giovedì 30 luglio 2009

Roma: l’avventura allo Sportello Unico di un giornalista dell’Ansa

venerdì, 05 settembre 2008
Convocato come datore di lavoro, sperimenta in prima persona la burocrazia che affligge le pratiche dell’immigrazione.

“La convocazione dello sportello unico per l'immigrazione di Roma è datata 7 agosto: l'invito è a presentarsi il 4 settembre, oggi, alle ore 14:30, presso l'ufficio di via Ostiense 131/L, per ritirare il nulla osta di lavoro richiesto e per firmare il contratto di lavoro subordinato di una colf filippina, chiamata in Italia in base al decreto flussi”. Comincia così il racconto, scritto in prima persona, dell'esperienza fatta da un giornalista dell'ANSA, che dà voce ai disagi vissuti insieme a un folto gruppo di cittadini alle prese con l'ordinaria burocrazia legata al decreto flussi.
“Quando la convocazione arriva - racconta - è festa grande: la domanda risale al 15 dicembre 2007 ed era stata inoltrata alle 9'37” dopo l'apertura dei termini. Sono trascorsi quasi 220 giorni d'attesa e d'ansia, scanditi dalle verifiche su internet dello stato d'avanzamento della pratica. L'incubo comincia quando mi presento, documenti alla mano, in via Ostiense 131/L, qualche minuto prima dell'appuntamento fissato: mi aspetto di essere ricevuto da un impiegato che espleti la pratica. Il primo dubbio mi sorge nell'atrio: c'è un via vai di gente caotico, le indicazioni sono poco chiare, bisogna prendere - capisco - la scala 1b.
Che è completamente ostruita da una folla di persone che, scopro, hanno tutte la medesima convocazione: faticosamente, mi apro un varco fino al pianerottolo, dove un giovane in jeans e maglietta, che si qualifica come poliziotto, assegna a ciascuno un numero, scrivendo l'elenco su un foglio di carta strappato e stropicciato. C'è poco spazio, l'aria è maleodorante, molti accennano una protesta, qualcuno cerca di fare il furbo. La chiamata, però, va veloce: mi tranquillizzo, in un quarto d'ora chiamano il mio numero, il 113, su un totale intanto salito a circa 130. Adesso, penso, mi troverà di fronte all'atteso impiegato. Errore: entro in un corridoio dove vari addetti, alcuni dei quali extracomunitari, smistano il flusso dei “convocati” - c'è chi si sbaglia di giorno, o di pratica, o di scala - e assegnano un nuovo numerino, questa volta stile uffici comunali o salumerie. È fatta, mi dico. Manco per sogno. Finisco in uno stanzone dove la calca è disordinata e il vociare stordente. In mezzo, ci sono anche handicappati, anziani e famiglie con bambini, datori di lavoro in pectore ed emigrati. Tanti mostrano insofferenza e protestano, c'è chi accusa malori, molti cercano di guadagnare qualche posto (e taluni ci riescono). Altri addetti raccolgono le convocazioni rispettando l'ordine dei numerini, salvo dare priorità a chi ne ha evidente motivo. Le comunicazioni si fanno solo a viva voce: non c'è un display, non ci sono pannelli sui muri, le sedie su cui sedersi non sono sufficienti. Alle 15:36, più o meno tutte le convocazioni sono ritirate. Inizia l'attesa della chiamata: il primo numero che sento è il 668, sono 716, ne ho 48 davanti, cerco di calcolare quanto sarà lunga l'attesa. Nello stanzone, dove due agenti in divisa affiancano gli addetti civili, l'agitazione s'acqueta: c'è una calma rassegnata e spossata, chi è qui ha spesso atteso questo momento quasi nove mesi come me e considera che un'ora in più può valere la pena d'attendere. Mi chiamano alle 16.42. L'impiegato che era quasi diventato un miraggio è una giovane signora, gentile, competente, forse un po’ frettolosa (ma la coda da smaltire è ancora lunga). La pratica è sbrigata in pochi minuti. Alle 16.56, sono fuori con il nulla osta ben saldo nelle mie mani. Più che una vittima della burocrazia, mi sento un eroe della buona cittadinanza”.
(Fonte: Ansa)

http://immigrazioneoggi.splinder.com/post/18282735

mercoledì 29 luglio 2009

Anthropology Philippine University

http://web.kssp.upd.edu.ph/anthropology/faculty.html

http://www.upmin.edu.ph/index.php?option=com_content&view=article&id=357&Itemid=100337

http://www.admu.edu.ph/index.php?p=1665

Vita nelle Filippine

http://www.philippinesinsider.com/philippines/travel-tips/it/

lunedì 27 luglio 2009

Non piacerà a qualcuno ma Benjamin era marxista

In "Classe" Andrea Cavalletti rilegge il pensiero del grande filosofo tedesco

Gianluca Schiavon
Walter Benjamin ha studiato il tema della classe ribadendone il ruolo nella lotta politica e nell'interpretazione della realtà. Non stupisce che Andrea Cavalletti dedichi a ciò il suo ultimo saggio - Classe , Bollati Boringhieri, pp.137, euro 9,00). Cavalletti giunge a questo concetto avendo continuato a dissodare fruttuosamente il campo delle aggregazioni tra uomini per capirne il senso, le relazioni e, soprattutto, le strutture del dominio. La ricerca comincia dall'osservazione sulla folla rabbiosa, sulla massa chiassosa, dopo aver compreso, per merito di Giorgio Agamben, l'assoluta artificialità del concetto di popolo. Si tratta infatti di una categoria buona per chi scrive testi religiosi o costituzioni di Stati sovrani, riduzione all'unità di una somma di individui de-finiti, individuati dall'appartenenza ad un Deus absconditus o a un capo che agisce in sua vece sulla Terra. Il popolo è la normalizzazione della folla o, per meglio dire, è la folla stessa dopo la normalizzazione dei dispositivi statali. La domanda da cui il militante e il filosofo politico partono non è più solo come sottrarsi dai dispositivi di disciplina e di controllo, ma chi può recidere questi dispositivi. Ora se è pensabile una defezione assoluta come risposta individuale alla prima domanda, alla questione sul soggetto in grado di distruggere i dispositivi (normativi e psicologici) artefici della sicurezza e della paura la risposta sta nel titolo dell'ultimo libro di Cavalletti. Non una classe, ma la classe cui appartengono le donne gli uomini che si distinguono per partecipare alla valorizzazione del capitale dell'altra classe, quella antagonista. La folla non è quindi che una massa compatta di piccolo borghesi come ci ha insegnato Benjamin «tanto più compatta quanto maggiore è la pressione a cui esposta, tra due classi nemiche della borghesia e del proletariato». E' questa una massa eternamente nel panico che scarica la fobia nell'odio contro gli ebrei, nell'istinto dell'autoconservazione, nell'entusiasmo bellico oppure oggi, al tempo della piccola borghesia planetaria, nella mutilazione del corpo e della parola delle donne. Ma come si distingue allora la classe - o per chi scrive il soggetto della trasformazione - dalla massa all'apparenza simili? Ancora l'autore ricorre a Benjamin secondo il quale il proletariato è massa compatta solo «nella rappresentazione dei suoi oppressori» che smette di esserlo «quando passa all'azione» attraverso la solidarietà. «Nella solidarietà della lotta di classe viene soppressa [appunto] la morta, adialettica contrapposizione tra individuo e massa; per il compagno essa non esiste. Se decisiva è quindi la massa anche per la guida rivoluzionaria, la sua maggiore prestazione non consiste nel trascinarsi dietro le masse, ma nel lasciarsi sempre riassorbire in esse, per essere sempre di nuovo, per la massa, uno dei centomila». La classe è allora priva di un tipo carismatico mentre la massa si fonda sulla figura della guida, duce o führer. Questa è la fonte di ogni fascismo secondo l'autore del saggio volta a mascherare «la pura e semplice compressione nei nomi arcaici e indistinguibili di comunità, patria, lavoro, sangue, capo». Il riferimento al mondo arcaico appare particolarmente calzante perché ricorda il parallelo tra il leader carismatico del XIX e del XX secolo, tra Napoleone III eletto dal suo popolo imperatore e Hitler emerso dal suffragio universale reazionario nel 1933. Il proletariato è invece un prodotto della valorizzazione del capitale e dell'estrazione del plusvalore. La classe combatte contro la propria oppressione e in ciò diventa oggetto di conoscenza storica come il grande pensatore berlinese scrive nella XII tesi sul concetto di storia. La parte finale di questa tesi ricorda come questo soggetto storico andasse ricostituito contro la socialdemocrazia che si compiaceva di assegnarle «la parte di redentrice delle generazioni future. E così le spezzava il nerbo migliore della sua forza». Conseguentemente la classe «disapprese a questa scuola sia l'odio che la volontà di sacrificio. Poiché entrambi si alimentano all'immagine degli avi asserviti, e non all'ideale dei liberi nipoti». La classe lotta contro la socialdemocrazia, contro se stessa - in quanto vuole creare la società senza classi - così come contro lo storicismo. La classe lotta contro il tempo creando un nuovo calendario. La lotta infatti sospende il tempo anzi come dice Cavalletti - peraltro studioso di Furio Jesi - pone «il tempo di un giudizio messianico su un'epoca precedente». Il conflitto di classe assume quindi le forme della pura lotta: lo sciopero generale politico e a-rivendicativo, così come teorizzato da Georges Sorel amatissimo da Benjamin e apprezzato anche da Gramsci nel 1919. In questa forma di sciopero, scriveva Sorel, non trova spazio l'utopia «la rivoluzione appare come pura e semplice rivolta, e non c'è più posto per i sociologi, o per gli intellettuali che hanno scelto la professione di pensare per il proletariato». In un simile quadro il comunismo non è la secolarizzazione di una prospettiva di salvezza eterna. Il comunismo non proviene dall'attesa di nessun Messia: né da un messianismo profetico che depone sull'uomo tutta la responsabilità di aver tradito le parole fulminanti del profeta né dal messianismo apocalittico cioè dall'attesa della redenzione dopo la catastrofe . Benjamin descrive il comunismo il 6 maggio 1936 in una lettera a Gershom Scholem. Di tutte le espressioni possibili «il mio comunismo evita soprattutto quella di un credo di una professione di fede». Anzi «un'espressione drastica e non infruttuosa dell'impossibilità che la routine scientifica attuale offra uno spazio per il mio pensiero, che l'economia attuale conceda uno spazio alla mia esistenza […] il comunismo rappresenta per colui che è stato derubato dei suoi mezzi di produzione interamente, o quasi, il tentativo naturale, razionale di proclamare il diritto a questi mezzi, nel suo pensiero come nella sua vita». Volendo esprimere un giudizio su un saggio così denso non si può non cominciare col dire che Cavalletti ha due meriti: citare con ampiezza e dovizia i testi benjaminiani e inserire altrettanti rimandi alle opere alle quali lo stesso pensatore berlinese si riferisce. Deriva un affresco davvero completo del Benjamin filosofo marxista e militante rivoluzionario. Il libro allora lo riposiziona nel contesto storico dei principali pensatori comunisti d'Europa (Brecht, Lukács, Adorno) e lo ricolloca nella temperie post rivoluzione russa e contemporanea all'ascesa nazista. Non apprezzerà il libro di Cavalletti chi ha interpretato Benjamin come un pensatore suggestivo al quale far recitare i ruoli più eclettici del precursore della lotta non-violenta ghandiana o del cantore di un messianismo depresso.

