Forest oil con sede a Denver nel Colorado, titolare della concessione ottenuta nel segreto più assoluto nel 2004. Diverso l'avviso dell'Agip, concessionaria dei terreni, che già negli anni 60 abbandonò ogni progIn mano ai petroilierietto dopo la tragedia del Vajont, quando un blocco di montagna franò nel bacino idroelettrico provocando un'onda anomala che oltrepassò la diga e travolse a valle il paese di Longarone. Duemila morti in un mare di fango e detriti, molti mai ritrovati. Nel 1992 la decisione di chiudere finalmente i pozzi per la presenza di un dissesto geologico in progressivo peggioramento. La spalla destra della diga - riferiva il rapporto - poggia su una «frana di notevoli proporzioni» oltre alla presenza di «non trascurabili rischi di carattere sociale e ambientale», per concludere: «Sembra che ancora oggi non esistano le condizioni generali per la messa in coltivazione del giacimento Bomba e che necessita invece l'acquisizione di nuovi dati e/o il verificarsi di mutamenti delle condizioni, quale per esempio la decisione dell'Acea di svuotare il lago». Poiché il metano si trova in prevalenza sotto l'invaso artificiale, l'estrazione provocherebbe quella che i geologi chiamano "subsidenza", ovvero un abbassamento del terreno con rischio di frane e danni sulla diga. A Ravenna l'estrazione di metano ha prodotto un abbassamento del terreno di 3 metri. Le nuove condizioni richieste dall'Agip non sono mai intervenute ma alla Forest non interessa. La multinazionale statunitense trova comunque conveniente trivellare e raffinare, nonostante l'esiguità del giacimento (appena una settimana del fabbisogno nazionale), perché il costo commerciale del gas in Italia è più elevato degli Usa e permette facilmente di ammortizzare le spese. Inoltre la legislazione italiana, carente in materia di sicurezza, pone vincoli di tutela ambientali e della salute umana molto più bassi di quella statunitense. Morale, la Forest viene ad arricchirsi in Italia avvelenando i cittadini abruzzesi perché non può farlo negli Usa.
I cittadini di Bomba, mille abitanti a 400 metri di altitudine, hanno saputo del progetto soltanto nel 2009, quando la Forest ha pensato bene d'informare la popolazione che un'enorme raffineria doveva nascere appena fuori il paese (apertura prevista degli impianti nel 2012). Forse era il caso, visto che il paese perderà il suo bel panorama sul lago, dove nel 2008 si sono tenuti i giochi del Mediterraneo di canottaggio ed a settembre sono previsti i campionati italiani. Terminato il turismo. Non ci sarà più nemmeno l'aria buona perché l'idrogeno solforato, residuo rilasciato nell'aria dalla raffinazione indispensabile per ripulire il gas, è una sostanza letale per l'ambiente, estremamente infiammabile, esplosiva, tossica e dallo sgradevole odore di uova marce. L'organizzazione mondiale della sanità raccomanda di non superare 0,005 parti per milione (ppm), mentre in Italia il limite massimo previsto dalla legge per questa sostanza è pari a 30 ppm: ben 600 volte di più. Si vedranno lingue di fuoco e le orecchie saranno allietate dall'assordante rumore di fondo generato dagli impianti di estrazione e raffinazione. Finiti gli ulivi e le vigne, azzerata l'economia eno-gastronomica della zona. Niente più voli d'aquile a sorvolare la valle. La Forest ha pensato di risarcire la comunità promettendo qualche euro in meno sulla bolletta e compensi ridicoli per il comune, intorno ai 100 mila euro l'anno. Appena 42 mila per gli altri comuni interessati, ma i sindaci di Pennadomo, Roccascalegna, Torricella Peligna, Archi, Colledimezzo, Atessa e Villa santa Maria hanno subito detto no al progetto. L'8 maggio anche la giunta comunale di Bomba, dopo le iniziali titubanze, si è detta contraria. I cittadini di Bomba si sono mobilitati dando vita ad un comitato, "Gestione partecipata del territorio" (www.gestionepartecipataterritorio.it). Il loro primo obiettivo è stato quello di informare e sensibilizzare la popolazione dell'intera zona, completamente all'oscuro dei fatti e delle loro conseguenze. Poi hanno deciso di espletare tutti i ricorsi legali possibili prima di prendere altre iniziative. Una petizione contro il progetto ha già raccolto in poco tempo oltre 2 mila firme. Domenica saranno anche loro in piazza.

Liberazione 28/05/2010, pag 12

Meditate, compagni e compagni, meditate...

Sono i giorni della réclame per gli abbonamenti. I direttori e gli amministratori dei giornali borghesi rassettano la loro vetrina, passano una mano di vernice sulla loro insegna e richiamano l'attenzione del passante (cioè del lettore) sulla loro merce. La merce è quel foglio a quattro o sei pagine che va ogni mattino od ogni sera a iniettare nello spirito del lettore le maniere di sentire e di giudicare i fatti dell'attuale politica, che convengono ai produttori e venditori di carta stampata.
Vogliamo tentare di discorrere, con gli operai specialmente, dell'importanza e della gravità di quell'atto apparentemente così innocente, che consiste nel scegliere il giornale cui si vuole abbonarsi. E' una scelta piena di insidie e di pericoli che dovrebbe essere fatta con coscienza, con criterio e dopo maturata riflessione.
Anzitutto l'operaio deve negare recisamente qualsiasi solidarietà col giornale borghese. Egli dovrebbe ricordarsi sempre, sempre, sempre, che il giornale borghese (qualunque sia la sua tinta) è uno strumento di lotta mosso da idee e da interessi che sono in contrasto coi suoi. Tutto ciò che stampa è costantemente influenzato da un'idea: servire la classe dominante, che si traduce ineluttabilmente in un fatto: combattere la classe lavoratrice. E difatti, dalla prima all'ultima riga, il giornale borghese sente e rivela questa preoccupazione.
Ma il bello, cioè il brutto, sta in ciò: che invece di domandare quattrini alla classe borghese per essere sostenuto nell'opera di difesa spietata in suo favore, il giornale borghese riesce a farsi pagare... dalla stessa classe lavoratrice che egli combatte sempre. E la classe lavoratrice paga, puntualmente, generosamente.
Centinaia di migliaia di operai danno regolarmente ogni giorno il loro soldino al giornale borghese, concorrendo così a creare la sua potenza. Perché? Se lo domandate al primo operaio che vedete nel tram o per la via con un foglio borghese spiegato dinanzi, voi vi sentite rispondere: «Perché ho bisogno di sapere cosa c'è di nuovo». E non gli passa neanche per la mente che le notizie e gli ingredienti coi quali sono cucinate possono essere esposti con un'arte che diriga il suo pensiero e influisca sul suo spirito in un determinato senso. Eppure egli sa che il tal giornale è codino, che il tal altro è palancaio, che il terzo, il quarto, il quinto, sono legati a gruppi politici che hanno interessi diametralmente opposti ai suoi.
Tutti i giorni poi, capita a questo stesso operaio di poter constatare personalmente che i giornali borghesi raccontano i fatti anche più semplici in modo di favorire la classe borghese e la politica borghese a danno della politica e della classe proletaria. Scoppia uno sciopero? Per il giornale borghese gli operai hanno sempre torto. Avviene una dimostrazione? I dimostranti, sol perché siano operai, sono sempre dei turbolenti, dei faziosi, dei teppisti. Il governo emana una legge? E' sempre buona, utile e giusta, anche se è... viceversa. Si svolge una lotta elettorale, politica od amministrativa? I candidati e i programmi migliori sono sempre quelli dei partiti borghesi.
E non parliamo di tutti i fatti che il giornale borghese o tace, o travisa, o falsifica, per ingannare, illudere, e mantenere nell'ignoranza il pubblico dei lavoratori. Malgrado ciò, l'acquiescenza colpevole dell'operaio verso il giornale borghese è senza limiti. Bisogna reagire contro di essa e richiamare l'operaio all'esatta valutazione della realtà. Bisogna dire e ripetere che quel soldino buttato là distrattamente nella mano dello strillone è un proiettile consegnato al giornale borghese che lo scaglierà poi, al momento opportuno, contro la massa operaia.
Se gli operai si persuadessero di questa elementarissima verità, imparerebbero a boicottare la stampa borghese con quella stessa compattezza e disciplina con cui la borghesia boicotta i giornali degli operai, cioè la stampa socialista. Non date aiuti di danaro alla stampa borghese che è vostra avversaria: ecco quale deve essere il nostro grido di guerra in questo momento che è caratterizzato dalla campagna per gli abbonamenti fatta da tutti i giornali borghesi. Boicottateli, boicottateli, boicottateli!
Antonio Gramsci
("Avanti!", 22 dicembre 1916)

Liberazione 27/05/2010, pag 12

La politica abbandona le comunità. Ecco perché la società si tribalizza

Tonino Bucci
Quando in uno dei suoi libri più famosi scrisse che l'etnia è un oggetto culturale inventato di sana pianta e senza nessuna corrispondenza con la realtà, Jean-Loup Amselle fu accusato di voler tagliare le gambe all'antropologia. Sono ormai passati venticinque anni dalla pubblicazione di Au coeur de l'ethnie - scritto a quattro mani assieme a Elikia M'Bokolo. Più d'uno tra i colleghi di disciplina di Amselle vide in quel libro lo smantellamento della ragion d'essere dell'antropologia. Molti si chiesero che cosa avrebbero dovuto fare gli antropologi se l'oggetto della loro disciplina era un oggetto immaginario?
In effetti, la critica che Amselle - in quello come nei libri successivi - rivolgeva all'antropologia non poteva essere più radicale. Si trattava di smascherare un sapere nato nell'Ottocento con l'ambizione d'essere una scienza neutrale, ma in realtà fondato sulla classificazione dell'umanità in razze. La «ragione etnologica» - scriveva Amselle - è stata «uno dei fondamenti della dominazione europea sul resto del pianeta». Eppure, questo non significa che oggi l'antropologia sia diventata una disciplina marginale. Anzi, più e meglio d'altre discipline l'antropologia è in grado oggi di rendere conto dei mutamenti della politica. Tra questi, il più significativo la trasformazione della politica in biopolitica , l'esasperazione - per essere più precisi, data l'inflazione del termine - con la quale sulla scena pubblica s'incontrano i temi legati alla vita individuale, come la sicurezza e l'incolumità personale ad esempio, sui quali non a caso insistono le politiche delle destre europee. Nell'ultimo quarto di secolo - sostiene Amselle - lo Stato si è ritratto dalla società, ha abbandonato i territori e le comunità a se stesse, ha smantellato il welfare e i sistemi di protezione sociale. Il che rientra tra gli effetti dell'ideologia neoliberista, fondata sulla convinzione che il mercato debba funzionare senza lacci e lacciuoli imposti dallo Stato. Ma di cosa dovrebbe occuparsi la politica dopo aver rinunciato a ogni forma d'intervento pubblico in economia? Quale dovrebbe essere la sua vocazione dopo aver abdicato alla funzione di proteggere gli individui dalla precarietà cui li espone il libero mercato? L'unico spazio di manovra a disposizione della politica è appunto quello dell'ordine pubblico, della sicurezza, dell'incolumità, della difesa dell'individuo da un mondo avvertito come minaccioso e da una globalizzazione percepita soprattutto come immigrazione. In breve, finito il keynesismo e sconfitto il movimento operaio, la politica si è etnicizzata. La società si tribalizzata, frantumata in mille comunità identitarie. E i conflitti non sono più vissuti come conflitti sociali (operai contro padroni) ma come conflitti etnici (padani contro musulmani). Di questo abbiamo parlato con Jean-Loup Amselle che domenica sarà a Pistoia per la prima edizione dei "Dialoghi sull'uomo", dove terrà una conferenza su "Meticciato, multiculturalismo, connessioni".

