venerdì 20 febbraio 2009

La crisi di un mondo di bassi salari

Emiliano Brancaccio
General motors e Chrysler reclamano 40 miliardi di dollari dall'Amministrazione Obama per non fallire, e proprio al fine di ottenere gli agognati fondi pubblici annunciano quasi 50mila tagli ai posti di lavoro, la più grande ondata di licenziamenti nella storia americana. E' proprio il caso di dire che viviamo in tempi gattopardeschi, nei quali il liberismo viene messo sotto accusa solo dalla cintola in su. Da un lato viene ormai da più parti invocata la protezione statale di singoli settori produttivi o addirittura il passaggio da mani private a mani pubbliche di pezzi importanti del capitale finanziario e industriale. Ma dall'altro lato non abbiamo assistito al minimo ripensamento riguardo ai processi di erosione dello stato sociale o alla completa soggezione alle leggi del mercato nelle quali versa la grande maggioranza dei lavoratori subordinati. Senza nemmeno accorgercene, siamo insomma piombati nell'epoca dello statalismo liberista , un ossimoro niente affatto rassicurante con il quale saremo costretti a misurarci per un tempo non breve.
Cosa possiamo ragionevolmente attenderci da questa nuova combinazione di attente premure pubbliche verso le esigenze del capitale privato e di sempre più feroce indifferenza verso i destini del lavoro? La risposta più probabile è che ci troveremo di fronte a un clamoroso fallimento politico. Cerchiamo di capire il perché indagando sulle forze reali che alimentano questa crisi. E' di moda a questo riguardo una interpretazione moralistica del tracollo economico, che individua la causa di tutti i mali nel greed , la famigerata avidità dei banchieri e degli speculatori. Ne ha parlato Obama, e con lui molti altri.
Questa interpretazione in un certo senso è ovvia e quindi sembra in apparenza corretta. Essa tuttavia non tiene conto di un fatto: per quanto spesso ripugnanti nei loro comportamenti e stili di vita, questi manager hanno quasi sempre agito nel pieno rispetto di due leggi, quella dello stato e quella del profitto. Non dovremmo dimenticare, infatti, che le truffe sono state una goccia nel mare della speculazione legalizzata di questi anni. Inoltre bisognerebbe tener presente che mantenevano le posizioni di comando solo i manager disposti a condurre i rendimenti del capitale al passo con le esplosive medie del mercato. Dunque, se vogliamo realmente capire la natura di questa crisi, non è banalmente di greed che dovremmo parlare ma del capitalismo e delle sue contraddizioni interne. In particolare, occorre comprendere che l'odierno fallimento del capitale è una diretta conseguenza del suo enorme successo nella strategia degli ultimi decenni, finalizzata all'annientamento politico del lavoro. Non è un caso, al riguardo, che questa può essere definita la crisi di un mondo di bassi salari . Per una potente miscela di progresso tecnico e di intensificazione dello sfruttamento, in questi anni abbiamo assistito a un notevole incremento della capacità produttiva dei lavoratori, senza però che la loro capacità di spesa aumentasse di pari passo. I salari direttamente erogati dalle imprese sono rimasti al palo, e anche i redditi indirettamente percepiti tramite lo stato sociale hanno subito una progressiva erosione. Ma se i lavoratori non assorbono le merci che producono il sistema alla lunga finisce in stallo e va in picchiata. Se non si parte da questa evidenza la crisi non troverà una soluzione, e magari passeremo di regime in regime, dallo statalismo liberista dei nostri giorni al liberismo neofascista di domani, in una sempre più oscura spirale di involuzioni sociali e politiche.
Esiste un'alternativa alle funeste prospettive che si affacciano all'orizzonte? Il governo tedesco ha annunciato ieri di volersi dotare del potere di nazionalizzare le banche espropriando, se necessario, gli azionisti privati. Si tratta di un passo nella giusta direzione ma non bisogna illudersi. Per quanto razionali, questi aggiustamenti del sistema rientrano ancora nella logica perversa dello statalismo liberista, e quindi non saranno in grado da soli di garantire il superamento della crisi. L'unica soluzione credibile, che possa realmente scongiurare una Seconda Grande Depressione, è questa: lo stato non deve più limitarsi a fungere da prestatore di ultima istanza per il capitale privato, ma deve diventare un creatore di prima istanza di nuova e stabile occupazione . Di prima istanza, si badi, è cioè non per fini di mera assistenza, ma per la produzione di quei beni pubblici che sono fondamentali per il progresso sociale e culturale della collettività ma che da sempre sfuggono alla striminzita logica dell'impresa privata.

Liberazione 19/02/2009

Merkel nazionalizza le banche: esproprio per chi non ci sta

La Cancelliera tedesca approva una legge senza precedenti

Matteo Alviti
Berlino
C'è esproprio ed esproprio. Ci sono quelli proletari, che hanno avuto alterna fortuna e sono finiti quasi sempre nelle aule di tribunale. E ci sono quelli di governo, che invece in tempi di crisi globale non scandalizzano quasi nessuno, persino nella grande coalizione alla tedesca. Così ieri il gabinetto nero-rosso di Angela Merkel ha approvato un progetto di legge che non ha eguali nella storia della Repubblica federale, grazie al quale le banche potranno essere statalizzate anche contro la volontà dei proprietari-azionisti, che finirebbero espropriati dei loro averi.
La legge - che verrà approvata dalle due camere entro il 3 aprile prossimo - sarà valida solo fino al 30 giugno 2009 ed è tagliata su misura per il salvataggio di Hypo-Real Estate (Hre), istituto di credito specializzato in affari immobiliari e obbligazioni ipotecarie che ha subito le più forti perdite nel sistema tedesco. Finora la banca di Monaco è stata tenuta a galla dallo stato con 102 miliardi di euro, tra garanzie e prestiti. 87 miliardi dei quali sono soldi dei contribuenti.
«La statalizzazione ha l'obiettivo di stabilizzare: non sarà a disposizione per sempre, ma solo per affrontare la crisi», ha chiarito il ministro delle Finanze socialdemocratico Peer Steinbrück.
Non c'è comunque nessun altro istituto in odore di esproprio, rassicura il governo. Secondo i piani le banche statalizzate, Hre sostanzialmente, saranno riprivatizzate non appena sarà raggiunta la stabilità, e i vecchi azionisti avranno un diritto di prelazione per l'acquisto. Steinbrück ha avvertito che il collasso di Hre avrebbe potuto provocare una reazione a catena che si sarebbe comunque abbattuta sulle teste dei contribuenti. La misura votata ieri, invece, dovrebbe avere effetti relativamente limitati per le tasche dei lavoratori, rassicura il governo. Del resto la misura è già stata adottata in altri paesi - Usa e Gran Bretagna su tutti - e non c'è alcun bisogno di aprire un dibattito inopportuno, secondo il ministro, sulla fine dell'economia sociale di mercato.
Non la pensa così l'opposizione liberale: «l'esproprio è socialismo», ha dichiarato il leader Fdp Guido Westerwelle. Altri sono della sua stessa opinione nelle file della Cdu/Csu al governo. Il consiglio economico cristianodemocratico ha accusato la cancelliera di «tradimento del profilo politico dell'Unione (Cdu/Csu)». Opposta la posizione della sinistra. Per Oskar Lafontaine, capogruppo della Linke, la Merkel e il governo agiscono con troppa lentezza e indecisione, «mentre tra gli specialisti è già da tempo chiaro che la statalizzazione è la misura più rapida e sicura per far ripartire il prestito interbancario e proteggere i contribuenti». D'accordo anche i Verdi.
Per Merkel si tratterebbe invece di una misura «senza alternative», o l'«ultimissima ratio», come l'ha definita Steinbrück. E di ultima ratio si dovrà ben trattare, ha ammonito Hans-Jürgen Papier, presidente della corte costituzionale: la costituzione tedesca permette un esproprio pubblico solo quando è il bene generale a esigerlo. Nessuno in realtà nel governo «è interessato ad ampliare la sfera d'influenza dello stato nel sistema bancario», ha assicurato il ministro Steinbrück. Ma in gioco c'era la parola data a livello internazionale: non fallirà nessuna banca tedesca di grande interesse popolare, aveva promesso la grande coalizione.
Il futuro di Hre potrebbe essere scritto già all'inizio di aprile, da una riunione straordinaria degli azionisti. Il governo punta al 75% delle azioni più una, se non addirittura al 95%. Solo se gli azionisti rifiutassero di vendere e procedessero con azioni legali, il governo si avvarrebbe della legge per l'esproprio. Continuano così le trattative con gli statunitensi di J.C. Flowers, che con il 24% circa dei titoli è il grande azionista della banca di Monaco. Gli investitori per ora non hanno alcuna intenzione di cedere le loro quote a un prezzo così basso. E tanto meno i risarcimenti per l'eventuale esproprio fanno gola a nessuno. Secondo la legge la somma sarebbe stabilita sulla media del valore di borsa delle due settimane precedenti l'esproprio. Attualmente circa 270 miliardi.
Ieri il governo ha anche votato alcuni altri importanti cambiamenti al piano di salvataggio bancario che complessivamente garantisce al sistema risorse pubbliche per 480 miliardi di euro. La grande coalizione ha prolungato da tre a cinque anni la garanzia statale per il prestito interbancario e ridotto i tempi per la convocazione di riunioni degli azionisti. Anche le procedure per il rilevamento saranno inoltre semplificate.

Liberazione 19/02/2009

Antropologia di Facebook

mercoledì 18 febbraio 2009

Università, l'Italia retrocede nella top 200 un solo ateneo

Peggiorano tutte, Bologna 192esima. Al vertice Usa e Regno Unito
La classifica del Times: prestigio tra gli accademici e capacità di attrarre studenti stranieri

Il commento del ministro Gelmini, della pd Garavaglia, del rettore Calzolari
di SALVO INTRAVAIA

Università, l'Italia retrocede nella top 200 un solo ateneo
Gli atenei italiani perdono terreno nelle classifiche internazionali. Ma secondo il rettore dell'ateneo di Bologna non è solo colpa degli delle università nostrane. "Mancano i fondi e in futuro le cose peggioreranno", dice Ugo Calzolari. Nel World university rankings 2008, il nostro sistema universitario piazza soltanto 7 atenei. Un anno prima, erano 9 le università italiane presenti nella top 400 e quasi tutte piazzate meglio rispetto al 2008. La graduatoria che mette in fila le migliori università del mondo, pubblicata alla fine del 2008, viene stilata annualmente dalla britannica The Times - Higher Education Supplement in collaborazione con QS (Quacquarelli Symonds) è alla sua quinta edizione.

Ai primi posti si piazzano università americane e inglesi. Secondo gli autori della classifica, al top dell'istruzione terziaria mondiale ci sono Harvard, Yale, Oxford e Cambridge. Gli atenei italiani fanno fatica a conquistare posizioni di prestigio e per trovarne una bisogna scorrere l'elenco quasi fino alla duecentesima posizione. E' l'ateneo statale di Bologna, che oggi si ritrova al 192° posto mentre nel 2007 era al 173° posto, la punta di diamante dell'istruzione universitaria italiana. Altre sei università (Roma-La Sapienza, il Politecnico di Milano, gli atenei di Padova, Pisa e Firenze e l'università Federico II di Napoli) rientrano nella top 400. Una sostanziale bocciatura che arriva d'oltremanica proprio mentre in Italia si parla di lotta agli sprechi, tagli ai finanziamenti e ai Baroni.