Liberazione 23/07/2009, pagina 12

La Cina va alla conquista dell'islam: sì alla Tv araba

Pechino lancia nuovo canale

La Cina punta sulla tv per spiegare il proprio punto di vista al mondo e per ribattere alle notizie interne riferite in modo «prevenuto» dalla stampa internazionale circa le politiche di Pechino. Per questo dopo i canali in inglese, francese e spagnolo, la Cctv, la tv di Stato cinese ha lanciato un canale in lingua araba che trasmetterà nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Il nuovo canale saellitare, che potrà contare su uno staff di circa 80 persone, trasmetterà 24 ore su 24 notizie, intrattenimento e programmi educativi rivolti ad un'audience potenziale di circa trecento milioni di persone in 22 Paesi. Una finestra aperta verso il mondo islamico che rappresenta una novita nella strategia comunicativa del gigante cinese.
Il vicepresidente della Cctv, Zhang Changming, ha chiarito che l'obiettivo è quello di creare «un ponte importante per rafforzare la comunicazione e la comprensione tra la Cina e i Paesi arabi».
Ma l'altro obiettivo, ha aggiunto Zhang, è quello di riferire in modo corretto gli avvenimenti cinesi che sarebbero «distorti» in qualche caso da alcuni media stranieri: «Il nostro principio è essere sinceri, accurati e trasparenti. Cctv presenterà al mondo la vera Cina».
Pechino in occasione delle rivolte in Tibet e Xinjiang ha ripetutamente criticato i reportage dei corrispondenti stranieri, giudicati come «prevenuti».
Il prossimo obbiettivo del network è il lancio di un canale in russo, per rivolgersi anche ai vicini «ex compagni» e ancora oggi legati da una forte sintonia sulle questioni diplomatiche internazionali.
L'iniziativa mediatica di Pechino fa parte di un programma più ambizioso che punta a promuovere l'immagine della Cina del mondo anche incrementando gli uffici di corrispondenza all'estero (sono già oltre 100) dell'agenzia di stampa Xinhua.
Secondo quanto scrive il South China Morning Post che sarebbe il principale quotidiano in lingua inglese di Hong Kong, Il governo cinese punta a investire circa 45 miliardi di yuan (4.6 miliardi di euro) nello sviluppo della sua rete informativa. Cifra non confermata da fonti ufficiali cinesi.

Liberazione 26/07/2009, pagina 11

domenica 26 luglio 2009

Philippines rebels call ceasefire

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China launches Arabic TV channel

Saturday, July 25, 2009

China has launched a 24-hour Arabic-language television channel aimed at addressing "distorted" views of China in the Middle East and North Africa.

The satellite channel, launched on Saturday, is expected to reach about 300 million people in 22 countries.

China Central Television (CCTV) already broadcasts foreign language channels in English, Spanish and French.

Zhang Changming, deputy president of CCTV, said that through the Arabic channel "the world can know China and China can know the rest of the world even better".

"Our principle is to be real, to be objective, to be accurate and transparent. CCTV will present the world with the real China," he said at the launch.

The channel will mainly broadcast news, but Zhang promised it would also feature entertainment and educational programmes.

'Good journalism'

Ying Chan, the director of Hong Kong University's journalism and media studies centre, told Al Jazeera that China saw the channel as a way to counter "unfair" portrayls of China in the international media.

"There's no question that the Middle East is a very strategic area and China wants its voice heard there," she said.

"They want to announce their policies more to the world, and they also felt that the international media, led by the Western media, has not been fair to China."

China exerts a great deal of control over its media and often censors the reporting of sensitive topics.

"It [CCTV] will face challenges in how much it will allow its own reporters to report news as it is, as it happened," Ying said.

"I think CCTV, in order to gain influence, has to deliver good journalism."

Investment plans

CCTV has also said it plans to open more foreign bureaus.

The Hong Kong-based South China Morning Post newspaper reported that Beijing was prepared to put 45 billion yuan ($6.6bn) into the development of its media, an amount which could not be confirmed by Chinese sources.

China's Arabic language channel joins other foreign government media networks broadcasting in Arabic.

The UK's BBC launched its Arabic channel last year and the US set up al-Hurra, an Arabic-language channel based in Virginia, in 2004.

http://english.aljazeera.net/news/asia-pacific/2009/07/200972563026919452.html

mercoledì 22 luglio 2009

Sandokan anticlandestini. Ma è solo insetticida

di Alessandro Braga, tratto da “il manifesto”, 7 maggio 2009

Non bastava Maroni. Adesso ci si mette pure Sandokan a fare la guerra ai clandestini. Abbandonate le verdi giungle della Malesia e la sua voglia di rivalsa nei confronti degli inglesi invasori, il pirata creato dalla penna di Emilio Salgari è sbarcato in Italia con una nuova, importantissima, missione: fermare l'invasione degli insetti clandestini.

Ma chi si aspetta di vedere la barba incolta, i capelli fluenti e gli occhi verdi di Kabir Bedi ritti sulla prua di una nave a difendere le coste italiane dall'arrivo delle “imbarcazioni degli invasori africani” resterà deluso. Al massimo, si troverà di fronte una bomboletta colorata con un esile beccuccio. Perché questo Sandokan è un insetticida. E i “clandestini” che minaccia di sterminare sono solo zanzare tigri, acari, ragni, formiche e insettucoli simili. Che poi per i militanti leghisti sia più o meno lo stesso, è un altro discorso.
La pubblicità campeggia ormai da qualche giorno sui muri di Milano, Roma e Bologna. Quattrocento maxicartelloni disseminati per le città, con la loro scritta choc: “Insetti clandestini? Sandokan ferma l'invasione”. Corredata dalle foto di questi insetti. Appunto zanzare, acari, ragni e formiche. Il passaggio da “insetti clandestini” a “clandestini insetti” è breve. In una prima versione, poi censurata dalla stessa azienda produttrice, c'era scritto “No ai clandestini: ferma l'invasione”. Ancora peggio. Gli ideatori della campagna si difendono: “Ci aspettavamo che qualcuno potesse azzardare questo paragone e parlare di razzismo e xenofobia ma non è giustificato. Si parla della zanzara tigre e di altre cinque specie. E l'unica parola capace di descriverle tutte era proprio clandestini, cioè insetti nascosti”. “Quindi - dicono- è solo una distorsione lessicale a far coincidere questa parola con gli immigrati perché clandestino è tutto ciò che è nascosto”.
Certo, in tempi come questi, dove a difendere gli immigrati dalle campagne securitarie della destra al governo è rimasto quasi solamente Gianfranco Fini (anche se l'attuale presidente della Camera resta pur sempre il firmatario, insieme a Umberto Bossi, della pessima, ancora vigente legge in fatto di immigrazione), il dubbio che si sia voluto costruire una campagna pubblicitaria “occhieggiante” proprio per scatenare la polemica e far parlare di sé resta. Ma anche in questo caso l'azienda nega: “Se si vuol vedere il marcio dove non c'è - dicono - non è colpa nostra. Quella è la parola più calzante ed è giustificata dalla letteratura scientifica”. Punto. Polemica subito rispedita al mittente. E a dare maggior credito alle loro parole basta citare l'assessore milanese Cesare Cadeo: “La fantasia dei creativi non si pone limiti e a volte ricorre a soluzioni poco felici. Io posso dire che per i clandestini il governo ha messo in campo l'esercito, non gli insetticidi”. Perché per la destra, contro gli immigrati, una “buona e sana” pistola puntata resta sempre meglio di uno spray. Forse un insetticida contro questi figuri andrebbe inventato. E pubblicizzato.

http://www.feltrinellieditore.it/FattiLibriInterna?id_fatto=10722

lunedì 20 luglio 2009

India signs arms accord with US

An accord between India and the United States has been reached in New Delhi aimed at clearing the way for the sale of US-made weapons to India.

The pact, known as an end-use monitoring agreement, was signed by Hillary Clinton on Monday during her first trip to India as the US secretary of state.

"We have agreed on the end-use monitoring arrangement which would refer to ... Indian procurement of US defence technology and equipment," S M Krishna, the Indian external affairs minister, told a joint news conference with Clinton.

The agreement, required under US law for arms sales, allows Washington to verify that India is using weapons for their stated purpose.

The deal is also designed to ensure that New Delhi is not passing weapons technology from the US on to other nations.

US defence contractors, such as Lockheed Martin Corporation and Boeing Company, are competing to win orders from New Delhi to build 126 fighter aircraft.

Nuclear reactors

Clinton said that India had also approved two sites on its territory for the construction of US nuclear reactors.

"I am also pleased that Prime Minister [Manmohan] Singh told me that sites for two nuclear parks for US companies have been approved by the government," she said.

US officials estimate that the nuclear sites would represent up to $10bn in business for US nuclear-reactor builders such as General Electric Company and Westinghouse Electric Company, a subsidiary of Japan's Toshiba Corp.

Marie Lall, a specialist in South Asia affairs at Chatham House in London, said that the deal would go some way to easing the US trade deficit with India.

"You have to be aware that the balance of trade deficit of the United States is $13bn ... Obviously, signing a deal of $10bn will go a long way to balance out that trade deficit for the United States," she told Al Jazeera.

She also said that the deal would likely pave the way for some degree of co-operation over nuclear weapons.

"I would expect that in light of India receiving this civil nuclear agreement, it was seen that there would be a quid pro quo regarding weapons deals as well," she said.

Climate disagreement

Clinton is in India for three days for talks on climate change, security and nuclear power.

But while Washington and New Delhi have reached an agreement on weapons sales, the US government appears to have failed to convince India on the need to reduce its carbon dioxide emissions.

During a meeting with Clinton on Sunday, Jairam Ramesh, India's junior environment minister, refused to agree to limit the country's carbon output.

Developing nations should not be forced to sign up to legally binding targets on reducing carbon emissions, Ramesh said.

India is "simply in no position" to cut its levels of harmful emissions, he said.

The refusal comes five months before a UN climate conference in Copenhagen, where it is hoped that more than 190 nations will set targets for emission cuts up to 2020.

Clinton 'confident'

Despite the differences over the environmental targets, Clinton said she was optimistic that a compromise could be found.