Una tesi diffusa è che la globalizzazione porterà a un mondo uniforme e senza differenze. Invece, stiamo vedendo il ritorno dei tribalismo. Come mai?
La globalizzazione ha fatto sparire la questione sociale, cioè la lotta di classe, e la questione territoriale. Le ha sostituite con le guerre identitarie. Inoltre, con la fine dello stato sociale il sistema pubblico lascia l'assistenza di coloro che vivono in situazioni marginali, come nelle banlieues parigine, in mano a organizzazioni di quartiere. E questo non fa altro che rafforzare il sentimento di identità etnica o religiosa.

L'etnia è un'invenzione culturale. Per via di questa tesi dei gruppi etnici l'antropologia si è resa corresponsabile in passato del razzismo e del dominio coloniale. Cosa c'è che non va, allora, nell'idea opposta del meticciato?
Anche il meticciato implica che esistano diverse razze, diverse identità etniche. Cambia soltanto il giudizio sull'intrecciarsi tra loro delle culture, che in questo caso è positivo. Non c'è nulla da mescolare perché siamo già tutti mescolati. Tutte le società sono meticce. Capisco che il multiculturalismo della sinistra sia mosso dall'obiettivo di proteggere minoranze deboli. Però rischia di consolidare come definitive, differenze che sono soltanto sociali.

Lei ha messo il dito sul dominio della biopolitica. La destra riduce i rapporti sociali a rapporti etnici. La sinistra, invece,continua a proporre politiche sociali di redistribuzione del reddito. Però perde. Come mai?
La disfatta dei partiti socialisti e socialdemocratici in Europa è un mistero. In teoria la sinistra dovrebbe vincere vista la disfatta del libero mercato e dell'ideologia neoliberista. Il crollo del sistema finanziario ha reso evidente il tramonto di un'ideologia che ha dominato per un un quarto di secolo. Il programma tradizionale delle forze socialiste, basato su un'economia keynesiana e sulla regolazione sociale del mercato, dovrebbe risultare vittorioso. Così non è. In parte è vero che i leader della destra europea, dalla cancelliera tedesca al presidente francese, si sono appropriati di alcune delle ricette socialiste tradizionali, togliendo perciò spazio di manovra ai loro antagonisti politici.

Il fondamentalismo del mercato ha portato a risultati disastrosi. Come mai la sinistra che insiste sulla necessità dell'intervento pubblico in economia non raccoglie consensi?
Ci sono studi che dimostrano come le disuguaglianze sociali ed economiche compromettano il benessere non solo degli strati meno abbienti, ma di tutta la società. Più una società è ineguale, più i problemi aumentano. Per esempio, anche i bambini delle famiglie istruite ricevono un'educazione migliore nei paesi più egualitari piuttosto che in quelli con forti divari interni. Persino il rischio di malattia mentale è cinque volte più elevato nei paesi Ocse con più disuguaglianze.Stesso discorso per l'aspettativa di vita che è più lunga per tutte le classi sociali nelle società più ugualitarie. La tesi neoliberista è che l'aumento della disuguaglianza si traduce automaticamente in una maggiore crescita economica. Si è rivelata completamente sbagliata. I paesi scandinavi hanno un sistema di protezione sociale esteso eppure le loro economie crescono.

Bene, ma allora la sinistra dovrebbe essere plebiscitaria. Come mai non è così?
Io credo che la sinistra abbia abbandonato per strada il suo più antico e migliore alleato, cioè il progetto di una politica fondata sulle idee dell'illuminismo e sul concetto di «uomo universale». Al loro posto è subentrato un pensiero postmoderno, incapace di fare i conti con l'esperienza e di immaginare una politica che sia fondata simultaneamente sull'ideologia (il bene, il dover essere, l'obiettivo finale) e lo studio empirico della realtà (ciò che è possibile sul piano pratico). La sinistra ha in gran parte abbandonato l'idea di una politica fondata sui diritti dell'uomo universale per lasciarsi prendere da quella che si chiama una politica identitaria. Invece di portare avanti una politica per tutti, la sinistra è diventata un agglomerato di forze che mette avanti a tutto gli interessi di gruppi diversi che si considerano oppressi a causa della loro identità, che si tratti di razza, religione, orientamento sessuale ecc. La politica identitaria è per definizione minoritaria. Anzi questa politica produce una maggioranza contro se stessa poiché si appoggia su un'ideologia che mette in prima linea la mobilitazione politica contro la maggioranza. In altre parole, è tremendamente difficile costruire una maggioranza politica sommando politiche identitarie, poiché i diversi gruppi hanno poche cose in comune. Ad esempio, cosa hanno da condividere gli omosessuali con la maggior parte degli immigrati del medioriente? Le ingiustizie vissute dalle diverse comunità sono specifiche a ciascun gruppo e non possono essere generalizzate agli altri. I programmi sociali di stampo universale sono stati rimpiazzati da programmi indirizzati a gruppi identitari specifici. Così la politica della sinistra anziché aggregare, è diventata antimaggioritaria.

Liberazione 27/05/2010, pag 9

Foucault, ovvero l'anti-Marx. Una leggenda da smontare

Una raccolta di saggi sul rapporto tra i due filosofi, a cura di Rudy M.Leonelli. E con un'intervista a Balibar

Tonino Bucci
«Io cito Marx senza dirlo, senza mettere le virgolette, e poiché la gente non è capace di riconoscere i testi di Marx, passo per essere colui che non lo cita. Un fisico, quando lavora in fisica, prova forse il bisogno di citare Newton o Einstein? Li usa, ma non ha bisogno di virgolette, di note a pie' di pagina o di un'approvazione elogiativa che provi fino a che punto è fedele al pensiero del Maestro». Queste poche righe portano la firma di Michel Foucault e sono riprodotte in una delle opere che più ha contribuito a far conoscere in Italia gli aspetti militanti del suo pensiero. Parliamo di Microfisica del potere , sottotitolo Interventi politici , più che un'opera sistematica, una raccolta di testi, brevi scritti, dibattiti e interviste, uscita non a caso qui da noi nel 1977. Anno cruciale, durante il quale si registra nel campo della sinistra (soprattutto in Italia e in Francia) il massimo di rottura tra movimento operaio e partiti comunisti, da un lato, e i movimenti studenteschi dall'altro. Movimenti che dall'interno delle università cominciano a guardare a nuovi soggetti al di fuori di quelle che vengono definite strutture burocratiche e di potere, dai sindacati ai partiti. Da qui si spiega l'attenzione del Settantasette verso i non garantiti e il proletariato metropolitano, verso gli esclusi e il sottoproletariato, verso i malati mentali e verso un'intera costellazione di soggetti che per la prima volta cade al fuori della "classe operaia". Di questi soggetti si mette in evidenza non un'azione di resistenza al potere riconducibile, in qualche modo, a una strategia politica complessiva. I nuovi soggetti "desideranti" del '77 sono semmai protagonisti di pratiche quotidiane di resistenza. E' la disseminazione, l'assenza di gerearchie interne - il carattere "rizomatico" diranno Deleuze e Guattari - a distinguere le azioni contro il potere. E non a caso, è questo il periodo di massima fortuna politica di Foucault, artefice di una teoria del potere come qualcosa di capillare e diffuso nella trama dei rapporti sociali, dalla fabbrica al carcere, dalla scuola all'ospedale psichiatrico.
Forse per questo il rapporto teorico di Foucault con Marx (e il marxismo, che però è altra cosa) diventa una questione sensibile, lo specchio cioè in cui si riflette lo scontro tra partiti e movimento che non si risparmiano scomuniche reciproche - da una parte l'accusa di radicalismo piccolo-borghese e individualismo anarchico, dall'altra quella di burocratismo e difesa corporativa dell'aristocrazia operaia. Sennonché il clima rovente di quello scontro politico è forse all'origine della vulgata di un Foucault senza Marx o, addirittura, contro Marx, e proprio per questo "organico" al Settantasette. L'impressione che invece si ricava dalla lettura di una raccolta di saggi pubblicata di recente, Foucault-Marx (a cura di Rudy M. Leonelli, Bulzoni Editore, pp. 152, euro 13) è ben diversa. A cominciare dall'intervista a Balibar che mette in guardia da un dibattito «che mi sembra riduttivo», non solo rispetto alla complessità di due pensatori come Marx e Foucault, ma anche «per quelli che ancora oggi - e bisognerebbe interrogarsi sulla ragione per cui ne hanno talmente bisogno - continuano a battere il chiodo, spiegando come, con Foucault, sarebbe stato definitivamente trovato l'antidoto al marxismo». Non regge, ad esempio, la vulgata di un Marx collettivista contro un Foucault più attento, invece, al micropolitico e alla costituzione del soggetto individuale. Anche perché la critica di Marx all'individualismo - ancora parole di Balibar - è essenzialmente «la critica delle forme borghesi dell'individualismo», cioè dell'astrazione giuridica dell'individuo proprietario che è alla base della società del mercato. «Considerare il comunismo non come l'annientamento dell'individuo nella massa, ma come l'emergenza di possibilità di individualizzazione schiacciate dalla società borghese, è un aspetto molto profondo del pensiero di Marx».
Anche se si guarda alla nozione centrale, che dovrebbe registrare la massima distanza tra Foucault e Marx, ossia l'idea di potere , la presunta incompatibilità tra i due pensieri comincia a vacillare. Anzi, proprio i testi foucaultiani sul potere potrebbero insegnare a leggere correttamente Marx. Per entrambi i filosofi, infatti, il potere è una funzione che si esercita all'interno della società come sistema . Foucault non intende sbarazzarsi di Marx - come scrivono Alberto Burgio e Guglielmo Forni Rosa nei rispettivi interventi - ma del marxismo quando diventa una scienza legata a un sistema di potere, indifferentemente che si tratti delle università, di un partito o di uno Stato (per averne un'idea basta leggere il contributo di Manlio Iofrida sul marxismo francese degli anni 50). L'idea del potere che ha in mente Foucault come un meccanismo che produce i soggetti coinvolti, quindi come «relazione», come «rapporto di direzione che suppone anche il consenso del destinatario del flusso di potere» (Burgio) è tutt'altro che assente in Marx. E', in breve, colpa di una lettura economicistica se si è affermata la vulgata di un Marx che si disinteressa della politica e del potere che si esercita al di fuori della fabbrica, nel grande campo dell'ideologia. Da questo punto di vista la funzione di potere come immaginata da Foucault assomiglia alla funzione intellettuale di Gramsci, pervasiva non solo sul terreno della cultura e della comunicazione di massa, «ma anche in tutti gli snodi del rapporto sociale, a cominciare dal processo di produzione e dall'epifania della merce». Questo non significa far scomparire gli scarti che in Foucault si producono rispetto a Marx, ad esempio quando nega che nel flusso di potere ci sia una direzione verticale dall'alto verso il basso, dalla classe dominata ai dominati. Il potere foucaultiano resta un sistema orizzontale che distribuisce in modo equo e imparziale i prori effetti. Forse la tesi meno adeguata a spiegare il reale funzionamento del meccanismo capitalistico che dispensa costi e benefici in modi tutt'altro che simmetrici.

