domenica 31 maggio 2009

Le presenze degli europarlamentari

Le presenze degli europarlamentari. Con qualche sorpresa italiana

Ma quanto si impegnano i parlamentari europei? Lontani dai loro Paesi, non hanno il fiato sul collo dell’opinione pubblica. Almeno finora. Dalla scorsa settimana per sapere che cosa hanno fatto gli eletti a Bruxelles nell’ultima legislatura basta andare sul sito VoteWatch.eu: è una lente d’ingrandimento sulle attività dei parlamentari. Che mostra le presenze in Aula, i discorsi e le richieste per ogni rappresentante europeo. Gli italiani hanno già totalizzato un record ( http://www.votewatch.eu/cx_countries.php?euro_tara_id=1 ): sono i meno presenti alle Assemblee plenarie. Varcano la soglia dell’Europarlamento, in media, sette volte su dieci: il 20 per cento in meno dei virtuosi austriaci, estoni, finlandesi. Per esempio, Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione, ha risposto all’appello nel 62 per cento delle occasioni. Massimo D’Alema, invece, nel 61 per cento. Per vedere in dettaglio le attività dei nostri europarlamentari basta cliccare qui ( http://www.votewatch.eu/cx_rezultate_cautare.php?tip_cautare=search_meps&search_pressed=1 ), selezionare “Italy” dall’elenco delle nazioni e cliccare su “search”. Gli stacanovisti del Parlamento europeo (100 per cento di presenze) sono tre: la francese Margie Sudre, la greca Manolis Mavrommatis e il rumeno Iosif Matula.

L’idea di VoteWatch è stata lanciata da un giovane team di volontari guidato da Sara Hagemann, consulente dell’European policy center: ha ricevuto finanziamenti da istituzioni pubbliche e private e può contare sul supporto della London School of economics e dell’Università libera di Bruxelles. I dati sono raccolti dai siti web dell’Unione europea. Nelle intenzioni dei fondatori, dopo le prossime elezioni di giugno, Votewatch entrerà in piena attività per controllare gli impegni nelle aule di Bruxelles. Non è l’unico progetto del suo genere: dopo l’elezione di Barack Obama alla Casa Bianca, sono stati proposte iniziative simili per monitorare l’attività dei funzionari pubblici. Durante il periodo di passaggio di consegne da Geroge Bush a Obama, è stato attivo il sito Change.gov. Poi è stato lanciato il portale Recovery.gov per monitorare le destinazioni della spesa pubblica per il salvataggio dell’economia degli Stati Uniti

http://209.85.129.132/search?q=cache:sSYWIi9ua4sJ:blog.panorama.it/mondo/2009/05/18/bruxelles-le-presenze-degli-europarlamentari-con-qualche-sorpresa-italiana/+presenze+italia+parlamento+europeo&cd=3&hl=it&ct=clnk&gl=it

Attivita' dei parlamentari
http://www.votewatch.eu/cx_rezultate_cautare.php?tip_cautare=search_meps&search_pressed=1

Parlamento Europeo: Sito

Parlamento Europeo

http://www.europarl.europa.eu/news/public/default_it.htm

Paola Caridi: Blog

Paola Caridi

http://invisiblearabs.blogspot.com/

Perché l’Occidente non capisce Al Jazeera

Donatella Della Ratta
giornalista, autrice di Al Jazeera. Media e società arabe nel
nuovo millennio, Mondadori, Milano 2005