"I am very confident ... that the United States and India can devise a plan that will dramatically change the way we produce, consume and conserve energy," she said.

Bharat Desai, an expert on international environmental law at Delhi's Jawaharlal Nehru University, told Al Jazeera that developing countries will not [for the time being] take up legally binding commitments.

"But India is taking responsibility, it has various energy efficiency programmes ... we have already passed a law on climate change," he said.

"The developed countries need to take the lead so the developing ones feel comfortable [to follow]."

India is one of several developing nations who argue that their industrial ouput - and hence their economies - will be harmed should they be forced to commit to cuts in carbon emissions.

http://english.aljazeera.net/news/asia/2009/07/20097203375638188.html

Nuoto, i mondiali dello spreco

Le tappe di Roma2009. Impianti inutili, moltiplicazione delle piscine. E un'inchiesta della magistratura che coinvolge Bertolaso
Pioggia di denaro ai soliti amici

Daniele Nalbone
Stasera Claudio Baglioni canterà "Un solo mondo", l'inno dei Mondiali di Nuoto di Roma 2009, aprendo così la cerimonia inaugurale.
E' il segno che l'impegno dell'ex sindaco di Roma, Walter Veltroni, dell'attuale primo cittadino, Gianni Alemanno, del gran capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, dei governi Berlusconi bis, ter e quater, con l'intermezzo del Prodi bis, del sottosegretario Gianni Letta, del presidente della Federnuoto e senatore Pdl, Paolo Barelli, del presidente del comitato organizzatore, Giovanni Malagò, e dei due commissari delegati, Angelo Balducci prima, Claudio Rinaldi poi, è stato produttivo.
Per impianti e strutture si sono elargiti milioni, oltre 400 alla fine, in tutta la Regione Lazio per una competizione che in realtà è costata circa 45 milioni di euro tra ristrutturazione del Foro Italico, allestimento degli spalti e del percorso delle gare al mare di Ostia e preparativi vari.
Tutto è iniziato nel novembre 2004. A cavallo tra il primo e il 2 novembre arriva la notizia che Roma si sarebbe candidata ad ospitare i mondiali di nuoto del 2009. In fretta e in furia si allestisce una candidatura sulla quale altre città hanno lavorato per mesi: per battere la concorrenza, Roma punta tutto sulla "Città dello Sport", il complesso che sarebbe dovuto sorgere a Tor Vergata entro il 2008.
La seconda università di Roma sarebbe dovuta diventare un campus all'americana con tanto di arena, palestre e piscine. Per creare un curriculum appetibile dal gotha sportivo mondiale, si decide di mirare in alto: un palazzo dello sport da 15 mila spettatori, tre piscine coperte e due all'aperto con una capienza di almeno 3 mila spettatori per vasca ma che, per i mondiali, sarebbero saliti a 14 mila. Ecco le promesse del sindaco Veltroni e del presidente della Federnuoto, Paolo Barelli, per convincere la Fina a scegliere Roma come sede per il 2009. Allora il costo dell'impianto si aggirava sui 60 milioni di euro, «tutti finanziati con i soldi di Roma Capitale» spiegava il sindaco Veltroni.
Ma la strada verso i mondiali di nuoto è in salita. E' il 10 maggio del 2005, mancano poco più di sessanta giorni alla decisione da parte della Fina, ed ecco spuntare l'asso nella manica del Campidoglio: l'architetto spagnolo Santiago Calatrava.
E' la carta vincente. Il 16 luglio 2005 da Montreal si leva l'urlo di gioia di Gianni Rivera, allora delegato allo sport del Comune. Roma batte Yokohama e si aggiudica la competizione planetaria del 2009. Il grande circo Roma 2009 può iniziare.
Come spiega Veltroni il giorno seguente, la vittoria è arrivata «grazie alla modernizzazione degli impianti del Foro Italico e al nuovo gioiello che la città sta per mettere in campo: la cittadella dello sport di Tor Vergata».
Ora, in un paese "normale", si tratterebbe solo di iniziare i lavori. Vengono così stanziati 120 milioni di euro (il doppio di quanto previsto) a favore della Vianini Lavori, società del gruppo Caltagirone, per la Città dello Sport. Sessanta milioni provenienti da Roma Capitale e altri sessanta tramite un mutuo Inail. Quindi si pensa bene di fare in modo che la gestione di questi soldi non sia soggetta a controllo con uno strumento che, da allora, va sempre più di moda: le Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ecco che con decreto del settembre 2005 Guido Bertolaso, capo della Protezione Civile, si fa attribuire 30 milioni di euro dal Governo per i Mondiali di Nuoto di Roma 2009 e per i Giochi del Mediterraneo di Pescara che si sono svolti pochi giorni fa.
Per motivare tale stanziamento e sottrarre alla democrazia la gestione dei milioni che pioveranno nelle vasche dei mondiali, con decreto del 14 ottobre 2005, viene attribuito a Roma 2009 l'etichetta di "Grande Evento".
A gestire il portafoglio sempre più gonfio della competizione mondiale viene chiamato, direttamente dal governo Berlusconi bis, con il benestare di Veltroni, Angelo Balducci, da sempre stretto collaboratore di Bertolaso in seno alla Protezione Civile e oggi a capo del Dipartimento dello Sviluppo, nonché responsabile degli appalti di tutti i grandi eventi, ultimo, neanche a dirlo, il G8 "from La Maddalena to L'Aquila".
Intanto qualcuno inizia a mettere le mani avanti: è il 28 novembre 2005 quando Giovanni Malagò, presidente del Comitato organizzatore, dichiara alla stampa che «qualora la tempistica dovesse impedirci di utilizzare il palazzo di Calatrava per i mondiali, l'alternativa è un ristrutturato e ammodernato Foro Italico». Salvo poi precisare che «l'opera di Tor Vergata, comunque, si farà».
Ma ora che il portafogli è gonfio, meglio mettere in cantiere quanti più progetti possibile: spunta, così, grazie a un ordinanza del 6 aprile 2006 recante "Disposizioni urgenti di Protezione Civile", uno stanziamento di 26 milioni di euro da parte del ministro per i Beni Culturali, allora Rocco Buttiglione, a favore del Commissario delegato per Roma09 per la realizzazione del Museo dello Sport nell'area di Tor Vergata.
E visto che ci siamo, perché non utilizzare l'ordinanza per attribuire pieni poteri al Commissario delegato? E' questa l'occasione per liberarsi dei rom che sono stanziati sui terreni dell'università: il commissario viene investito di poteri "da Prefetto" tanto da poter richiedere addirittura l'uso della forza pubblica. E così sarà il 6 marzo 2007 quando, come spiegò Veltroni, «per accogliere il campus con la grande piazza disegnata da Calatrava» vennero sgombrati gli insediamenti abusivi.
Fra il 2006 e il 2007 i costi per la Città dello Sport lievitano a 240 milioni. Ma questo non scoraggia gli amministratori della Giunta Veltroni che, anzi, ribadiscono, per bocca dell'assessore Morassut, che «entro il 2009 la parte delle attrezzature sportive per il nuoto sarà completata: due anni per l'avvio delle opere e la conclusione del progetto e 2 anni per il completamento dell'opera saranno un vero e proprio record».
Record si, ma di sprechi. Perché oggi i mondiali di nuoto saranno inaugurati al Foro Italico mentre a Tor Vergata c'è solo un enorme cratere e un infinito cantiere.
Per qualche mese, fra luglio e ottobre del 2007, i luoghi in cui si sarebbero dovuti svolgere i mondiali sono stati due: Tor Vergata e Foro Italico.
Intanto, però, si assiste alla moltiplicazione dei pani e delle piscine e a ulteriori stanziamenti di soldi pubblici: il 25 luglio il comune di Roma delibera 30 milioni di euro per la costruzione di tre impianti, Ostia, Pietralata e Valco San Paolo.
Inizia così la spartizione della torta. Quindi si procede a erogare mutui per la ristrutturazione (ma in alcuni casi si tratta di vera e propria edificazione) di centri sportivi privati in nome del Grande Evento. In tutta la Regione, grazie a Ordinanze della Presidenza del Consiglio dei Ministri che allargano il Grande Evento a tutto il Lazio, spuntano 13 poli natatori. Tutti finanziati con mutuo agevolato da parte del Coni, quindi con soldi pubblici. Alcuni di proprietà di illustri esponenti del comitato organizzatore (uno per tutti, il circolo Aniene del presidente Malagò), altri in deroga a vincoli urbanistici e per questo, oggi, oggetto di indagini della procura.
Fra un rinvio e una polemica sulla location dei mondiali si arriva all'8 novembre 2007. Siamo a casa Malagò, il circolo Aniene. «Roma 2009 si svolgerà al Foro Italico» spiega il presidente del circolo e del comitato organizzatore. «Ma Tor Vergata sarà comunque protagonista dell'evento». E, come in una barzelletta, ecco la dichiarazione del presidente della Federnuoto, Barelli: «ma la nostra candidatura è sempre stata incentrata sul Foro Italico».
E così altri cinque milioni di euro saranno stanziati per quello che è stato definito il "restyling" del nuovo-vecchio impianto.
Ma un conto è dichiarare una cosa, un altro ufficializzarla. Spostando le competizioni al Foro Italico si sarebbe chiuso il rubinetto dei finanziamenti per il mega impianto di Tor Vergata. E allora meglio tirare avanti ancora un anno con la boutade Città dello Sport.
Si arriva così al 18 dicembre 2008 quando, ovviamente con Decreto (quindi dalla Protezione Civile), viene deciso di ristrutturare il campo del tennis del Foro Italico "quale impianto centrale per lo svolgimento dei Mondiali di Nuoto". Come? Facendo scendere dall'alto una piscina prefabbricata e ampliando le tribune con tubi metallici.
Ma in questo anno accade l'impensabile. Il 28 aprile 2008 il centrosinistra perde Roma. Al circolo Aniene è festa. E' il simbolo della "rivolta degli imprenditori" contro l'imperatore Veltroni. Ora si ridanno le carte. Si abbandona il mega impianto di Tor Vergata, ennesima vetrina veltroniana, e si elargiscono i finanziamenti. La prima preoccupazione della nuova giunta capitolina è un cambio del commissario delegato. Con ordinanza del 13 giugno 2008, su consiglio di Guido Bertolaso, al posto di Angelo Balducci viene insediato Claudio Rinaldi.
Per magia, vengono autorizzati gli impianti privati bocciati sotto la precedente giunta, nonostante il termine di consegna dei poli natatori sia fissato per il 31 marzo 2009, cioè a meno di un anno di distanza. Ultima autorizzazione, in ordine di tempo, il polo natatorio in zona Cristoforo Colombo di proprietà del centro sportivo Città Futura. Data: 20 febbraio 2009. Inizio lavori: 2 marzo. In quel lasso di tempo permessi vengono concessi per altri otto impianti privati ad amici e parenti come il Flaminio Sporting Club in cui ha un ruolo di spicco Luigi Barelli, fratello del presidente della Federnuoto, o quello del Macchione, in piena riserva naturale, zona Infernetto, di proprietà di Franco Priolo, fraterno amico di Maurizio Perazzolo, l'uomo del nuoto di Ostia, consigliere municipale Pdl, nonché titolare, insieme a Paolo Barelli, di Zero9, il mega impianto del Torrino.
Alla fine, in nome di Roma2009, sono spuntati impianti natatori in tutta la Regione. Oltre venti, privati e pubblici, per i quali, come non bastassero i ritardi nella consegna e le omologazioni ancora mancanti, si registrano aumenti dei costi esponenziali. Per i quattro finanziati dalla Regione Lazio, Tivoli, Monterotondo, Anguillara e Frosinone, si è passati da 10 a 14 milioni di euro. Per quello di Ostia addirittura da 15 a 26. Un'enormità. Mentre restano fermi solo i costi di Pietralata e Valco San Paolo dove, però, si sono stralciate le foresterie.
Intanto entra in campo la magistratura. Le indagini per presunti abusi edilizi riguardano praticamente tutti gli impianti privati ristrutturati. Quattro di questi vengono sequestrati. L'ing. Rinaldi iscritto nel registro degli indagati e diversi big chiamati a riferire al pm, Sergio Colaiocco. Fra questi, Guido Bertolaso, che il 26 maggio scorso venne chiamato a spiegare come si svolse la nomina di Claudio Rinaldi a commissario per Roma 2009 e quali fossero i termini che hanno regolato l'individuazione delle strutture sportive che avrebbero beneficiato dei permessi e del mutuo erogato dall'Istituto di Credito Sportivo. Purtroppo Il dott. Bertolaso fu trattenuto a L'Aquila da improrogabili impegni con i flash dei fotografi e ancora oggi aspettiamo di sapere la sua verità a riguardo.
Indagini pesanti, che potevano mettere a rischio i mondiali. Ecco quindi che i "big" della politica locale e nazionale si rimboccano le maniche per salvare il baraccone che rischia di affondare. Ecco quindi che, mentre il Comune di Roma delibera in consiglio una sanatoria ex post degli abusi edilizi, il Governo autorizza, retroattivamente, il Commissario Delegato ad andare in deroga perfino al piano regolatore per ristrutturare, ampliare e, in alcuni casi, costruire ex novo, impianti privati.
Il tutto per la necessità di velocizzare la procedura per mettere in attività gli impianti visto l'imminente inizio del grande evento. Con tanti saluti all'inchiesta della procura.