Liberazione 28/05/2010, pag 8

Medio Oriente, Asia, Africa. La guerra segreta di Petraeus

Il Pentagono autorizzato a compiere operazioni clandestine anche in aree di pace

Francesca Marretta
La Cia non dev'essere molto affidabile per il Pentagono. Le operazioni sotto copertura all'estero per raccogliere informazioni sul "nemico" sono in genere frutto del lavoro degli 007. Invece, in base a una direttiva militare Usa (Joint Unconventional Warfare Task Force Execute Order) firmata, il 30 settembre 2009 dal generale David Petraeus, 57 anni, Comandante dell'U.S. Central Command (Centcom), che ha base a Tampa, in Florida, sempre sotto i riflettori per il suo ruolo di architetto delle scelte strategiche Usa in Iraq e Afghanistan, prevede che in certi paesi siano ora militari addetti alle Operazioni Speciali a lavorare di cervello.
Lo rivela il New York Times , che citando fonti anonime, parla dell'esistenza di un documento classificato di sette pagine, che autorizza operazioni militari clandestine in Medio Oriente, Asia e Corno d'Africa, finalizzate a raccogliere informazioni facendosi amici ogni sorta di gruppi locali, ma anche accademici o imprenditori. L'obiettivo di questo tipo di intelligence militare che si sovrappone a quella della Cia, per tapparne i buchi, è costruire reti in grado di «penetrare, sconfiggere, distruggere e disgregare» al-Qaeda e altri gruppi estremisti o «preparare il terreno» per futuri attacchi americani o delle forze locali.
Le operazioni architettate da Petraeus si svolgono sia in paesi ostili, come l'Iran, che amici, come l'Arabia Saudita. Le fonti citate dal Nyt, mettono in relazione questa tessitura della tela del ragno, con la preparazione del terreno per un attacco all'Iran, dove vanno raccolte, dice il documento, informazioni sul programma nucleare e costruite relazioni con gruppi dissidenti in vista di una eventuale futura offensiva militare.
Il Nyt scrive che questo tipo di operazioni, a differenza di quelle della Cia, non richiede l'approvazione presidenziale, né che se ne riferisca al congresso, anche il Pentagono assicura le attività di alto profilo passano comunque per l'ok del Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Qualche mese fa, sempre il Nyt ha parlato dei piani Usa per bombardare, entro la prossima estate, le basi degli shebab nel sud della Somalia. La milizia fondamentalista islamica del paese legata ad al-Qaeda, oltre a controllare ormai buona parte del paese del Corno d'Africa, comprese zone della capitale Mogadiscio, gestisce campi di addestramento alla "guerra santa" in cui arrivano volontari da diverse parti del mondo.
Anche le operazioni militari Usa in Yemen cominciate a dicembre dell'anno scorso potrebbbero essere state autorizzate dalla direttiva di cui dà notizia il Nyt. I raid aerei con cui a dicembre sono state centrate basi di al-Qaeda in Yemen, sono stati guidati a distanza dalla «war room» di Petraeus a Tampa. L'impegno Usa nello Yemen in termini finanziari è passato, tra l'anno scorso e quest'anno, da 70 milioni di dollari a 150.
In questo paese si trovano le basi del gruppo "al-Qaeda nella penisola arabica", gruppo che ha rivendicato il fallito attentato di Natale sul volo Amsterdam-Detroit. Il governo yemenita riceve, come gli altri alleati regionali degli Usa e anche quello somalo, addestramento militare e soldi per le operazioni anti-terrorismo. Gli Usa non possono correre rischi nel l Golfo di Aden Da questo punto di vista Somalia e Yemen rientrano nello stesso scenario tattico per i generali Usa.
Le fonti citate dal Nyt rivelano che la strategia di Petraeus è partita dalla convinzione di dover allargare il raggio d'azione militare ben oltre i confini di Afghanistan e Iraq. Solo in questo modo si combatterebbero efficacemente i vari gruppi armati "ostili". Nelle stanze del Pentagono c'è chi ritene la mossa del Generale possa rivelarsi rischiosa per i buoni uffici con i Sauditi, o peggio, suscettibile di provocare reazioni ostili di paesi come la Siria. Se catturati, poi, i militari sotto copertura non sarebbero trattati come prigionieri di guerra, dunque non si vedrebbero accordate le garanzie previste dalla Convenzione di Ginevra.
Anche l'Amministrazione Bush aveva approvato operazioni segrete, ma solo in aree di guerra. Il progetto di Petraeus è più ambizioso e segue le orme di una strategia già seguita in Iraq, che Petraeus ritiene un successo e che vide il coinvolgimento di clan locali, dietro pagamento, per mantenere l'ordine in determinate aree. Il problema, come nel caso del controbilanciamento delle forze sunnite e sciite in Iraq, è l'imprevedibilità degli sviluppi della situazione sul terreno. Quello che la direttiva militare Usa contempla è l'espansione dell'attività clandestina in una zona geografica enorme, quanto esplosiva. Attività di persuasione di largo spettro a parte, l'obiettivo dell'operazione è provocare scompiglio tra i gruppi armati nemici e prevenire le minacce che di paesi come l'Iran. Ma quando si raccoglie intelligence oltre ad armi e danari si trasferisce anche know-how, che una volta acquisito può essere usato anche in un modo imprevisto.

Liberazione 26/05/2010, pag 7

venerdì 28 maggio 2010

US unveils new security strategy

GiustificaObama advisers, including secretary of state Clinton, unveiled the strategy on Thursday [GALLO/GETTY]

Barack Obama, the US president, has unveiled a new national security strategy, which calls for more global engagement and aims to downplay fears that the US is "at war" with Islam.

The document, updated every four years, sets priorities for America's military, law enforcement and foreign policy agencies. It drops some of the most controversial language from the Bush administration, like the phrase "global war on terror" and references to "Islamic extremism".

"The United States is waging a global campaign against al-Qaeda and its terrorist affiliates," the 52-page strategy document says.

"Yet this is not a global war against a tactic - terrorism, or a religion - Islam. We are at war with a specific network, al-Qaeda, and its terrorist affiliates."

The strategy also calls for US engagement with "hostile nations," closer relations with China and India, and a focus on strengthening the US economy.

Several of Obama's top advisers are discussing the new strategy in a carefully-orchestrated rollout in Washington.

Hillary Clinton, the US secretary of state, gave a speech at the Brookings Institution on Thursday afternoon in which she called democracy and human rights "central" to the strategy.

Clinton also called America's high debt levels a threat to national security.

"We cannot sustain this level of deficit financing and debt without losing our influence, without being constrained about the tough decisions we have to make," Clinton said.

General James Jones, Obama's national security adviser, will discuss the document at Washington's Foreign Press Club.

Break from Bush

Analysts in Washington have described the document as a clear break from former president George Bush's two national security strategies, issued in 2002 and 2006, which endorsed unilateral military action and spoke of the threat posed by "Islamic extremism".

Obama describes a coming era in which US will have to learn to live within its limits

Obama's strategy calls for the US to work within international institutions, like the United Nations and Nato, though it calls for significant reforms to those world bodies.

"An international architecture that was largely forged in the wake of World War II is buckling under the weight of new threats," the document says.

In a speech previewing the strategy on Wednesday, John Brennan, Obama's counterterrorism adviser, said the strategy reflected a shift in al-Qaeda's tactics. He pointed to several recent failed attacks against the US - the Times Square bombing attempt, and the failed Christmas Day airplane bombing - as examples of al-Qaeda's "less sophisticated" tactics.

"As our enemy adapts and evolves their tactics, so must we constantly adapt and evolve ours, not in a mad rush driven by fear, but in a thoughtful and reasoned way," Brennan said.

Rule of law

Obama's new strategy also repeatedly makes mention of "American values," and pledges to uphold the rule of law.

"Advancing our interests may involve new arrangements to confront threats like terrorism, but these practices and structures must always be in line with our Constitution," the document says.

But the new strategy fails to explain how the commitment to the rule of law squares with some of the administration's most controversial national security decisions.

Obama has accelerated the pace of drone strikes in northwest Pakistan's tribal regions, for example, over the official objections of the Pakistani government. And it continues to use military commissions, rather than civilian courts, to try many detainees accused of terrorism.

"If they seriously believe that demonstrating our commitment in practice to civil liberties and the rule of law is vital to our national security... how can they reconcile that with the way drone strikes are being used... with the use of military commissions, and so forth?" wrote Marc Lynch, a professor at George Washington University, in an analysisof the new strategy.