"Bologna - spiega Calzolari - è nella top 200 per la sua reputazione accademica internazionale. Ma il numero di docenti e studenti stranieri dipende dalle nostre capacità economiche. All'estero i docenti guadagnano di più e ospitare studenti stranieri costa". "La graduatoria - chiarisce Cristiano Violani, presidente del nucleo di valutazione del La Sapienza di Roma, che l'anno scorso figurava al 183° posto - si basa su parametri piuttosto semplici che spesso vengono dichiarati dalle stesse università. Ma quello che pesa maggiormente è il giudizio dei docenti universitari e dei datori di lavoro". Ma una cosa è certa: "L'assenza sia di interventi, sia politiche basate su letture superficiali dei ranking - continua Violani - possono far arretrare l'Italia anche in punti di relativa forza".

Per mettere in fila 400 università sparse nei cinque continenti sono stati presi in considerazione sei indicatori che puntano soprattutto sul livello qualitativo delle ricerche scientifiche condotte nei vari atenei e sulle opportunità di lavoro che si aprono agli studenti che riescono a laurearsi nelle più prestigiose università. Ma non solo: il punteggio complessivo attribuito alle prime 400 università prese in considerazione dipende anche dal giudizio di 6.354 accademici di livello internazionale e da 2.339 datori di lavoro del settore pubblico e privato sparsi in tutto il mondo. Per certificare quali sono le università che lavorano al meglio è stata presa in esame anche la presenza di docenti e studenti stranieri, due parametri che dovrebbero indicare il livello di attrattività degli atenei, il rapporto docenti/studenti e il numero di ricerche scientifiche più citate dai colleghi delle altre università.

Violani ci tiene a precisare tuttavia che "nel nostro paese il livello del servizio universitario è abbastanza omogeneo. Per rendersene conto basta guardare la classifica dei sistemi universitari dove l'Italia si piazza al 12° posto". E per assegnare la leadership nei diversi ambiti disciplinari sono state predisposte cinque diverse classifiche (biomedico, artistico/umanistico, delle scienze sociali, tecnologico e delle scienze naturali) con le migliori 100 università del mondo. In ambito tecnologico, dove primeggia il Mit (il Massachusetts institute of technology), il Politecnico di Milano, che affianca la Columbia university, si piazza al 63° posto. Nella speciale graduatoria relativa all'Europa i primi atenei italiani sono al 78° (Bologna) e all'85° posto (La Sapienza).

La bocciatura delle università italiane ha aperto l'ennesima polemica politica. "La classifica pubblicata dal Times - dichiara il ministro dell'Istruzione, Mariastella Gelmini - dimostra che il sistema universitario italiano vive una fase veramente difficile". Secondo il ministro "i problemi sono strutturali e di sistema". "Non sono - continua - come, qualcuno ha detto più per motivi di lotta politica che per una analisi tecnica della realtà, legati alla quantità di risorse che si investono nell'università. Questo è un falso problema". La questione centrale "non riguarda quanto si spende ma come si spendono i soldi dei cittadini".

"Davvero non si capisce - risponde il ministro ombra dell'università, Maria Pia Garavaglia (Pd), come si possa prendere a pretesto la classifica annuale del Times per giustificare la sciagurata politica che il governo sta infliggendo al nostro sistema". Ma è possibile fare qualcosa per invertire la tendenza? "Basta guardare alla Francia di Sarkozy che ha dato il compito di rilanciare il sistema a 10 poli universitari e stanziato 5 miliardi di euro. In Italia basterebbe individuare 15 atenei che funzionano", risponde il rettore dell'università i Bologna.

La Repubblica. 16 febbraio 2009

- - - - - - - - - - - - -

Classifica del Times: Harvard migliore università, Italia bocciata

Tredici università americane tra le prime venti al mondo, con il primato che va ad Harvard. Ma soprattutto una sola università italiana tra le prime 200: è quella di Bologna che si piazza al 192esimo posto, perdendo 19 posizioni rispetto allo scorso anno, quando era 173esima. E' quanto emerge dall'annuale classifica pubblicata oggi dal prestigioso inserto del Times, Higher Education.

Un gruppo di seimila accademici e duemila imprenditori del settore pubblico e privato, tenendo conto anche dell'opinione degli studenti, ha dunque assegnato il primo posto a Harvard, lasciando la piazza d'onore a Yale. Al terzo posto l'università di Cambridge, che precede l'altra università britannica di Oxford.

Molto male è andata per le università italiane. A parte Bologna, unica tra le prime 200, 'La Sapienza' di Roma si piazza al 205esimo posto, il Politecnico di Milano al 291esimo, l'Università di Padova al 296esimo.

Bocciatura per la Bocconi di Milano, che non figura tra le prime 400

Rainews24, 14 febbraio 2009

L'Italia torna crocevia del traffico d'armi

Un'inchiesta a Perugia getta luce sui nuovi sistemi criminali

Redazione di altraeconomia
L'Italia sembra essere tornata un crocevia del traffico internazionale di armi, come negli anni 80: la posizione geografica e la presenza diffusa di criminalità anche organizzata favorisce l'attività di gruppi, anche piccoli. Una vicenda più di tutte però aiuta a comprendere i rinnovati meccanismi del traffico di armamenti sul suolo italiano. E' quella messa in luce dall'inchiesta della Procura di Perugia, diretta dal sostituto procuratore Carlo Razzi, che ha visto il rinvio a giudizio di 5 persone, già arrestate all'inizio del 2007.
Il procedimento ora è alla vigilia della fase dibattimentale e si riferisce a fatti avvenuti nel 2006. La dimensione della compravendita al centro della vicenda fa impressione: oltre 500mila mitragliatori automatici e più di 10 milioni di munizioni (prodotti in Cina) dovevano prendere la volta della Libia. La fornitura finale avrebbe raggiunto il valore complessivo di circa 41 milioni di dollari. Ma l'affare avrebbe avuto poi un ricarico del 60% versato agli italiani come commissione. Valore finale dell'operazione: 65 milioni di dollari. Ma a che cosa dovevano servire tutte queste armi? Probabilmente, vista la tipologia antiquata e il sovradimensionamento rispetto ai numeri dell'esercito libico, avrebbero preso altre vie, andando a foraggiare conflitti africani. Un metodo semplice ed efficace che avrebbe infatti spinto il gruppo a cercare diverse commesse (elicotteri, visori notturni) in altre parti del mondo. Gli investigatori hanno intercettato numerose comunicazioni concernenti la Lituania, la Russia, la Repubblica Ceca, il Congo, Israele, la Turchia, la Cina, la Francia, lo Sri Lanka. Di particolare rilievo risulta la trattativa per una commessa di 50.000 fucili Akm, 50.000 fucili Akms e 5.000 mitragliatrici Pkm di fabbricazione russa con un intermediario bulgaro da fornire all'Iraq tramite un sedicente rappresentante del governo irakeno. Un affare da 40 milioni di dollari di cui le autorità irachene e il comando Usa a Baghdad non erano ovviamente a conoscenza.
L'interesse di questa vicenda sta anche nei flussi finanziari legati alla compravendita di armi. I proventi e le tangenti legate agli affari che il gruppo di faccendieri cercava di mettere in piedi sono ovviamente stati oggetto di tentativi di occultamento, ma con meno accortezza quando si è trattato delle tangenti ai referenti libici. I bonifici avrebbero avuto quasi sempre origine da banche maltesi legate alle società già citate, ma spesso sarebbero stati indirizzati su conti di banche italiane di prestanome libici oppure su conti di familiari degli indagati.

Liberazione 01/02/2009, pag 11

martedì 17 febbraio 2009

Estrapolati dall'accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali sottoscritto da Cisl, Uil, Ugl

Estrapolati dall'accordo quadro sulla riforma degli assetti contrattuali sottoscritto da Cisl, Uil, Ugl - i capitoli che più pesantemente colpiscono il salario, sterilizzano il contratto nazionale, irretiscono la contrattazione integrativa, colpiscono il diritto di sciopero, cambiano la natura del sindacato.

1. Contratto nazionale
(...) Per la dinamica degli effetti economici si individuerà un indicatore della crescita dei prezzi al consumo assumendo (...) un nuovo indice previsionale (...) depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati. L'elaborazione della previsione sarà affidata ad un soggetto terzo (...). Il recupero degli eventuali scostamenti sarà effettuato entro la vigenza di ciascun contratto nazionale. Il nuovo indice previsionale sarà applicato ad un valore retributivo individuato dalle specifiche intese.
2. Bilateralità
La contrattazione collettiva nazionale o confederale può definire ulteriori forme di bilateralità per il funzionamento di servizi integrativi di welfare.
3. Contrattazione di secondo livello
La contrattazione di secondo livello (...) collega incentivi economici al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia ed altri elementi rilevanti ai fini del miglioramento della competitività, nonché ai risultati legati all'andamento economico delle imprese (...). La contrattazione di secondo livello (...) deve avere caratteristiche tali da consentire l'applicazione degli sgravi di legge (...). Ai fini della effettività della diffusione della contrattazione di secondo livello, i successivi accordi potranno individuare (...) elementi economici di garanzia.
4. Deroghe al contratto nazionale
Per governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico e occupazionale, le specifiche intese potranno definire apposite procedure, modalità e condizioni per modificare, in tutto o in parte (...) istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali di categoria.
5. Rappresentanza sindacale
I successivi accordi dovranno definire, entro 3 mesi, nuove regole in materia di rappresentanza delle parti nella contrattazione collettiva.
6. Regole per la proclamazione dello sciopero
Le nuove regole possono determinare, limitatamente alla contrattazione di secondo livello nelle aziende di servizi pubblici locali, l'insieme dei sindacati, rappresentativi della maggioranza dei lavoratori, che possono proclamare gli scioperi (...).

Liberazione 01/02/2009, pag 22

Movimento, l'agenda delle lotte

Gli Appuntamenti del 2009

L'Assemblea finale, che ha chiuso l'edizione 2009 del Forum Sociale Mondiale a Belem ha costruito per il movimento altermondialista una fitta agenda di mobilitazioni per il 2009.
Di seguito alcuni dei principali appuntamenti:
8 marzo Giornata per i diritti delle donne
14-22 marzo mobilitazione e Forum parallelo al World Water Forum di Istambul
28 marzo comincia a Londra la settimana d'azione in occasione del G20
30 marzo mobilitazione contro la guerra e la crisi
30 marzo giornata di solidarietà con il popolo palestinese e boicottaggio degli investimenti e dei prodotti israeliani
4 aprile Giornata di mobilitazione in occasione del 60esimo anniversario della Nato;
17 aprile Giornata Internazionale per la Sovranità alimentare
1 Maggio Giornata Internazionale dei lavoratori e delle lavoratrici
Luglio Giornate di mobilitazione per il G8 in Italia
12 ottobre Giornata mondiale di mobilitazione per la difesa della Madre Terra, contro la mercificazione della vita.
12 dicembre Giornata di Azione Globale sulla giustizia climatica in occasione della Conferenza di Copenhagen sul clima.

Liberazione 03/02/2009, pag 11

Sri Lanka, una guerra lunga ventisei anni

Prosegue l'offensiva di Colombo: 300 i civili uccisi

Matteo Alviti
La guerra tra l'esercito dello Sri Lanka e i ribelli tamil - che in 26 anni ha provocato la morte di più di 70mila persone - ha radici lontane, che risalgono ai disastri del colonialismo. Quando gli inglesi concessero l'indipendenza all'isola di Ceylon, nel 1948, la minoranza tamil era concentrata nel nord e nell'est del paese. Le etnie tamil costituivano - e costituiscono ancora oggi - circa il 18% della popolazione, portata per lo più sull'isola dall'India sulle navi dei coloni, per raccogliere le foglie di tè nelle piantagioni. I tamil sono di religione indù, al contrario della maggioranza dei singalesi, che sono buddisti Theravada. A otto anni dall'indipendenza, nel 1956, il governo di Colombo dichiara il sinhala lingua nazionale, misura che rimarrà invariata fino al 1989, quando, grazie a un accordo con l'India, il tamil verrà riconosciuto come seconda lingua. Le prime violenze e i pogrom contro la minoranza tamil risalgono al 1958. Ma è negli anni '70 - dopo la nascita dello stato di Sri Lanka, nel 1972, e la contestuale adozione del buddismo come religione di stato - che la tensione e gli scontri tra le etnie si radicalizzano.