Liberazione 18/07/2009, pagina 16

Artico militarizzato

Artico militarizzato: la Danimarca annuncia una nuova base militare

La Danimarca sbarca militarmente sul pack Artico. L'annuncio di una base militare e una forza di intervento è stata giustificata dal fatto che lo scioglimento dei ghiacci offre l'oppurtinità di accesso alle risorse della regione. Le attività danesi saranno concentrate sull'isola della Groenlandia e delle Faroe.
Lo scioglimento dei ghiacci sta alimentando una nuova piccola guerra tra Russia e Danimarca e le altre regioni che confinano con il mar Artico.
Canada, Danimarca, Norvegia, Russa e Stati Uniti hanno tutte avanzanto pretese territoriali. Le richieste di sovranità sono ora state presentate alle Nazioni Unite.
Secondo il piano danese l'incremento delle attività nell'Artico «cambieranno il valore geostrategico della regione e comporteranno un maggiore coinvolgimento delle forze armate danesi».
La Danimarca punterebbe all'ampliamento della base militare a Thule nel nord della Groenlandia, base strategica per gli Usa nel corso della guerra fredda. Inoltre sarà creata una speciale Artic Response Force, facendo ricorso alle capacità militari danesi già predisposte ad operazioni nell'Artico. Il piano prevede l'uso di aerei da combattimento per "la sorveglianza e il pattugliamento della sovranità del territorio e di quello che circonda la Groenlandia".
Copenhagen ha governato la l'isola negli ultimi tre secoli. Ma la Groenlandia con i suoi 57mila abitanti gode oggi di una ampia autonomia e ha saputo sviluppare una notevole economia, Con la scoperta di nuovi giacimenti di materie prime, come il petrolio, intende ottenere maggiori dividendi dalle sue risorse naturali.
Risorse a cui punta anche la Russia che punta ad trasformare l'Artico nella sua principale risorsa di petrolio e gas. Mosca ha annunciato lo scorso marzo che intende organizzare una forza militare per proteggere i suoi interessi.
Stessa idea per il Canada che nel 2007 ha annunciato due nuove basi nel nord con l'obiettivo di provare a mettere anche lei piede nell'Artico.
Secondo le stime sotto i ghiacci artici giacce il 25% delle risorse mondiali di petrolio, gas e il riscaldamento globale ha aperto le nuove vie per lo sfruttamento.

Liberazione 18/07/2009, pagina 10

Le tasse in Italia: chi le paga e quanto

Lavoratori dipendenti, imprenditori e lavoratori autonomi, pensionati. Analisi su com'è ripartita la pressione fiscale

Gian Paolo Patta
In genere si parla del fisco in relazione al suo peso sul Pil o sul lavoro. Conoscere in maniera chiara e immediatamente comprensibile quante tasse paga ognuna delle tre grandi categorie di contribuenti: dipendenti, imprenditori-autonomi e pensionati è impresa invece molto complessa.
Uno degli aspetti principali del patto sociale e costituzionale: l'equità fiscale, è mimetizzato. Non sfugge che questo oscuramento costituisce un problema per la qualità della democrazia.
Recentemente il Ministero del Tesoro ha pubblicato per l'anno 2006 dati più dettagliati sui redditi dichiarati e sull'Irpef pagata dai dipendenti e dai pensionati. Sottraendo questa parte di Irpef dal totale di quella pagata si possono calcolare redditi e imposte degli imprenditori e autonomi. Possiamo usare quindi quell'anno, il 2006, per cercare di capire il mistero di quanto pagano lavoratori, padroni e pensionati.

Pressione fiscale e Irpef
Primo aspetto: la pressione fiscale media in relazione al Pil.
Il Pil era 1479,981 miliardi. Le imposte ammontarono a 624 mld di cui 220 mld di indirette, 213 mld dirette, 189 mld di contributi effettivi e figurativi e 0,2 mld in conto capitale. Le imposte pesavano quindi per il 42,1 % del Pil.
Qui cominciano i problemi, perché nel Pil l'Istat calcola una quota di economia sommersa che nel 2006 stimava in 250 miliardi. Il Pil dell'economia legale, quella su cui si pagano le tasse dirette e i contributi, diventa 1230 miliardi e la pressione fiscale cresce al 50,7%. Una pressione fiscale di livello nord europeo (senza i benefici del sistema sociale svedese o danese). Nei confronti internazionali questo dato è importante perché l'Italia ha il primato del lavoro in nero e questo significa una pressione fiscale maggiore sulle persone che pagano rispetto a quella di altri Paesi.
Secondo aspetto: per calcolare quanto pagano i tre gruppi sociali presi in considerazione occorre ricordare che le imposte dirette non si pagano solo sui redditi da pensione o generati nella produzione ma sul complesso dei redditi individuali (terreni, immobili, pensioni di varia natura, interessi, lavoro dipendente o autonomo, ecc…).
I redditi generati nella produzione secondo l'Istat nel 2006, compreso sempre il nero, ammontavano a 608 miliardi di redditi da lavoro dipendente, 293 miliardi da lavoro autonomo e 102 miliardi da capitale (soprattutto dividendi e interessi). Secondo i dati desunti dalle dichiarazioni fiscali, invece, i redditi da lavoro indipendente erano solo 110 miliardi. Incrociando le valutazioni dell'Istat con le dichiarazioni emerge un "nero" del 10% nelle dichiarazioni dei dipendenti (sempre fatte dai loro datori di lavoro) e il dato che il reddito attribuito dall'Istat a piccoli padroni, quelli che occupano fino a 5 dipendenti, o autonomi era il 266% del reddito da questi effettivamente dichiarato al fisco (cioè due volte e mezzo).
Passando dai redditi primari generati dalla produzione a tutti i redditi che ogni contribuente è tenuto a dichiarare (a parte 14,2 milioni di lavoratori dipendenti e pensionati che vivono esclusivamente dei redditi da pensione e da lavoro):
- i redditi complessivi ai fini Irpef sono stati circa 741 miliardi, di questi 422 mld sono stati dichiarati dai contribuenti con un reddito prevalente da lavoro dipendente, 246 mld da quelli con reddito prevalente da pensione e 72 mld da quelli per i quali prevale una attività economica. Pensionati e lavoratori dipendenti dichiarano il 91,5% dei redditi complessivi ai fini Irpef!
-l'Irpef netta ammontava a 146 mld, comprese le addizionali comunali e regionali. I lavoratori dipendenti ne hanno pagati 88,5, i pensionati 44,5. Per differenza dal totale deduciamo che appena 13 mld sono stati pagati dagli indipendenti. Prima conclusione: l'Irpef è pagata per il 60,6% dai dipendenti, per il 30,4% dai pensionati e per il 9% da imprenditori e autonomi.

A proposito di contributi
Affrontiamo ora un altro grande capitolo: i contributi; dei quali, per inciso, ritengo sbagliata l'omologazione alle tasse, in quanto li considero una forma di ripartizione solidaristica dei redditi tra generazioni o se preferiamo la forma di risparmio più conveniente tra quelle offerte dal mercato.
Considerato che sono comunque inclusi nelle imposte, è interessante notare che (basandoci ancora sui dati Istat relativi al 2006) i contributi sociali ammontavano a 189 mld, di cui 165 mld (87,3%) versati dai lavoratori dipendenti e 23 mld (12,1%) dagli indipendenti. Gli indipendenti versano 3 punti percentuali in più rispetto all'Irpef perché ai soli fini contributivi sono definiti per decreto dei redditi annuali minimi per ogni categoria sociale e quindi è obbligatorio, ai fini del riconoscimento, un versamento minimo per ogni giornata lavorativa.
La somma del gettito di Irpef e contributi è 344 mld. I lavoratori dipendenti hanno pagato 263,5 mld (76,5%), gli indipendenti 36 mld (10,4%) e i pensionati (che ovviamente non versano contributi) hanno pagato solo l'Irpef e quindi 44,5 mld (12,9%).