http://english.aljazeera.net/news/americas/2010/05/2010527124921463370.html

mercoledì 26 maggio 2010

Punto Fermo

http://puntofermo.livejournal.com/

In Italia duecento anni di rivoluzione passiva

Ieri come 150 anni fa emerge la debolezza delle forze politiche e sindacali

Alberto Burgio
Molte pagine dei Quaderni del carcere sono dedicate al Risorgimento e al processo unitario italiano. Gramsci vi formula giudizi forti e aspri, che non mancheranno di suscitare polemiche nei primi decenni del dopoguerra. Alessandro Pizzorno sosterrà che lo scontro tra Rosario Romeo e lo stesso Chabod (entrambi critici nei confronti dell'interpretazione gramsciana del Risorgimento) da una parte, ed Emilio Sereni, Giorgio Candeloro ed Ernesto Ragionieri dall'altra (ma si potrebbero fare anche i nomi di Renato Zangheri, Aurelio Macchioro e Luciano Cafagna) costituì «il maggior dibattito storiografico italiano del dopoguerra». E' un giudizio condivisibile, e il fatto non dovrebbe sorprendere data la stretta correlazione istituita da Gramsci tra Risorgimento e arretratezza italiana, un tema, quest'ultimo, centrale anche nelle discussioni storiografiche del secondo Novecento.
Ma andiamo con ordine. L'attenzione dei Quaderni per il processo unitario italiano obbedisce in prima battuta a ragioni di carattere generale. Gramsci è convinto - e lo teorizza - che la riflessione sulla storia sia cruciale per la politica. Non c'è buon politico che non sia anche un buono storico; non c'è possibile intelligenza politica se non vi è conoscenza critica degli accadimenti. Non solo per banali ragioni di ordine genetico (non occorre essere inveterati storicisti per sostenere che il presente discenda dal passato), ma anche per più problematiche considerazioni di ordine teorico e metodologico. Il passato, secondo Gramsci, offre un variegato arsenale di esperienze che permettono di costruire schemi concettuali e modelli analogici preziosi per l'elaborazione di comparazioni storiche a loro volta indispensabili al ragionamento politico. In parole povere: capire cos'è successo in passato serve a decifrare il presente e a formulare previsioni sul futuro in quanto si verificano situazioni tipiche, costellazioni di fatti e situazioni in qualche modo ricorrenti. Per questo Gramsci è convinto che «scrivere storia significa fare storia del presente» e che «è grande libro di storia quello che nel presente aiuta le forze in isviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive».
Alla base dell'interesse di Gramsci per il Risorgimento italiano vi è poi una ragione concreta, di merito. L'unità d'Italia, quando il fascismo conquista il potere, ha appena compiuto sessant'anni, Roma è capitale da appena mezzo secolo. Non è difficile intuire che tale infausto approdo sia almeno in parte conseguenza del processo unitario, delle sue forme, delle sue logiche di classe, dei problemi che non seppe affrontare e di quelli che contribuì ad aggravare. Non si può capire il presente (il fascismo) senza farsi un'idea precisa del passato prossimo (il Risorgimento): di questo Gramsci è convinto quando, nel carcere, si arrovella intorno alle cause del sopravvento delle forze reazionarie e della stessa «mancata difesa» da parte del movimento operaio.
Che cosa fu dunque il Risorgimento agli occhi di Antonio Gramsci? Fu la serie degli avvenimenti che consentirono alla borghesia italiana di unificare il Paese senza coinvolgere le classi popolari, il «popolo-nazione». O meglio: servendosi di esso, ma evitando accuratamente di inserirlo nel novero delle forze dirigenti, nel «quadro statale», e persino di «svilupparne gli elementi progressivi» allo scopo di «suscitare una classe dirigente diffusa ed energica». Risalta così subito a giudizio di Gramsci la fondamentale differenza rispetto al processo rivoluzionario francese, visto che i giacobini riuscirono a dar vita a una «compatta nazione moderna» in quanto ebbero invece il coraggio politico di allearsi col proletariato rurale e urbano nella lotta antifeudale.
Nel caso italiano pesò dunque l'angustia corporativa della classe borghese, la sua vocazione proprietaria, il costante disprezzo per il «metodo della libertà», stando al quale la costruzione del nuovo richiede che «tutto uno strato nazionale, il più basso economicamente e culturalmente, partecipi ad un fatto storico radicale». Il punto-chiave, secondo Gramsci, consistette nella (mancata) riforma agraria. Non avere nemmeno preso in considerazione un diverso assetto (allargato) della proprietà fondiaria costrinse il processo unitario entro ferrei vincoli di classe, imponendo alla modernizzazione italiana di compiersi entro il quadro sociale ereditato dalla «vecchia società» aristocratica. Prevalevano elementi di continuità, in un processo rivoluzionario gestito dall'alto, secondo il modello che, com'è noto, Gramsci definisce di «rivoluzione passiva».
Fu proprio l'argomento della riforma agraria ad attirare sull'interpretazione gramsciana gli strali della storiografia conservatrice (Chabod e Romeo) e dello stesso Croce, il quale accusò Gramsci di retrodatare alla metà del XIX secolo un problema sociale ed economico che si sarebbe potuto porre, al più, 30 o 40 anni dopo. Fatto sta che Gramsci legge criticamente il processo unitario su uno sfondo di lungo periodo che abbraccia «tutta la storia dal 1815 in poi» e che «mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva» assimilabile a quella volontà générale che in altri Paesi agì da protagonista nella costruzione della società e dello Stato moderno.
Questo tratto negativo avrebbe, secondo Gramsci, pesato nel lungo periodo, a valle del processo unitario. In primo luogo, cristallizzando il divario tra Nord e Sud («l'unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna: il Nord era una "piovra" che si arricchiva alle spese del Sud, e l'incremento industriale era dipendente dall'impoverimento dell'agricoltura meridionale»). In secondo luogo, premiando la vocazione corporativa e reazionaria della borghesia italiana, che anche prima del fascismo avrebbe puntualmente fatto ricorso alla violenza coercitiva (si pensi alla brutale repressione dei moti siciliani e torinesi negli ultimi anni dell'Ottocento) ogni qual volta fosse stata sfidata dalla collera popolare.
Duramente Gramsci definisce «bastardo» lo Stato nato in tale dinamica storica. Ma l'idea di «rivoluzione passiva» chiama in causa anche le responsabilità della controparte democratica, la cui subalternità e inettitudine permise a Cavour e alla monarchia piemontese di dirigere il processo escludendone le classi subalterne e annettendosi militarmente il Mezzogiorno. Qui dovrebbe cominciare tutt'un altro discorso, forse il più importante per Gramsci e e per noi stessi oggi.
E' chiaro infatti che, pensando al Partito d'Azione, a Mazzini, Garibaldi e Pisacane, Gramsci pensa anche alle forze politiche e sindacali che di fatto si arresero senza colpo ferire alla reazione fascista nel dopoguerra. Come si diceva, la storia insegna a decifrare la politica. Le rivoluzioni passive di ieri aiutano a riconoscere le rivoluzioni passive di oggi. In verità, dovrebbero anche servire a prevenirle o a sventarle, ma raramente ciò accade. Noi stessi siamo chiamati in causa a questo riguardo, se è vero che - come sembra - quanto avvenne tra il 1848 e il 1870 non si è ripetuto soltanto settant'anni dopo con l'avvento di Mussolini, ma anche nei trent'anni che stanno alle nostre spalle e che hanno visto la brutale reazione capitalistica alle lotte operaie e sociali degli anni Sessanta del Novecento. E' almeno da due secoli che la storia italiana va avanti a forza di rivoluzioni passive, e se questo è in parte "merito" delle forze dominanti, è in pari misura responsabilità dei loro deboli e inconsistenti avversari.

Liberazione 23/05/2010, pag 14

I comunisti? Sono sul Web

Nella Rete abbondano sotto forma di partiti e movimenti. Con simboli vecchi (Polonia) e nuovi (Svizzera)

Maria R. Calderoni
Ma dove stanno questi comunisti. In rete, stanno in rete. Lì infatti si possono trovare facilmente, tutti insieme, di tutto il mondo. In rete non solo ci sono, ma anzi abbondano, sotto forma di partiti e movimenti, testardamente e infaticabilmente animati - tra molti altri - dal gruppo dell' Ernesto e dal fortissimo Centro di Cultura e Documentazione Popolare che si chiama "Resistenze.org".
Comunisti nel Web. Un sito - che ha il nome (minacciosamente?) evocativo di "Cominternet" - ne mette in fila, rigorosamente in ordine alfabetico, un cospicuo e colorito elenco: partiti comunisti dei cinque continenti. Un altro sito, "Solidnet", ne fornisce loghi e simboli; e "Resistenze" offre un'aggiornatissima documentazione (ufficiale) di prese di posizione, iniziative, vita politica e miracoli dei partiti siglati falcemartello di mezzo mondo. Pare che, dovunque andiate, sia pure in questa odierna era pervicacemente postcomunista, un partito comunista, grande o piccolo, ortodosso o meno, neo o vetero, rischiate comunque di trovarlo. Se volete, sempre la infaticabile rete dà in pasto all'intero universo persino indirizzo, telefono, email di pressoché tutti i partiti "rossi" esistenti sulla faccia della terra.
Sempre dalla rete, si evince che i "vecchi" simboli resistono. Falcemartello e libro (vi ricorda qualcosa, forse?) è quello del Partito Comunista argentino; falcemartello e stella quello della Bosnia Erzegovina; falcemartello e fiamma quello dell'Irlanda; la famosa stella a cinque punte quello della Polonia; falcemartello dentro stella quello del Sudafrica; falcemartello e ruota dentata quello Usa; e così via, tranne poche eccezioni: ad esempio un berretto frigio quello della Svizzera; un sole raggiante quello del Nepal.
Si potrebbe continuare per un bel po'. Partiti comunisti vicini e lontani. Partito Comunista d'Aotearoa, l'acronimo fa Pca, ad esempio; non ne sapevo assolutamente nulla, l'ho trovato in Wikipedia: trattasi del partito comunista - maoista - attualmente esistente in Nuova Zelanda; fondato nel 1993, ha un giornale che si chiama "Red Flag" (Bandiera Rossa, un nome già sentito...) e si pone l'obiettivo di fondersi con un altro movimento che si chiama "Organizzazione di Unità marxista". Là, in Nuova Zelanda, Oceania, partito comunista tra i maori.
Il mio amico Mauro Belisario è appena tornato da un viaggio in India e anche lui ha trovato organizzazioni comuniste in posti impensabili, anche in sperduti villaggi. Ma non c'è da stupirsi. Oggi il Partito comunista marxista dell'India (CPI-M) - fondato nel 1964 - è qualcuno: alle ultime elezioni, 2004, ha ottenuto oltre 22 milioni di voti e conquistato 44 seggi al Lok Sabha (Camera Bassa) e 14 al Senato; diventando partito al governo negli stati del Bengala, Kerala, Tripura, nonché forza principale nel "Fronte della Sinistra". Il segretario generale è Prakash Karat e l'ultimo congresso - il 19mo- che si è svolto a Coimbatore, nello stato meridionale del Tamil Nadu, ha ribadito - informa "Resistenze.org"- «le sue posizioni contrarie agli accordi di cooperazione nucleare e di alleanza strategica con gli Stati Uniti», quelli invece perseguiti dal governo indiano. E scrive People's Democracy , l'organo ufficiale del CPI: «Il risultato delle politiche neoliberiste adottate negli ultimi due decenni è stato la rapida crescita della disuguaglianza e della miseria, del divario sempre più grande tra l'India "scintillante" e quella sofferente» (si sarebbe tentati di dire proletari di tutto il mondo unitevi...).
Nella melodiosa lingua di Socrate si pronuncia ccue, ma si scrive Kke, sta per Partito Comunista di Grecia. Il 4 maggio scorso faceva sventolare le sue bandiere rosse sull'Acropoli "occupata" simbolicamente per protesta contro le sciagurate misure economiche decise dal governo in seguito al delinquenziale deficit di cui tutto il mondo parla. Ma non è stata certo una folgorazione. Kke, una storia di quasi 100 anni, tra persecuzioni, dittatura, lotta partigiana, vicissitudini interne; una donna, Aleka Papariga, come segretario generale; una forte organizzazione giovanile; una presenza che conta nel Pame (Fronte militante di tutti i lavoratori). E più dell'8% alle ultime elezioni, 2009.
E si chiama Akel il Partito comunista di Cipro, uno che - di questi tempi! - ha compiuto l'inaudito gesto di piazzarsi al governo. Logo similsovietico - martello saldamente impugnato da mano operaia in cornice di spighe - levato in alto, l'Akel ha annunciato al mondo che «per la prima volta, domenica 24 febbraio 2008, uno stato dell'Unione Europea, con voto popolare, ha eletto un presidente comunista». Già, il 53,5% dei 510mila elettori dell'isola ha votato lui, Demetris Christofias, il segretario generale dell'Akel (nel suo piccolo...).
Ricordate "Borat", il divertentissimo film di Larry Charles? Beh, abbiamo scoperto che anche lì, nel paese di Borat, vive e lotta una falcemartello: si chiama Pct, Partito comunista del Tagikistan, 55mila iscritti, il secondo del paese dopo il Partito popolare democratico al potere; leader è Izmail Talbakov, 52 anni. Ciao, compagno tagiko, giunto sino a noi da un posto mai sentito che si chiama Dushanbe...
Comunisti tagiki. Non più strani, o "matti", di quei 15mila statunitensi che risultano tutt'oggi iscritti al CPUsa, il Partito comunista Usa; leader è Sam Webb; l'organo ufficiale People's World : molto attivo contro la guerra in Afghanistan e in Iraq e nella difesa «dei popoli attaccati dall'imperialismo statunitense» (sic!), il CPUsa ha appoggiato Obama (e due anni fa ha donato i 12 mila scatoloni dei suoi archivi alla Biblioteca Tamiment della New York University).
Si chiama Pci, ma è il partito comunista d'Israele; e un partito comunista vive e lotta anche in Transinistria - la micro repubblica moldava di 550mila abitanti sopravvissuta all'Urss - la cui leader, Nina Bondarenko, ha ottenuto l'8 per cento alle ultime elezioni. E c'è un Pcf, il già glorioso partito comunista francese, anch'esso oggi con a capo una donna, Marie-George Buffet, 134mila iscritti e purtroppo con poco più del 4% per cento alle ultime elezioni. E c'è il partito comunista di Bulgaria, di Gran Bretagna, Irlanda, Palestina, Germania, ecc. In sostanza, nell'immenso cratere lasciato dal crollo dell'Urss, resiste e si muove una galassia composita, multiforme, dispersa ma vitale: "segni" dell'idea che non muore, fuochi sotto la cenere, forze che si ricaricano oppure figli del dio minore, ultimi mohicani, sopravvissuti, esangui testimonial? Piano, nell'elenco c'è pur sempre quel Pcc lì, Partito comunista cinese, nota sede a Pechino, 76 milioni di iscritti, vale a dire il partito politico più grande del mondo. Piano, non scherza neanche Cuba, dove "il" partito conta circa un milione di iscritti (per unico che sia...).
Dove stanno i comunisti, appunto. Al "10mo Incontro internazionale dei Partiti comunisti e dei lavoratori", che si è tenuto dal 21 al 23 novembre 2008 a San Paolo del Brasile, sono risultate presenti 98 organizzazioni falcemartello. Dall'a di Albania alla vu del Vietnam. Comunisti qua convenuti da Argentina, Armenia, Australia, Bahrain, Belgio, Brasile, Egitto, Estonia, Finlandia, Guadalupe, Laos, Messico, Madagascar, Perù, Uruguay, Russia, Venezuela, Turchia... E anche dal Lussemburgo!
Non vorrà mica dire qualcosa?