La relazione complessa fra il mondo occidentale e la rete televisiva
araba Al Jazeera, sotto i riflettori globali dal post undici settembre, è venuta
formandosi, in questi anni, attorno a una reazione piuttosto che
a un’interpretazione. Nel clima di forte emotività seguito agli attentati
alle Twin Towers, coloro che hanno accusato questa televisione di mobilitare
al terrorismo, come quelli che l’hanno citata ad esempio di libera
espressione contro le pressioni incrociate dei governi americano e
arabi, hanno entrambi dimostrato di reagire ad Al Jazeera invece che
provare ad interpretarla. Nel tentativo di classificare Al Jazeera pro o
contro qualcuno o qualcosa, si è venuto così a svilire il ruolo che la rete
sta giocando nelle società arabe e nel complesso globale.
Il rapporto fra il mondo occidentale e Al Jazeera si è così costruito
su un iniziale livello di polarizzazione immediatamente travasata sul
piano dei contenuti, come se questi oscillassero fra l’apertura all’Occidente1
e la presa di posizione violenta nei confronti delle sue politiche
e dei suoi valori.
Due considerazioni smentiscono questa supposizione: prima di tutto,
la centralità del tema “Occidente”. Dall’analisi dei palinsesti della rete
risulta evidente che il cuore delle narrative di Al Jazeera non è certo
l’Occidente, quanto piuttosto il mondo arabo2. In secondo luogo, le
modalità con cui questo tema viene affrontato. Se si guarda, ad esempio,
la copertura informativa di eventi come le elezioni presidenziali
Usa del 2004, è evidente che la strategia del canale non va in direzione
di attaccare, quanto piuttosto di spiegare. “From Washington” (Min
Washington), programma di approfondimento dalla capitale americana
condotto da Hafez Al Mirazi, è infatti, rispetto ai talk show incendiari
che hanno reso famosa Al Jazeera in tutto il mondo arabo, una tra2
smissione pacata che tende ad analizzare piuttosto che ad alzare polemiche3.
L’intelligente strategia editoriale non applica il modulo televisivo
del talk show aggressivo (efficace nel mondo arabo, da sempre prigioniero
di un’informazione dominata da tabù e silenzi obbligati) alle
trasmissioni sulle elezioni Usa, che vanno piuttosto comprese e inquadrate
nei meccanismi della cultura politica americana. Inoltre, un’indagine
effettuata nel 2002 dalla Gallup (società americana leader nel
campo delle opinion poll) rivela che, su un campione di spettatori televisivi
di nove diversi paesi arabi, il pubblico della rete qatarense è più
aperto e favorevole all’Occidente4.
Quello che emerge dai contenuti di Al Jazeera non è dunque una visione
“anti”, ma piuttosto una visione “diversa” dalla narrazione occidentale
al cui monopolio siamo culturalmente abituati. E forse a disturbare
è proprio il fatto che la rete legga alla luce dei suoi propri valori
gli avvenimenti della contemporaneità. È l’affermazione su scala globale
del punto di vista arabo, fino a poco prima assente, che spiace tanto
da rivoltarlo in negativo e definirlo “antiamericanismo”; quando invece
si tratta, in positivo, di “arabismo”.
Il misunderstanding sui contenuti condiziona fortemente il primo
impatto con Al Jazeera, ma a un livello più profondo è piuttosto la questione
della forma della rete che impedisce di interpretarla nella sua
reale dimensione di fenomeno innovativo per le società arabe e per il
sistema mediale globale. Nella forma di Al Jazeera, l’analista abituato
ai parametri “occidentali” in uso nello studio dei media5 intravede una
serie di ambiguità: nella sua struttura, che si fonda sull’indipendenza
editoriale e sulla dipendenza finanziaria; nella sua natura “filosofica”
di media libero, ma privo di attributi giuridici che fissino, al di là del
tempo e dello spazio, questo principio; nel suo essere tribuna mediale
aperta e democratica, laddove la società di cui è espressione è invece autoritaria.
Su questi attributi apparentemente contraddittori si basa la
fragilità, e allo stesso tempo la forza di Al Jazeera, visibili se si prova ad
analizzare questa televisione nello specifico contesto politico e mediale
del mondo arabo, piuttosto che inserirla dentro cornici maturate in
ambiti culturali occidentali.
Proviamo a riflettere su una delle questioni centrali nell’interpretazione
ambigua che l’Occidente tende a dare di Al Jazeera: la confusione
negli assetti proprietari della rete fra finanziamento “pubblico” e
statuto privato. Al Jazeera introduce infatti un concetto piuttosto dissonante
per gli analisti occidentali: quello per cui è possibile dichiararla
canale indipendente e commercialmente orientato, mentre finanziariamente
rimane nelle mani del governo. Il capitale di Al Jazeera deriva
da una sovvenzione dello stato, che non è possibile nemmeno definire
pubblica, poiché non viene generata da una tassa versata dai cittadini
su modello del canone, ma discende interamente da risorse economiche
allocate dal governo. D’altra parte, la prima precisazione che
va fatta riguarda la difficoltà, dentro un modello di stato rentier (come
sono quelli del Golfo)6, nel distinguere fra il patrimonio della famiglia
reale e il patrimonio dello stato. Questa differenziazione è infatti piuttosto
sfumata, poiché introdotta tardivamente nel contesto locale – soltanto
nel 1950 – su pressione esterna e non a seguito di una domanda
interna7. La presenza del governo (cioè della famiglia reale) dentro Al
Jazeera non si traduce solo nel finanziamento diretto al canale, ma anche
nella posizione occupata dentro il consiglio di amministrazione
della rete, e nella metodologia con cui i suoi membri vengono selezionati.
Il presidente del canale è infatti Sheikh Hamad bin Thamer Al
Thani (membro della famiglia reale), mentre i restanti sei consiglieri di
amministrazione vengono scelti fra personalità ed esperti di media –
non necessariamente qatarensi – direttamente dal governo8.
Con un simile assetto proprietario e finanziario, è facile che l’indipendenza
editoriale di Al Jazeera venga messa in discussione. Al Jazeera
sarebbe infatti una televisione di proprietà del governo, finanziata
dal governo, con un consiglio di amministrazione scelto dal governo, e
però allo stesso momento pretenderebbe di esserne editorialmente slegata.
Un paradosso a cui è difficile credere, e infatti sono in molti ad
aver accusato Al Jazeera di essere liberale e aperta su tutto, tranne su
quello che coinvolge direttamente il Qatar: la situazione dei diritti
umani nel paese, la discriminazione degli espatriati rispetto alla popolazione
autoctona, le elezioni legislative promesse eppure mai realizzate,
i legami commerciali con Israele e, soprattuto, la massiccia presenza
militare e commerciale degli Stati Uniti sul suolo nazionale9. Al Jazeera
si difende dicendo che il Qatar subisce un trattamento simile agli altri10,
ma per il fatto di essere poco popolato e geopoliticamente meno
“pesante” di vicini come l’Arabia Saudita, gli viene assegnato di conseguenza
meno spazio televisivo.
Eppure, la coerenza sulla scelta de “l’opinione e l’opinione contraria”
(lo slogan della rete) è una strategia che rende Al Jazeera indipendente
editorialmente dal governo che la spesa, facendo guadagnare a
quest’ultimo, di rimando, prestigio e visibilità. Il vantaggio è reciproco,
poiché la vetrina aperta da “parlamento satellitare”, che trasforma Al Jazeera
nel “paese” più democratico del Medio Oriente, fa gioco al paese
reale, diventando strategia di diplomazia pubblica nelle mani dello stato
del Qatar. D’altra parte, per aver dato i natali a quest’innovativo
“strumento di marketing”11, il Qatar è ormai «prigioniero di se stesso»12,
nel senso che non può sottrarlo così facilmente dall’arena pubblica dove
l’ha scagliato. In un certo senso, il Qatar ha l’obbligo di mantenere
in vita Al Jazeera. E il paradosso che ne consegue è che Al Jazeera non
può fare a meno del Qatar, il quale a questo punto è la sua garanzia di
libertà: ovvero «il canale non può assolvere alla funzione che gli è stata
demandata dalle autorità dell’emirato se la sua indipendenza editoriale
non viene rispettata»13.
A causa di quest’apparente paradosso, il problema reale di Al Jazeera
non è tanto l’indipendenza editoriale – che le è garantita “d’ufficio”
per assolvere la sua funzione di strumento della diplomazia qatarense
– quanto quella finanziaria.
Nonostante il periodo di sovvenzionamento del canale da parte del
governo dovesse avere termine a cinque anni dal lancio, nei fatti questo
non è mai avvenuto. Ancora oggi, a nove anni dalla messa in onda
del primo programma di Al Jazeera, la rete è legata al finanziamento
governativo per la sua sopravvivenza. In questa situazione, è naturale
che molti osservatori si chiedano come è possibile che un canale diventato
ormai un brand globale – il quinto più famoso al mondo14 –
possa versare in una situazione economica così fragile da essere ancora
alle dipendenze finanziarie di quello stesso soggetto che, all’atto della
nascita, aveva stabilito un tempo preciso per il singolare “prestito”. Secondo
le leggi di mercato, un canale che ha collezionato scoop globali
e venduto le sue immagini ai network del mondo intero dovrebbe essere
un canale che guadagna. Secondo le leggi di mercato, una rete fondata
su obiettivi commerciali, che dopo nove anni di attività non si sostiene
economicamente, dovrebbe trovarsi in bancarotta o chiudere i
battenti. Ma la situazione di Al Jazeera, piuttosto ambigua agli occhi di
un analista occidentale, trova la sua ragion d’essere nella particolarità
del mercato arabo. La principale spiegazione si chiama Arabia Saudita:
il paese controlla l’andamento della pubblicità panaraba e, per motivi
facilmente identificabili – la libertà che i programmi della rete dimostrano
nel trattare le politiche dei regimi del Golfo, specialmente quello
saudita – Al Jazeera da anni soffre di un «embargo di fatto»15, le cui
conseguenze in termini di raccolta pubblicitaria e, perciò, anche di indipendenza
finanziaria, sono considerevoli.
Questa tendenza è evidente se si analizza la tabella con i ricavi pubblicitari
fornita dal centro studi panarabo Parc: nel 2003 i ricavi pubblicitari
sono poco più di 39 milioni di dollari, mentre nel 2004 arrivano
a circa 49 milioni di dollari. Una cifra comunque irrisoria, se paragonata
al suo successo globale e alle sue potenzialità, e che comunque va intesa
sempre “esclusi gli sconti”16. Ma è soprattutto la natura delle inserzioni
pubblicitarie su Al Jazeera ad essere spia del malfunzionamento
del mercato pubblicitario panarabo, i cui grossi investitori multinazionali
sono controllati, attraverso le filiali locali, dall’Arabia Saudita. Fra il
2003 e il 2004, tra le prime quindici marche che promuovono i propri
prodotti su Al Jazeera, soltanto la Kinder è una ditta internazionale e si
trova, fra l’altro, al quattordicesimo posto17; mentre i principali inserzionisti
della rete sono quasi tutti locali, spesso legati a imprese governative,
come Q-tel, Qatar General Petroleum o Qatar Gas18.
I grandi brand dell’advertising internazionale sono scarsamente presenti,
con piccoli investimenti che fra l’altro diminuiscono fra il 2003 e
il 2004. Una conseguenza indiretta, ma significativa, della copertura
della guerra all’Iraq, “sgradita”, oltre che all’Arabia Saudita, anche agli
Stati Uniti19.
La situazione provocata dal boicottaggio pubblicitario genera un altro
grande paradosso: Al Jazeera viene finanziata dallo stato del Qatar
non soltanto direttamente, attraverso il “prestito” che continua ad erogare
al canale, ma anche indirettamente, coprendo il vuoto pubblicitario20
con la promozione di prodotti e servizi nazionali, spesso legati al
governo stesso. Di fatto, il governo controlla le due principali fonti di
finanziamento del canale, cioè il sussidio pubblico e la pubblicità.
A questo punto è facile sospettare che il vantaggio a sponsorizzare
una rete in perenne perdita economica, oltre a quello già sottolineato
di immagine, sia di natura politica e ideologica. Eppure quello che oggi
appare essere Al Jazeera è un progetto di sviluppo, con un’immediata
ricaduta politica. Il Qatar sembra essersi dato come missione quella
di fornire, attraverso i media, gli strumenti per educare la società allo
sviluppo “democratico”, pur rimanendo questo un disegno predisposto
in maniera autocratica. Il punto che risulta difficilmente comprensibile
ad occhi occidentali è come possano nascere media liberi – con
il compito di educare e di promuovere lo sviluppo – da una società che
non è libera. Difficilmente si riesce, cioè, a comprendere come un media
originato da un regime autoritario, e non da un impulso della società
civile peraltro debolissima, possa contribuire in direzione di un’apertura
democratica. L’unica funzione politica che si viene così ad assegnare
“d’ufficio” ad Al Jazeera è quella mobilitativa, intesa nella sua
accezione populista (e negativa) di agitazione delle masse verso l’inasprimento
dei caratteri antidemocratici e in direzione del sollevamento
contro il modello “democratico” dell’Occidente. Questa paura, spesso
espressa dai critici di Al Jazeera, nasce da un’incomprensione culturale:
l’impossibilità di concepire che un media nato da un gene autoritario
sviluppi semi democratici. Eppure, per analizzare il possibile impatto
della rete qatarense come di tutto il broadcast panarabo sulla società
regionale, è necessario scrollarsi di dosso questa convinzione maturata
in un ambito culturale e sociopolitico, quello occidentale, estremamente
differente: e accettare che «i canali satellitari arabi sono molto
più che un semplice mass media: possono essere agenti di cambiamento,
e il loro ruolo è in molti sensi imparagonabile a quello dei media
occidentali»21.
Ciò significa, in concreto, che i canali all news arabi, Al Jazeera in testa,
potrebbero prendersi carico di alcune delle funzioni che tradizionalmente
vengono ricoperte dai partiti. Alcune, ma non tutte: poiché,
per far lavorare la funzione mobilitativa dei media arabi in direzione di
un’apertura democratica delle società e dei governi, c’è bisogno di istituzioni
che agiscano, che portino avanti programmi politici, che galvanizzino
azioni politiche. Se non esiste contraddizione nell’integrarsi,
dentro i palinsesti di Al Jazeera, della funzione informativa (caratterizzata
dal tentativo di essere equilibrata e pluralista) e di quella mobilitativa
(che deve educare e attrarre, per spingere all’azione partecipativa),
a condizione che la prima mantenga caratteristiche di apertura a
diversi punti di vista, il vero problema resta però l’assenza di una sponda
istituzionale. Se cioè la funzione mobilitativa di Al Jazeera resta una
funzione soltanto suppletiva, mentre manca la possibilità di tradurre la
mobilitazione virtuale in un contesto istituzionale fatto di atti e organismi
concreti, allora il rischio è che la mobilitazione satellitare resti
chiusa fra gli schermi e le parabole o che si dispieghi in una direzione
pericolosa. Ed ecco come la potenzialità iniziale che i media arabi funzionino
da agenti di cambiamento democratico può risolversi in un
nulla di fatto, addirittura aggravando la situazione.
Eppure, l’assenza di istituzioni garanti che il dibattito iniziato da Al
Jazeera in tv si trasformi in azione e partecipazione politica reale, non
è certo imputabile alla rete. Di fondo, Al Jazeera è e resta soltanto una
televisione. Ed è proprio questo il punto: non si tratta di differenze culturali,
quanto della natura stessa della televisione, della sua forma tecnologica
e della sua struttura finanziaria, che orientano il mezzo ad
una funzione spettacolare piuttosto che partecipativa. Lo ha sottolineato
molto bene, nei suoi studi sulle società dei media di massa, il sociologo
francese Guy Debord: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano
le condizioni moderne di produzione si presenta come
un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente
vissuto si è allontanato in una rappresentazione», mentre, di converso,
«la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello
spettacolo. (...) La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale
»22. Secondo le riflessioni di Debord, dunque, è la natura spettacolare
dei media di massa, prima di tutti proprio della televisione, a far retrocedere
la partecipazione nella sfera virtuale della contemplazione, piuttosto
che in quella dell’azione concreta. Ma questo sarebbe un problema
di tutti i mass media – implicito nella loro stessa natura – e non
una questione ideologica o culturale relativa ad Al Jazeera. «Andare oltre
la dimensione dello spettacolo», come lo studioso Jon Alterman23
augura ai canali satellitari arabi, sarebbe un’operazione forse contro natura
per la televisione, ancora di più se si guarda ad un trend globale
che, al contrario, tende ad accentuarne le caratteristiche spettacolari.
In quest’ottica resta preziosa la proposta dal sociologo Mohamed
Zayani: analizzare l’impatto di Al Jazeera sulla sfera pubblica24 e sulla
formazione di un’opinione pubblica panaraba, piuttosto che concentrarsi
sulle possibilità di portare la democrazia attraverso i media.
Esportare la democrazia con i media potrebbe essere un procedimento
fuorviante, poiché confonde la natura spettacolare del mezzo con quella
partecipativa. Ma se Al Jazeera non può cambiare direttamente le politiche
arabe, potrà senz’altro avere un impatto sulle modalità con cui
queste vengono percepite e dibattute nella sfera pubblica, esercitando
su di essa un’azione in direzione di un auspicato dinamismo.