Le imposte indirette, invece...
Di difficile attribuzione alle categorie sociali considerate la rispettiva quota di imposte indirette.
Quelle sui prodotti, (escludendo quindi Ici, Irap e imposta sul registro, ecc...) ammontavano sempre nell'anno preso in esame, il 2006, a circa 160 miliardi.
Per calcolare la parte attribuibile a ciascuno dei tre gruppi sociali, occorre valutare la quantità dei loro consumi effettivi sulla base dei redditi reali netti e non del solo dichiarato, meno la quota di reddito risparmiata. Qui vengono in aiuto i dati che Banca d'Italia pubblica nell'indagine sulla ricchezza delle famiglie italiane, che sono il vero attore della spesa. Possiamo stabilirne una distribuzione proporzionale al reddito percepito dalle diverse categorie sociali, anche se tutti convengono che gli autonomi hanno una maggiore capacità di risparmio (37% dei redditi secondo Banca d'Italia, contro il 20 dei pensionati e il 25 dei dipendenti) e che gli indipendenti scaricano parte dell'Iva.
Secondo questa indagine i 10,8 milioni di famiglie con a capo un lavoratore dipendente nel 2006 hanno consumato 275,7 mld, i 9,23 milioni di famiglie con a capo un pensionato o ritirato dal lavoro 179 mld e i 2,8 milioni di famiglie con a capo un imprenditore o un autonomo 86 mld. Proporzionalmente a questa suddivisione dei consumi, soprassedendo sul fatto che gli autonomi non pagano una parte dell'Iva (auto, attrezzature, ecc.), si può stimare che le imposte siano così distribuite: lavoratori dipendenti 81,6 mld, pensionati 52,8 mld, imprenditori e autonomi 25,6 miliardi.

Tirando un po' le somme
A questo punto possiamo calcolare la reale pressione fiscale e contributiva sulle persone fisiche. Sul dichiarato: prelievo complessivo (Irpef, contributi e imposte indirette): lavoratori dipendenti 345 mld; pensionati 97,3; indipendenti 61,6 mld.
Eppure gli indipendenti secondo Banca d'Italia possedevano nel 2006 un reddito familiare superiore del 44% a quello dei dipendenti, un reddito individuale superiore del 48%, una ricchezza mediana superiore del 79% (quella finanziaria superiore del 200%). Il 22% degli indipendenti possiede patrimoni di oltre 500 mila euro contro il 7,4% dei dipendenti (quasi tutti dirigenti). E si potrebbe continuare.
Le restanti principali imposte sono l'Ires, l'Irap, l'Ici, le tasse sostitutive su dividendi e interessi. L'Ires insiste sulle società di capitali e non sulle persone fisiche, l'Irap origina, e corrisponde come gettito, ai contributi sanitari - principalmente dei lavoratori dipendenti e fino al 1996 valutati come prelievo sui loro redditi - trasformati con destrezza in imposta indiretta. Le imposte sostitutive sul capitale (dividendi, interessi, ecc...) sono prevalentemente tasse sui conti correnti (tassati al 27%) che posseggono l'89% delle famiglie e sugli interessi del debito pubblico che (tolto l'80% di essi in possesso di soggetti esteri e di banche) sono prevalentemente in possesso di pensionati e dipendenti. L'Ici nel 2006 era pagata anche sulla prima casa e quindi incideva su tutte le categorie sociali.
In conclusione: lavoratori e pensionati pagano circa il 90% delle tasse. Secondo l'Istat i redditi da lavoro dipendente lordi erano invece solo il 60% dei redditi primari e il margine operativo netto, cioè l'altro reddito primario da cui originano tutti i redditi da capitale (gli interessi, le rendite, i dividendi e gli utili) era il 40% dei redditi primari. Con una tassazione meramente proporzionale il gettito dovrebbe rispecchiare queste proporzioni. In osservanza del dettato Costituzionale che invece prevede la progressività, i redditi da capitale dovrebbero pagare oltre il 50% delle imposte essendo questi redditi concentrati nel 12,3% delle famiglie.
In Italia quindi lavoratori e pensionati mantegono la vita sociale e pubblica del Paese e non riescono a risparmiare e spesso si indebitano. L'altra classe sociale lucra i benefici pubblici e intanto accumula patrimoni. Patrimoni che non sono neanche tassati.
Gli operai che votano Lega perché pensano che le loro tasse vadano a Roma non si accorgono che i soldi che Roma ruba dalle loro tasche li mette in quelle di padroni e padroncini. Converrà che tornino a chiedersi chi mangia alle loro spalle (sia nato sopra o sotto il Po poco cambia).
Uscendo dalle medie che oscurano i reali rapporti di classe, la pressione fiscale sui redditi dei dipendenti, compresa la parte in nero, è del 56,7%, quella sugli imprenditori del 15,4%. Meditate, gente, meditate.

Liberazione 18/07/2009, pagina 6

Lazio, via libera all'autostrada-mostro

Roma-Latina, costi immotivati e sfregio ambientale
La protesta dei comitati

Daniele Nalbone
E fu così che il Lazio di Marrazzo divenne terra di grandi opere. Potrebbe essere questo, fra qualche mese, il messaggio di commiato della Giunta regionale guidata dall'ex presentatore di "Mi manda Rai3".
Oggi dalle 10 una foltissima rappresentanza di cittadini e agricoltori, pendolari e residenti, da Roma sud fino a Latina, da Cisterna a Valmontone, sarà in Consiglio, in via della Pisana, «per contestare», spiega Gualtiero Alunni, portavoce del Comitato "No Corridoio", «le scelte verticistiche della giunta regionale» che il 26 giugno ha dato un parere positivo ai fini dell'intesa sulla localizzazione al progetto del "Corridoio Intermodale" (un bel modo di dire "autostrada") Roma-Latina e della bretella Cisterna-Valmontone che collegherà la nuova grande opera con l'A1.
Costo dell'operazione: 2,2 miliardi di euro, di cui ben 1,4 miliardi per realizzare la Roma-Latina.
Un progetto, quello del Corridoio, nato nel lontano 1990 dall'allora giunta Landi, che iniziò a pensare a un collegamento tra Fiumicino e Valmontone, tra il litorale e l'A1, ma che venne fermato dalla protesta del Forum popolare Roma sud-ovest.
Quando gli interessi dei costruttori sembravano ormai sopiti, ecco nel 2000 insediarsi la giunta Storace che partorisce, a metà mandato, la proposta di realizzare, a nord, il corridoio Cecina-Civitavecchia, a sud la Fiumicino-Formia, 130 km di asfalto che avrebbero "mangiato" una quantità infinita di ettari di verde. E' la scintilla che fa scattare la protesta: nasce il Comitato No Corridoio, che allora riuniva, compatte, tutte le forze della sinistra e i sindacati degli agricoltori, che riesce a portare ben 10 mila persone, nel 2004, in corteo a Latina. Arrivano così le elezioni regionali del 2005 e in campagna elettorale il candidato de L'Unione, Piero Marrazzo, si scaglia violentemente contro l'idea del corridoio e della bretella. Il centrosinistra vince le elezioni, regionali e politiche, e quando tutto sembra risolto il ministro delle infrastrutture, il buon Antonio Di Pietro, e il presidente Marrazzo, nel natale 2006, come pacco dono per gli abitanti di Roma Sud e del Basso Lazio rilanciano il progetto dell'autostrada. Con il benestare di tutta la giunta di centrosinistra, «tanto che qualcuno, allora all'interno del Prc, tappezzò anche il territorio con manifesti dal titolo "Vittoria Pontina"» ricorda Alunni. Un progetto che, per il 75%, vedeva il tracciato combaciare con il percorso della strada statale Pontina, quindi "impattante ma non devastante" dal punto di vista ambientale, ma che, incredibilmente, registra un aumento dei costi di realizzazione di oltre il 40% in soli tre anni rispetto a quelli dell'era Storace. Ben 1,4 miliardi di euro a fronte degli allora previsti 850 milioni. «Un aumento esponenziale senza alcun motivo» denuncia Gualtiero Alunni: «abbiamo analizzato le tabelle dei singoli costi fra i due progetti, e gli operai percepiranno, tra un anno, il medesimo salario di quattro anni prima e il materiale, cemento, ferro e asfalto, potrà aumentare del 1-3%». Il tutto per un aumento plausibile «del 5% massimo, 40 milioni circa». Ma, ad oggi, siamo già a 500 milioni di euro di aumento immotivato.
Non solo. «Con le ultime varianti apportate al progetto», continua Alunni, «l'autostrada, che sarà ovviamente a pagamento, passerà fuori dall'area della Pontina per oltre il 60% e i poveri pendolari, se non vorranno pagare il pedaggio, dovranno fare una "via crucis" per rimanere comunque, alla fine, imbottigliati in file interminabili per entrare e uscire da Roma».
Da Aprilia Sud, inoltre, a Pomezia Nord, «chi percorrerà la Pontina, la strada italiana con il più alto indice di mortalità, continuerà a farlo a proprio rischio» perché quel tratto di 22 km circa, escluso dall'autostrada, non verrà adeguato né messo in sicurezza.
Inaccettabile, quindi, per la cittadinanza, il parere favorevole alla "grande opera" dato dalla Conferenza dei Servizi dell'8 luglio che non ha recepito le osservazioni né di decine di cittadini coinvolti dall'esproprio della propria terra, casa, attività, né del Wwf e di Italia Nostra, tantomeno delle aziende agricole e produttive, ma soprattutto non ha tenuto conto dei pareri contrari della Sovrintendenza, dell'ente "Parchi Roma Natura", dei consigli comunali di Pomezia e Ardea e delle 12 mila firme raccolte in calce alla petizione popolare. Nel 2010, quindi, inizieranno i cantieri per un progetto che getterà le basi al futuro GRA del Lazio, un raccordo autostradale che "aggirerà" Roma e «darà vita a un "mostro di mostri" di cemento e asfalto utile solo ai soliti speculatori privati ma devastante per pendolari, agricoltori e il territorio».
Un piano di perfetto accordo tra chi vuole cancellare del tutto il trasporto su ferro, poco remunerativo, a favore di quello su gomma (Moretti, ad di Trenitalia) e quanti potranno incassare milioni di euro per le grandi opere della Roma-Latina, Cisterna-Valmontone (Impregilo-Todini), e, perché no, del "secondo Gra di Roma" che raccorderà l'A1 con l'aeroporto di Fiumicino per la modica cifra di ulteriori due miliardi di euro (Averardi, dg di Anas). Il tutto per la gioia degli azionisti della cordata Cai che ha rilevato Alitalia che potranno così contare su collegamenti autostradali diretti per l'hub di Fiumicino dove gli interessi privati raggiungono l'apice e hanno un nome e cognome: quarta e quinta pista, nuova aerostazione e cementificazione di un area di 150 ettari di campagna che va dall'attuale aeroporto fino al castello di Maccarese, con tanti saluti ad altre decine di aziende agricole, casali abitati, imprese artigiane e vie d'acqua per la gioia del suo proprietario, il gruppo Benetton, voce grossa all'interno di Cai.
Questi i motivi per cui rimarranno inascoltate in quanto poco remunerative dal punto di vista economico, le proposte del Comitato No Corridoio e dei firmatari dell'appello, fra i quali i consiglieri regionali Peduzzi (Prc), Grosso (Pdci) e Celori (ex An) e diversi sindaci del Basso Lazio, di intervenire nell'adeguamento in sicurezza della Pontina, del miglioramento della linea ferroviaria Roma-Latina e Nettuno-Campoleone e della costruzione della metropolitana Roma(Laurentina)-Pomezia-Ardea: «opere che ridurrebbero l'inquinamento, i costi di costruzione, i tempi di percorrenza e l'impatto ambientale, tutelando le attività agricole e produttive che non verrebbero chiuse, i parchi che non sarebbero tagliati in due e le decine di abitazioni che non verrebbero abbattute».