Liberazione 23/05/2010, pag 12

Israele offrì armi atomiche al Sudafrica

L'offerta ai tempi dell'apartheid firmata Peres e Botha

Simonetta Cossu
La questione dell'atomica era uno dei temi che Israele ha sempre preferito gestire nell'ambiguità: Tel Aviv non ha mai confermato di possederla ma non ha mai neanche smentito la sua esistenza. Ora arriva la prima prova che Israele possiede armamenti nucleari e che in pieno apartheid, nel 1975, cercò di vendere al Sudafrica le sue testate atomiche.
La rivelazione è opera del quotidiano britannico The Guardian che in un articolo pubblicato in prima pagina e definito «esclusivo», cita documenti firmati dall'attuale presidente israeliano Shimon Peres e dal ministro della Difesa sudafricano PW Botha. Secondo quanto riferisce il giornale britannico, si tratta del primo documento che attesti effettivamente il possesso di armi atomiche da parte di Israele.
Il testo a cui si riferisce The Guardian , che è stato declassificato in Sudafrica, rappresenta di fatto il resoconto di una serie di incontri tra alti responsabili dei due paesi, cominciati il 31 marzo 1975: nel loro primo colloquio, i funzionari dello stato ebraico «offrirono formalmente di vendere al Sudafrica alcuni dei missili di Gerico con capacità nucleare, facenti parte del proprio arsenale», nome in codice Chalet. Poco più di due mesi dopo, il 4 giugno, Botha e Shimon Peres si incontrarono a Zurigo. «Il ministro Botha espresse interessamento per un numero limitato di Chalet» e l'allora ministro Peres diede la sua disponibilità a trattare offrendone in «tre taglie differenti».
Il documento, che gli israeliani avrebbero voluto non fosse declassificato, è stato scoperto da uno studioso americano, Sasha Polakow-Suransky, durante una sua ricerca sulle relazioni tra Israele e Sudafrica in vista della pubblicazione del libro «L'alleanza non dichiarata: l'alleanza segreta di Israele con il Sudafrica dell'Apartheid».
Il presidente israeliano, Shimon Peres, ieri ha smentito la notizia precisando che "non ci sono mai stati negoziati" tra i due Paesi su questa materia. "Sono informazioni infondate, senza alcun collegamento con la realtà", ha detto Frisch portavoce del capo dello Stato alla radio militare nazionale.
Una smentita che però non basta e che mette in imbarazzo per diversi motivi. Il Guardian pubblica infatti la foto dell'accordo siglato in cui è riconoscibile la firma di Peres e di Botha, ma soprattutto dal presidente Pees è arrivata una smentita debole che non smentisce l'autenticità dei documenti. Imbarazzante perchè proprio in questi giorni a New York presso l'Onu si parlerà di non proliferazione nucleare in Medio Oriente.
Secondo quanto scrive sempre il Guardian il Sud Africa di Botha voleva avere testate nucleari come deterrente e potenziale minaccia contro i paesi confinanti.
La vendita non avvenne mai, perché Botha ritenne l'operazione troppo costosa e perché non vi era certezza che l'allora primo ministro, Yitzhak Rabin, avrebbe dato la sua approvazione.
Pretoria fu poi in grado di costruire le sue testate nucleari, molto probabilmente con l'assistenza israeliana. Nei memo resi pubblici dal Guardian infatti viene rivelato che Peres e Botha firmarono un accordo relativo alla collaborazione militare tra i due paesi in cui venne posta la clausola che questo accordo sarebbe dovuto restare segreto. E infatti proverebbe dal Sud Africa l'ossido di uranio che era necessario a Tel Aviv per lo sviluppo dei suoi armamenti.
E se non bastasse, i documenti confermerebbero quanto aveva dichiarato l'ex commandante della marina sudafricana Dieter Gerhardt, imprigionato nel 1983 con l'accusa di spionaggio a favore dell'Unione Sovietica. Rilasciato dopo il crollo dell'aperthaid Gerhardt parlò di un accordo tra Israele e Pretoria chiamato "Chalet" che si riferiva all'offerta da parte dello stato di Israele per armare otto missili Jericho con "testate speciali" che per Gerhardt erano nucleari, ma fino ad oggi non erano emerse prove che confermassero queste sue asserzioni.
L'esistenza del programma nucleare di Israele venne reso pubblico da Mordechai Vanunu al Sunday Times nel 1986, e che venne poi arrestato per queste rivelazioni.

Liberazione 25/05/2010, pag 8

L'eBook è fra noi ma non sarà l'apocalisse

"Che fine faranno i libri?", uno sguardo sul futuro di Francesco Cataluccio

Tonino Bucci
Che fine farà il vecchio libro? Diciamo la verità, si può capire che in tanti se lo siano chiesto e che altrettanti continueranno a chiederselo nell'immediato futuro. E' comprensibile che ci sia una certa ansia di previsione avveniristica, l'angoscia persino, di capire dove andrà a parare il futuro. La questione non è peregrina, vista la diffusione capillare degli smartphone, ossia di cellulari che stanno nel palmo di una mano e integrano le funzioni di un microcomputer, in grado di restare connesso a internet 24 ore su 24. Il che significa che l'uso del telefonino si è dilatato ben oltre la classica chiamata telefonica, fino a diventare un vero e proprio dispositivo elettronico sul quale ricevere e leggere notizie, lanci d'agenzia, giornali online e persino smart novel, romanzi in formato ridotto. Nonostante tutto, però, la domanda su quale fine farà il libro, sa già di stantio. Non foss'altro perché richiama l'attenzione solo sul supporto - schermo contro carta - sul quale verosimilmente si leggerà nel futuro, mentre lascia in una zona d'ombra il problema più urgente che è all'incirca il seguente: come cambierà la lettura, quali modificazioni ci saranno nella cultura in questo passaggio epocale dal testo all'audiovisivo?
Insomma, il fatto che ormai i dispositivi per la lettura su schermo si stiano moltiplicando per quantità e per qualità è un fenomeno che non va affrontato solo sul piano tecnologico. E neppure per via di domande apocalittiche, del genere "il libro morirà" o "mai nulla sarà in grado di sostituire il libro cartaceo". L'ultima delle novità tecnologiche che già ha fatto discutere, è il famigerato Ipad, creatura di casa Apple di imminente uscita anche in Italia. Se la fattura tecnologica di questo dispositivo elettronico manterrà fede alle promesse, ci sarà un mutamento non solo nella maniera di scrivere, stampare e leggere i libri, ma anche nel mondo dei giornali. Se ne sono accorti - e come - gli editori nella recente Fiera del libro di Torino. Chi più chi meno le case editrici, piccole e grandi, si stanno attrezzando per conquistare quello che sarà il mercato dell'editoria digitale. A muoversi non sono soltanto i colossi - tipo Mondadori, per intenderci - ma anche marchi minori che nella diffusione dei dispositivi per leggere libri su schermo intravedono una possibilità di salvezza dalla concorrenza spietata delle grandi case editrici. Tanto per fare un esempio, la Isbn - piccolo marchio editoriale - ha già sviluppato un proprio ebook store, una sorta di libreria online nella quale si potranno comprare libri in formato elettronico da leggere sullo schermo di un computer o di un iPhone/iPod. L'applicazione, necessaria per visitare il portale di vendita, è già disponibile su App Store, il programma della Apple. «Un'applicazione che comprende uno store online in continuo aggiornamento e un'interfaccia ebook di ultima generazione», promettono quelli della Isbn. Tra i titoli in vendita, La lunga siccità di Cynan Jones, al prezzo di 4,99 euro contro i 15,80 del volume su carta.
«Ho qui accanto a me il "nemico". Una scatoletta grande come un libretto tascabile, inaspettatamente leggera, del colore incerto di un'alba invernale. E' un'oggetto piuttosto elegante e sottile: appena 9 millimetri di spessore. Le sue dimensioni sono 20x12 centimetri. Lo schermo è grande 6 pollici con risoluzione 600x800 a 16 toni di grigio. In pratica la stessa luminosità della carta. Sotto lo schermo c'è una tastiera completa, utile per prendere appunti o cercare parole specifiche all'interno di un testo o nel vocabolario integrato (250.000 lemmi». Si presenta così Kindle, il lettore su schermo per libri elettronici prodotto da Amazon, il più grande venditore in rete di libri. E' stato presentato nel 2007, «nonostante i dati di vendita ufficiali non siano mai stati diffusi, gli analisti di Citigroup stimano che la prima versione dell'eBook abbia venduto la cifra consistente di 500.000 pezzi, esauriti nel giro di un anno», scrive Francesco M. Cataluccio in Che fine faranno i libri? (edizioni Nottetempo, pp. 64, euro 6).
Con quell'apparecchio per scaricare un libro ci vogliono meno di sessanta secondi. Se lo si lascia acceso la notte, al mattino si riceve il giornale per cui si è sottoscritto l'abbonamento. «Con Kindle è facile pagare come in tutto l'e-commerce e, come si sta già osservando, la gente gradisce questo modo di acquisto. I libri, inoltre avranno un prezzo pari alla metà di quello dei testi cartacei, perché costerà molto meno produrli e distribuirli». Qualcuno azzarda che siamo di fronte a un passaggio epocale, paragonabile alla transizione dall'oralità alla scrittura o a quella dal manoscritto alla stampa. La lettura di articoli e testi al computer è diventata prevalente - dicono in molti - rispetto a quella su carta. E, a quanto pare, «le persone stanno iniziando ad adattarsi anche a leggere sui telefonini come iPhone e BlackBerry. Del resto, ormai da anni non scriviamo più su carta e mandiamo meno lettere e fax. Poiché tutti scriviamo registrando le nostre frasi in una realtà immateriale, è abbastanza ovvio che si arrivi anche a riprodurle in modo immateriale».
Potrebbe succedere qualcosa di analogo a quanto accaduto nel campo della musica dal primo lancio dell'iPod da parte dell'Apple. Su iTunes, il negozio online del marchio di Steve Job (ma è anche un programma per organizzare e riprodurre documenti multimediali), si possono comprare online album oppure singole canzoni. Cento milioni di clienti sono già registrati con le loro carte di credito. «Forse questo cambiamento sarà immaginabile anche nel consumo di libri: avremo la possibilità, per esempio, di acquistare (pagando molto meno) soltanto un racconto di una raccolta; un capitolo di "prova"; la parte di un libro necessaria per un esame; un capitolo inedito o successivo alla diffusione di un'opera». Sarà anche molto meno costoso per gli editori ristampare vecchi titoli andati fuori catalogo, molti dei quali sono testi di studio nelle università. Già, a proposito, che fine faranno le case editrici? Non scompariranno, anzi. Siccome sarà più facile pubblicare libri in formato digitale la «funzione degli editori» di scoperta, scelta, sollecitazione, azzardo, consiglio, correzione «sarà ancora essenziale per produrre buone opere». Né scompariranno gli autori: soltanto dovranno - come già in parte accade - a dattarsi a un lavoro corale di editing. L'opera letteraria, semmai, sarà sempre più simile a un film al quale concorrono più figure, dal regista allo sceneggiatore all'attore e via dicendo. Magari - questo sì - il diritto d'autore, il copyright non avrà più «il senso certo e definibile che aveva in passato». Il libro cartaceo è un'opera chiusa, mentre un testo elettronico è aperto e modificabile. Gli autori dovranno farsene un'idea.