Il dominio britannico, l'indipendenza, le lotte di un popolo venuto dall'India
La "guerra dei ventisei anni" sulle macerie del colonialismo

Martino Mazzonis
Nel 1976 Velupillai Prabhakaran fonda le Tigri di liberazione del Tamil Eelam (Ltte) - nome dello stato indipendente che i ribelli intendono costituire nel nord e nell'est dell'isola. L'Ltte non è l'unico movimento ad aver lottato per l'indipendenza: dal 1948 ben 38 gruppi diversi hanno combattuto per la fondazione di uno stato tamil. La prima guerra per l'Eelam comincia nel 1983, in seguito all'attacco e all'uccisione di 13 poliziotti nel nord del paese da parte delle Tigri. Il conflitto dura fino al 1987 quando l'India, che fino ad allora aveva fornito supporto e armi ai ribelli, invia una forza di pace. La mediazione di Delhi non porterà ai risultati sperati e l'esercito di interposizione sarà costretto a lasciare l'isola già nel 1990, dopo aver perso più di mille soldati. La seconda guerra per l'Eelam riprende con l'offensiva delle Tigri, che porta alla conquista della penisola di Jaffna, nell'estremo nord del paese. Sono anni di grande tensione, in cui l'Ltte dimostra la sua forza anche con attentati suicidi che colpiscono personalità politiche di primo rilievo. Nel 1991 un attentatore, verosimilmente legato all'Ltte, uccide il primo ministro indiano Rajiv Gandhi. Mentre due anni più tardi, nel 1993, è il terzo presidente singalese Ranasinghe Premadasa a finire vittima di un kamikaze. Nel 1995 le parti in guerra raggiungono un'altra, breve, tregua, interrotta dall'affondamento di una nave militare di Colombo. Inizia così la terza guerra per l'Eelam, che in sei anni ucciderà migliaia di persone nel nord e nell'est del paese e a Colombo, dove una serie di attentati costerà la vita a più di 100 persone.
Nel 2002 l'intervento della comunità internazionale, guidata dalla Norvegia, prolunga di quattro anni un labile cessate il fuoco in vigore dal natale del 2001 e dà il via ai negoziati di pace, che si interrompono solo un anno più tardi nella conferenza dei donatori di Tokyo. La situazione peggiora nel 2004, quando la sconfitta del candidato premier Ranl Wickremesinghe, aperto al dialogo, porta alla spaccatura dell'Ltte e alla vittoria dell'ala oltranzista. Solo la tragedia dello Tsunami, con la morte di oltre 30mila singalesi e tamil, rallenta lo scontro tra governo e ribelli, che concordano una tregua umanitaria. L'anno successivo però, l'assassinio del ministro degli esteri di Colombo, Laksham Kadirgamar, di etnia tamil e contrario allo stato dell'Eelam, e l'elezione del presidente Mahinda Rajapaksa fanno di nuovo precipitare la situazione.
Dopo due tentativi di dialogo falliti tra la Svizzera e la Norvegia, nel 2006 Rajapaksa mette il pugno di ferro e inizia la repressione dei ribelli, tagliando le riserve d'acqua a 60mila persone in territorio Tamil e iniziando una dura offensiva. Sarà proprio il controllo della costa da parte dell'esercito singalese, con l'aiuto dell'India, a spostare i rapporti di forza in favore di Colombo. Il 15 gennaio 2008 Rajapaksa dichiara nullo il cessate il fuoco del 2002 - violato in diverse occasioni da entrambe le parti - e l'esercito riprende l'avanzata verso nord. Il premier è deciso a "risolvere" la questione delle Tigri Tamil entro la fine dell'anno e il governo stanzia fondi sempre più ingenti per le spese militari: + 20% nel 2008 rispetto all'anno precedente, mentre per quest'anno le previsioni parlano di un'ulteriore crescita, fino a 1,7 miliardi di dollari, circa il 4% del pil.
Siamo ai rapidi sviluppi dell'ultimo mese. Il 2 gennaio l'esercito conquista Kilinochchi, capitale de facto dei ribelli Tamil - considerati un'organizzazione terroristica da Usa, Ue e molti altri stati, tra cui l'India. È l'inizio di un'avanzata inarrestabile che porta i militari di Colombo a conquistare il passo dell'elefante, porta della penisola di Jaffna, e poi la maggior parte del distretto di Mullaitivu, roccaforte Tamil nell'est. La popolazione rimane stretta nella morsa della guerra civile e vittima di gravi carestie. Amnesty Internationale e Human Rights Watch hanno denunciato in passato come entrambe le parti usino i civili come scudi, vittime o reclute forzate. Le Tigri sembrano prossime a una sconfitta militare. Ma già in passato gli indipendentisti hanno mostrato la loro capacità di continuare la guerra a bassa intensità, con attentati e guerriglia. Oggi, 4 febbraio, è l'anniversario dell'indipendenza dalla Gran Bretagna. Comunque un giorno di lutto, per i ribelli.

Liberazione 04/02/2009, pag 11

La seconda gioventù del nucleare tra propaganda e false speranze

In Europa e nel mondo i governi riscoprono l'atomo. Il caso della Svezia

Matteo Alviti
Berlino
Tutti ne parlano, tutti lo vogliono. La rinascita del nucleare in Europa e nel mondo, a sentire gli annunci di molti governi, sembra cosa fatta. Per ultima proprio la Svezia, che avrebbe dovuto abbandonare l'energia atomica nel 2010, ha annunciato giovedì il prolungamento del nucleare a data da destinarsi. In effetti, se si guarda ai paesi Ocse, ci sono diversi nuovi impianti attualmente in fase di progettazione o di costruzione. Sarkozy ha annunciato la realizzazione di un secondo reattore a Penly, nel nord del paese, che dovrebbe essere in rete nel 2017, e di un nuovo impianto in Normandia. La Gran Bretagna di Brown ha intenzione di far costruire otto nuovi reattori. Neppure Obama esclude il nucleare per gli Usa, pur non intendendo sovvenzionare la costruzione di nuove centrali con soldi pubblici. In Italia il governo Berlusconi, che sogna di coprire il 25% del fabbisogno energetico con il nucleare, sta procedendo sulla sua strada con il disegno di legge Sviluppo, già passato alla camera e in via di approvazione al Senato. Il ministro Scajola punta ad arrivare alla posa della prima pietra di una nuova rete di centrali entro la fine della legislatura.
Ancora più preoccupante la situazione se si guarda fuori dall'Ocse. La Russia pianifica la costruzione di almeno dieci centrali nel paese. L'India ha appena acquistato sei reattori per sviluppare il nucleare civile dalla francese Areva, impresa che sta già costruendo in Finlandia e ha progetti per Gran Bretagna, Usa, Sudafrica e Cina. Pechino vuole aumentare la produzione di elettricità da fonte nucleare dagli attuali nove a settanta gigawatt entro il 2020 e nei prossimi tre anni dovrebbe iniziare la costruzione di otto nuove centrali.
Tornando a Stoccolma, l'infelice decisione del governo di centro-destra prolunga la vita del nucleare nazionale attraverso la sostituzione dei vecchi reattori con nuovi modelli, in grado di produrre circa il doppio dell'energia rispetto ai livelli attuali. E stravolge trent'anni di storia. Era infatti il 1980 - sei anni prima di Cernobyl e sette anni prima del "no" al nucleare in Italia - quando gli svedesi, in un referendum, decisero lo spegnimento delle centrali. Solo l'Austria aveva votato prima, nel 1978. Finora effettivamente solo una centrale era stata chiusa, mentre la vita degli altri dieci reattori - che producono circa la metà del fabbisogno elettrico nazionale - era stata prolungata e la capacità di produrre energia elettrica aumentata. Ci vorranno comunque almeno 13 anni prima che il primo nuovo reattore entri a regime.
L'«accordo storico», come l'ha definito il premier Reinfeldt, frutto di una mediazione tra partito di centro e democristiani, fa parte di un pacchetto di misure per la difesa del clima e prevede anche il potenziamento dell'eolico e la riduzione delle emissioni del 40% entro il 2020, anno in cui la Svezia dovrebbe diventare indipendente dal petrolio. Reinfeldt si augura che il suo paese sia d'esempio per il mondo intero. E l'augurio del premier dovrebbe far suonare un campanello d'allarme. La Svezia avrà la presidenza di turno dell'Ue nella seconda metà del 2009 e a dicembre si terrà, a Copenhagen, la conferenza internazionale che deciderà del dopo Kyoto. Solo tre giorni fa il parlamento europeo ha licenziato un «piano per il clima», sulla strada di Copenhagen, secondo cui ogni paese potrà puntare al rispetto del limite di emissioni con il mix energetico che preferisce, nucleare compreso. In Germania gli antinuclearisti guardano con preoccupazione alla legge varata nel 2002 dall'ex governo rosso-verde di Schröder, che prevede l'uscita dal nucleare entro il 2021. La Svezia era stata un modello per la Germania in fatto di dismissione degli impianti. E oggi il modello è cambiato. Se il centro destra dovesse vincere le prossime elezioni a settembre la vita delle centrali tedesche sarà prolungata fino al 2030.
A metterle tutte in fila, le scuse dei governi e dei lobbisti per la seconda giovinezza del nucleare, fanno una certa impressione. La crescita dei prezzi di gas e petrolio, ora interrotta ma destinata a tornare; l'indipendenza politico-economica dai paesi che controllano quelle materie prime (ricordate la crisi del gas? ); il surriscaldamento globale dovuto alle emissioni di Co2. Dall'altra parte ci sono le ragioni degli antinuclearisti: la costruzione di nuovi impianti richiede tempi lunghi e ingenti risorse, che potrebbero essere impiegate per accelerare i progressi della ricerca nel campo delle energie alternative. E poi anche il nucleare vuole le sue materie prime, uranio, torio o plutonio. C'è il problema dello smaltimento delle scorie e quello della sicurezza, secondo alcuni impossibile da risolvere.