Liberazione 17/07/2009, pagina 8

L'Anp ordina la chiusura di al Jazeera nei Territori

Per un'intervista a Kaddumi

L'Autorità nazionale palestinese ha ordinato la chiusura dell'ufficio di Al Jazeera nella West bank, accusando la Tv satellitare del Qatar di diffondere bugie e provocazioni, specie riguardo al presunto avvelenamento di Yasser Arafat.
Il motivo reale per la chiusura sembra però essere stato la trasmissione di una dichiarazione Faruk Kaddumi - ala radicale dell'Olp, contrario agli accordi di Oslo tra Rabin e Arafat. Kaddumi ha accusato il presidente Abbas di aver cospirato con Israele per avvelenare il leader palestinese. «Menzogne» è la risposta dell'Anp, che però ha anche deciso di chiudere la Tv.
Alla scelta si è oppostao il governo destituito di Hamas nella Striscia di Gaza. Il ministero dell'Informazione di Hamas ha annunciato di «non avere alcuna responsabilità nella decisione», spiegando che si tratta di «un decreto miope di cui è responsabile una classe ristretta che non rappresenta tutti i palestinesi, né esprime la posizione ufficiale generale del popolo». La decisione del governo dell'Anp è «avventata e motivata da considerazioni prettamente politiche», oltre ad essere «priva di saggezza e di considerazione per l'interesse nazionale palestinese».

Liberazione 16/07/2009, pagina 11

Enciclica Caritas in Veritate

29 Giugno 2009
di Benedetto XVi

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/encyclicals/documents/hf_ben-xvi_enc_20090629_caritas-in-veritate_it.html

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/encyclicals/index_it.htm

http://www.vatican.va/holy_father/

Annual Survey of violations of trade union rights: 2009

Annual Survey of violations of trade union rights: 2009

http://survey09.ituc-csi.org/

domenica 19 luglio 2009

Banche Islamiche

Esamineremo prima la condanna dell’usura nel Corano e nella tradizione e poi gli sviluppi giuridici. Infine considereremo le differenti attitudini giuridiche nei diversi paesi islamici... di Etienne Renaud

http://www.cadr.it/files/20090227_bancheislamiche.pdf

Il mercante musulmano nella visione di Maxime Rodinson

Un importante intervento di tipo generale in merito alla figura del mercante nell'Islam è quello di Maxime Rodinson, autore di Islam e capitalismo. Le sue domande principali sono: come affrontare uno studio sociologico sul mercante musulmano? E' possibile costruire una tipologia di commerciante?

Prima di tutto bisogna osservare che il commerciante è un "agente economico" che si inserisce nella catena produzione-circolazione-distribuzione. Il commerciante può essere un produttore-distributore, un agente specializzato del produttore o un puro scambista. Nel mondo musulmano dominano la prima e la terza figura di commerciante.

1. Nell'Islam il produttore-distributore ha un ruolo importante poichè, in genere, il commercio è considerato come un fatto conseguente alla produzione. Al-Ghazzali inserisce i commercianti nella classe dei produttori e Ibn Khaldun inserisce il commercio nei "mezzi di esistenza naturali". L'artigiano nell'Islam vende direttamente i suoi manufatti al pubblico e solitamente nei mercati gli artigiani che producono l'una o l'altra cosa si raggruppano insieme. A partire da una certa epoca in poi, fra l'altro, gli artigiani si organizzano in Gilde, ovvero in gruppi di pressione nei confronti dell'autorità statale. Prima di questo periodo esistono comunque organizzazioni di artigiani-commercianti.
2. Possiamo assimilare nell'Islam l'agente commerciale a colui che dipende da un importatore grossista. Ci sono diversi esempi nell'Islam di questa struttura. Nell'impero ottomano il legno era importato dallo Stato che si avvaleva di commercianti privati per la vendita e la distribuzione. nell'Egitto Mamelucco il sultano aveva un proprio ufficio comemrciale privato che monopolizzava sempre di più il commercio di alcuni beni. Lo Stato imponeva il prezzo di questi beni e, in periodi di monopolio ferreo, alcuni commercianti privati si misero al servizio dello Stato.
3. Lo "scambista" è il commerciante "classico" dell'Islam. E' in questa categoria che rientrano i mercanti di lunga distanza. Nelle grandi città i mercati funzionavano a scatole cnesi, con un mercato all'ingrosso dove si vendevano le merci del commercio di scambio a lunga distanza. Poi i beni venivano distribuiti in una rete commerciale al dettaglio. E' a questo livello, inoltre, che bisogna chiedersi se lo "scambista" nell'Islam era capace di influenzare la produzione e sembra di sì visto che esiste la fgura del "commendatario" ovvero colui che riceve l'ordine da un grande commerciante per la produzione di alcuni beni. Questo discorso, però rimane nsolo in nuce nell'Islam, che non svilupperà mai cicli economici di tipo industriale. E' importante saperlo in rapporto al fatto che gli europei, come abbiamo visto, giunsero nell'OCeano Indiano a condizionare fortemente la produzione.

Lo Stato, nel settore commerciale, è "non interventista, ovvero basa la sua forza sulla produzione agricola e l'attività militare. Questo, però non vale per gli Stati musulmani periferici dell'Oceano Indiano, che nascono e vivono proprio sul commercio (Hormuz, Zanzibar).

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Lo statuto giuridico e morale

Massignon descrive la figura del mercante nell'Islam in un'ottica funzionalistica, operando una distinzione fra suo statuto giuridico e suo statuto morale.

* Statuto giuridico: il diritto pubblico non assegna al mercante alcuno "statuto". Non esiste alcuna "carta del commerciante" che definisca con precisione i suoi diritti e doveri. La categoria, dunque, non ha - a priori - la forma di una classe sociale chiusa o di una casta ereditaria, endogama con diritti e doveri stabiliti come succede ad esempio in India. Le disposizioni legali specifiche che si applicano ai mercanti derivano solo dalla sua funzione economica. L'Islam d'altronde è definita dall'accademico come una "religione senza classi", ovvero una religione che da ad ogni essere umano la stessa dignità. Quando si viene a formare nella società islamica una "classe dominante", come nel caso dei mamelucchi (che hanno leggi interne che la regolano) il mercante ne è comunque escluso, nel senso che le classi dominanti nell'Islam sono spesso formate di militari. Un eccezione a questa struttura è rappresentata dalle città stato commerciali, di cui parleremo, anche se non abbiamo, a livello giuridico, evidenze dell'esistenza di uno statuto "speciale" o privilegiato accordato ai mercanti. Il diritto privato, al contrario di quello pubblico, prevede alcune disposizioni che facilitano la vita del mercante, come il matrimonio temporaneo (muta'a). Sviluppato è il regime dei contratti commerciali, lo strumento giuridico principale per i mercanti. Essi vengono stilati secondo i principi dell'Islam e dunque, nel loro insieme, seguono una deontologia che non è "autodefinita" dai mercanti stessi, ma rispetta l'ideologia generale che dall'Islam scaturisce: il divieto di usura pone alcuni ostacoli ma viene superato in diversi modi. I contratti più studiati, che vedremo, sono quelli di vendita e di commenda.
* Statuto morale: per spiegare quale sia il rilievo morale del mercante nell'Islam Rodinson usa un paragone con il mondo cristiano, nel quale il mercante è teoricamente condannato dalla chiesa perchè insiegue ilprofitto e la ricchezza. Nell'Islam, a livello ideologico generale, la ricerca della ricchezza attraverso il mercato è visto invece in maniera positiva, sempre che si svolga all'interno del quadro generale etico-morale islamico. Bisogna poi ricordare che Muhammad era un mercante e che l'Islam nasce poprio in ambiente mercantile, distaccandosi dall'assetto tribale dell'Arabia preislamica.

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Il ruolo

Dal punto di vista della sua mentalità economica, lo spirito d'impresa del mercante musulmano sembra essere un fatto stabilito. Rodinson osserva però che i mercanti musulmani sono più attivi nell'Oceano Indiano, ovvero un'area in cui non ci sono contese di tipo politico.

Se il mercante cerca nella storia dell'Islam di accrescere il proprio peso sociale il potere nell'Islam trae nel suo complesso forza altrove, ovvero nelle campagne e in campo militare. L'influenza del mercante non oltrepassa mai il quadro municipale. La sua ricerca di maggior influenza passa per il tentativo di aver maggior peso dal punto di vista legale. Strictu sensu v'è una tendenza nei mercanti a basarsi sulle prove scritte invece che sulle testimonianze dirette, fatto che va contro la tradizione giuridica islamica che privilegia il testimone diretto oculare. Un altro elemento che danneggia in qualche modo l'attività mercantile è "l'onnipotenza" del qadi, il cui insindacabile parere supera la inequivocabilità del contratto scritto.

Dal punto di vista delle attitudini sociali Rodinson osserva che spesso i mercanti formano in buona parte la clientela delle sette dissidenti e, almeno in periodo medievale, hanno poca propensione per la mistica. Vedremo che ad esempio in Africa, in seguito, ciò non è vero. Ovviamente il mercante ha una propensione verso un assetto politico stabile e pacificato, che renda più facile il suo lavoro. La tendenza è verso la tolleranza delle differenze e verso l'accettazione del pluralismo confessionale, una tendenza che Rodinson vede alla base di quelli che saranno i millet in periodo ottomano. D'altra parte, in zone del mondo non islamiche, il mercante si contraddistingue per un'attività missionaria. E' un agente della diffusione dell'Islam. Intorno all'attività mercantile si sviluppa spesso, in aree non islamizzate, una clientela di neoconvertiti, con i quali è più facile avere un corretto rapporto commerciale. Si fa esclusione di quelle aree e di quei periodi in cui si commerciano schiavi, che non devono essre musulmani.