Liberazione 23/05/2010, pag 8

Nasce Usb: le lotte dei sindacati di base si connettono in una rete confederale

La prima volta dell'Unione Sindacale di Base. Assemblea costituente oggi al Teatro Capranica di Roma

Farbizio Salvadori
"Connetti le tue lotte" è lo slogan che caratterizza la nascita di Usb, il sindacato di base che oggi ha indetto al cine-teatro Capranica, a Roma, una mega-assemblea nazionale. Una uscita in grande stile per segnare la fine di un'epoca, quella della concertazione, e l'inizio di una nuova, «la complicità», come la definisce Paolo Leopardi, chiamato assieme a Fabrizio Tomaselli, a varare la nuova organizzazione sindacale.
Usb sta per Unione Sindacale di Base e raccoglie, manco a dirlo, l'esperienza del sindacalismo di base di Rdb e Sdl (più alcuni pezzi della Cub ed altri sindacati di settore tipo lo Snater, e altre sigle come lo Slai-Cobas), così come è andato svolgendosi dalla fine degli anni '90 ad oggi. Un patrimonio ricco e pieno di spunti positivi che lo stesso Tomaselli definisce come l‘unico possibile in un momento in cui «sta crescendo il bisogno di sindacato».
Centinaia di delegati si riuniranno per dare vita al «sindacato che serve ai lavoratori», un'organizzazione generale, indipendente e conflittuale, diffusa soprattutto nel pubblico impiego e nei trasporti e in tutto il territorio nazionale, che intende costruire l'alternativa concreta, radicata e di massa, a Cgil, Cisl e Uil. La novità è che Usb avrà anche una struttura confederale articolata sul territorio nazionale, regionale e provinciale. Non chiamateli più sindacati corporativi, quindi. Il tentativo, infatti, è quello di cominciare a rappresentare tutto ciò che non è possibile inquadrare in una categoria: ovvero precari, giovani, donne, disoccupati, senza-casa, cittadini, migranti e pensionati. Le categorie tradizionali verranno organizzate in due macro-aree intercategoriali (il settore pubblico e il settore privato). L'altro elemento di forte caratterizzazione è la democrazia, sia all'interno, secondo la formula "una testa un voto", sia all'esterno attraverso il principio del pronunciamento "prima, durante e dopo" gli accordi contrattuali. E l'indipendenza dai governi, dai padroni, dai partiti? «Non indifferente alla politica risponde Tomaselli - ma capace di definire le proprie scelte politico/sindacali sulla base di una vera autonomia, libero di poter contrastare le scelte di qualsiasi governo e di qualsiasi forza politica laddove esse siano in contrasto con le esigenze reali del mondo del lavoro».
Per ora è quasi impossibile parlare di numeri. Ma entrambi i portavoce ci assicurano che l'esperienza del sindacato di base proprio in questi ultimi mesi sta crescendo in quantità e in qualità. Si avvicinano, indifferentemente, i "delusi" da Cgil e Cisl ma anche i giovani, quelli che il sindacato l'hanno letto nei libri di storia. Molte nuove adesioni negli enti locali, per esempio, dove il "patto di stabilità" sta stritolando servizi e lavoratori, ma anche nella sanità. Il resto arriverà quando il segretario della Cgil Guglielmo Epifani e quello della Cisl Raffaele Bonanni finiranno di condurre in porto l'ingombrante nave dell'"accordo separato" del 2009. La frattura che si produrrà non sarà più politica, tra chi ci sta e chi non, ma tra due diversi modi di intendere il sindacato: l'organizzazione dei "clientes", ovvero di chi paga per avere un servizio, e l'organizzazione dei lavoratori. Paolo Leopardi annuncia battaglie già a partire da giugno; date che verranno ufficializzate proprio oggi nel corso dell'assemblea nazionale. E tanto per chiarire le idee su che tipo di sindacato l'Usb è pronto a mettere in campo, le prime iniziative saranno proprio su diritto di sciopero e rappresentanza. «Il nostro modello è diverso da quello della stessa Fiom - aggiunge Leopardi - perché il nostro obiettivo è quello di ridurre al minimo la delega».
«Alla fine di questo percorso - dichiara Tomaselli - avremo una struttura verticale ed orizzontale. Verticale nella fase organizzativa e negoziale, orizzontale nel confronto e nella preparazione delle piattaforme». «Abbiamo in mente di sviluppare nuove forme di rappresentanza - dichiara Tomaselli - perché oggi c'è sempre più bisogno di un sindacato di base alternativo a Cgil, Cisl e Uil». I rapporti con gli altri sindacati di base?
Per il momento nel percorso organizzativo non rientrano le altre sigle, tipo Cobas e Cub. Ma il dialogo c'è. Tanto che alcuni appuntamenti saranno in comune. Scarso, invece, il dialogo con chi in Cgil sta organizzando l'opposizione alla linea della maggioranza. «Se fossimo convinti della validità dello scontro in Cgil non ci sarebbe il sindacato di base», taglia corto Tomaselli.
Chi pensa di vedere ancora il "sindacato del No" sbaglia. Usb vuole passare dalla contestazione alla proposta. O meglio, fare quello che hanno sempre fatto i sindacati di base, trattare quando le condizioni lo permettevano e la conclusione positiva per i lavoratori era in vista. «Una delle sfide - conclude Tomaselli - è proprio la cultura leghista imperante, anche tra i lavoratori. Se il sindacato riesce a trasformare queste tensioni individualiste in un conflitto che porta risultati per i lavoratori allora la musica comincia a cambiare».

Liberazione 23/05/2010, pag 4

domenica 23 maggio 2010

Marx, fordismo, egemonia... Ecco il "Dizionario gramsciano"

Mille pagine, seicento voci per una critica dell'autore dei "Quaderni del carcere" più attenta «al testo»