1 Useremo il termine “Occidente”, ben consapevoli che è una generalizzazione (cfr. E. W.
Said, Orientalism, Pantheon Books, New York 1978), per indicare sia le entità geopolitiche
dell’Europa e degli Usa; sia, allo stesso tempo, per far riferimento al complesso di valori di
cui queste si fanno simbolicamente promotrici davanti al mondo intero.
2 Circa il 73% della sua copertura giornalistica è centrata sul mondo arabo. Cfr. M. El-
Nawawy, A. Iskandar, Al Jazeera: How the Free Arab News Network Scooped the World and Changed
the Middle East, Westview Press, Cambridge Mass. 2002.
3 A questo proposito, Al-Mirazi ha sottolineato: «Questo è il mio stile. (...) È un’occasione
per la nostra audience di conoscere il sistema politico americano. (...) Vogliamo sapere
da dove vengono gli americani, perché prendono queste decisioni. Più educazione dai al tuo
pubblico, e più il tuo pubblico apprezzerà e capirà gli altri». L. Wise, Interview with Hafez Al-
Mirazi, in Transnational Broadcasting Studies On Line, 2004.
4 Cfr. Lydia Saad, Al Jazeera Viewers Perceive West Differently, Gallup Poll tuesday briefing,
23.4.2002.
5 Si fa riferimento a tutti quei parametri utilizzati nello studio dei media in ambito occidentale:
parametri, fra gli altri, di tipo economico (modello di finanziamento pubblico tramite
erogazione del canone da parte dei cittadini; modello di finanziamento privato mediante
pubblicità e sponsorizzazioni; modello misto pubblico-privato; modello di finanziamento
diretto da parte dell’utente per mezzo di abbonamento, pay-per-view, eccetera)
che implicano un certo assetto proprietario; ma anche a parametri giuridici, ovvero a tutto
il complesso di leggi che in Europa e negli Stati Uniti garantisce la libera espressione a mezzo
stampa e TV, l’indipendenza di queste dal governo, eccetera.
6 Per approfondimenti, si veda G. Crystal, Oil and Politics in the Gulf. Rulers and Merchants
in Kuwait and Qatar, Cambridge University Press, Cambridge 1995.
7 Cfr. op. cit.
8 Fonte: Al Jazeera Channel Media Relation Department.
9 Secondo Jihad Fakhreddine, analista della Parc, infatti «il punto più debole di Al Jazeera
è proprio la relazione ambigua che lega il Qatar con gli Usa, relazione che la rete evita
fortemente di toccare e affrontare nei suoi programmi». Intervista personale, Dubai, gennaio
2005.
10 In un episodio del programma “Without borders”, il 15 novembre 2000 il giornalista
Ahmad Mansour ha intervistato Hamad Ben Jassim, ministro degli esteri del Qatar, trattando
apertamente la questione dei rapporti fra il governo e Al Jazeera. Nel corso di altre trasmissioni
è stata anche affrontato il tema della presenza militare Usa, ma con un tono piuttosto
“neutro”. Cfr. O. Lamloum, Al-Jazira, miroir rebelle et ambigu du monde arabe, Editions
La Découverte, Paris 2004.
11 Cfr. N. Sakr, Satellite Realms. Transnational Television, Globalisation and the Middle East, I.
B. Tauris, London 2001.
12 O. Da Lage, intervista personale, Parigi, marzo 2005.
13 O. Lamloum, Al-Jazira cit.
14 Secondo una ricerca di Brand Channel, gennaio 2005.
15 Così nelle parole di Jihad Ali Ballout, portavoce della rete. Cfr. D. Della Ratta, Al Jazeera
la tv in onda dall’inferno, “Il manifesto”, 19.3.2003.
16 Fonte: PARC (PanArab Research Center), Ad revenues in PanArab channels 1996-2004.
17 Fonte: PARC, Ad spending on Al Jazeera 2003-2004.
18 Q-tel è al terzo posto, con 4,913 milioni di dollari; Qatar general petroleum company è
al quarto, con 4,163 milioni di dollari; Qatar Gas è al quinto, con 3,772 milioni di dollari;
Qatar Electric al settimo con 3,175 milioni di dollari; Qatar Airways al nono, con 2,309 milioni
di dollari; Qatar festivals al dodicesimo con 1,858 milioni di dollari. Fonte: PARC, Ad
spending on Al Jazeera, 2003-2004.
19 Non vogliamo sostenere un’intrusione diretta degli Stati Uniti negli affari pubblicitari di
Al Jazeera: si tratta, piuttosto, di un’autocensura o comunque della deliberata scelta degli investitori
di non legare i proprio prodotti all’immagine di un’emittente che ha trasmesso immagini
“controverse” come quelle degli ostaggi occidentali.
20 Il tempo dedicato alla pubblicità su Al Jazeera sarebbe scarsissimo: «Chi guarda Al Jazeera
per più di qualche minuto noterà immediatamente una delle principali differenze con
le altre reti all news: la quota bassissima di spot pubblicitari. Al Jazeera ha soltanto da 40 a
45 minuti di pubblicità al giorno, mentre Cnn ne ha 300 minuti». H. Miles, Al Jazeera. How
Arab TV News Challenged the World, Abacus, London 2005. Nel 2004 sarebbero scesi a soli
25 minuti giornalieri. Fonte: Moussa Nuseibeh, capo advertising di Al Jazeera.
21 K. Hafez, Arab Satellite Broadcasting: An Alternative to Political Parties?, in Transnational
Broadcasting Studies on Line, 13, 2004.
22 G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 1997.
21 Jon B. Alterman, The Key is Moving Beyond Spectacle, in “The Daily Star”, 27.12.2004.
24 Nel senso che attribuisce al termine Jürgen Habermas (public sphere). Per approfondimenti
si veda J. Habermas, The Structural Transformation of the Public Sphere, Cambridge Mit
Press 1989.

http://www.dominoloop.it/mediaorien/articles/occidente_aljazeera.pdf

Lo sceicco e la Gioconda

Donatella Della Ratta
GRANDI MUSEI Parigi, Atlanta, e adesso Abu Dhabi. Che cosa ci fa il nudo della Venere di Milo negli Emirati Arabi, sotto il marchio del Louvre? Scambi culturali, si dirà. No. Un business milionario. Ovviamente reciproco.

Non solo giganteschi grattacieli e hotel superlusso. Il lungomare di Doha, capitale di un Qatar in continuo boom edilizio, riserva una piccola sorpresa se paragonata alle dimensioni supersize degli edifici che la circondano. È il Museo di arte islamica, e il suo progettista, l'architetto sino-americano Leoh Ming Pei, non è nuovo a idee eccentriche. Il mondo parlò di lui quando osò mettere a fianco di uno dei templi della cultura, il Louvre di Parigi, una piramide hi-tech e ultramoderna. E forse proprio questo coraggioso contrasto fra antico e moderno è piaciuto ai governanti del Qatar che lo hanno convocato per dare forma a quello che è destinato a essere uno dei maggiori musei di arte islamica. Un progetto da 45 mila metri quadrati realizzato a ridosso del mare: cinque piani fra negozi, caffetteria, auditorium, biblioteca e sale espositive, costati 800 milioni di rial qatarini (quasi 170 milioni di euro). Bazzecole per un Paese che è il terzo produttore al mondo di gas, oltre a essere uno dei maggiori alleati degli Stati Uniti (ospita la più grande base americana in Medio Oriente, primato sottratto alla vicina Arabia Saudita). Ma l'intelligente strategia dell'emiro Al Thani, al potere dal 1995, è andata oltre il binomio energia e difesa, che da sempre caratterizza la politica di investimenti nel Golfo. Prima Al Jazeera, l'emittente araba più famosa del mondo, che ha trasformato lo Stato in un impero mediatico con all'attivo un intero network di canali tematici (gli ultimi due, quello in inglese e quello di documentari, hanno debuttato recentemente). Ora è il turno dell'arte, a quanto pare uno dei business del futuro nel Golfo. Anche Abu Dhabi, capitale dei vicini Emirati Arabi Uniti, si sta attrezzando. Il piccolo emirato ha siglato un accordo milionario con il Louvre, per aprire una filiale nel deserto, e una partnership con il Guggenheim. E a sua volta Art Paris, la fiera francese di arte contemporanea, ha annunciato che il prossimo 26 novembre organizzerà, in un lussuoso palazzo di Abu Dhabi, la sua prima edizione targata Golfo. Con tanto di visite riservate solamente alle donne, in rispetto dei costumi locali. Molti si sono chiesti come farà il boom dell'arte nel Golfo ad andare d'accordo con i parametri culturali locali, che non ammettono ad esempio la rappresentazione di corpi nudi. "Non credo sarà un problema esporre nel nostro Paese arte occidentale, anche quella che rappresenta il nudo", sostiene Mohammed Yusuf Siddiq, professore di storia dell'arte, architettura e archeologia del mondo islamico all'Università di Sharjah, negli Emirati. "Il nuovo Louvre di Abu Dhabi potrebbe contenere una sezione dedicata esclusivamente alle arti occidentali, proprio come succede nei vostri musei con le sezioni islamiche. In questo contesto potrebbe essere accettabile l'esposizione di statue e dipinti di nudi del vostro patrimonio artistico". Ma dove si va a fare shopping di capolavori o di artisti emergenti? "Esporre pezzi d'arte nei musei non fa parte della tradizione di quest'area", osserva Ismail Azzam, curatore del Museo di arte orientalista di Doha, che raccoglie 550 tele di famosi pittori europei suggestionati dall'Oriente, da David Roberts a Turner. Nel Golfo non solo manca la rappresentazione artistica figurativa - vietata nella religione islamica - ma anche una tradizione espositiva. Nonostante la presenza di siti archeologici, l'idea di conservare ed esporre reperti è recente almeno quanto la vita di questi Stati. Il Qatar ha ottenuto l'indipendenza soltanto nel 1971: il primo museo ha aperto nel 1975, dopo una raccolta collettiva di manufatti tra la popolazione locale, incoraggiata dall'emiro dell'epoca. Come dire: ogni cittadino è chiamato a dare un pezzo della sua storia per organizzare quella del Paese. "Bisogna avere cura del passato ed educare i nostri cittadini a conoscerlo", sostiene Azzam. "I musei sono importanti per costruire l'identità degli Emirati Arabi Uniti", aggiunge Saif Al Bidwawi, professore di storia all'Università di Sharjah. "Il Paese sta improvvisamente cambiando in tutti gli aspetti della vita quotidiana ed è fondamentale che non si perda di vista il senso del passato". Ma spesso il passato bisogna comprarlo all'estero. Qualche anno fa fece scalpore la storia di Saud Al Thani, cugino dell'emiro del Qatar incaricato di acquistare reperti per i futuri musei del Paese. In otto anni ha speso un miliardo di sterline, con la scusa che "diversamente dalla Turchia o dall'Egitto, noi non abbiamo una tradizione storica". Una storia che andava assolutamente acquistata, anche a costo di pagare 94.850 sterline (oltre 144 mila euro) una ceramica iraniana che ne valeva 1500. Fino a che l'emiro del Qatar non ha messo sotto inchiesta il cugino spendaccione, con l'accusa di usare i fondi pubblici, destinati al patrimonio museale, per arricchire le sue collezioni private. "È uno scambio reciproco", dice Siddiq. "Anche il Louvre ha raccolto negli anni reperti di arte islamica in Mesopotamia, Egitto e Siria. Adesso tocca a noi prendere in prestito l'arte occidentale e mostrarla". Pensando alla Gioconda e a tutti i capolavori d'arte italiana che hanno contribuito a fare la fama mondiale del Louvre, come dargli torto. Anche se i nuovi mecenati, ormai, crescono sotto il sole del deserto. E sono dei veri uomini d'affari: la loro missione è trasformare l'arte in una nuova rendita, alternativa al petrolio, e un incentivo all'incremento del turismo. "La cultura è stata identificata come il settore in cui Abu Dhabi può differenziarsi da altre offerte turistiche presenti nella regione", dice Bassem Terkawi, pr manager della Tourist development & investment company di Abu Dhabi, che sta seguendo la trasformazione dell'isola di Saadiyat - pochi chilometri dalle coste di Abu Dhabi - in una nuova destinazione del turismo mondiale. L'isola comprenderà resort costruiti secondo principi ecosostenibili, alberghi di lusso, centri culturali, campi da golf, ma soprattutto il Cultural District, dove verranno ospitati musei e centri artistici. "L'obiettivo è attrarre 3 milioni di turisti stranieri entro il 2015, triplicando le cifre attuali", continua Terkawi. "Vogliamo stimolare interesse nella cultura e nell'arte locale, ma allo stesso tempo avere un appeal universale". E un giorno, magari, vedere la Gioconda nel deserto potrebbe non essere più un miraggio.