Rodinson, M., "Le marchand musulman", in D. S. Richards (a cura di), Islam and the trade of Asia: a colloquium, Oxford, 1970, pp 21-35.

http://www.islamistica.com/lorenzo_declich/mercante_musulmano_rodinson.html

giovedì 16 luglio 2009

Nessuno ferma il delirio delle ronde

Luigi Grimaldi
E' finita ancor prima di iniziare la radiosa avventura dei rondisti neofascisti della Guardia Nazionale Italiana: via le camicie brune, via le aquile imperiali, via il sole nero, via ogni possibile legame con il nazi-fascismo. Finiscono in cantina anche le placche metalliche stile Gestapo e il cappellino in stile «nazisti dell'Illinoios», per dirla con le parole dei fratelli terribili del film "Blues Brothers". Meglio rinunciare ai simboli e tenersi la possibilità di controllare il territorio. Ma è troppo tardi e le rassicurazioni sul tema della creazione di milizie di partito offerte dal Governo non cancellano affatto i rischi di conseguenze criminogene o peggio di una legge che potrebbe far precipitare la situazione dell'ordine pubblico nel caos, umiliando nel contempo le forze di polizia. Infatti non ci vuole molto a scoprire che in Italia dilaga un'epidemia rondaiola e militarista che non ha precedenti nelle democrazie occidentali ad eccezione di gruppi in stile "fratellanza bianca" diffusi in alcune aree degli Stati Uniti.
Proprio a Varese, la città del ministro dell'Interno Maroni, esiste un'altra Guardia Nazionale (sul cui sito è reperibile anche il bando di "arruolamento" ), organizzata in diversi comandi e distaccamenti, che sembra essere ancora più allarmante di quella di Saya e dei suoi camerati. A guidarla il "maggiore" Claudio Carè, presidente della Onlus "Guardia Nazionale". Carè ha un passato da volontario nella milizia neofascista della guerra in Croazia ed è un ex militante della Lega Nord da cui avrebbe preso, ma non si sa quanto, le distanze considerandola troppo "morbida" e troppo poco attiva nell'attività di vigilanza. Questa "nuova" organizzazione è attiva tra le province di Varese e Como sin dal 2005 ed è stata più volte sottoposta ad indagini, perquisizioni e sequestri da parte dell'autorità giudiziaria per un reato particolare: usurpazione di funzioni pubbliche (articolo 347 del codice penale) per aver utilizzato divise, distintivi e segnaletiche luminose che li caratterizzavano come un corpo di Polizia non autorizzato. Si tratta dello stesso reato contestato dalla Procura della Repubblica di Genova al famoso DSSA, la polizia antiterrorismo parallela, privata e non autorizzata messa su da Gaetano Saya.
I Volontari di quest'altra «Guardia Nazionale - recita il sito del sodalizio - sono muniti, per lo svolgimento dei loro compiti, di attrezzature ed equipaggiamenti spesso superiori a quelli delle Forze dell'Ordine, e sono perfettamente addestrati a servirsene». Si tratta di apparati radio capaci di stabilire collegamenti a centinaia di chilometri, maschere antigas, visori notturni e della stessa uniforme tattica in dotazione all'esercito tedesco: una chicca, definita adattissima a mimetizzarsi (chissà in base a quale necessità) nei boschi della provincia di Varese.
"Un rigoroso addestramento tecnico-giuridico - sostiene la milizia varesotta - della durata base di 40 ore, si integra con i corsi di qualificazione e specializzazione provinciali e regionali, per essere sempre aggiornati sulla sicurezza e sulla protezione ambientale».
I miliziani agli ordini di Carè sono organizzati, tra l'altro, nelle "SVT" ossia "Squadre di Vigilanza Territoriale", la «punta di diamante del Corpo, la sua componente più famosa e visibile con maggiore frequenza sul territorio. Il loro compito è proprio quello del controllo del territorio per mezzo di pattuglie e squadre di vigilanza, a mezzo di veicoli. A loro spetta osservare, monitorare, ispezionare e riferire alle Autorità e, laddove necessario, intervenire». Dove? «Il loro terreno sono i boschi, le periferie, i centri storici, le piazze ed i vicoli, soprattutto quando sono avvolti dalle tenebre. Sono dei veri e propri angeli custodi della popolazione e dell'ambiente». L'attività della Guardia Nazionale si articola in molti settori.
«La più rilevante - fanno sapere i miliziani varesotti - è sicuramente quella del controllo del territorio: cioè la vigilanza ambientale e urbana. Questa si esplica mediante pattuglie radiomobili che percorrono boschi e paesi secondo itinerari ben precisi, studiati per coprire quanto più territorio possibile (...). In generale ci si avvale di potenti veicoli fuoristrada perfettamente attrezzati (con tanto di lampeggianti sul tetto e scritte fluorescenti, nda.), fiore all'occhiello del Corpo, con equipaggi di 2-3 Guardie». Ma questa nuova "ronda" propone anche altri e più riservati impieghi perché i miliziani oltre a pattugliare ed addestrarsi per la protezione civile «conducono indagini e raccolgono dati, lavorando a casa o in ufficio a preziosi rapporti e relazioni per le Autorità locali…e gli esempi potrebbero continuare».
Già, gli esempi potrebbero continuare. Come nel caso del Movimento Fiamma Tricolore che a Udine ha deciso di mettere a disposizione dell'intero territorio provinciale, rendendo la cosa nota già qualche mese fa, un corpo di 100 volontari: sono le "Squadre Ettore Muti", dedicate alla memoria di un vero eroe del fascismo, il leader e l'epigono delle famigerate e sanguinarie camice nere. Chi sono i cento rondisti neri di Udine? «Tutti cittadini italiani», «molti dei quali esperti di arti marziali o ex appartenenti alle forze armate o a corpi di polizia per i servizi di sicurezza del territorio». «I volontari saranno dotati unicamente di telefono cellulare, torce per la vigilanza notturna e spray anti aggressione, il cui utilizzo è divenuto ormai legale». Insomma le "ronde nere" di Saya non sembrano essere diverse da altre iniziative analoghe sparse nel Paese, a macchia di leopardo, da Nord a Sud. Basta andare infatti a Isernia dove Alberto Castagna tenta da qualche tempo di dare vita alla "Guardia nazionale repubblicana", che porta il nome della famosa GNR, le squadracce della Repubblica di Salò. Alberto Castagna è anche il segretario del Partito fascista repubblicano e già ex dirigente nazionale del movimento Fascismo e libertà. Il suo programma di "pattugliamento" parrebbe persino più organizzato e professionale di quelli di Carè e dei gruppi "Ettore Muti" e prevede «un addestramento di 90 giorni, guidato dalle Forze armate. Solo chi sarà in grado di superare tutti i test, compresi quelli psico-attitudinali, potrà essere affiancato alle Forse dell'ordine. In maniera del tutto volontaria, senza soldi, ma eventualmente con armi» contando su un «mandato dei ministeri dell'Interno e della Giustizia». Insomma, avendo tempo e modo di monitorare la situazione chissà che altro potrebbe saltar fuori. Il problema è che il ministero dell'Interno tempo, modo e mezzi per monitorare la situazione li possiede di sicuro ma, a quanto pare, al ministro, del diffondersi di questo delirio, evidentemente non importa un fico secco.

Liberazione 17/06/2009

«Casa Pound», tanto di vecchio dietro nuovi slogan

Colloqui riservati svelano un'organizzazione con doppi livelli

Saverio Ferrari
«Duemila tesserati e migliaia di simpatizzanti, sedi su tutto il territorio nazionale, 15 librerie, otto associazioni sportive, una web radio con 25 redazioni in Italia e dieci all'estero». Con queste parole Gianluca Iannone, presidente di Casa Pound Italia, il 22 giugno scorso ha introdotto i risultati raggiunti dall'associazione, festeggiando il primo anno di attività, a Roma ad Area 19, una delle quattro occupazioni poste sotto l'egida del gruppo.
È stata anche l'occasione per sottolineare come ben 150 siano state le conferenze organizzate e che a Casa Pound Italia fanno ormai riferimento «dieci gruppi musicali, una compagnia teatrale, una galleria d'arte e un circolo di cultura cinematografica», ma soprattutto il Blocco studentesco che «ha conquistato 120 rappresentanti alle Superiori e 37 mila voti solo a Roma con una media del 18% dei consensi».
«È stato un anno intenso - ha concluso Iannone - che ha portato a risultati che vanno oltre quanto sperassimo, a cominciare dalla capacità del Blocco studentesco di guidare la protesta contro la riforma Gelmini».
Un giudizio decisamente ben oltre il vero anche se è indubbio che questa realtà di Casa Pound nel suo complesso rappresenti un fenomeno in crescita. Quasi un piccolo evento mediatico. I riconoscimenti a destra si sprecano: solo negli ultimi mesi la sede romana di via Napoleone III ha ospitato, a febbraio, la presentazione di un libro dell'ex brigatista rosso Valerio Morucci con Giampiero Mughini e il vicecapogruppo del Pdl in Campidoglio Luca Gramazio, occasione per lanciare un appello a «mettere fine al meccanismo diabolico dell'antifascismo», e successivamente il 2 aprile, la proiezione del film-documentario apologetico su Bettino Craxi «La mia vita è stata una corsa», con tanto di intervento della figlia, nonché attuale sottosegretario agli esteri, Stefania Craxi.
Recentemente è stato anche pubblicato dalle edizioni Contrasto un interessante libro foto-giornalistico su Casa Pound: «OltreNero. Nuovi. Fascisti. Italiani» di Alessandro Costelli e Marco Mathieu. Una ricerca più antropologica che politica.
Ultima in ordine di tempo, a fine maggio, l'intervista su l'Altro a Gianluca Iannone da parte di Ugo Maria Tassinari, da sempre loro entusiastico sponsor, che ha suscitato non poche critiche e rimostranze a sinistra.
Ma dietro le quinte la realtà sembra ben diversa da quanto appaia. Non proprio nuova, si potrebbe dire, anzi, decisamente datata.
Sulla base di alcuni colloqui riservati sfuggiti via internet all'uso esclusivo dei dirigenti, emergerebbe, infatti, la dimensione di un universo non proprio così originale, scevro da dogmi e aperto al dialogo con tutti.
Il dibattito interno a cui ci riferiamo è dell'aprile scorso. Ebbene, il capo, ovvero Gianluca Iannone, dietro lo pseudonimo di Geronimo, nel relazionarsi con i dirigenti locali sparsi sul territorio, così illustra e detta le linee organizzative: «Le comunità vanno strutturate in cerchi concentrici, il primo deve essere il direttivo, il secondo cerchio deve essere quello della comunità e poi i vari cerchi con tutti gli altri. Per comunità intendo un insieme di persone che mantengono un segreto, uno zoccolo duro serrato, fido, agguerrito…». Il terrore è quello delle infiltrazioni: «Siate sempre diffidenti - dice - occhio soprattutto a vecchi camerati... che si riaffacciano dal nulla. Noi vi fidate di nessuno. Siamo una foresta che cresce. Occhio ai parassiti».
In questo quadro, tra citazioni di Alessandro Pavolini e altri, si invitano tutti a «dare informazioni il meno possibile».
«Chi vuole conoscerci realmente - queste le conclusioni - chiama e si fissa un appuntamento. In questo periodo dobbiamo essere molto selettivi».
Anche il mondo delle curve è vissuto con un certo sospetto: «Se inteso come contenitore per aggregare e poi formare al di fuori, lo stadio è fondamentale e ho grande rispetto per i gruppi perché anche noi ne abbiamo uno forte e radicato», ma «gli stadi pullulano di infiltrati. La politica trasportata nello stadio porta dietro un sacco di controlli e situazioni con le forze dell'ordine».
L'impianto sembrerebbe quello già sperimentato delle formazioni neofasciste degli anni Settanta, ipercentralizzate e compartimentate, con doppi livelli, impermeabili e pronte allo scontro non solo politico.
«Ogni regione - è sempre Iannone a parlare - deve avere un minimo di 10 elementi facenti parte del servizio d'ordine nazionale che faranno capo direttamente al coordinatore regionale e al sottoscritto. Compito dei coordinatori regionali è individuare gli attivisti più portati a discipline marziali e unirli sotto il servizio d'ordine locale. Il servizio d'ordine deve essere basato su un reale allenamento settimanale e una serie di letture mirate che saranno comunicate in seguito. Bell'aspetto (interiore ed esteriore) e sangue freddo sono solo i primi due requisiti per accedere a questa struttura che avrà riunioni nazionali e compiti delicati. Appartenere al servizio d'ordine è un onore che non tutti possono rivestire. Scegliete bene».
C'è dunque un piccolo Duce al vertice di Casa Pound che tutto decide e comanda, ma soprattutto sarebbe interessante sapere a cosa dovrebbe servire un servizio d'ordine e quali siano "i compiti delicati" di cui si parla. Anche alla luce di alcune inquietanti ammissioni in relazione ai rapporti non sempre conflittuali che sembrerebbero intercorrere tra alcune sedi di Casa Pound e le Digos locali. «Solita amicizia con la Digos. - comunica il responsabile di Siena a cui fa da sponda Perugia - Qua la situazione è la solita, fanno gli amiconi e i cammarati». Storie già sentite. Anche queste.