Tonino Bucci
Un dizionario è un dizionario. Non è un libro come tutti gli altri, non si legge dall'inizio alla fine lungo un'unica direzione. Un dizionario è una raccolta di parole, ciascuna definita per mezzo di altre parole che a loro volta sono definite per mezzo di altre parole ancora e così via praticamente all'infinito, attraverso sequenze e combinazioni imprevedibili. Finora, però, non s'era mai visto un dizionario che servisse a leggere un altro libro, eccezion fatta per la "Divina Commedia" dantesca o la "Scienza della logica" di Hegel e qualche altro raro caso. Il "Dizionario gramsciano 1926-1937" a cura di Guido Liguori e Pasquale Voza (edizione Carocci, pp. 918, euro 85) - presentato l'altro ieri a Roma con Maria Luisa Boccia, Alberto Burgio, Giuseppe Vacca, Tullio De Mauro e i curatori - «si pone l'obiettivo di ricostruire e presentare al lettore - in termini il più possibile accessibili - il significato dei lemmi, delle espressioni, dei concetti gramsciani, limitatamente al periodo della riflessione carceraria consegnata ai "Quaderni del carcere" e alle "Lettere dal carcere"».
Quasi mille pagine, oltre seicento voci, dalle più famose invenzioni linguistiche di Gramsci a quelle meno note. Un'opera pregevole che porta a compimento un lavoro iniziato dall'Igs, ormai una decina d'anni fa, con i seminari sul lessico gramsciano e che porta l'impronta di Giorgio Baratta, scomparso pochi mesi fa, tra i principali promotori dell'impresa.
Cos'è dunque il "Dizionario gramsciano"? Uno strumento, innanzitutto, un sostegno per il lettore nella comprensione del testo gramsciano, a volte ostico, difficile da digerire per i suoi salti, per le ambiguità, per il progressivo cambiare di significato delle parole cruciali nel tempo, talvolta per vere e proprie incongruenze. Il fatto stesso che una quantità sterminata di interpreti si siano cimentati con i "Quaderni" e abbiano prodotto una letteratura sconfinata è tutt'altro che una facilitazione per il povero lettore. Anzi, in molti casi, le interpretazioni del testo gramsciano che nel tempo si sono sedimentate risultano fuorvianti anziché d'aiuto. Se non bastasse, ci è messa anche la cultura del postmoderno a complicare la faccenda.
Gli studi su Gramsci, da un decennio almeno a questa parte, sono rivelatori di un'inclinazione eccessiva al frammento. È diventata quasi opinione corrente considerare i "Quaderni" un'opera priva di trama unitaria, una sorta di collage di frammenti dai quali, come in un «supermarket» - per riprendere un'espressione di Burgio - ognuno si sente in diritto di prendere quel che vuole e costruirsi un'ipotesi interpretativa a propria misura, senza il necessario rigore filologico. Il dizionario, a differenza del saggio, è lo strumento più prossimo all'obiettivo, dichiarato dai curatori, di un «ritorno al testo». «In riferimento alla tensione fra un pensiero coerente e la sua esposizione frammentata, il nostro tentativo - scrivono Voza e Liguori - è stato quello di praticare e di suggerire un'attenzione al testo che non sempre è dato ritrovare nella critica. Crediamo infatti che un uso attento dei testi porti anche a una migliore approssimazione interpretativa, mentre un loro uso troppo disinvolto allontani dalla comprensione effettiva anche dello "spirito"».
Ma, a volersi spingere un po' oltre, il "Dizionario" non è solo uno strumento esterno al testo, ma ci aiuta anche a capire - come in uno specchio - la "forma " stessa dei "Quaderni", la morfologia di un'opera costruita secondo il modello di un reticolo di categorie, dove ognuna di esse, da quelle più note tipo "egemonia", "americanismo" e "cesarismo" a quelle più inusuali, del genere "oppio", "dumping" e "mosca cocchiera", si definisce in connessione con le altre. E dove la minima variazione di significato all'interno di una categoria è destinata a produrre effetti in tutte le altre categorie confinanti, costringendo l'intero sistema ad assestarsi. E qui cominciano i problemi. Perché al "Dizionario" non si può chiedere il miracolo di semplificare o ingabbiare «quella che è stata chiamata la strategia del pensiero e della scrittura di Gramsci - scrivono ancora Voza e Liguori - e con il carattere intrinsecamente mobile, aperto, antidogmatico che essa comporta».
A noi lettori contemporanei la questione si pone di nuovo: quale Gramsci? Quello classico della rivoluzione e della lotta di classe - si chiede Tullio De Mauro - oppure il Gramsci ridisegnato in chiave culturalista soprattutto in questi ultimi decenni? Il Gramsci che pone l'accento sul primato della politica (la prassi) oppure il Gramsci che affida al terreno decisivo della cultura la regolazione dello scontro tra gruppi sociali? «La centralità gramsciana della cultura nella politica - sostiene ad esempio Maria Luisa Boccia - è andata dispersa, tutt'al più oggi si parla di competenze e di think thank che devono affiancare i politici. Oggi si parla spesso della perdita di egemonia da parte della sinistra, ma senza mai rimettere al centro della nostra attenzione il rapporto tra cultura e politica. Non a caso, per Gramsci il marxismo ha da essere una visione totale del mondo, costruzione di una forma di civiltà integrale».
Ma quali sono le « quistioni » più presenti, le voci più ricorrenti nel "Dizionario", per qualità e quantità? Non c'è quasi storia. A mettere assieme i lemmi che riguardano Marx, il marxismo, il materialismo e la marxiana "Prefazione" del '59 non c'è dubbio che il nucleo teorico dei "Quaderni" sia questo, seguito a breve da un complesso di voci sulla filosofia classica tedesca e sulla filosofia della praxis. E poi ci sono le categorie mobilitate da Gramsci per la lettura del suo presente, in un continuo gioco di rimandi e analogie con la storia passata: americanismo, fordismo, taylorismo, lotta di classe, guerra. Motivo per cui - stando alle argomentazioni di Burgio - si potrebbe pensare ai "Quaderni" come al laboratorio del primato della politica. «È un'immagine classica di Gramsci quella che ci viene consegnata qui, cioè di un filosofo della rivoluzione in Occidente che pensa a partire da Marx e dalla filosofia classica tedesca in un'epoca di guerra, di lotta di classe e di crisi, in presenza di un tentativo di stabilizzazione capitalistica in America». Ma soprattutto, come dimostra il lemma su "rapporti di forza", ad emergere è «l'idea che la politica è ovunque, nei conflitti sociali, nella società civile, nelle istituzioni nazionali come in quelle internazionali».
Il discorso si complica enormemente quando ai "Quaderni" si pongono domande che riflettono gli assilli di noi lettori contemporanei, magari per rintracciare in Gramsci teorizzazioni ante litteram di posizioni culturali che appartengono al nostro tempo. Ci si addentra in un gioco mobile dentro e fuori il testo quando, ad esempio, si ravvisa nel testo gramsciano l'esistenza di una vera e propria quistione sessuale, definita non nei termini di una semplice «lotta per l'emancipazione giuridica delle donne», bensì come una dimensione centrale per la politica e la rivoluzione. Oppure, quando - per seguire il ragionamento di De Mauro - si cerca nei "Quaderni" - inutilmente - una critica alla scienza e all'idea del soggiogamento infinito della natura all'uomo. Di sicuro è un Gramsci in stile liberaldemocratico quello ricostruito polemicamente da Giorgio Vacca: un Gramsci che inizierebbe a sbarazzarsi delle categorie marxiste tradizionali, prima fra tutte quella di struttura-sovrastruttura, per poi sostituire il termine «classe» col più pluralistico «gruppi sociali», «materialismo» con «filosofia della praxis», mentre il partito retrocederebbe sullo sfondo di una più generale volontà collettiva. Per finire con un'idea di «egemonia» non solo rivisitata ma ormai contrapposta all'egemonia leninista.
Fin dove può spingersi l'interpretazione - e la sua innegabile libertà - e dove comincia invece il limite invalicabile del testo? «I "Quaderni" - per dirla con le parole di Liguori - sono un'opera particolare, che è stata pubblicata non dal suo autore, frammentata, piena di ambiguità che possono anche risultare fuorvianti. Un work in progress». Ma questo non significa «poter fare dire a Gramsci quel che non ha detto e fargli carico di ipotesi che non potevano stare nella testa di un uomo del suo tempo. Non si possono sfruttare le sue afasie per proiettare tutto il nostro presente nella sua opera».

Liberazione 22/05/2010, pag 8

«Oriente, quel concetto è solo ideologico»

Vittorio Bonanni
E' "Orienti" il tema della sesta edizione del Festival internazionale della storia che da oggi prende il via a Gorizia fino a domenica prossima per iniziativa dell'associazione "èStoria" e a cura di Adriano e Federico Ossola. Un tema appassionante, vastissimo, che ha sempre suscitato nel mondo occidentale i sentimenti più svariati come fascino, paura, demonizzazione, attrazione, voglia di indagare o di immedesimarsi. Tanti gli storici e gli studiosi invitati, italiani e stranieri. Tra questi c'è anche Luciano Canfora. filologo classico, appunto storico, saggista, un intellettuale di levatura internazionale con il quale abbiamo cercato di dipanare questa matassa aggrovigliata che sta intorno al concetto di "Oriente".

Professor Canfora, difficile dare una definizione univoca di Oriente. Gli stessi organizzatori del Festival sostengono «l'impossibilità di pensare, individuare o circoscrivere un "Oriente" tout court». Che cosa ne pensa?
La domanda è curiosa. Si tratta di un concetto vago. E a rigore non c'è e non può esserci un atteggiamento unitario nei confronti dell'Oriente. Dal punto di vista geografico poi basta cambiare posizione e l'Oriente cambia. Per esempio la Grecia è stata considerata per tanto tempo Oriente. Però nello stesso tempo è considerata la culla dell'Occidente essendo quel paese la matrice della nostra cultura. La contraddizione appare dunque di immediata evidenza. Sono, quelli che usiamo, termini convenzionali che cambiano continuamente di valore. Tornando alla Grecia questa faceva parte dell'Impero turco fino a che non si liberò nei primi decenni dell'Ottocento. Dopo, comunque, la Turchia e l'Impero ottomano fino alla Prima guerra mondiale con la rivoluzione di Ataturk costituirono un problema, determinando la cosiddetta "questione d'Oriente". L'Italia pensò di contribuire a risolverla con la forza quando nel 1912 aggredì la Libia, determinando peraltro una spinta non lieve verso la Prima guerra mondiale. La Libia è situata un po' più a Occidente, e non di meno la si considerava, essendo parte dell'Impero ottomano, un pezzo dell'Oriente. Dopo di che Oriente è anche il Giappone che è il più occidentale dei paesi occidentali. Un paese iperoccidentale ma non soltanto da dopo la guerra. Già dalla seconda metà dell'Ottocento prese la Germania come modello, tanto che la cultura tedesca cominciò ad essere molto presente in Giappone. Werner Sombart, un grande sociologo tedesco, ha lasciato tutta la sua biblioteca all'Università di Tokyo e sta ancora tutta lì. Poi copiò il nazismo, e ancora l'America. Insomma il Giappone ha fatto suoi sempre modelli occidentali. Però a rigore, possiamo dire che il concetto di "Oriente" è inutile e tutto sommato vago. A conferma di questo basti pensare che i francesi hanno sempre considerato i tedeschi, soprattutto i prussiani, dei centro-orientali. Durante la contrapposizione Francia-Germania, con il secondo impero francese di Napoleone III da un lato e il cancellierato di Bismarck dall'altro, i tedeschi erano considerati l'avamposto dell'Oriente. Ma lo stesso cancelliere prussiano considerava se stesso un grande statista dell'Occidente che aveva buoni rapporti con un grande rappresentante del mondo orientale che era lo Zar. Ma se la geografia non ha cambiato natura, la stessa Russia è un pezzo dell'Europa ma nello stesso tempo un grande Stato orientale.

Forse lo stesso concetto di Europa è generico non crede?
E' senza capo né coda, non si capisce che cosa vuole dire Europa. La situazione della Russia è appunto la più complicata perché sta da una parte e dall'altra. Ma a rigore tutta l'area di consenso ed economicamente connessa alla Francia, e cioè il Nord Africa, dovrebbe essere parte integrante dell'Europa. Però non ne fa parte geograficamente. E si potrebbe continuare. La stessa Gran Bretagna ha una posizione ambigua. Certamente fa parte dell'Europa ma non ne è partecipe, non ha neanche la moneta e tutta la sua vita economica e politica e rivolta verso gli Stati Uniti. I quali dal canto loro sono il nostro Occidente. Non ci resta dunque che esortare le persone a guardare il mappamondo!

Confermando, come dicevamo prima, l'impossibilità di definire il concetto di "Oriente"....
Certamente. Questo concetto è solo un ritrovato ideologico.