http://dweb.repubblica.it/dweb/2007/02/10/attualita/attualita/096ioc53596.html

Reality soap

Donatella Della Ratta
Si chiamano musalsalat. Sono le fiction in onda nei Paesi del Golfo durante digiuno sacro che condannano fondamentalismo e kamikaze

Il sole è appena tramontato e la vita riprende. È l'ora dell'iftar, il pasto che interrompe il digiuno del Ramadan, il mese sacro per i musulmani, conclusosi poche settimane fa. Nelle case, le famiglie si radunano attorno alle tavole colme di cibi e bevande. Ma soprattutto di fronte alle televisioni. Per seguire le musalsalat (musalsal al singolare), le soap opera consumate, un episodio al giorno per tutto il mese, da milioni di islamici. Dallo schermo, questa sera, arriva la voce straziata di Mona: "Ha solo 33 anni e non ha fatto niente di male!". La scena si svolge nella Londra di due anni fa, precisamente nel giorno degli attentati alla metropolitana che sconvolsero l'Occidente. Un dramma che, a quanto sembra, ha scosso profondamente anche il mondo arabo. La donna disperata del video è una musulmana. Piange il figlio, vittima delle esplosioni. "Come si possono uccidere degli uomini in nome dell'Islam?", grida. "Chi uccide degli innocenti non è un vero musulmano". La storia di Mona e della sua famiglia è stata trasmessa dalla tv libanese Lbc con il titolo - fin troppo didascalico - di Al Mariqoun ("Gli ipocriti, i finti fedeli"). A puntare sul suo successo è stato Najdat Anzour, regista e produttore siriano che non ha avuto dubbi sull'opportunità di usare la televisione per diffondere posizioni di netta condanna al fondamentalismo e al terrorismo.

Dal made in Egypt a Damasco
Se sorprende il messaggio - per il pubblico al quale si rivolge - sorprenderà ancor di più il Paese in cui queste serie vengono prodotte e girate: la Siria, uno degli "Stati canaglia" della lista nera di George W. Bush. Quest'anno, per la prima volta, Damasco ha quasi scalzato il primato dell'Egitto, fino a oggi leader nelle produzioni di soap indirizzate al pubblico islamico.

Le musalsalat sono state lanciate sul mercato dal presidente egiziano Nasser - scomparso nel 1970 - che le aveva investite di una missione politico-educativa infarcendole di riferimenti storici e di attualità. Per questo, le miniserie sono state per anni monopolio indiscusso del made in Egypt, marchio con cui hanno fatto il giro delle tv. Eppure, durante questo Ramadan, la Siria ne ha vendute alle altre reti arabe ben 45, contro le 50 egiziane. La rimonta siriana è stata possibile grazie a costi di realizzazione più ragionevoli per una qualità più pregiata e, soprattutto, alle tematiche di sicuro impatto. Come quelle trattate da Al Mariqoun, diventata il "caso" di questo Ramadan 2006. Composta da dieci trilogie di tre episodi ciascuna, scritta da sceneggiatori di tutti i Paesi arabi, la soap opera tratta i più spinosi argomenti riportati dai telegiornali: il rapimento degli occidentali in Iraq, le torture americane a Guantanamo, il fascino esercitato dal radicalismo sui giovani arabi. In una puntata (scritta da un palestinese) un combattente della resistenza in Iraq si rifiuta di far esplodere i civili in una moschea e decide di denunciare i mandanti dell'attentato; in un'altra, una giovane madre rimasta vedova si rifiuta di immolare la figlioletta di cinque anni, anche di fronte alla promessa che "andrà in paradiso, come suo padre". "Volevo parlare dell'impatto del terrorismo sulla realtà araba e sul mondo intero", dice Anzour, celebre in Siria - oltre che per essere figlio di Ismail, regista del primo film muto siriano - per le sue musalsalat storiche e per una lunga carriera di produttore alla tv di Stato. "Il terrorismo è un'industria americana al cento per cento", dichiara alludendo all'effetto boomerang che le operazioni Usa in Iraq hanno prodotto sulla reputazione americana nei Paesi arabi. "La serie apre un dibattito su questi problemi: è nell'interesse delle nostre popolazioni", dice.

Anzour non è nuovo alle polemiche per i temi provocatori che tratta. Anche se, lo scorso anno, a causa della serie del Ramadan Al Hour Al Ayn ("Le fanciulle del paradiso") più che suscitare discussioni ha attirato su di sé e sul suo cast minacce di morte. Sotto accusa, oltre all'argomento - l'attentato terroristico del 2003 contro un complesso residenziale in Arabia Saudita, 17 morti e oltre cento feriti, tutti arabi - è finito il titolo stesso della serie. Ispirato a un versetto del Corano, secondo lo sceneggiatore Abdullah Al Otaybi (ex sostenitore di Al Qaeda) è stato attinto direttamente dalla registrazione di una frase pronunciata da un terrorista. Prima di farsi esplodere, il kamikaze avrebbe urlato: "Manca un secondo alle belle fanciulle". Ce n'era abbastanza per far saltare sulla sedia mezza Arabia Saudita, mentre la tv che trasmetteva la soap - Mbc, sede a Dubai ma capitali sauditi - si affrettava a precisare che la serie non intendeva mettere in ridicolo la religione ma semplicemente sottolineare il pericolo di chi se ne serve per giustificare il terrorismo.

Il Paradiso islamico
Così Al Hour Al Ayn è andata avanti, nonostante le minacce. Mostrando la vita quotidiana di famiglie libanesi, egiziane, siriane e giordane emigrate in Arabia Saudita per cercare fortuna e rimaste coinvolte nello spietato attentato terroristico a opera di altri musulmani. Alla fine, un kamikaze in viaggio verso un nuovo obiettivo civile si interroga sul suo gesto e, clamorosamente, rinuncia. La storia è affrontata anche attraverso lo sguardo delle vittime. Per esempio quello di un artista libanese rimasto vedovo della moglie incinta, uccisa durante l'attentato. L'uomo dipinge un quadro che ritrae il figlio mai nato, il cordone ombelicale composto da lettere arabe fino a formare la frase: "No al terrorismo". "La serie era diretta proprio a coloro che ancora non hanno maturato un'opinione sul terrorismo. Vogliamo dire loro che l'Islam è una religione di tolleranza, di pace e di dialogo, e assolutamente non di violenza", spiega il regista. L'Arabia Saudita ha prodotto l'operazione (con un investimento di due milioni di dollari), ha distribuito la soap opera sulle frequenze di Mbc. E si è spinta anche oltre. Compare anche come "ghost writer": la polizia del Paese ha supportato gli sceneggiatori fornendo informazioni, dossier, immagini e registrazioni degli attentati del 2003. E rimarca un aspetto da noi scontato, ma forse per gli arabi meno chiaro: quindici dei diciannove attentatori dell'11 settembre erano sauditi e, da allora, la casa reale sta facendo di tutto per provare al mondo la ferma condanna al terrorismo e la volontà di collaborare per estirparlo. Il terrorismo al cinema D'altronde, il tema degli attentati non è nuovo alla televisione e al cinema arabi.

Già negli anni Novanta l'Egitto lo affrontava con le superstar Yousra e Adel Imam, impegnate nella commedia Al Irhab wal kebab (terrorismo e kebab), mentre lo sceneggiatore Wahid Hamed produceva la prima musalsal sulla violenza dei Fratelli Musulmani, Al Ailah (la famiglia). Era proprio il governo egiziano alle prese con la violenza interna a sostenere e diffondere questi prodotti, così come oggi è l'Arabia Saudita ad aver sdoganato, nonostante le polemiche, una soap del Ramadan che sbandiera l'argomento in prima serata in tutto il mondo arabo. Adesso, di terrorismo si può e si deve parlare. Come si può trattare il tema della polizia religiosa, della segregazione delle donne e del divieto a farle guidare. Magari scherzandoci sopra. Così vuole il nuovo corso della casa regnante saudita, percepibile anche in un altro programma tv del Ramadan appena andato in onda - sempre su Mbc - Tash ma tash (Sarà quel che sarà), commedia che mette impietosamente alla berlina i militanti dell'islamismo radicale.

Gli schermi televisivi del Ramadan si sono trasformati nello specchio dell'agenda politica dei Paesi arabi, riflettendo quello di cui gli Stati vogliono che si parli. La corruzione interna, insieme all'indifferenza dei governi alle richieste di apertura e maggiore libertà manifestate dalla popolazione, per ora sono ancora lontane dalla programmazione. Ma il filone dei rapporti fra mondo arabo e Occidente continuerà ad alimentare le portate televisive di fine digiuno del Ramadan. Già si annuncia la futura hit del Ramadan 2007: una fiction sulle reazioni del mondo musulmano alle vignette satiriche danesi del gennaio scorso. C'è da scommettere che, anche quella, aprirà un nuovo, fruttuoso dibattito.

http://www.dweb.repubblica.it/dettaglio/1884425/Reality%2Bsoap

Campus nel deserto

Donatella Della Ratta
Arabi moderni Nel Qatar le donne studiano all'americana. E iniziano a entrare nel mondo del lavoro. Grazie agli sforzi della moglie dell'emiro