Liberazione 07/02/2009, pag 11

La fortuna dei "Quaderni" nel subcontinente

GiustificaL'India postcoloniale élite contro subalterni

Marianna Scarfone
Il Collettivo dei Subaltern Studies nasce alla fine degli anni Settanta quando un gruppo di storici - più tardi si definiranno "accademici marginalizzati" - decide di dare vita ad una collana da pubblicarsi in India, Subaltern Studies. Writings on South Asian History and Society , di cui usciranno, tra il 1982 ed il 2005, dodici volumi.
Gli storici dei Subaltern Studies intendono dare spazio nella nuova storiografia indiana a soggetti che da essa sono sempre stati emarginati, scardinando la posizione di acritica centralità di cui godono i gruppi dominanti nelle storiografie "élitiste", di matrice colonialista o nazionalista, valorizzando invece il tessuto autonomo di relazioni e modalità che definisce lo spazio politico subalterno. Propongono una riflessione sistematica e approfondita su tematiche legate all'«attributo generale della subordinazione», declinabile in termini di classe, casta, età, genere, professione: un'indagine - per dirla con le parole di Ranajit Guha, uno degli ispiratori del collettivo - che attraversi «la storia, gli aspetti politici, economici e sociali della subalternità, le attitudini, le ideologie e le credenze - ovvero la cultura che informa tale condizione».
Al centro del progetto storiografico, intrinsecamente politico, vi è il concetto di "subalterno", inteso, come del resto da Gramsci stesso, come capace di comprendere, quali soggetti della trasformazione, oltre gli operai "metropolitani", tutti coloro che vivono «ai margini della storia». Attraverso questa categoria viene tematizzata la relazione dialettica tra dominanti e dominati, tra élite che con ogni mezzo aspira all'egemonia e massa subordinata - nel contesto coloniale doppiamente sub-ordinata: all'autorità indigena tradizionale e al potere coloniale - che in idiomi peculiari esprime il proprio senso comune e tenta di sovvertire l'ordine imposto dall'alto.
Ispirati dalla lettura dei Quaderni , nella Selection inglese del 1971, questi storici si attengono all'indicazione metodologica fornita da Gramsci secondo cui lo "storico integrale" deve impegnarsi a cogliere «ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi sociali subalterni», dal momento che la storia di questi gruppi che abitano le periferie di un presunto centro politico economico ed epistemico risulta «necessariamente disgregata ed episodica», tende ad essere cancellata e manipolata dalle narrazioni prodotte dalle classi dominanti per sostenere il proprio progetto egemonico.
L'applicazione di categorie mutuate da Gramsci a circostanze e dinamiche storiche precise, risulta particolarmente acuta ed efficace nelle riflessioni di Ranajit Guha, membro più anziano del Collettivo e antesignano nell'analisi della "coscienza contadina" e delle sue manifestazioni caratteristiche, della società rurale e dei soggetti che la costituiscono, e di Partha Chatterjee, più giovane di una generazione, studioso del nazionalismo e del suo rapporto con le forme di sapere-potere occidentali, del ruolo dell'élite borghese liberale-progressista nella realtà indiana e delle resistenze opposte al suo progetto egemonico normalizzatore da parte dei gruppi subalterni.
Nella riflessione di Guha affiora prepotentemente il tema dell'egemonia. Per egemonia Guha intende quel «concetto dinamico» che rappresenta l'articolazione storica concreta del potere tale per cui, nel quadro della dialettica dominio/subordinazione, nella composizione organica del dominio, la persuasione ha un peso maggiore della coercizione.
Egli sostiene che l'élite coloniale prima e quella nazionalista "indigena" in seguito abbiano entrambe fallito nel generare «un consenso attivo e volontario (libero)», presupposto ineludibile per una compiuta egemonia, ed abbiano entrambe fabbricato ad hoc, con la complicità delle storiografie conniventi, un'egemonia spuria, che mascherasse i mezzi violenti e repressivi (arroganza e discriminazione razzista; intimidazione, ostracismo sociale e violenza fisica) su cui i due regimi hanno fondato il loro dominio, un dominio senza egemonia.
Chatterjee analizza la transizione dallo Stato coloniale allo Stato nazionale postcoloniale in termini di rivoluzione passiva, «la forma politica in cui […] la borghesia [può] giungere al potere senza rotture clamorose» e attraverso la quale lo sviluppo nazionale del capitale può prodursi senza risolvere la tensione insita nel discorso nazionalista, indiano nel caso specifico, che, nel tentativo di costituirsi come discorso diverso rispetto a quello colonialista occidentale, resta «prigioniero della struttura di potere che intende ripudiare».
La trasformazione politica che il movimento nazionalista indiano si propone è limitata, "molecolare": esso non intende trasformare radicalmente le strutture del governo inglese, né erodere in maniera significativa il potere delle classi dominanti precapitaliste. La strategia messa in campo, fondata sull'appropriazione dell'azione politica dei gruppi subalterni, produce un modello di politica nazionale in cui i subalterni sono mobilitati ma non partecipano: lo Stato nazionale postcoloniale incorpora i ceti subalterni nello spazio immaginario della nazione ma li tiene a distanza dallo spazio politico reale del potere dello Stato.
Chatterjee, nella sua analisi della rivoluzione passiva in una realtà non europea, distingue «tre momenti ideologici necessari» a delineare la forma paradigmatica del pensiero e della politica nazionalista e li applica al caso indiano. Dopo l'avvio e prima della maturità, ossia il compimento della rivoluzione passiva, che pur lascia sospese le contraddizioni tra il capitale e il popolo, tra uno Stato che si proclama rappresentativo ed una popolazione che non si sente rappresentata, la fase centrale è quella della manovra. In questa fase il discorso e la pratica nazionalista mobilitano l'elemento popolare attraverso un'azione di propaganda, al fine di costituire con esso il blocco storico per la rivoluzione passiva del capitale, portando in questo modo al massimo sviluppo la tesi grazie all'inclusione più o meno forzata in essa di una parte dell'antitesi, secondo la definizione gramsciana di rivoluzione passiva. È il Gandhismo, secondo Chatterjee, con le sue aspirazioni ambigue, a porre le basi per l'ideale inclusione di tutto il popolo nella nazione, in realtà, negli sviluppi dello Stato nazionale, per la sua concreta esclusione. Già Gramsci aveva descritto il Gandhismo come una teorizzazione ingenua e a tinta religiosa della rivoluzione passiva; probabilmente questo è il punto di partenza per l'analisi di Chatterjee, che riesce a svolgere esaustivamente l'idea di traduzione della categoria interpretativa di rivoluzione passiva nel contesto indiano, in Gramsci appena accennata.
Categorie e concetti elaborati dal filosofo sardo forniscono dunque agli storici dei Subaltern Studies, che intendono proporre un'alternativa percorribile al marxismo ortodosso, fortemente eurocentrico, chiavi interpretative per leggere la realtà e la società indiana, per cogliere i conflitti e le contraddizioni che ne permeano il processo storico.

Dalla relazione "Gramsci in India: i Subaltern Studies"

Liberazione 10/02/2009, pag 13

La cosmopolismo di Gramsci antidoto al leghismo

Giorgio Baratta
Il crollo del socialismo reale e il rigonfio dell'americanismo, la violenza arrogante dell'era Bush e il trionfo dei fondamentalismi che mette in crisi le acquisizioni del postcolonialismo, la globalizzazione economica e mediatico-culturale, ora la crisi, hanno determinato e determinano in varie parti del mondo il risveglio di interesse per il pensiero di Gramsci. In un senso paradossale, ma non peregrino, il suo modo-metodo di pensare appare per alcuni versi più attuale oggi rispetto al periodo nel quale egli scriveva. La sostanza internazionale del pensiero di Gramsci e, insieme, il motus - crescendo regionale-nazionale-continentale-mondiale che essa sprigiona, sono la ragione della sua fortuna oggi, diversa da quella di ieri. Il focus sta nella consapevolezza della mondializzazione della politica a dominanza americana, a fronte della certezza che la filosofia della prassi, animata da un autentico «filosofo democratico» o «pensatore collettivo», delinea o può delineare un orizzonte pratico-teorico nel quale morendo, come muore, il "vecchio", si profila all'orizzonte il "nuovo", anche se per ora, come Gramsci scrive nel Quaderno 3, «non può nascere». Che cosa fosse e cosa potrà essere questo "nuovo", è il suo, e nostro, sogno di una cosa. Nel Quaderno 1 Gramsci rivendica, differenziandosi da Lenin e dalla linea di pensiero dell'Internazionale, la fioritura di una nuova fase del capitalismo, che si annuncia attraverso il primato economico e politico degli Stati Uniti e l'egemonia americana/americanista. In questo contesto egli ripropone la questione meridionale - affrontata a livello tutto italiano nelle Tesi del 1926 - in una dimensione internazionale, rispetto alla quale l'emblematico, per l'Italia e l'Europa «mistero di Napoli», si ricollega a tutti i Sud del mondo, in particolare a quei Paesi asiatici, come «l'India e la Cina», ove si presentano il «ristagno della storia e l'impotenza politico-militare». Tuttavia già nel Quaderno 2 Gramsci lumeggia un possibile transito: «Se la Cina e l'India diventassero nazioni moderne, con grandi masse di produzione industriale» e «si sposterà l'asse della politica mondiale dall'Atlantico al Pacifico», che cosa accadrà? Si capisce bene la prudenza politico-programmatica di Gramsci in un «mondo grande e terribile» che risulta, «specialmente per chi è in carcere, sempre più incomprensibile».
Un punto fermo è l'insistenza, anche metaforica ed espressiva, di Gramsci sulla categoria "mondo", spia della centralità del cosmopolitismo=nuovo internazionalismo nel ritmo del suo pensiero. Gli studi geo-politici e culturali (ad es. di Boothman, che interverrà sull'Islam a Cagliari) hanno avviato la «filologia vivente» di questa dimensione.
Banco di prova di un «moderno cosmopolitismo», a partire dal «vecchio centro», in via di sfaldamento, è, per un verso, la «crisi italiana», per altro la questione europea. Di qui la singolare e problematica, ma efficace espressione: «una nuova cosmopoli europea e mondiale». A che cosa pensa Gramsci?
Nel Quaderno 9 leggiamo: «Nel Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di creare il mito di una missione dell'Italia rinata in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma è un mito puramente verbale e cartaceo». A fronte di questo cosmopolitismo «tradizionale, gonfio di retorica e di ricordi meccanici del passato», che aspira a modernizzarsi coniugandosi, sia pure da posizioni arretrate, con l'«uomo-capitale», Gramsci ribadisce che «l'espansione italiana è dell'uomo-lavoro non dell'uomo-capitale. Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romanus o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà». E' cieco chi non veda in questo passo lungi-mirante un modello passato del ricongiungimento, che il presente quadro politico italiano ci offre, tra le godurie mediatiche dell'«uomo capitale» e i rigurgiti clerical-fascisti di «ricordi meccanici del passato». Quel che stona con l'oggi è evidentemente la pars costruens , che manca, cioè l'italiano uomo-lavoro produttore di civiltà.
Dalla Sardegna all'Italia, all'Europa, al mondo: «l'unificazione del genere umano» - analiticamente la ripresa di ciò che Marx una volta chiamò il «comunismo del capitale», progettualmente la trasformazione del senso comune in comunismo socialista - è un leit-motiv nascosto, a volte affiorante, nelle pieghe di tutti i Quaderni . Abbiamo parlato dell'Italia. Guardiamo all'Europa, anche qui nella tensione passato-presente. L'"europeismo" di Gramsci è una convinzione fortissima. Dal quaderno 6: «Esiste oggi una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi: se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola "nazionalismo" avrà lo stesso valore archeologico che l'attuale "municipalismo"».
Il punto delicato, oggi in questione, è il nesso che Gramsci stabiliva tra Europa e Nuova Cosmopoli. Si registra un paradosso: mai come oggi l'unione europea è apparsa tanto fragile e politicamente inconsistente; mai come oggi, tuttavia, la ricerca di un'alternativa al "nuovo ordine mondiale" "di marca americana" dimostra un bisogno urgente di iniziativa dell'Europa - "potenza di mediazione" - congeniale a quella che Gramsci chiamava «una moderna forma di cosmopolitismo». La gramsciana dialettica del contrappunto tra forme plurime di appartenenza e comunanza degli individui, ha rappresentato e rappresenta una grande sfida contro la tragica mania identitaria che ha in gran parte caratterizzato, in difetto di prospettive concretamente internazionaliste, la storia del Novecento e di questo inizio di secolo. Così Gramsci ha potuto ragionare sul valore politico del suo ancoramento alle proprie radici in Sardegna e insieme ha esplicitato l'esigenza di una radicale fuoriuscita dal suo originario «triplice o quadruplice provincialismo» al fine di abbracciare una coscienza, più che nazionale, "europea": coscienza difficile, che non può, né deve chiudersi in se stessa, in un'epoca, come si dice nel Quaderno 2, nella quale «l'Europa ha perduto la sua importanza e la politica mondiale dipende da Londra, Washington, Mosca, Tokyo più che dal continente».
Il nostro Convegno affronta Gramsci e la "sua" Europa fuori dell'Europa: tematizza la presenza dell'Asia e dell'Africa nel suo pensiero, e insieme l'attualità di esso in questi continenti. Sono noti i processi di studio e di uso produttivo di Gramsci in Asia, come dimostrano i Subaltern Studies fondati da Guha in India. E l'Africa? Il Convegno è una promessa, quale tematizzazione di un argomento certo secondario, ma non irrilevante nei Quaderni. Uno studioso della letteratura senegalese immaturamente scomparso, Werner Glinga, delineò, in una magistrale analisi nel Convegno romano del Cipec del 1987, nel quale fu concepita la IGS, il "triangolo della schiavitù" tra Africa, Europa, America, che Gramsci aveva tenuto presente. Il grande intellettuale nero Cornel West - allora consulente di Jesse Jackson, candidato alternativo a Reagan per la presidenza degli Stati Uniti, così come quest'anno è stato un promotore della candidatura di Obama - mise in guardia, in una videorelazione a quello stesso convegno, dall'uso dell'apocope "afro-americano", sottolinando la necessità, financo linguistica, di lasciare spazio all'eredità africana della nazione americano-statunitense.
Certo ancora non sappiamo in che cosa consisterà quella che già che viene chiamata l'era Obama. Siamo solo agli albori. Tendenzialmente i suoi compiti si possono caratterizzare con l'articolazione: riforma economica, rivoluzione simbolica, mutamento dello scenario internazionale (per non parlare di ecologia): momenti diversi - difficile dire se solidali o in contrasto tra loro - di una medesima problematica, estremamente complessa.
Come si presenterà il volto dell'America e dell'americanismo con Obama? Che cosa dirà Gramsci?