Sia pure in parte quel concetto ci fa comunque venire in mente l'Islam, l'integralismo e questo dannato "scontro di civiltà" con il quale si è aperto questo millennio. Eppure gli arabi hanno contribuito non poco alla nascita della modernità. Che cosa è successo nel frattempo? E' colpa della religione che ha sostituito le scomparse ideologie del Novecento se lì si è tornati indietro o c'è qualche altra cosa che ci sfugge?
Ideologie del Novecento? Mah. C'è stato un tentativo di penetrazione dell'Urss nel mondo arabo che è stato preceduto peraltro da un altro tentativo, soprattutto hitleriano, che ha guardato al mondo arabo soprattutto in funzione antinglese. Riuscendo ad ottenere dei risultati. Sia Nasser che Sadat erano gli uomini di Rommel in Egitto. Il futuro presidente egiziano infatti poi aprì le porte agli ufficiali nazisti in fuga e li integrò nell'esercito egiziano. In funzione, come lui pensava nella sua stupidità, antinglese e antimperialista. Il nazismo poi è finito e si è aperta negli anni Cinquanta l'era del socialismo arabo con l'ascesa al potere di Nasser. Se fino a quel momento Stalin e l'Urss si erano schierati in maniera chiarissima a favore di Israele, Krusciov si convinse invece che il futuro era nel socialismo arabo e che sostenendolo si poteva conquistare il Medio Oriente. Ma fece un enorme errore di calcolo perché poi da un lato fu costretto a guardare mentre i cosiddetti socialisti arabi facevano a pezzi i comunisti, a cominciare da quelli egiziani. Per poi ricevere il benservito quando Sadat, successore di Nasser, cambiò alleanze e si schierò con gli Stati Uniti. Tutto questo per dire che il socialismo arabo è stato un disastro. Ma la cosa più significativa è che quando il komeinismo è sorto e si è fatto avanti lo ha fatto in funzione antisovietica e anticomunista. E in nome della religione che è tuttora l'unica ideologia, nel caso iraniano, di un furbastro come Mahmud Ahmadinejad. Il quale ammanta di fanatismo religioso lo sforzo di contendere all'Occidente e ai russi le risorse del Medio Oriente. In tutto questo si è inserito un fattore che è difficile tenere a bada e cioè il famoso terrorismo. Una forma di lotta indiscriminata di fronte alla quale uno non può dire, non mi interessa. Perché c'è!

Il contributo islamico alla modernità dunque si ferma ai tempi della dominazione per poi, per svariate ragioni, fermarsi e perdersi?
Parlare in generale non vale perché loro sono ovviamente divisi. Noi vediamo gli esponenti più in vista, quelli che comandano. Però, persino in Iran, paese sotto dittatura religiosa, ci sono infinite forze culturalmente avanzate che saprebbero mescolare in modo creativo la tradizione islamica con gli apporti esterni. Insomma non esistono culture separate perché il mondo dal XIX° secolo in avanti ha mescolato tutto e non esiste più la possibilità di connotare etnograficamente. Anche noi abbiamo una cultura che è contemporaneamente impregnata di istanze socialiste, tradizioni europee, americanismo. E per fortuna. E anche loro, in Oriente appunto, al di là dell'ideologia esteriore, hanno assimilato tantissimo dal mondo occidentale.

Professore, cambiando discorso, lei questo pomeriggio a Gorizia sarà protagonista di un dibattito su Artemidoro, il più grande geografo di età ellenistica, e il ritrovamento di una sua presunta opera perduta. Ce ne può parlare?
Si tratta di un cosa di una importanza duplice. Da un lato culturale: viene fuori un testo sospetto, lo si studia e si scopre che è il lavoro di un grandissimo falsario ottocentesco che era riuscito a beffare mezzo mondo al tempo suo, cioè nella seconda metà dell'Ottocento. L'elemento inchiesta è divertente e riguarda le prove che portano all'attribuzione. Questo è il giallo. Però c'è un altro giallo che è molto più grave: perché, è questa la domanda, un grande mercante di oggetti d'arte che si chiama Simonian, di orgine armena e che sta ad Amburgo, è stato capace di gabellare questo pezzo come pezzo antico in sostanza ingannando fior di studiosi e per fortuna non riuscendo ad ingannare il museo egizio di Torino? Siamo dinanzi ad una operazione economica e a un prezzo favoloso, quasi tre milioni di euro, per un oggetto discutibile ed ormai chiaramente falso, che va, dal punto di vista della valutazione economica, al di là di qualunque compravendita economica mai avvenuta in questo campo. C'è da chiedersi come mai un mercante così forte e potente possa ingannare l'establishment accademico. Questa è la cosa che ha trasformato un fattarello culturale in un episodio di costume che ha coinvolto un colosso bancario come il San Paolo, l'allora ministro dei beni culturali Urbani e fior di studiosi. Il re di Spagna fu ben consigliato e si rifiutò di comprare questa roba salvandosi.

Liberazione 21/05/2010, pag 9

L'acqua marcia che piace a Scajola

Da Imperia al cementificio di Montalto di Castro
Gli interessi politici di Claudio Scajola a Civitavecchia

Daniele Nalbone
"Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare". Così scrisse Seneca nelle Lettere a Lucilio. Così è riportato sul sito del Porto di Imperia. Di certo, il marinaio Claudio Scajola sa bene da che porto salpare e in quale approdare. Da Imperia, sua cittadina natale, a Civitavecchia. Con lui, compagna di viaggio inseparabile, Beatrice Parodi Cozzi, figlia di Piergiorgio Parodi, il più importante costruttore di Imperia, e vedova dell'onorevole Gianni Cozzi.
Insieme, hanno portato gli interessi della famiglia Parodi dal porto ligure a quello dell'Alto Lazio. Il percorso inverso, invece, lo ha compiuto Francesco Bellavista Caltagirone e la sua Acqua Marcia Spa. Gli interessi politici di Claudio Scajola nel comune di Civitavecchia, infatti, non si limitano solamente allo studio del notaio Gianluca Napoleone, dove è stato registrato l'atto per l'acquisto scontato della sua casa vista Colosseo, ma si spingono fino alle banchine del porto storico dove la società Porto del Tirreno srl, di cui è amministratrice la signora Beatrice Parodi, al 57,5% di proprietà della Giacofin (azienda di famiglia Cozzi) e al 42,5% dell'Acqua Marcia Spa, mira a realizzare una marina yachting, da sommare a più di 30mila metri cubi di edificazioni tra appartamenti (un centinaio), un hotel di lusso e un'area commerciale. Che la famiglia Scajola, il più importante casato politico di Imperia, che annovera tra le sue fila ben tre ex sindaci, l'ex ministro Claudio, suo padre Ferdinando e suo fratello Alessandro, e la famiglia Parodi, ricca dinastia imprenditoriale, siano molto vicine è cosa risaputa. La novità, dal 2005, è l'ingresso nel redditizio settore turistico-portuale della società Acqua Marcia e della famiglia romana dei Caltagirone, nella persona di Francesco Bellavista, che entra nel settore con la realizzazione delle opere di terra del nuovo approdo di San Lorenzo a Mare, centro turistico a 25 chilometri da Imperia. Nello stesso anno, attraverso una società controllata, la Acqua Mare, il gruppo Acqua Marcia acquisisce il 33% delle azioni della Porto di Imperia Spa, società impegnata nella costruzione del "vecchio pallino" di Claudio Scajola, il nuovo porto turistico di Imperia, di cui fu a capo della commissione incaricata dei collaudi per le nuove banchine uno dei vertici della "cricca", Angelo Balducci, ex presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici. Ebbene, in quel di Imperia il "trio" Scajola - Parodi - Caltagirone sta portando a termine uno dei più grandi scali turistici del Mediterraneo, che sorgerà su uno specchio acqueo di 268 mila mq e comprenderà, oltre a 1300 posti barca, 6200 mq di costruzioni tra appartamenti (ben 117) e spazi commerciali ai quali bisogna aggiungere 3500 mq localizzati in diverse sedi distribuite nell'arco portuale e un parcheggio interrato di 1786 posti auto e 96 box. Un bel business, non c'è che dire. Ma torniamo a Civitavecchia. Le prima traccia ufficiale "di cricca" nell'Alto Lazio è risalente all'ottobre del 2009 quando, durante una cena in cui si discusse dei tanti progetti in ballo nella zona, il sindaco di Civitavecchia, Giovanni Moscherini, incontrò quelli che lui stesso ha chiamato «gli amici del Salaria Sport Village». Motivo dell'incontro, un project financing per la cittadella dello sport. Altre tracce significative "di cricca" si ritrovano anche poco lontano da Civitavecchia, nella zona tra Tarquinia e Montalto di Castro. Passando, però, per il Lussemburgo. Precisamente presso l'Unicredit Luxembourg Sa, l'istituto di credito dove, "casualmente", si trovavano anche i conti di cui erano beneficiari Angelo Balducci e Claudio Rinaldi, accomunati, oltre che da somme sparse in giro per paradisi fiscali, anche per essere stati entrambi commissari straordinari di bertolasiana nomina per i Mondiali di Nuoto di Roma 2009. Ebbene, le autorità bancarie del Lussemburgo hanno comunicato, in risposta a una rogatoria proveniente dai pm perugini, che Balducci e Rinaldi hanno chiuso due conti, grazie allo Scudo Fiscale, presso l'Unicredit Luxembourg Sa, mentre risultano ancora in funzione due conti anonimi di cui sono però beneficiari Balducci e Rinaldi, aperti a nome Cordusio Spa, società fiduciaria per azioni facente capo direttamente ad Unicredit: il numero 507600 contenente 3milioni e 97mila euro, e il 507601 contenenti 2milioni e 14mila euro. Ed è proprio la Cordusio Spa la traccia "di cricca" tra Tarquinia e Montalto di Castro. Al comune di Tarquinia, infatti, in data 10 agosto 2007 è stata presentata una richiesta per la costruzione di un cementificio, business in crescita costante, da parte di Iniziative Industriali srl, società con sede a Rimini. Questa società è stata creata con un capitale di appena 10mila euro, 9.999 dei quali versati proprio dalla Cordusio Spa mentre 1 euro è bastato a tal Roberto Bandini, riminese, per essere nominato amministratore unico della Iniziative Industriali srl. Ma gli strani collegamenti non finiscono qui. Il progetto, infatti, è la fotocopia di quello relativo al cementificio di Montalto di Castro di proprietà della Cal.Me. Spa, società della famiglia Speziali di Catanzaro, al cui vertice troviamo il senatore Vincenzo Speziali (Pdl), componente dell'ufficio di presidenza dei Circoli del Buon Governo di Marcello Dell'Utri. Per capire come il progetto presentato dalla Iniziative Industriali srl sia esattamente quello del cementificio di Montalto di Castro basta leggere le carte dello studio ambientale redatto il 6 agosto 2007 e rivisto il 16 giugno 2008, a pochi giorni dalla presentazione del progetto presso il Comune di Tarquinia. Ebbene, nel valutare i venti che influiranno sulla dispersione dei "veleni" del cementificio, è stata riportata la valutazione effettuata dalla stazione di rilevamento presso la centrale termoelettrica Enel di Montalto di Castro. Non solo: a pagina 22 dello studio ambientale, nella valutazione dell'impatto previsto, che si basa proprio sullo studio dei venti, viene letteralmente riportato come "l'abitato di Montalto di Castro, che si trova a circa 3 km in direzione sud-est rispetto all'impianto, si trova sopravento". Peccato, però, che Montalto di Castro disti dal cementificio della Iniziativa Industriali srl oltre 25 km. Ma precisamente 3 km dal cementificio della Cal.Me.Spa. Senza considerare che nel prospetto del cementificio di Tarquinia si segnala la presenza di corsi d'acqua che in realtà sono inesistenti su quel territorio e che si parla di rispetto delle distanze dai corsi del Tafone, Tafoncino e Acqua Bianca che in realtà si trovano a ben 25 km di distanza. Ma a poco più di 150 metri dal cementificio di Montalto di Castro. Che sia proprio quello tra Civitavecchia, Tarquinia e Montalto, passando per il Lussemburgo e giù fino a Catanzaro, un chiaro esempio di "circolo del buon governo"?

Liberazione 21/05/2010, pag 1 e 5