Una sala affollata di studenti in un momento di pausa dallo studio. Qualcuno si rilassa sui cuscini dai disegni etno sistemati ad arte sulle gradinate, altri vanno a mettersi in fila alla mensa, così bianca da ricordare un costoso ristorante hi-tech in piena Manhattan. Ogni dettaglio è curato, dal design ultramoderno ai computer che campeggiano sui tavoli, dove si può navigare su Internet o consultare la biblioteca dell'università. È il campus americano perfetto. Solo che si trova a Doha, capitale del Qatar, nel mare azzurro del Golfo arabico. Se dici Qatar, viene in mente Al Jazeera, la televisione che ha fatto tremare governi e scatenare polemiche. Ma Al Jazeera non è l'unica rivoluzione del nuovo Qatar di Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, l'emiro che dal '95 governa il Paese con intelligenza e scaltrezza. C'è un altro Qatar che emerge accanto a quello televisivo, e sorge proprio nel campus della Qatar Foundation for Education, Science and Community Development. Se Al Jazeera è la creatura dell'emiro, Qatar Foundation è il gioiello di sua moglie, Sheika Mozah bint Nasser Al Misnad. La rivoluzione al femminile in Qatar ha dalla sua una generazione tutta nuova di donne. A cominciare dalla sua first lady, colta, intelligente, che ha voluto per il suo Paese una cosa prima di tutto: l'educazione come arma di sviluppo. Così ha creato Qatar Foundation, di cui è presidentessa, ed è volata negli Stati Uniti. Christina Lindholm, preside della Virginia Commonwealth University (Vcu), il primo campus americano a traslocare a Doha, racconta che nel '97 una delegazione dell'emiro visitò la sede della prestigiosa università di moda e design, in Virginia. L'offerta era allettante, ma anche rischiosa: trapiantare nel deserto del Qatar il know how americano, insegnare alle nuove generazioni qatarensi proprio come se si trovassero nel mezzo degli States. Stessi programmi accademici, stessi professori, stessi riconoscimenti finali per gli studenti di Doha, come se si diplomassero in Virginia. Solo alcune "piccole" differenze: in Qatar non si studia disegno dal nudo e fino ad oggi le classi sono di sole donne - anche se l'apertura delle iscrizioni agli uomini viene data per certa entro il 2008. Scommessa accettata, e si direbbe anche vinta. Nelle aule del campus foto di moda, cartelloni di grafica pubblicitaria, manichini in legno dagli abiti colorati che farebbero un figurone in una boutique londinese. Nella falegnameria ragazze indaffarate costruiscono gioielli che si potrebbero indovinare sul collo della ricca borghesia newyorkese. Ma la vera sorpresa arriva dalla facoltà di moda. È come trovarsi di fronte a un archivio globale dell'immaginario sulla bellezza femminile: abiti lunghi contornati di strass, gonne dalle fantasie etniche, pizzi e merletti e soprattutto disegni, figurine stilizzate dagli abiti succinti e avvolgenti. L'immagine di una donna sexy, audace, femminile. Che però prende forma dalle mani di donne tutte nere, tutte uguali, tutte velate, che gelosamente nascondono come un tesoro le bellezze esaltate sulla carta. "Anch'io all'inizio non ci potevo credere", racconta Sandra Wilkins, professoressa di moda approdata dagli States al campus della Vcu in Qatar. "Le nostre studentesse di qui hanno un'idea molto chiara della femminilità. Sono informate su tutto, leggono le riviste americane, viaggiano per il mondo, comprano nelle boutique haute couture di Milano e Parigi. Spesso basta che alzino il telefono e parlano direttamente con i disegnatori. Spendono per la moda e sanno cos'è la moda. Certo, quando le vedi tutte vestite con il loro abito tradizionale nero - l'abbaya - non diresti mai che possono disegnare vestiti femminili, persino osè. Poi, la prima volta che sono stata invitata a un party di sole donne qui a Doha ho capito: tutti questi abiti neri cadono e lasciano il posto a una festa di colori, di tessuti. Non ho visto mai in vita mia vestiti così seducenti e femminili", conclude Sandra. Se domandi alle studentesse della Vcu come sia possibile disegnare vestiti sexy per poi indossarli soltanto sotto l'abbaya nera o ai party di sole donne, per loro non c'è risposta, perché è del tutto normale. Come è normale che a portare le loro creazioni siano solo modelle occidentali. "Noi donne del Qatar non ci mostriamo in pubblico senza velo", dice Noor Jassim Al Thani, che porta il cognome della famiglia reale del Qatar. Noor si è diplomata alla Vcu e la sua prova d'esame è stata una collezione di abiti mostrati al Fashion Show annuale organizzato dall'università. Vestiti etnici e solari che lei immagina "indossati da una donna appassionata della vita". Ma sulla passerella a indossare le creazioni di Noor sono modelle bionde arrivate dagli Stati Uniti. Noor ha un sogno, costruire un'industria della moda tutta locale, un mix raffinato di tradizione e modernità che renda il Qatar competitivo sulle passerelle del mondo intero. Intanto sta lavorando per aprire il suo negozio, per dare forma a quella donna che vorrebbe "veder danzare in modo seducente e sorridere, inconsapevole del suo passato e del suo futuro". Ma non tutte le studentesse del Vcu hanno i sogni imprenditoriali e la determinazione di Noor. "Alcune ragazze, dopo aver preso il diploma da noi, semplicemente decidono di non lavorare", osserva la preside. "Certo, se lo possono permettere", la retta costa la bellezza di circa 40 mila dollari all'anno, anche se chi ha la nazionalità qatarense studia gratis e ad altri lo Stato fa un prestito da restituire lavorando qualche anno sul posto. "Sono donne colte, curano la loro educazione ma poi decidono di stare a casa e prendersi cura dei figli. Soltanto il 13% delle donne qatarensi lavora", conclude Lindholm. Amal Al Malki è una di queste. Giovane, molto bella, ha un dottorato in letteratura comparata alla School of Oriental and African studies di Londra. L'abbaya le copre il corpo ma non porta il velo, vera rarità in Qatar. Amal è appena stata assunta dalla Carnagie Mellon University, altro prestigioso campus americano specializzato in informatica che ha deciso di aprire una sede a Doha. È la prima donna qatarense a lavorare in un'università americana della capitale, oltretutto come insegnante, il che la mette in diretto contatto con gli studenti: "Non è certo una cosa scontata qui, perché le classi sono miste", osserva Amal, "ma il Qatar è cambiato. Ho lasciato il paese nel 1996 e sono tornata nel 2002, ho trovato una realtà incredibilmente mutata, grazie all'educazione su cui il Paese sta puntando molto. E grazie alle donne". Amal è convinta che la donna sia sempre stata il pilastro silenzioso della società qatarense: "Sheika Mozah ci ha dato visibilità e consapevolezza, ha fatto riconoscere ed accettare pubblicamente la figura della donna in Qatar". Addirittura, ha portato la causa femminile in "parlamento", o almeno in quello tutto televisivo dei Doha debates, una serie di talk show che da un anno Qatar Foundation realizza e manda in onda una volta al mese su Bbc world. Doha debates è un programma che mette a nudo i tabù delle società arabe, dalla separazione fra moschea e Stato alla possibilità di conciliare Islam e democrazia, fino al tema dell'uguaglianza fra i sessi. "Quest'assemblea crede che le donne arabe debbano avere gli stessi diritti degli uomini" è la tesi sulla quale sono stati chiamati a dibattere ospiti e pubblico in una delle ultime puntate trasmesse da Bbc world. E a sorprendere sono state soprattutto loro: le nuove donne del Qatar, in piedi senza timore davanti al microfono e alle telecamere, a esprimere la loro voglia di studiare, di lavorare, di guidare, di votare. Ma non di essere come gli uomini: "Siamo diversi biologicamente e la nostra religione ci vuole diversi", dice una giovane qatarense. "Ci sono cose che noi non possiamo fare, i nostri uomini devono farle per noi, così come noi dobbiamo farne altre per loro", taglia corto. Anche Modawi viene dal Qatar. È giovane e ha un sogno: aprire un negozio di moto, la sua passione. Adora Valentino Rossi, e sulla sua Porsche fiammante campeggiano gli sticker di Loris Capirossi. Ma lei in moto non ci può andare, perché non sta bene che una donna assuma "una posizione sconveniente". Eppure, niente nell'Islam le vieta di appassionarsi ai motori, né di guidare la sua macchina, e nemmeno di fare l'imprenditrice, costruendosi il suo futuro come più le piace. Anche lei al "Doha debates" voterebbe per la non uguaglianza fra uomini e donne. Lo dice convinta, nella sua abbaya nera, ed è bella come se portasse il più seducente degli abiti. (Donatella Della Ratta, autrice di questo articolo, ha scritto Al Jazeera. Media e società arabe nel nuovo millennio, Bruno Mondadori editore).

http://dweb.repubblica.it/dweb/2005/11/12/attualita/attualita/083cam47583.html

Tutti contro Al Jazeera

Donatella Della Ratta
Al summit di Dubai sull'informazione gli islamici, confrontandosi con gli occidentali e tra loro, scoprono di avere soprattutto un avversario comune: la tv che dal Qatar detta le nuove regole del gioco