Relazione di apertura del convegno "Gramsci in Asia e in Africa", organizzato dal dipartimento di studi storico-politico internazionali dell'università di Cagliari giovedì e venerdì presso l'aula magna della facoltà di Scienze politiche (via di Sant'Ignazio 78). Sarà presentato anche il videosaggio di Giorgio Baratta e Massimiliano Bomba "Terra Gramsci"

Liberazione 10/02/2009, pag 12

DIECI ANNI DI HUGO CHÁVEZ IN VENEZUELA, TEMPO DI BILANCI

GiustificaGennaro Carotenuto
(03 febbraio 2009)

Ha dimezzato la povertà e la disoccupazione in uno dei paesi più ricchi e ingiusti del mondo. Una straordinaria sollevazione popolare lo ha fatto sopravvivere ad un colpo di Stato organizzato da George Bush, da José María Aznar e dal Fondo Monetario Internazionale. Ha costruito un sistema mediatico equilibrato laddove aveva voce solo il “pensiero unico”, è stato il primo capo di stato a dire che il neoliberismo era un crimine e aveva fallito ed è stato uno dei padri dell’integrazione latinoamericana. Adesso, finita la bonanza degli alti prezzi del petrolio riuscirà a mantenere la promessa di un Socialismo del XXI secolo?
C’è un dato che non può essere eluso quando si parla di bilanci per i dieci anni di governo di Hugo Chávez. Secondo il CEPAL, l’istituto di studi economici delle Nazioni Unite, l’azione del suo governo ha portato al crollo degli indici di povertà dal 50 al 30% e quelli di indigenza dal 21.7 al 9.9%. Che piaccia o no a chi parla di regime, di caudillo e trama da anni per rovesciarlo con ogni mezzo antidemocratico, oggi milioni di venezuelani ridotti alla disperazione dal sistema neoliberale della IV Repubblica, hanno ritrovato speranza e dignità.
E’ stato costruito da zero o quasi un sistema di salute pubblica che oggi conta (i dati citati sono sempre della Nazioni Unite, CEPAL o UNESCO) 4.500 tra ambulatori, pronti soccorsi e centri ospedalieri che hanno permesso dal 2003 ad oggi la più grande riduzione al mondo della mortalità infantile. Dal 2005 l’UNESCO ha dichiarato il Venezuela libero dall’analfabetismo, il 96% dei venezuelani ha oramai accesso all’acqua potabile. La disoccupazione, esattamente dimezzata, è oggi al 7%. Ma se nel resto del continente questi anni di grande crescita economica si sono caratterizzati per crescita del lavoro informale, in Venezuela i posti di lavoro creati sono soprattutto formali, legali, nei servizi, nei trasporti, nel settore commerciale e bancario.
A questi dati che danno la misura dello sforzo di un ricchissimo paese del terzo mondo se ne aggiungono altri che possono fare invidia anche a paesi del primo mondo. La ricerca scientifica, che quando governavano i partiti che "El País" di Madrid considera democratici era quasi a zero, oggi è in percentuale quasi il triplo di quella italiana. Il debito pubblico è passato dal 73 al 15% del PIL e le riserve internazionali sono triplicate. Al momento del colpo di Stato dell’11 aprile 2002, il 100% dell’informazione apparteneva a media commerciali dell’opposizione. Ancora oggi l’opposizione ha la maggioranza dei media, ma forme di pluralismo sono garantite perfino al governo popolare sopravvissuto a quello che è stato definito il primo colpo di Stato mediatico della storia. La corruzione infine non è certo scomparsa in Venezuela con il governo bolivariano, ma è bastato che una parte dell’enorme fiume di denaro in tangenti che prendeva la via delle Bahamas fosse destinato al popolo che il paese rinascesse.
Dati così positivi che nessun analista in buona fede può ignorare sono stati possibili per il coniugarsi di due fattori fondamentali. Da una parte c’è stato un netto spostamento di egemonia politica dalle classi alte a quelle popolari. L’esplosione della partecipazione politica di queste ha prodotto il movimento bolivariano, non viceversa. Questo, una volta arrivato al governo con Hugo Chávez, ha potuto beneficiare di una lunga stagione di bonanza petrolifera con i prezzi del greggio, la principale risorsa del paese da sempre, ai livelli più alti dagli anni ’70. In questo contesto lo spostamento di egemonia verso le classi popolari ha permesso la costruzione di uno stato sociale importante e di politiche integrazioniste nella regione.
Se a dieci anni dall’inizio del governo bolivariano i risultati positivi non possono essere messi in discussione vanno valutati anche aspetti negativi del processo e le lentezze nel cambiamento. Al primo posto vi è senz’altro il sostanziale non intaccamento della schiavitù da monocultura. Il paese continua ad essere troppo dipendente dal petrolio. Se è evidente che qualunque altra attività economica è meno redditizia di quella petrolifera è altrettanto evidente che la diversificazione dell’economia è una battaglia che è lontanissima dall’essere vinta. Ciò fa sì che il Venezuela continui ad essere un importatore netto della maggior parte dei beni di consumo, alimenti compresi. Inoltre, nonostante la crescita del narcotraffico non sia paragonabile con quella di paesi come la Colombia o soprattutto il Messico, la diminuzione della povertà e la creazione di posti di lavoro non hanno visto diminuire la violenza e la criminalità. Il Venezuela continua ad essere un paese violentissimo e la polizia e il potere giudiziario continuano ad essere parte del problema e non della soluzione. Inoltre il chavismo in dieci anni ha solo parzialmente risolto il problema del partito, il PSUV, Partito Socialista Unitario del Venezuela, il luogo della burocrazia dove spesso si alligna il carrierismo e la corruzione. Questo dal 2007 ha relativamente dato risposta al problema della frammentazione ma i movimenti sociali, la spina dorsale del chavismo, in questi anni non si sono mai fidati veramente del livello politico per far riferimento al presidente, il che è una risposta al problema, ma non un bene.
Luci, molte luci, alcune delle quali strutturali, e qualche ombra, alcune delle quali restano come debito storico forse per altre stagioni politiche. La domanda per il prossimo decennio è: saprà la rivoluzione bolivariana sopravvivere e consolidarsi all’attuale stagione di basso prezzo del petrolio? Saprà far uscire il paese dal sottosviluppo o dello stato sociale resterà il clientelismo e l’assistenzialismo? Saprà continuare a dare impulso al Socialismo del XXI secolo e all’integrazione regionale? Di sicuro la grande onda degli anni 2002-2007, della grande avanzata è alle spalle. Il 15 febbraio un referendum stabilirà se il presidente Chávez potrà candidarsi alle prossime elezioni. Quel giorno si misurerà quanto i venezuelani, molti dei quali devono al governo il transitare dalla povertà verso la classe media, ci credono ancora.

fonte www.gennarocarotenuto.it

Il Cavaliere e il Padrino

Cosa c’è scritto nel “Piano di rinascita democratica” di Licio Gelli, capo della Loggia P2

«Guardo il paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza pezzo per pezzo. Dovrei avere i dritti d’autore. Ho scritto tutto trent’anni fa»