Il colpo d'occhio è notevole, dalle scale che portano alla sala conferenze del Madinat Jumeirah Hotel di Dubai. Donne velate, uomini nel tradizionale abito lungo bianco del Golfo, europei e indiani in doppiopetto e cellulare, tutti assiepati nel salone in attesa dell'apertura dell'Arab Media Summit, due giorni fitti di incontri e conferenze. Questo mondo colorato e multiculturale è la miniatura di Dubai, città ultratecnologica degli Emirati Arabi Uniti, un milione di abitanti di cui l'80% immigrati di oltre 100 nazionalità. Un dialogo tra culture che sembra essere il leit motiv anche per questa terza edizione del Summit. "L'idea da cui siamo partiti due anni fa", spiega Mohammed Al Mansoori, organizzatore dell'incontro per conto del Dubai Press Club, "era mettere insieme le personalità del mondo dei media arabi. Ma già dall'anno scorso abbiamo deciso di allargare il tavolo del dibattito ai rappresentanti dei media occidentali, che avevano mostrato interesse ed entusiasmo per l'evento". Quest'anno il Summit ospita oltre 500 giornalisti e personalità del settore. In prima fila Cnn International, The Guardian, The Times, e naturalmente Bbc World, che trasmette un programma live da Dubai in occasione del Summit e compare come sponsor dell'evento, unico brand non arabo. "Il tema di quest'anno - "La guerra e i media" - è stato scelto per la sua rilevanza nel contesto mondiale. Durante la guerra si presentano all'attenzione del pubblico domande fondamentali: i giornalisti riportano liberamente i fatti o sono i primi strumenti nelle mani della propaganda di guerra?", dice convinta Mona Al Marri, giovanissima executive manager del Dubai Press Club, anche lei tra le fila della nuova generazione di arabe in carriera e col velo firmato. In effetti questo Arab Media Summit - lo slogan è "a meeting of minds" - batte su una serie di questioni bollenti, nel mondo arabo e non solo: a parte il case study dedicato all'analisi della copertura informativa in Iraq, a Dubai si discute di come i media occidentali dipingono gli arabi e viceversa, per capire se si possa collaborare oltre gli stereotipi. O, al contrario, se proprio i media siano "le armi di distruzione di massa del nostro secolo", come recita il comunicato stampa. A giudicare dalla piega che prende l'incontro si propende per la seconda ipotesi. La sala zeppa di telecamere e di fotografi ascolta sonnecchiando il discorso di apertura del Summit, tenuto dal Cancelliere tedesco Gerhardt Schröder, ma si risveglia di soprassalto quando, partiti capi di Stato e diplomatici, si entra nel vivo del dibattito. "Vorrei chiedere ai giornalisti occidentali, specialmente a quelli americani, di smetterla di darci lezioni sulla libertà di stampa", puntualizza Hamdi Qandeel, notissimo volto della televisione egiziana. Mentre Tim Sebastian, conduttore del popolare show della Bbc Hard Talk, prova a ribattere: "E voi arabi quanto vi sforzerete di capire le sfumature delle opinioni occidentali?". Il clima si surriscalda e volano le accuse. Tra il pubblico c'è anche Nima Abu-Wardeh di Dubai tv. Fa subito notare al collega inglese che, citando i massacri della popolazione irachena sotto il regime di Saddam Hussein, ha "volutamente tralasciato" le morti civili prodotte dalle sanzioni delle Nazioni Unite. Un tipico esempio di notizia "riportata in modo parziale", commenta. A poco vale l'equilibrio super partes di Robert Menard, direttore di Reporter Sans Frontieres: "Anche la stampa libera deve avere la consapevolezza di poter essere strumentalizzata e di potersi dunque ritrovare a fare della propaganda", dice, aggiungendo poi una domanda che gela la sala: "E però vorrei anche sapere in quale Paese arabo si rispetta davvero la libertà di stampa. E come si fa a chiedere ai giornalisti di essere credibili se i governi non gliene danno i mezzi?". Menard cerca infine la conciliazione. "Se vogliamo riuscire ad avere un dialogo dobbiamo smetterla di parlare di media occidentali e di media arabi. C'è differenza fra Bbc e Fox News, così come ce n'è fra Al Jazeera e la televisione algerina". In queste poche parole c'è il nocciolo della questione, e anche il tratto che ha caratterizzato questo Summit: il campanilismo dei media. Gli occidentali difendono i loro come se esistessero media occidentali tout court, così come gli arabi sembrano colti da un improvviso impeto di solidarietà interaraba. Ne consegue che le parti continuino a giudicare i media non per il loro operato, ma per l'appartenenza all'uno o all'altro schieramento. Intanto il pubblico abbandona l'obiettività di circostanza e festeggia apertamente tutte le prese di posizione antiamericane degli oratori. La corrispondente del Times inglese, Janine Di Giovanni, dichiara, sconfortata: "Doveva essere un "meeting of minds" e invece sembra un match di tennis". Altrettanto combattuto il capitolo che riguarda il consolidamento delle tv satellitari arabe. A tesserne le lodi - nemmeno tanto a sorpresa - è Peter Arnett, ex corrispondente Cnn ora a Baghdad come free lance, prima liquidato dalla Nbc per aver criticato gli americani poi assoldato da Al Arabiya per commentare il conflitto in Iraq. "Gli Usa hanno creato il giornalista embedded perché hanno capito che dovevano fronteggiare la concorrenza nelle news, quella araba in primo luogo. Nel 1991 io ero l'unico giornalista rimasto a Baghdad a coprire la guerra. Stavolta i reporter sul tetto dell'hotel Palestine erano 37. E io l'unico americano!". La sorpresa, quella vera, viene invece dalla platea araba, prima stretta attorno ai "suoi" media per difenderli dal "nemico" occidentale, poi pronta a scannarsi non appena si affronta il capitolo Al Jazeera. Ahmed Al Rabae, editorialista kuwaitiano, ci va giù pesante. "Le tv satellitari arabe hanno giocato un ruolo chiave nel peggiorare la situazione in Iraq sia prima che durante la guerra. E continuano, persino ora che avremmo bisogno di stabilità". Parole che sembrerebbero pronunciate da un portavoce della Casa Bianca piuttosto che da un "fratello" arabo. "Se i media ufficiali arabi hanno paura dei governi, beh, allora le tv satellitari hanno paura del pubblico, e fanno di tutto per compiacerlo". Annuiscono le teste del Golfo sedute in prima fila. Mentre Youssef Ibrahim, ex corrispondente del New York Times, contesta apertamente: "Le televisioni satellitari hanno finalmente detto agli arabi parole non dettate dai governi. È la stampa la vera spazzatura. I giornalisti saranno anche bravi, ma i giornali che pubblicano i loro articoli sono ancora fortemente sotto pressione". Altre teste annuiscono, ma stavolta nell'ombra delle ultime file. In mezzo, i giornalisti occidentali che a un certo punto iniziano a chiedersi dove sia l'oggetto del contendere: Al Jazeera. Apriamo il dépliant del Summit con i nomi degli oratori. Niente. Scorriamo velocemente la lista dei partecipanti, ancora niente. Torniamo allora da Mohammed Al Mansoori, il manager del Press Club, con la domanda da un milione di dollari. Perché tutti parlano delle tv arabe e della più famosa in Occidente qui non c'è traccia? "Abbiamo preferito invitare le grandi firme della stampa araba, sono nomi molto noti nella regione", continua un po' titubante. Telefonata a Doha, Qatar, sede centrale di Al Jazeera. Risponde Jihad Ali Ballout, portavoce della rete: "Quello di Dubai è un evento ben frequentato, agli organizzatori auguriamo buona fortuna". Gentilezze formali, tensione sostanziale. Contrariamente a quanto possono immaginare gli spettatori occidentali, infatti, Al Jazeera non è benvoluta nei Paesi arabi. I Paesi del Golfo sono in continua tensione con un Qatar che si allontana sempre più dalla politica del Gulf Cooperation Council, rompe i rapporti diplomatici con i kuwaitiani, accusa l'intoccabile Arabia Saudita di favorire il Bahrain, prepara la Costituzione e libere elezioni, firma un accordo di difesa militare di 50 anni con gli Usa. E di questa spregiudicata strategia Al Jazeera è accusata di farsi portavoce nei suoi programmi, che non risparmiano invettive pesanti contro i leader del Golfo, "ladri" e "imbroglioni". Con buona pace del giornalismo indipendente, al summit accuse e controaccuse sono tutte politiche. Tanto che dal pubblico una ragazza sui 20 anni, voce decisa, velo in testa e badge "media student" sul vestito domanda: "Se dovessimo prendere esempio da questo dibattito, come faremmo a non diventare strumenti di propaganda?". (Foto dell'agenzia AFP/De Bellis)

Com'eravamo. E come saremo Hamdi Qandeel da quarant'anni si occupa di informazione: ha visto nascere la tv egiziana all'epoca del presidente Nasser, ora assiste alla rivoluzione delle tv satellitari arabe dal di dentro. Il suo programma di approfondimento politico, Redattore capo, va in onda su Dream tv, canale satellitare egiziano che si è fatto un nome con controversi talk show su sesso, politica e attualità. Che grado di libertà di espressione c'è nei media arabi oggi? Un certo grado di libertà, maggiore rispetto al passato, soprattutto per quanto riguarda l'informazione televisiva. Ma non significa che siamo liberi di esprimerci, nemmeno nelle tv satellitari dette "indipendenti". In realtà sono sotto la pressione dei capitali privati che le finanziano e dei governi che le supportano. Comunque qualche tv all news ce la fa a sollevare questioni rilevanti e a dar spazio a voci prima soffocate. Com'erano le news nelle tv di Stato? Durante la guerra del 1967 lavoravo per la tv egiziana. Facevo il reporter, vedevo dal campo di battaglia che eravamo stati sconfitti, ma la radio continuava a dire che Israele avrebbe perso. Mi sono dovuto adeguare. A volte i militari ci suggerivano cosa dire, qualche altra volta noi giornalisti praticavamo l'autocensura. Come si potrà ottenere un grado maggiore di libertà di espressione nel mondo arabo? Sono scettico. La libertà è un valore che riguarda la società tutta, non solo i media. Il nostro problema, ma anche quello dell'Occidente, è l'autorità politica e il suo potere di interferire nella società civile. D. Della Ratta

http://dweb.repubblica.it/dweb/2003/10/25/attualita/attualita/090jaz37390.html

Donatella Della Ratta: Blog

Donatella Della Ratta

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sabato 30 maggio 2009

La Cina batte gli Stati Uniti come primo partner commerciale del Brasile

:::: 7 Maggio 2009 :::: 16:20 T.U. :::: Informazione - Geopolitica - Brasile - Cina :::: Agencia Xinhua

BRASILIA (Xinhua) – Secondo una nota diramata dal Ministero brasiliano per lo sviluppo, l’industria e il commercio estero, la Cina avrebbe superato gli Stati Uniti come principale partner commerciale del Brasile.

Secondo i dati pubblicati dal Dipartimento, il totale delle esportazioni e delle importazioni del Brasile con la Cina ha raggiunto 3,2 miliardi di dollari nel mese di aprile, supernado i 2,8 miliardi di dollari di scambi commerciali con gli Stati Uniti .

Il ministro del Commercio Welbes Barral descritto questo cambiamento come "storico", giacché gli USA sono stati stato il più grande partner commerciale del Brasile dal 1930.

Secondo le statistiche ufficiali in Brasile, il volume degli scambi bilaterali tra il Brasile e la Cina ha raggiunto 36,44 miliardi di dollari nel 2008, con un aumento del 55,9% rispetto al 2007; mentre il volume delle esportazioni dal Brasile verso la Cina sono ammontate a 16,4 miliardi di dollari, e il volume delle importazioni a 20 miliardi di dollari, che rappresentano rispettivamente aumenti del 50,8% e del 56,9% rispetto all'anno precedente.

Barral ha precisato che il governo brasiliano ha cercato di diversificare le sue esportazioni verso la Cina, che includono soia, fibre, combustibili e prodotti finiti.

Fonte: Agencia Xinhua
06/05/2009

http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkuEZpyppuFLXBDxhh.shtml

Terra e sangue. Come il razzismo sta cambiando il nostro paese

Un'anticipazione dal nuovo libro di Marco Aime "La macchia della razza" in libreria da oggi per Ponte Alle Grazie

Per gentile concessione dell'editore Ponte Alle Grazie pubblichiamo un capitolo dal nuovo libro di Marco Aime La macchia della razza. Lettera alle vittime della paura e dell'intolleranza (pp. 96, euro 8,00) in libreria da oggi. Il libro è pensato come una lettera a Dragan, un bambino rom preso a simbolo di tutte le vittime del razzismo che attraversa oggi il nostro paese.