Maria R. CalderoniEra nascosto nel doppiofondo di una valigia, quella di sua figlia Maria Grazia: la Guardia di Finanza lo scopre e lo sequestra all'aeroporto di Fiumicino dove la donna era appena atterrata un giorno di luglio del 1982: è il documento numero 1, il Programma di Licio Gelli, quello che il capo della loggia Propaganda 2, P2 per gli amici, ha intitolato senza battere ciglio "Piano di rinascita democratica". Quello appunto reso noto e pubblicato negli atti della Commissione parlamentare d'inchiesta che indagò sulla loggia piduista e riferì al Parlamento dopo due anni e mezzo di lavori.Capitolo per capitolo. Il testo è lungo diverse cartelle e suddiviso in varie parti, data di nascita 1979, trent'anni fa. Rileggiamolo punto per punto.Premessa «Va rilevato che i programmi a medio e lungo termine prevedono ritocchi alla Costituzione successivi al restauro delle istituzioni fondamentali». E precisamente. Giustizia . Modifica della Costituzione per quanto riguarda: 1) «Responsabilità del Guardasigilli verso il Parlamento sull'operato del Pm»; 2) «Riforma del Consiglio superiore della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento». Governo . Modifica della Costituzione: 1) «Per stabilire che il presidente del Consiglio è eletto dalla Camera all'inizio di ogni legislatura e può essere rovesciato soltanto attraverso l'elezione del successore; 2) «per stabilire che i ministri perdono la qualità di deputati». Parlamento . Modifica della Costituzione «per dare alla Camera preminenza politica (nomina del Primo Ministro) ed al Senato preponderanza economica (esame del bilancio)». E «per effettuare in uno stesso giorno ogni 4 anni le elezioni nazionali, regionali e comunali». Presidente della Repubblica . Modifica della Costituzione per «ridurre a 5 anni il mandato, sancire l'ineleggibilità ed eliminare il semestre bianco». Regioni . Modifica della Costituzione «per ridurne il numero e determinarne i confini secondo criteri geoeconomici più che storici». Sindacato . «Regolare la vita dei sindacati limitando il diritto di sciopero nel senso di: 1) introdurre l'obbligo di preavviso; 2) escludere i servizi pubblici essenziali (trasporti, pubbliche amministrazioni in genere); 3) limitare il diritto di sciopero alle causali economiche ed assicurare comunque la libertà di lavoro». Scuola . «Selezione meritocratica». Stampa . «Abolire tutte le provvidenze agevolative con onere del pubblico erario, e abolire il monopolio Rai-Tv».Il Piano prevede anche, nell'ambito del capitolo "Programmi", la riduzione del numero dei parlamentari, l'abolizione delle province; l'abolizione della validità legale dei titoli di studio; la responsabilità civile (per colpa) dei magistrati; la normativa per l'accesso in carriera (esami psico-attitudinali preliminari). E, nota bene, la «concessione di sgravi fiscali ai capitali stranieri per agevolare il ritorno dai capitali dall'estero».Questa la cornice, il "contenitore" ben delineato e a prova di forza (esecutivo in botte di ferro). Ma poi occorrono i "Procedimenti" - cosa e come fare a breve, medio e lungo termine -: anch'essi indicati nel Piano in modo dettagliato. E', in sostanza, il "mondo politico" tenuto in pugno. Ed ecco come. «Selezionare gli uomini e affidare ai prescelti gli strumenti finanziari sufficienti a permettere loro di acquisire il predominio nei rispettivi partiti» (con tanto di nomi e cognomi, e precisamente: «Mancini, Mariani e Craxi per il Psi; Visentini e Bandiera per il Pri; Orlandi e Amidei per il Psdi; Andreotti, Piccoli, Forlani, Gullotti e Bisaglia per la Dc; Cottone e Quilleri per il Pli; Covelli ("eventualmente", sic) per la Destra Nazionale»).Se però questi politici, pur abbondantemente foraggiati, non rispondono allo scopo, allora bisogna aggiornare la tattica. E precisamente: «Usare gli strumenti finanziari stessi per l'immediata nascita di due movimenti, l'uno sulla sinistra (a cavallo fra Psi-Psdi-Pri-liberali di sinistra) e l'altro sulla destra (a cavallo tra Dc e Destra nazionale)». L'abbiamo visto, l'abbiamo visto...Un occhio attentissimo, poi, bisogna dare «alla stampa (e ai giornalisti): occorrerà «redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi per ciascun quotidiano o periodico... Ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di "simpatizzare" per gli esponenti politici di cui sopra». E quali e quanti giornali? Il Piano è anche qui molto preciso; questi, uno dietro l'altro, i giornali, quotidiani e periodici, da "influenzare": «Corriere della Sera, Giorno, Giornale, Stampa, Resto del Carlino, Messaggero. Tempo, Roma, Mattino, Gazzetta del Mezzogiorno, Giornale di Sicilia, Europeo, Espresso, Panorama, Epoca, Oggi, Gente, Famiglia cristiana». Un orizzonte a 360 gradi. Mica scemo.Questo è il «primo tempo». Il Piano Gelli passa poi al «secondo tempo». E cioè. «Acquisire alcuni settimanali di battaglia; coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata; coordinare molte tv via cavo con l'agenzia della stampa locale; dissolvere la Rai-Tv in nome della libertà di antenna». Quanto ai sindacati - materia importantissima nel programma piduista - «la scelta prioritaria è la sollecitazione alla rottura, seguendo cioè le linee già esistenti in certi settori della Cisl e della Uil, per poi agevolare la fusione con gli autonomi, acquisire con strumenti finanziari i più disponibili fra i confederati allo scopo di rovesciare i rapporti di forza all'interno dell'attuale Trimurti», sic. Dulcis in fundo, nota bene: «Detti programmi possono essere esecutivi, occorrendo, con normativa d'urgenza, cioè con decreti legge», sic sic. Un bel giro d'orizzonte, che ci è purtroppo familiare, oggidì. A suo tempo, il presidente della Commissione parlamentare sulla P2, l'on. Tina Anselmi (Dc), sottolineò senza giri di parole «l'ampiezza e la gravità di tale piano, che coinvolge, ad ogni livello di responsabilità, gli aspetti più qualificati della vita nazionale». Tanto che, «a questa vasta e complessa operazione può essere riconosciuto un disegno generale di innegabile valore politico»; il quale - sempre secondo la Anselmi - si traduce essenzialmente in uno «strumento di intervento per operazioni di controllo e di condizionamento» (buono anche ai giorni nostri?).Licio Gelli oggi ha quasi novant'anni. Sia pure agli arresti domiciliari, vive da gran signore nella sua villa di Castel Fibocchi (al momento dell'arresto, a Cannes, dove si era rifugiato dopo la fuga, la polizia gli pizzicò 2 milioni di dollari in lingotti d'oro); e se la spassa un sacco, atteggiandosi pur sempre a maestro e propinando articoli, interviste e comparsate tv, mediante i quali guarda e giudica dall'alto le cose e gli uomini della politica italiana, qui e ora. Giustamente soddisfatto. Anzi gratificato. Ne ha di che. I suoi uomini infatti ancora sono lì dentro, lì dove c'è il potere. A cominciare dal number one, il presidente oltranzista Berlusconi. Nel famoso elenco, 962 nomi, lui aveva bensì la tessera numero 625 («fu Roberto Gervaso, mio amico, a presentarmi Gelli, non ho mai pagato la quota, ero un semplice libero muratore apprendista»...); ma ha scalato la vetta con una velocità da lasciare a bocca aperta (o forse no...) ed è lui ora il primo. Anzi, Il Primo e Il Migliore, parola di Gelli, «Berlusconi è un uomo fuori dal comune. Un uomo del fare. Di questo c'è bisogno in Italia: non di parole, di azioni».Ma non solo lui. All'elenco piduista, in queste ore, gli abbiamo ridato un'occhiata, tanto per rinfrescare la memoria (quell'elenco «fu un memorabilissimo casino - scrive Stefano Di Michele nel suo "I magnifici anni del riflusso", Marsilio - Si trovò, si fa per dire, ogni ben di Dio, generali e manager, giornalisti e politici»). E, tra quei quasi mille, è pur vero che alcuni ancora risultano ben piazzati là dove si decide, fuori e dentro il governo del Cavaliere. Ma è lo spettacolo d'insieme a impressionare. Lo dice con disarmante arroganza lo stesso Licio Gelli, in una intervista a Repubblica , settembre 2003. «Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza poco a poco, pezzo per pezzo. Forse sì, dovrei avere i diritti d'autore. La giustizia, la tv, l'ordine pubblico. Ho scritto tutto trent'anni fa».

- - - - - - - - - - - - -

Punto per punto, il piano sta diventando realtà

Direzione Gelli La strada percorsa

Da Telemilano a Mediaset, l’assalto ai media riesce.
Lo “scudo fiscale” e i decreti a pioggia; il sindacato sotto scacco
e la Costituzione a tiro di modifiche

Veramente l'aveva già detto - anzi scritto - Umberto Bossi, in quel suo libro dato alle stampe nel 1995 - "Tutta la verità", Sperling&Kupfer - pagina 31-32. «Berlusconi è la materializzazione di un sogno antico, accarezzato da quel tale Licio Gelli... Andate a rileggervi il "Piano di rinascita". Forza Italia è un partito tutt'altro che nuovo, è la riedizione - con lo stile e i mezzi degli anni Novanta - delle "premonizioni" gelliane. Al pari della Loggia P2, il partito berlusconiano è un'invenzione di uomini di potere, una creatura costruita in laboratorio e messa in circolazione attraverso il monopolio televisivo privato». E di seguito: «La P2 era nata per tutelare grandi interessi affaristico-massonici attraverso il controllo del potere politico e dei corpi dello Stato; Forza Italia nasce allo scopo di preservare il potere politico-affaristico del gruppo Fininvest e delle "entità" che lo hanno generato, non più tutelato dall'asse di ferro Dc-Psi».Premessa e analisi giuste, però poi Bossi a quanto pare ci è passato sopra; ma, a proposito, che ne è stato, della «materializzazione del sogno accarezzato da quel tale Licio Gelli»?Ne è stato (e ne è). Nascita di due partiti strategici , a destra e a sinistra. Sicuramente uno è il Partito della Libertà, proteso oggi a inglobare anche An (e, nell'ottica gelliana, sull'altro versante, potrebbe andar bene il Pd...). Ripartizione di competenze fra le due Camere . Data dal 1997 il Progetto Bicamerale, al lavoro soprattutto Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi, leader dei maggiori schieramenti. Progetto allora fallito, ma sempre in agenda, e sempre perseguito, come si vede soprattutto in questi giorni.Divisione tra ruolo del Pm e del giudice; responsabilità del Csm verso il Parlamento . Entrambi obiettivi anch'essi da sempre nell'agenda politica di tutti i governi Berlusconi (e parzialmente raggiunti, lodo Alfano).Riduzione del numero dei parlamentari; abolizione delle province; abolizione della validità legale dei titoli di studio . Nel programma elettorale di Forza Italia e Popolo delle libertà, sempre all'attenzione. Concessione di sgravi fiscali per il ritorno dei capitali esportati . Misura più che realizzata, sotto forma del condono detto "scudo fiscale".Controllo dei media . Tre canali televisivi acquisiti; controllo (diretto o indiretto) di svariate testate giornalistiche; propri uomini ben fidati collocati sia ai piani alti che a quelli bassi della tv pubblica (verso la quale continuano le manovre verso la privatizzazione): è questa la vicenda paradigmatica che merita di essere raccontata più estesamente. E' il Lodo Mondadori, ad esempio, detto anche la Guerra di Segrate. E' lo scontro finanziario all'ultimo sangue che vede Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti in lotta per la conquista del gruppo Mondadori, tra plurimi clamorosi processi, avvocati corrotti e corruttori, governo e partiti in campo: prendi la Mondadori e scappa, alla fine il Cavaliere ce la fa e diventa padrone di Panorama, Epoca (oggi defunto) e di tutto il resto del più forte gruppo editoriale italiano, mentre alla Cir di De Benedetti restano La Repubblica e L'Espresso . Ed è l'incredibile scalata della Finivest nel campo dell'editoria e della comunicazione televisiva, pronuba la famosa Legge Mammì (fortissimamente voluta da un grande amico di nome Bettino Craxi). Nata nel 1978, inizia da una Società Europea di Edizioni che controlla il Giornale ; l'anno dopo arriva Telemilano, poi in sequenza ReteItalia e Publitalia; presto Telemilano, che va alla grande, si trasforma in Canale 5; nel 1983 il gruppo si espande ancora e acquisice Italia 1 e poi Rete 4 (1984), nonché il settimanale Sorrisi e canzoni , uno dei più importanti periodici di spettacolo e tv. Nel 1996, la Fininvest esce dalle attività televisive e fonda Mediaset, dove confluiscono i tre canali italiani, nonché Telecinco, la tv che nel frattempo è stata aperta in Spagna e ormai piazzata tra le più importanti reti iberiche. Ovvero il Biscione trionfante: una storia esemplare di come si dà l'assalto al settore-chiave dei mezzi di comunicazione, come Gelli comanda.Tanto per citare. Ma è la parte essenziale del Piano piduista, quella che la lunga mano berlusconiana si sforza egregiamente di portare avanti; la parte essenziale, vale a dire l'assorbimento degli apparati democratici della società italiana dentro le spire di un autoritarismo legale, alla Gelli appunto. Una manovra di lunga lena che ha subito una clamorosa accelerazione sotto l'alibi della tragedia Eluana Englaro. Un'accelerazione e anche un definitivo "svelamento".In sequenza e contemporaneamente: attacco al capo dello Stato; modifica della Costituzione (bolscevica) una volta per tutte; rafforzamento dell'Esecutivo, colpendo insieme l'autonomia legislativa del Parlamento (pioggia di decreti) e le prerogative dell'ordine giudiziario (la falsa riforma); deriva populista (la legge sono io), previo smantellamento dello Stato di diritto e dell'equilibrio istituzionale dei poteri.Sergio Flamigni, ex parlamentare Pci, storico del terrorismo, ha fatto parte della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla P2 e il suo giudizio è netto: «Licio Gelli ha ragione di essere soddisfatto dell'esecutivo Berlusconi, perché il Piano di rinascita della P2 è diventato il programma dell'attuale governo, in tutti i settori, dalla giustizia all'economia e alle riforme istituzionali. L'ispirazione fondamentale è quella». E' già tutto scritto. Firmato Gelli.