Marco Aime
E - vi preghiamo - quello che succede ogni giorno non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: è naturale in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile.
Bertolt Brecht, L'eccezione e la regola

«Verona ai veronesi »: con questo slogan Flavio Tosi è stato eletto sindaco della sua città. Terra e sangue, ecco i nuovi valori. E soldi. Qualche sindaco è arrivato a dire che solo chi supera un certo reddito può risiedere nel comune che lui amministra. Aveva ragione Arthur Rimbaud: « C'è infine, quando si ha fame e si ha sete, qualcuno per scacciarvi ».
Terra e sangue, Dragan. Ci vantiamo di avere inventato la democrazia. Ne abbiamo fatto un genere da esportazione. Democrazia: bella parola, dal suono autorevole, sa di cose buone, come il profumo del pane, il biancore del latte. Facciamo a gara per essere più democratici dell'altro. Ci siamo avvolti nello stendardo della democrazia, l'abbiamo sbandierata, fino a ridurla a slogan quasi vuoto, marchio di fabbrica di un'officina che ha cambiato operai, produzione e modo di produrre.
Democrazia significa saper accettare la diversità, accoglierla al proprio interno, discutere con l'altro, riconoscerlo. In una democrazia tutti i valori sono ugualmente legittimi, purché non ledano i diritti degli altri. Devono esserlo. Una vera democrazia non può essere attraversata da un pensiero unico, deve convivere con le sue molte identità, saperle gestire. Deve arrendersi alla lenta e tormentata pratica della discussione, attraverso la quale costruire una forma di convivenza. «Democrazia e verità assoluta, democrazia e dogma sono incompatibili» ha scritto a parole chiare Gustavo Zagrebelsky. Bisogna saper praticare la difficile arte del dubbio.
E' faticosa la democrazia, quella vera, Dragan. E' molto più facile accettare lo slogan da esportazione, il marchio pubblicitario che esalta la bellezza e la convenienza del tuo prodotto. Il migliore, l'unico possibile.
Ecco, l'unico possibile. Lo sguardo si restringe, come a guardare dallo spioncino della nostra porta, fino a ritagliare un piccolo frammento di vita. E' vero, si può vedere il mondo attraverso un granello di sabbia ed è bello farlo, è poetico. Non lo è, però, se pensi che quel granello sia il mondo. L'unico possibile. E che quel mondo sia nostro.
Terra e sangue, Dragan, e radici. Ci siamo ridotti a piante, condannate a rimanere aggrappate a un terreno, a quel terreno che dà loro di che vivere. Eppure abbiamo piedi, Dragan, piedi, non radici e lo sappiamo. Lo sanno i fanatici della tradizione, che ci vorrebbero tutti come alberi? E poi un albero ha fiori e frutti e foglie, che si rinnovano ogni anno. Può accadere che un giorno la terra da cui ci sfamiamo si inaridisca, si faccia crosta inutile. Dobbiamo allora morire sul posto? Lo abbiamo fatto quando è stata la nostra terra a seccare?
Terra e sangue.
Non basta più nascere per esistere, bisogna avere una cittadinanza. Non esistono i diritti dell'uomo. Hai o non hai diritti, non perché sei un essere umano, ma perché sei un cittadino, perché hai un passaporto. Abbiamo trasformato la nascita in nazione. Quando c'è un disastro aereo o una qualche catastrofe che conta decine, centinaia di morti, i nostri media si affrettano a sottolineare « nessun italiano ». Un sollievo, gli altri morti contano meno, sono solo esseri umani.
Tu non lo sai, Dragan, ma il verbo che usiamo quando si concede a qualche straniero la nazionalità italiana è naturalizzare , Dragan, naturalizzare, rendere naturale. Come se fosse la natura a dotarci di una cittadinanza. Come fosse impossibile farne a meno. Fingiamo che tutto ciò sia naturale. Ecco un'altra menzogna. Abbiamo tessuto ragnatele di confini e ora ne siamo impigliati. Incapaci di liberarci, di pensare in modo diverso.
La gente come te, gli immigrati, gli stranieri, i rifugiati diventano inquietanti, perché svelate la finzione, spezzate la continuità tra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità . «Non appartengo a nessuna nazionalità prevista dalle cancellerie» scriveva Aimé Césaire. Parlava di schiavi.
Terra e sangue. Piante, che si nutrono dei succhi assorbiti dal sottosuolo, ci avvinghiamo con le radici a quella terra, che abbiamo deciso essere nostra. «Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli». C'è saggezza in questo proverbio masai. La terra ci è solo data in prestito, c'era prima di noi, ci sarà dopo. «Si nasce, si muore, la
terra cresce» cantano i pigmei della foresta. Eppure l'idea di proprietà si è fatta talmente strada in noi, ha condizionato in modo così forte le nostre menti, da non riuscire nemmeno più a immaginare che esistano beni comuni, collettivi. Tutto deve appartenere a qualcuno e quel qualcuno non sempre ne concede l'uso. Calpestare il sacro suolo diventa colpa, se non sei del sangue giusto.
Clandestino! Ecco il nuovo marchio dell'infamia, Dragan. La nuova lettera scarlatta, cucita sulla vita di chi è colpevole non solo di non essere nato qui, ma di non avere il timbro dell'autorità. Una colpa che diventa sempre più grave, via via che ci rinchiudiamo nei nostri recinti. Essere investiti da un rumeno fa più male che esserlo da un italiano. Il reato diventa più grave, se a commetterlo è uno straniero: l'autoctonia diventa un'attenuante, la clandestinità una colpa, fino a trasformarsi in reato essa stessa.

Porto il nome di tutti i battesimi, ogni nome il sigillo di un lasciapassare,
per un guado una terra una nuvola un canto, un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue, per la stessa ragione del viaggio, viaggiare.

Che belle parole aveva scritto De André a quelli come te, Dragan! Ma chi comanda non ama la poesia, non ama i nomadi e neppure i poveri. Crede di «tenere in bocca il punto di vista di Dio». Non basta vivere per esistere, occorre un documento che dica chi sei. Un timbro che affermi che tu sei vivo ora, qui. «Le carte sono importanti, sono tutto... per sapere chi sei...» recitava un personaggio di Giorgio Gaber. «Guardi, senza offesa, ne ho quattro borse, ci dormo sopra. Sa com'è... nella confusione tutti ti fregano le carte. Lasci lì il tuo atto di nascita e... non lo trovi più. Sei rovinato. è difficile rifarsi una vita... senza essere nato».
Abdul Guibre, ucciso a Milano il 15 settembre 2008, per aver rubato un pacco di biscotti, era del Burkina Faso «ma con cittadinanza italiana» hanno sottolineato ossessivamente i media dopo il suo assassinio. Anche di Tong Hong-shen, il giovane cinese picchiato da un gruppo di bulli romani, i giornali hanno subito scritto che «era in regola con i documenti di soggiorno». Come a dire: è davvero una vittima.
Perché, Dragan, perché? Puoi morire senza un nome scritto sulla carta, non vivere. No, Dragan, non sei una persona se non ce l'hai. Non sono stati tuo padre e tua madre a darti la vita, è il documento che fa di te qualcuno. Per questo ti hanno macchiato il dito di nero, te l'hanno premuto su quel foglio. Ora non sei più una nullità, quella macchia nera sul foglio è il segno che lo Stato sa chi sei, che può controllarti, rintracciarti, mandarti via.
Ora esisti, Dragan.

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Un antropologo contro la xenofobia

Marco Aime, torinese, insegna Antropologia Culturale presso l'Università di Genova. Saggista e scrittore ha partecipato alle edizioni 2007 e 2008 del Festival della Mente di Sarzana e ha partecipato al Festivaletteratura di Mantova nelle edizioni 2004 e 2007. Ha vinto il Premio Chatwin. Collabora con La Stampa e con Liberazione . Tra i suoi ultimi libri: Eccessi di culture (Einaudi, 2004); L'incontro mancato (Bollati Boringhieri, 2005); Sensi di viaggio (2005); Il primo libro di antropologia (Einaudi 2008); Timbuctu (Einaudi, 2008); Il lato selvatico del tempo (2008).

Liberazione 28/05/2009, pag 20

Economia e finanza islamica

HAMAUI R., MAURI M.

Collana "Farsi un'idea"
pp. 152, € 8,80
978-88-15-13053-2
anno di pubblicazione 2009
in libreria dal 02/04/2009

65 paesi con più di 600 istituzioni finanziarie totalmente islamiche o dotate di uno sportello islamico, circa 500 fondi di investimento: un'industria nata meno di trent'anni fa che sta occupando un ruolo sempre più importante sulla scena internazionale. E' un modo diverso di intendere economia e finanza, fatto di pratiche, transazioni e contratti finanziari conformi ai dettami della "shari'a". Nel volume si fa luce sui principi ispiratori e sui meccanismi di questo sistema: dall'evoluzione storica delle strutture economiche e finanziarie del mondo musulmano fino al funzionamento di una banca islamica e alle sue differenze con quelle convenzionali; dalle caratteristiche del mercato islamico dei capitali fino al controverso rapporto col sistema di microcredito.

Rony Hamaui è amministratore delegato di Mediofactoring, società del gruppo Intesa SanPaolo. Ha insegnato Economia monetaria internazionale nelle Università Bocconi e Cattolica di Milano, e in quella di Bergamo. Marco Mauri è responsabile degli investimenti "Shari'a compliant" nei mercati finanziari nell'Unicorn Investment Bank, banca d'investimento islamica con sede a Manama, Bahrain, e socio fondatore di Assaif.

http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&ISBNART=13053

venerdì 29 maggio 2009

Dieci cose che cambieranno nel mondo dopo la crisi

Domani con "Repubblica" il nuovo libro di Federico Rampini
Dal lavoro ai consumi: nuove regole per un futuro ancora incerto

di FEDERICO RAMPINI
La Grande Recessione del 2007-2009 può davvero concludersi prima che abbiamo fatto in tempo a imparare qualcosa, a isolare i responsabili, a curarne le cause, a prevenire una ricaduta? C'è in giro una gran voglia di voltare pagina senza avere regolato i conti. Nella speranza assurda che si possa ripartire da dove ci eravamo fermati l'altro ieri, con gli stessi valori, le stesse regole di prima.

Per fortuna ci sono segnali di altra natura. Uno di questi si chiama Kedamai Fisseha. Cittadino americano di origine etiope, a 22 anni si laurea in economia e commercio alla prestigiosa università di Harvard. Un anno prima della tesi aveva fatto uno stage a Wall Street, alla banca Morgan Stanley. Adesso invece ha deciso di arruolarsi nel programma Teach for America. E' un'organizzazione non profit che recluta neolaureati per mandarli a insegnare nelle scuole dei quartieri più poveri e degradati delle metropoli americane. "Mi considero fortunato - dice Fisseha - la crisi in fondo è stata una liberazione per me". Lawrence Katz, docente di Harvard, censisce le carriere professionali di tutti i laureati della sua superfacoltà dal 1960 ad oggi. "Fino a poco tempo fa la carriera nella finanza attirava i primi in graduatoria. Oggi non è vero che Wall Street abbia smesso completamente di assumere. Sono i ragazzi, o almeno una parte di loro, che stanno cambiando interessi e valori".