- - - - - - - - - - - - - - -

"Il venerabile"
Chi è

Figlio di un mugnaio, pistoiese, classe 1919, Licio Gelli, da giovane fascista nel '35 parte volontario con la spedizione delle camicie nere in Spagna, a combattere nelle file di Franco. Torna in Italia nel 1939, militante attivo del Fascio di Pistoia, collaboratore fisso del settimanale locale della federazione e del Guf, l'organizzazione universitaria. Nel '43 aderisce alla Repubblica di Salò, e diventa ufficiale di collegamento tra il governo fascista e il Terzo Reich. Dopo la guerra, entra in contatto con la Cia attraverso Michael Ledeen ed è collaboratore di agenzie di "intelligence" britanniche e americane, nonché stretto amico di Peròn. E' "Maestro Venerabile" della P2, la Loggia segreta cui risultano iscritti politici, alti gradi militari, industriali, funzionari pubblici, giornalisti. Dopo la scoperta della lista-scandalo in seguito ad una ispezione della polizia, Gelli fugge in Svizzera, dove viene arrestato mentre, a Ginevra, cerca di ritirare decine di migliaia di dollari. Evade dal carcere e ripara in Sudamerica, prima di costituirsi nel 1987. Coinvolto nell'operazione Gladio; processato (depistaggio) per la strage di Bologna (85 persone uccise, 200 feriti); riconosciuto colpevole nella bancarotta del Banco Ambrosiano (un "buco" di 1,3 miliardi di dollari); rinviato a giudizio per l'associazione segreta P2. Nel 1994 è stato condannato a 12 anni di carcere. Attualmente è agli arresti domiciliari nella sua villa di Castel Fibocchi.

- - - - - - - - -

Liberazione 14/02/2009, pag 14

sabato 14 febbraio 2009

Balcani Il volto razzista del fascismo

Enzo Collotti
Se vogliamo cercare di capire cos'è la politica di espansione che il fascismo realizza in direzione della penisola balcanica, dobbiamo tenere conto di una serie di fattori. Il primo è il presupposto storicoculturale del vecchio imperialismo nazionalista che ha nella penisola balcanica uno dei suoi obiettivi principali di espansione. Ricordiamo che la guerra di Libia ha solo come oggetto immediato la Libia: l'obiettivo principale è infliggere un serio colpo all'Impero ottomano e aprire la strada alla penetrazione italiana nei Balcani. Allora si pensava che l'Italia, nella fase del decollo industriale, avesse la capacità di espandersi, di realizzare le proprie ambizioni economiche in quell'area. Questo spiega l'ostilità manifestata, subito dopo la fine della prima guerra mondiale, alla creazione dello Stato degli slavi del sud e l'ambizione a fare dell'Adriatico un mare interno italiano. Un secondo punto da tenere presente, quando si parla di questa problematica, è il rapporto tra la politica interna e la politica estera dell'Italia. Negli anni del fascismo - segnatamente a partire dalla seconda metà degli anni venti, indipendentemente da quello che era successo fino all'apparente chiusura della questione fiumana con i trattati di Nettuno del 1925 - l'Italia opera una costante politica di accerchiamento della Jugoslavia. Da nord attraverso l'aggiogamento alla politica del fascismo di Austria e Ungheria, da sud attraverso il favoreggiamento del terrorismo macedone. Successivamente l'Italia appoggerà il separatismo croato degli ustascia, che saranno ospitati e armati all'interno dello Stato italiano. Infine verrà l'occupazione dell'Albania, nell'aprile del 1939, come testa di ponte per continuare questa operazione di accerchiamento della Jugoslavia. Il terzo punto riguarda la problematica dei rapporti, in relazione all'area danubiano-balcanica, tra l'Italia e la Germania. Questi rapporti hanno visto fasi diverse, hanno avuto momenti di acuta crisi intorno alla questione austriaca, ma al momento dell'Anschluss (1938) l'Italia è già sulla strada della ritirata, non è più in grado di competere con la pressione germanica. Questo problema del rapporto con la Germania accompagna tutta la fase di avvicinamento alla guerra, e in guerra, per quanto riguarda l'Italia, la situazione balcanica attraverserà diverse fasi. Il 28 ottobre 1940 ha inizio l'aggressione, intrapresa con estrema leggerezza, alla Grecia. Il motto era «spezzeremo le reni alla Grecia», ma l'esercito italiano rischiò di essere rigettato in mare in Albania dalla resistenza che gli si oppose. Questa è la prima fase. La seconda fase si apre nell'aprile del 1941, quando l'invasione della Jugoslavia da parte delle forze della Wehrmacht e dell'esercito italiano apre definitivamente la via non solo alla sconfitta della Jugoslavia, ma anche, e soprattutto, della Grecia. In un primo momento la Grecia non riconosce di essere stata battuta dagli italiani e viene fatto ripetere l'armistizio, perché i greci vogliono firmarlo solo con i tedeschi, riconoscendo di essere stati sconfitti soltanto da loro. Questi sono i presupposti della complessa politica di occupazione che l'Italia praticherà in quell'area, distinguendo abbastanza nettamente fra il settore jugoslavo e quello greco. C'è da dire che il problema delle occupazioni balcaniche è, nella storiografia italiana, un argomento abbastanza marginale. Questo per varie ragioni: prima di tutto per una reticenza, credo tuttora inesplicabile, a occuparsi di questi problemi. Secondariamente - ma solo secondariamente - per il ritardo nell'acquisizione di fonti.
Bisogna distinguere, però, la Jugoslavia dalla Grecia, perché nel secondo caso il ritardo non è solo della storiografia italiana ma anche di quella ellenica, per motivi del tutto interni alla politica di quel paese. Qualcosa di più è stato fatto per quanto riguarda quella che possiamo chiamare, in riferimento al 1941, la ex Jugoslavia. Perché uso questa espressione? Perché la prima conseguenza della sconfitta militare della Jugoslavia ad opera delle potenze dell'Asse fu la totale disgregazione dello spazio jugoslavo: un vecchio obiettivo dell'imperialismo italiano e del fascismo, realizzato con l'appoggio della Wehrmacht. Questo vecchio obiettivo presentava per l'Italia anche notevoli implicazioni di carattere interno: non dobbiamo dimenticare che in tutta l'avventura balcanica vi sono una responsabilità e un peso della dinastia dei Savoia. Basta pensare alla collezione di corone, o di semicorone, che il sovrano italiano accumulò per sé e per la sua famiglia nella penisola balcanica per rendersi conto del significato dell'alleanza fra monarchia e regime. C'è la presenza di una principessa di casa Savoia in Bulgaria, la presenza del re d'Italia come re d'Italia e d'Albania, successivamente il tentativo di imporre un sovrano di casa Savoia - che per fortuna non prese mai possesso del suo trono - in Croazia. Il rapporto tra potere dinastico e regime fascista, poi, comportò anche l'appoggio di settori forti della politica italiana - nel caso specifico penso alle forze armate - ai disegni di dominazione balcanica da parte dell'Italia. Quindi risulta chiara l'influenza complessiva che lo scacchiere balcanico ha avuto rispetto alla posizione dell'Italia, ai caratteri dell'occupazione italiana in quei territori. Tuttora ci interroghiamo sugli obiettivi specifici di quell'occupazione, al di là della generica aspirazione a sottrarre spazio ai nemici, in particolare all'Inghilterra. Il problema del rapporto con l'Inghilterra in relazione alla penisola balcanica è molto importante, perché il patto di Pasqua del 1938 impegnava l'Italia a non modificare lo status quo nel Mediterraneo orientale. La conquista dell'Albania fu, quindi, un vulnus pesante, all'origine dell'accelerazione dell'Italia verso la guerra. Difficile, tuttora, è capire se ci fosse un disegno, un progetto nei confronti delle aree balcaniche, che andasse oltre la conquista territoriale diretta di certi territori. Questo discorso riguarda soprattutto le aree dell'ex Jugoslavia, e in parte anche la Grecia. L'Italia si annette alcuni territori - di fatto ma in parte anche di diritto, perché emana una serie di normative per quanto riguarda le isole ioniche -, operando una sottrazione a carico della Grecia. Fa molto più corpose sottrazioni di territorio a carico della Jugoslavia. Come con l'annessione - o meglio la cosiddetta annessione - della provincia di Lubiana. Agli sloveni promette la cittadinanza italiana senza mai accordarla, estende le occupazioni dalla Dalmazia alle isole dell'Alto Adriatico, stabilisce - e qui è un altro punto di interesse di casa Savoia - un protettorato sul Montenegro: si tratta di un protettorato di fatto, mentre si considera la possibilità di inserire un altro membro di casa Savoia in Montenegro. Inoltre l'Italia amplia il territorio albanese ai danni della Jugoslavia, con l'aggregazione all'Albania del Kosovo e di una parte della Macedonia, formando quella che poi viene definita «Grande Albania». La Macedonia viene divisa con la Bulgaria, quindi si disegna la disgregazione totale di quella che era la vecchia entità statale della Jugoslavia, e l'Italia tenta di allargare anche i confini dell'Albania in direzione dell'Epiro e della fascia costiera greca a sud dell'Albania, la Ciamuria. Più che un progetto di conquiste territoriali, c'è una pratica di conquiste territoriali che è uno dei risvolti della debolezza, non solo politica ma effettiva, della politica italiana. La politica italiana non ha minimamente la capacità di penetrazione e di tenuta della potenza concorrente tedesca, non è in grado di contestare l'egemonia della Germania. A loro volta i tedeschi avrebbero voluto tenere l'area balcanica fuori dal conflitto immediato: la Germania pensava alla penisola balcanica come grande retroterra di carattere economico, area di rifornimenti, oltre che di drenaggio di manodopera in previsione della guerra all'Est. L'Italia non ha nessuna capacità di penetrazione da questo punto di vista, lo si vedrà soprattutto nello scontro di interessi, non solo genericamente nell'area balcanica, ma in particolare in Croazia, dove il riconoscimento apparente di un'egemonia politica italiana viene contraddetto dall'influenza diretta, immediata, di carattere economico della Germania. Quindi ci troviamo di fronte alla problematica che nasce da questo conflitto di interessi e, in parte, dalla mancanza di obiettivi precisi dell'Italia, nonché dalla sua effettiva impreparazione a fare fronte a impegni di quelle dimensioni. Questa situazione è anche all'origine di altre caratteristiche della politica italiana in quei territori, come l'uso indiscriminato della violenza e della repressione nei confronti non solo dei movimenti di resistenza, ma anche, si potrebbe dire adottando un'espressione che oggi usiamo in altri contesti, in forma di guerra ai civili. E questo è un ennesimo risvolto dell'incapacità sia di avere una visione politica sia di dialogare con le popolazioni. Anche in questo caso, i discorsi che sono stati fatti sulla questione dell'«altro» calzano abbastanza bene, soprattutto per quanto riguarda le popolazioni slave, considerate come una sorta di nemico ereditario. Non vi è nessuno sforzo da parte italiana - almeno in base a quanto per ora possiamo documentare - di capire chi è l'«altro». Ne è testimone la pubblicistica che attraversa la stampa italiana dell'epoca e, più specificamente, la stampa diffusa tra i soldati. La propaganda per i soldati doveva cercare di dare loro la forza e il coraggio di operare e di ambientarsi in quel territorio. Perlopiù i militari non sapevano neanche perché erano stati mandati a morire in quelle zone, e per spronarli si dipingeva loro il nemico come appartenente a una civiltà inferiore, si spacciava l'immagine della Balcania tenebrosa. Quest'immagine - che andrebbe studiata attentamente, forse più dal punto di vista antropologico che da quello storico - delinea una Balcania sconosciuta che diventa per le forze italiane un vero e proprio incubo. L'uso indiscriminato della violenza è di sicuro - oltre che determinato dalla consapevolezza dell'inferiorità e incapacità militare italiana - anche il risvolto di questa totale cecità e incomprensione delle popolazioni con le quali l'Italia aveva a che fare. Vi sono alcune ipotesi interpretative che meriterebbero di essere approfondite; ricordo in particolare gli spunti di Sala sul carattere coloniale della presenza italiana nella penisola balcanica. Molti militari e anche funzionari dell'amministrazione italiana vengono mandati in queste terre dopo aver fatto esperienza militare o di amministrazione in Africa orientale o in Libia. Uno dei comandanti italiani con maggiori responsabilità quanto a repressioni, il generale Alessandro Pirzio-Biroli che operava in Montenegro, era stato governatore dell'Amhara. Il punto, qui, non è la carriera di queste persone, ma la loro cultura e il loro modo di guardare ai loro amministrati. Nella migliore delle ipotesi, questi amministrati non sono considerati degni di un rapporto come deve esservi tra popolazioni civili, ma solo sudditi da reprimere. Lo dico in termini spicci, forse brutali, ma la sostanza del discorso è questa, e sarebbe interessante continuare ad approfondire questo tema, perché alle spalle di certi comportamenti vi era una vecchia cultura italiana che aveva sempre guardato agli slavi come a nemici, comunque un popolo barbaro. E' chiaro che in questo contesto, soprattutto nel territorio jugoslavo, la guerra cieca delle forze italiane contro il dispiegamento delle forze partigiane comportò un coinvolgimento molto esteso in operazioni di rappresaglia - anzi, in operazioni che non erano solo di rappresaglia ma anche di feroce contrapposizione alla popolazione civile - e la trasformazione del conflitto in una grande operazione di polizia. Quindi, anche nel confronto tra potere politico - penso alla provincia di Lubiana - e potere militare, l'espropriazione di qualsiasi forma di autorità civile e la trasformazione di ogni operazione in azione di carattere poliziesco o militare diedero alla presenza italiana un carattere di militarizzazione estrema, e di altrettanto estrema violenza. Uno degli esempi più forti di disposizioni per la repressione delle attività partigiane - ma con ampie implicazioni nei confronti della popolazione civile - è rappresentato dalla famosa circolare 3C del marzo 1942, diramata dal generale Mario Roatta, comandante della II armata, che fu degno successore del generale Ambrosio, poi passato allo Stato Maggiore. Quest'ultimo aveva dichiarato a tutte lettere che la guerra che si combatteva in Jugoslavia era una guerra nella quale non si facevano prigionieri. Affermazioni di questa natura ne potremmo riportare molte, non soltanto grazie alle indagini - e alle relative documentazioni - di Tone Ferenc, uno storico sloveno purtroppo deceduto, ma anche grazie a uno dei pochi studi che l'Ufficio storico militare dello Stato Maggiore dell'Esercito è riuscito a produrre su questi temi, L'occupazione italiana della Slovenia (1941-1943) di Marco Cuzzi.

Stralcio dal saggio di Enzo Collotti "Le occupazioni italiane nei Balcani" in "Dall'Impero austro-ungarico alle foibe" (Bollati-Boringhieri, pp. 304, euro 24,00), in libreria dal 12 febbraio

Liberazione 31/01/2009, pag 12

«Mannaggia alla miseria» Tra i nuovi schiavi a Eboli

In 700, marocchini, si spezzano la schiena per 25 euro al giorno. Ma sono fantasmi

Stefano Galieni
San Nicola Varco non poteva avere collocazione più evocativa. Una località "fantasma" fra Eboli e Battipaglia, lungo la statale 18, nel mezzo della Valle del Sele. Terra fertile che produce tutto l'anno, d'inverno carciofi e finocchi, in primavera le fragole e poi pomodoro pregiato. Terra ben coltivata, ai campi si alternano le serre, il lavoro non manca e di braccia ne servono, soprattutto per i lavori più faticosi, quelli di raccolta. Qualche masseria, una stazione dove non ferma alcun treno e poi "loro". Loro sono circa settecento lavoratori marocchini, per lo più ragazzi fra i 16 e i 25 anni, i veri invisibili ma fondamentali abitanti di S. Nicola Varco.
Lo scenario è surreale: una strada che si inoltra nei campi, un casale diroccato, pozzanghere, poi costruzioni fatiscenti, rappezzate con tavole, metallo, plastica, copertoni usati per tenere fermo ciò che funge da tetto. Passano ragazzi, chi in bici, chi con vecchi scooter, i fortunati in automobile. Il paese più vicino sorge a 7 chilometri, tanti per fare un po' di spesa. Tutti salutano Anselmo Botte con un cenno o con un sorriso. Anselmo, sindacalista Cgil, qui è conosciuto come il "sindaco sanatoria", cerca di aiutare tutti, da anni. Non con la carità ma con l'apertura di vertenze. Si informa e segue le singole storie personali, le mille vicende di fatica e di difficoltà che ognuno di loro vive. La sede del sindacato di Battipaglia è un punto di raccolta. Poi capitano le emergenze, capita che freddo e umidità rendano impossibile la vita nei locali ricavati da quello che resta di un mercato ortofrutticolo rimasto sulla carta, quattordici gli ettari di terreno destinati a ospitarlo, parzialmente edificato negli anni '80, 36 miliardi di vecchie lire inutilmente spese.
Fabbricati ormai a pezzi, una lunga distesa di box e due enormi magazzini utilizzati come servizi igienici.
Gli insulti del tempo non hanno risparmiato infissi e tramezzi, alle finestre fogli di nylon o plexiglass al posto dei vetri, e poi improvvisate pareti divisorie. Poco per resistere alle intemperie, senza riscaldamenti o corrente elettrica, e allora il sindacato è intervenuto anche distribuendo centinaia di sacchi a pelo, perché è impossibile costruire relazioni e prospettive se si è lontani anche dai bisogni primari. L'impatto visivo è desolante: una sola fontanella di acqua potabile, ciuffi di erba crescono accanto a cataste di immondizia, ci vuole tempo per comprendere come un ambiente così inospitale abbia in realtà un suo ordine. In uno spazio si è attrezzato un piccolo negozio: abbigliamento e scarpe sportive sono i prodotti esposti; un soffio di vento trasporta il profumo del pane. Alcuni dei ragazzi hanno messo in piedi un piccolo forno, focacce alte e fragranti, vendute a basso costo. E poi quattro distinti locali adibiti a bar (c'è anche la corrente grazie ai gruppi elettrogeni), una moschea, quello che consente di andare oltre la sopravvivenza fisica. Il rapporto con la Asl garantisce adeguata assistenza sanitaria ma spesso non basta. Ci si ammala di lavoro, facilmente, ci si sfibra rapidamente quando si trascorrono 10 ore al giorno alle raccolte (quella dei finocchi è la più faticosa). Le cure prestate dagli ospedali a volte non sono ben comprese da chi ne usufruisce. Ahmed (il nome è fittizio) ci mostra il referto che gli diagnostica un'ulcera alla caviglia. Esibisce certificati e fasciatura con un sorriso complice e un po' furbo, quello di chi attende una conferma. Dopo la visita è stato "adescato" da un avvocato che gli ha prospettato la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno. Ahmed non sa se crederci. Anselmo, aiutato nella traduzione da un ragazzo che parla un ottimo italiano, gli consiglia di non prendere impegni e di non cacciare un euro. La diagnosi non garantisce un permesso di soggiorno (Ahmed può essere curato anche nel proprio paese) e il legale potrebbe essere uno dei tanti sciacalli pronti ad approfittare del bisogno di una speranza.
La speranza si chiama infatti "permesso di soggiorno" o meglio, regolarizzazione.
La situazione dei 700 lavoratori di S. Nicola è infatti inchiodata a un pezzo di carta, le loro braccia servono, se se ne andassero l'agricoltura nell'area si perderebbe, la loro presenza non intralcia e non crea allarmi sociali, vivono lontani dai centri abitati, ma al 90% sono irregolari. Ogni tanto, si crea l'allarme, la minaccia di uno sgombero dettata dall'ennesimo progetto speculativo sull'area. L'idea partorita in Regione, proprietaria degli stabili, è quella di un polo agroalimentare per l'intera valle. Un polo che comprende prodotti e produttori ma non chi, su quella terra ci si spezza la schiena. Altre decine di milioni di euro destinati a finire nei meandri dell'affarismo immobiliare. Regolarizzare chi lavora, garantire il minimo sindacale, consentirebbe di abbandonare quei tuguri, permettergli un affitto e una residenza, mandare "qualcosa" di più a casa. La ricerca del profitto e l'ottusità delle leggi negano questa soluzione. Anselmo ha ripreso le storie individuali e la complessità di un contesto che per certi versi è unico nel Mezzogiorno. Sono pochi qui quelli che seguono la rotta dei raccolti spostandosi di regione in regione. Si lavora tanto, da primavera ad inverno inoltrato, un lavoro che potrebbe permettere stabilità ma che farebbe saltare le condizioni di neoschiavismo. A metà febbraio Anselmo pubblicherà "Mannaggia la miserìa" con l'accento sull'ultima sillaba, come lo pronunciano quei lavoratori, un libro che racconta i loro quotidiani drammi di sopravvivenza.
Quei lavoratori provengono quasi tutti dalle zone agricole interne del Marocco, da province come Beni Mellal, hanno un basso livello di istruzione e in Italia fanno quello che sanno fare, coltivare la terra. Vengono in cerca di un futuro migliore, di un salario per mandare soldi a casa, trovano un ghetto e uno stipendio da fame, 25 euro al giorno. La mattina percorrono il tratto di strada che li separa dalla Statale, i caporali passano in continuazione, a volte sono italiani a volte conterranei che li sfruttano. Passano con furgoni e station wagon, li caricano e li depositano nei campi di raccolta.
Si paga per lavorare e si deve sottostare alle condizioni dei caporali, opporsi o sfuggire sembra impossibile. Un ragazzino, 16 anni al massimo, corre fra le pozzanghere su un vecchio "Ciao", un altro su una bicicletta si barcamena con una enorme tanica di acqua che sembra sempre lì per cadere. In questi giorni non c'è lavoro per tutti e una parte dei ragazzi bighellona in piccoli gruppetti. Sono in molti ad aver voglia di parlare, ma non di lavoro, non oggi. In uno dei bar servono thè fumante e dolce, come si usa in Marocco, versato con maestria. Una sala piena di volti attenti, la tv con la parabola è ferma su "Al Jazeera" le immagini di Gaza, quelle vere, quelle che i media occidentali evitano di mostrare, fanno salire la rabbia. Difficile non cogliere un nesso fra il rancore per le condizioni di vita e di lavoro, l'apartheid vissuto sulla propria pelle perché il diritto è quello di esserci come braccia ma non come persone. E l'odio, per chi uccide in Palestina. Il fango dei campi a Gaza e quello del "ghetto" sono troppo simili. Hamid domanda cosa ne pensiamo della guerra, rispondiamo che quella non è una guerra ma un massacro. «Allora - ci chiede con forza - non lasciateci da soli».

Liberazione 30/01/2009, pag 20