Verso questi ragazzi che si orientano per il loro futuro, e verso noi stessi, abbiamo un dovere: non sprecare questa crisi. E' urgente un'operazione-verità che metta a nudo le cause profonde di un disastro che non è finito. Guardando anche oltre i gravi danni sociali, abbiamo bisogno di diradare la nebbia all'orizzonte. Ci servono delle mappe per orientarci, una guida di comportamenti, un manuale di sopravvivenza.
Dobbiamo capire come ne usciremo, con quali regole del gioco, quali nuovi equilibri e rapporti di forze: sul nostro luogo di lavoro e nella gestione dei risparmi; nelle nostre scelte di consumo e nell'impatto sull'ambiente. In quale mondo vivremo, con quali attori, dentro quali equilibri globali. Vogliamo sapere perché l'economia di mercato non sarà più la stessa, e a cosa assomiglierà la sua prossima versione. Come attrezzarci a vivere con la deflazione, o quel che verrà dopo la deflazione. Quale cultura si affermerà nelle aziende. Cosa cambia nelle banche e nel nostro rapporto con il credito. Quale choc o controchoc può arrivare dal fronte dell'energia e delle materie prime. Cosa resta dei "modelli" esaltati negli anni precedenti, dall'America alla Cina. E se la Grande Recessione può partorire, come la Depressione degli anni Trenta, una corrente di cambiamento durevole nei sistemi politici, nelle ideologie dominanti, nei valori etici.

(...) I mezzi dispiegati per evitare il peggio sono stati colossali. Hanno ordini di grandezza che superano l'immaginazione. Sommando gli aiuti di Stato agli istituti di credito e le operazioni di rifinanziamento d'emergenza effettuate dalle banche centrali, a marzo del 2009 si arrivava a un totale di 5.500 miliardi di dollari (...). Aggiustato per tener conto dell'inflazione, l'onere dei salvataggi bancari è sette volte il costo della guerra nel Vietnam. 23 volte il programma spaziale Apollo con cui l'America arrivò sulla luna. 47 volte il Piano Marshall per la ricostruzione dell'Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale.
Tra Borse, obbligazioni, case, dall'estate del 2007 in poi è stata distrutta una ricchezza pari a 50.000 miliardi di dollari. E' quasi l'equivalente di un anno di Pil mondiale. Proviamo a tradurre questi macrofenomeni in termini di bilanci familiari: quanti possono reggere se un anno intero di reddito va in fumo? Qualsiasi cosa ci raccontino le statistiche mese per mese, un evento di queste proporzioni lascia tracce durevoli nella psicologia collettiva. Resta un'eredità d'incertezza, di cautela nello spendere e nell'investire. Non c'è manovra di aiuti pubblici che possa sanare rapidamente queste ferite. L'intera società è pervasa dalla diffidenza.

(...) Nel futuro del Vecchio continente potrebbe esserci la "sindrome giapponese". L'uscita dalla crisi può prendere le forme di una ripresa finta, anemica, senza crescita. Una bonaccia in cui tutti i nostri mali diventerebbero cronici, insolubili: dal debito pubblico alla crisi previdenziale, dal precariato alle tensioni sociali. Il naufragio del modello giapponese deriva proprio dall'incapacità delle classi dirigenti di Tokyo di capire la deflazione-depressione degli anni Novanta. La loro lentezza nell'affondare il bisturi dentro un sistema bancario disastrato; la timidezza delle misure per il rilancio dei consumi interni; il rifiuto dell'immigrazione come rimedio alla denatalità. Sono tutti sintomi oggi presenti anche in Europa. La prospettiva di un orizzonte piatto, senza sviluppo, può piacere ai fautori della de-crescita, che vedono nella "idolatrìa del Pil" la radice di tutti i nostri mali: a cominciare dalla distruzione dell'ambiente. Ma se si realizza il loro desiderio, le delusioni potrebbero essere amare. Nella grande bonaccia dove troveremo le risorse per investire in tecnologie verdi, per aumentare i fondi pubblici alla scuola, all'università, alla ricerca scientifica?

(...) Se la Grande Recessione ha avuto tra le sue cause economiche l'aumento delle disparità sociali, aggredire questo problema diventa doppiamente prioritario. E' il modo per rilanciare una crescita sana, basata su un potere d'acquisto meglio diffuso, anziché sull'economia del debito. Ed è anche una terapia per molte malattie sociali che ci affliggono.

(...) La Depressione degli anni Trenta fu uno di quei momenti della storia in cui interi sistemi di valori vengono ribaltati, si crea una nuova etica civile. Temprata dalle sofferenze, quella che gli americani battezzarono The Greatest Generation riscoprì la fede nell'azione collettiva, l'utilità del sacrificio, la solidarietà, il dovere dello Stato di agire per il bene comune. Le grandi crisi servono a rimettersi in discussione, costringono a osare là dove il pensiero non si era mai avventurato: su quella del XXI secolo il verdetto è aperto.
(29 maggio 2009)

http://www.repubblica.it/2009/05/sezioni/economia/crisi-33/libro-rampini/libro-rampini.html

mercoledì 27 maggio 2009

Quanto bombardano bene gli F-35 E l'acquisto (15 mld) è bipartisan

Ne compriamo 131. Lo hanno deciso Prodi, poi D'Alema e ora Berlusconi

Maria R. Calderoni
Avremo il più bel bombardiere del mondo, evviva. Lo ha deciso pochi giorni fa la commissione Difesa di Camera e Senato (Pd timidamente astenuto), affare fatto. L'ex Italia stracciona ne acquisterà 131 esemplari, al modico prezzo di 150 milioni l'uno; il conto finale, tutto compreso, fa 15 miliardi (di euro), che volete stare a guardare il capello? A farci entrare nel business guerresco del secolo, lanciato direttamente dal Pentagono, in principio fu Prodi, pronubo il suo ministro della Difesa del tempo, Beniamino Andreatta; era il 1996; poi ci mise la sua firma il governo D'Alema (ricordate la sindrome della "guerra umanitaria"?), 1998; quindi è Berlusconi che, per due volte, ribadisce il progetto, 2002 e 2004; successivamente, un nuovo diligente governo Prodi lo riprende concretamente in mano sganciando un primo finanziamento di 903 milioni di dollari. E siamo infine arrivati ad oggi: il contratto che sarà firmato tra pochi mesi ci impegna, per i suddetti miseri 15 miliardi, sino al 2026; e non in nome della "difesa nazionale", assolutamente no; ma solo ed esclusivamente in conto preventivo e futuro di «missioni internazionali». Sapete, quelle "normali" che si fanno coi caccia bombardieri...
Il bombardiere più bello del mondo , dunque, di nome fa Jsf. Joint Strike Fighter Lightening II, F-35per gli amici , e non è un nome qualsiasi. Sorbole. Per scovarlo, il nome adatto, ci fu un intenso brainstorming di alti gradi militareschi, e vennero scartati altri nomignoli via via pensati, com Kestrel, Phoenix, Piasa, Black Mamba, Spitfire II. No, si scelse F-35 Lightning II in onore «degli «storici P-38 Lightning e English Electric Lightning che hanno operato rispettivamente nella Seconda guerra mondiale e nella Guerra Fredda». Ottime referenze.
Quel monstre dell'F-35. Ma che cos'è, esattamente? Andiamo sui manuali del ramo, vediamo. Trattasi di un caccia multiruolo di quinta generazione - cioè furtività, agilità, versatilità, insomma il più avanzato e capace caccia multi-ruolo sul mercato internazionale - monoposto, supersonico e stealth (cioè, invisibile ai radar) che può essere usato per «supporto aereo ravvicinato, bombardamento tattico e missioni di superiorià aerea». Tradotto: trattasi di un super-caccia da combattimento. Lungo quasi 16 metri, apertura d'ali di 11, dotato di "turbofan Pratt & Whitney F135", da 40mila libbre, il motore più potente mai istallato su un caccia. Pesa 13 tonnellate, che però possono diventare oltre 27 al decollo: già, perché l'F-35 non è certo nato per stare negli hangar, ma per piombare non visto là dove occorre colpire uccidere distruggere; e quindi decolla armato come si conviene.
Lo illustra bene l'apposita, precisa scheda. L'F-35 porta con sé: un cannone a quattro canne da 25 mm, con 220 colpi; due missili aria-aria; due armi aria-terra; da due a quattro bombe in ogni stiva; munizioni a grappolo. «E possono essere alloggiati altri missili, bombe e serbatoi di carburante ai quattro piloni alari e nelle due posizioni sulle punte delle ali», dice sempre la scheda. A bordo dello stupefacente mostro, un solo pilota. Una specie di superman, dotato di un «sistema di visualizzazione sull'elmetto», nonché di un «sistema di riconoscimento vocale che gli permette di aumentare le capacità di interagire con il velivolo»; nonché di un «sistema che gli consente lo sgancio delle armi in modo del tutto facile» (anzi naturale...).
Quelli che se ne intendono, per esempio "Controallarmi", lo definiscono «il primo sistema d'arma concepito per rispondere alle esigenze della nuova "gendarmeria mondiale", quella siglata Usa e Nato. Creatura con imprimatur statunitense, il monstre è considerato uno dei più ambiziosi programmi militari della difesa americana, destinato a sostituire diversi modelli oggi in circolazione, sia dell'US Navy che dei Marines. Progettazione e costruzione affidata a un consorzio industriale di cui è magna pars fondamentalmente la nota Lockheed Martin, Texas: anima e mente yankee, dunque. Ma non solo.
Alla creazione del prezioso F-35 collabora infatti mezzo mondo: Inghilterra, Paesi Bassi, Canada, Turchia, Australia, Norvegia, Danimarca e naturalmente Italia (hanno detto no grazie Francia e Germania, invece collaborano Israele e Singapore). Onore e oneri: agli otto Paesi partner è richiesto un massiccio impegno finanziario e industriale, un totale di quasi quattro miliardi di dollari nella sola fase di sviluppo (i costi totali sono previsti del livello di 40 miliardi di dollari); l'Italia ha contribuito, come si è visto, con un miliarduccio (sempre di dollari).
Bravi, detto fatto. Progettato nel 2000, l'F-35 si è alzato in volo per la prima volta il 15 dicembre 2006, «dando il via a quello che sarà uno dei più intensi programmi di collaudo della storia militare», dicono i suoi estimatori con le stellette. Bravo F-35, «si è comportato magnificamente, ha addirittura superato tutti i parametri di progetto»», ha dichiarato dopo il volo il capo pilota collaudatore, al secolo l'americano Jon Beesley; e comunque il portento invisibile è stato sottoposto ad almeno 12mila ore di collaudo. Perfetto. Magnifico. Il Migliore!!!.
Scemi. Un recente studio della Rand Corporation afferma che la contraerea cinese già è in grado di identificare e abbattere il super F-35. E che anche i russi hanno già pronto il loro "contro F-35", le tecnologie, si sa, corrono veloci. Peggio, secondo ultime e fondate voci, gli hacker cinesi che nei mesi scorsi hanno violato i sistemi del Pentagono, avrebbero carpito appunto tutti i segreti-segreti del super F-35...
Scemi.

Liberazione 26/05/2009, pag 10