Liberazione 11/07/2009

mercoledì 15 luglio 2009

Saudi alchemist

http://saudialchemist.org/

martedì 14 luglio 2009

India strengthens ties with France

Indian troops will take part in France's Bastille Day military parade, the first time India has taken part and an indication of the growing ties between the two nuclear powers.

A 400-strong detachment of Indian troops are to march down the Champs Elysees as part of the celebrations on Tuesday, under the eyes of Manmohan Singh, India's prime minister.

France has been building closer ties with India and is seeking contracts to supply weapons and civilian nuclear technology.

The office of Nicolas Sarkozy, France's president, said that the troops' presence shows France believes "India has a primary role on the international scene, and that we support India's candidacy to become a UN Security Council permanent member".

Drawn from the army, navy and the air force, the contingent will parade to the sound of Indian martial music played by a 90-member band as they march alongside thousands of French soldiers.

Sitanshu Kar, an Indian defence ministry spokesman, said last week: "It is a proud day for India as our troops will march in a country where they fought during World War I."

Indian soldiers under British command were part of two Allied divisions that fought the Germans around the northern French town of Neuve-Chapelle in 1915.

Nuclear ties

Singh, who was in Italy for the G8 summit, was invited to attend the July 14 French national holiday event as guest of honour by Sarkozy, who attended India's Republic Day celebrations in January 2008.

Singh last travelled to Paris in September 2008 to sign a major deal on civil nuclear co-operation between the two countries.

French state-controlled group Areva has signed a draft accord for the sale of up to six nuclear reactors to India, a huge new market now open after a nuclear trade embargo on New Delhi was lifted.

France is one of the key arms suppliers for India's technology-hungry military, and the French firm Dassault Aviation is in the race for a mammoth contract to supply 126 fighters to the Indian air force.

A jet contract could be worth up to $12bn.

Military strength

France and India have been steadily developing strong military ties.

In April the Indian and French navies took part in anti-submarine exercises off the coast of the western state of Goa.

The Bastille Day parade, one of the capital's biggest annual events, lets France show off its military hardware. This years celebrations will end with parachutists being dropped onto the Champs Elysee.

The parade is held each year on July 14, the anniversary of the storming of the Bastille fortress in Paris by revolutionaries on July 14, 1789.

It was the symbolic starting point of the movement that led to the first French republic.

english.aljazeera 14 Luglio 2009

http://english.aljazeera.net/news/europe/2009/07/200971455421282949.html

Riduzione arsenali atomici, storico accordo Usa-Russia

Prima visita a Mosca per Obama: «Possibili straordinari progressi»

Matteo Alviti
Berlino
Due giorni per raddrizzare i rapporti tra Usa e Russia. Una visita di stato, la prima del presidente statunitense Obama al collega russo Medvedev, alla vigilia del vertice italiano del G8. E già un ottimo risultato, tutto sommato: l'impegno comune a firmare l'accordo per la riduzione degli armamenti nucleari, che seguirà il vecchio patto Start del 1991, in scadenza alla fine del 2009.
Da aggiustare c'erano i lasciti di otto anni di amministrazione Bush da una parte e di putinismo dall'altra. Dal 2000 le relazioni tra i due paesi hanno sofferto molto, a parte qualche periodo "fortunato" nel 2001, arrivando quasi alle temperature polari della guerra fredda. Negli ultimi anni le mire espansionistiche, o inglobatrici, come si preferisce, degli Usa di Bush attraverso la Nato hanno fatto mettere la Russia sulla difensiva. Il tentativo, rallentato la scorsa estate dagli alleati europei - Francia e Germania soprattutto - di tirare Ucraina e Georgia nell'Alleanza atlantica aveva creato più di un'incomprensione. Anche il progetto di scudo missilistico da costruirsi tra la Polonia e la Repubblica ceca, per "proteggere" l'Occidente dall'Iran e da altri simili pericoli, aveva portato a un passo dalla dislocazione di missili russi nell'enclave di Kaliningrad, tra Lituania e Polonia. Per non parlare della guerra dello scorso agosto con la Georgia filostatunitense del presidente Saakashvili e dell'interruzione dei rapporti privilegiati con la Nato, da poco formalmente ripresi.
Oggi sono cambiati gli uomini ed è anche cambiato anche il contesto. Sono stati diversi, negli ultimi mesi, i segnali di disgelo lanciati dalla diplomazia dei due paesi: dal «reset» invocato dalla Clinton e dal vice di Obama, Biden, alla metafora degli «asset tossici» da abbandonare usata dal ministro degli esteri russo Lavrov. A Mosca Obama è arrivato con l'intera famiglia. Michelle e le due bambine, insieme per ricostruire un approccio morbido nei rapporti con il Cremlino. Entrambi i paesi si rendono conto di avere più da perdere che da guadagnare nel prolungare un inutile contrasto in un periodo economicamente difficile come quello che stiamo vivendo e che passeremo l'anno a venire. Ieri insieme ad Obama è sbarcata una corte di uomini d'affari pronti a rinsaldare il debole commercio tra i due paesi - 36 miliardi di dollari nel 2008, pari al volume di traffici tra Russia e Polonia.
Inoltre gli Usa hanno diverse partite aperte che Mosca potrebbe agevolare - dall'Afghanistan, all'Ira -, mentre il Cremlino - che cerca l'appoggio Usa per l'ingresso nel Wto - ha voglia di riconquistare il posto di superpotenza che crede gli si addica. E che condiziona l'atteggiamento nei confronti degli Usa, accusati di far tutto per indebolire l'orso russo, ha ricordato recentemente Michael McFaul, uomo di punta di Washington nelle relazioni con la Russia.
Ieri i due paesi, che insieme possiedono il 95% dell'arsenale nucleare mondiale, hanno dunque trovato una bozza d'intesa per la riduzione degli armamenti atomici dalle attuali 2200 a un numero compreso tra le 1500 e le 1675 testate. La volontà di giungere a tale accordo, che entrerà in vigore solo nel 2010 - sempre se gli Usa non andranno avanti con la costruzione dello scudo missilistico -, era stata annunciata una prima volta lo scorso aprile alla vigilia del vertice G20 di Londra, dopo il primo faccia a faccia tra i presidenti. Già nel 2002 Usa e Russia si erano impegnate con lo Strategic Offensive Reductions Treaty (Sort) a una prima limitazione delle testate nucleari, entro il 2012, a un numero compreso tra le 1700 e le 2200.
Ieri il Cremlino ha anche dato il via libera agli Usa per il transito di uomini e mezzi militari nello spazio aereo russo. Un passo molto importante e da tempo richiesto dagli statunitensi per diversificare le rotte del rifornimento militare in Afghanistan, considerato che le vie più battute, dal Pakistan, sono oggetto di continui attacchi da parte dei talebani. « Permettendo il transito su queste rotte la Federazione russa consente un sostanziale incremento nell'efficienza dei nostri sforzi per sconfiggere le forze dell'estremismo violento in Afghanistan e per la sicurezza della regione», si legge in un comunicato della delegazione Usa. Il trattato prevede il passaggio, in un anno, di 4500 voli militari, senza ulteriori costi per gli Washington. L'accordo sarà valido un anno e sarà esteso automaticamente se tutte e due gli stati non presenteranno esplicite obiezioni. La Casa Bianca ieri ha specificato che il solo cambio di rotta farà risparmiare agli Usa 133 milioni di dollari di costi all'anno. Molto poco rispetto ai miliardi mobilitati per il conflitto.
Ma ieri si è parlato anche di altro: cooperazione militare, la creazione di una commissione congiunta tra governi, nuovi investimenti, efficienza energetica, Corea del Nord e Medio Oriente. Obama ha anche annunciato la volontà di organizzare una conferenza internazionale sulla sicurezza nucleare per l'anno prossimo. Oggi il presidente statunitense incontrerà quello che molti commentatori ritengono ancora l'uomo più importante in Russia, il premier Vladimir Putin, da Obama recentemente accusato di avere ancora un piede nella guerra fredda. Seguiranno una visita all'ex presidente Mickhail Gorbaciov e un incontro con alcuni membri dell'opposizione.

Liberazione 07/07/2009, pagina 3

domenica 5 luglio 2009

Il resistibile ritorno delle gabbie

Inserto di Liberazione del 5 Luglio 2009

Le cosiddette “zone salariali”, più tardi chiamate “gabbie salariali”, furono introdotte in Italia con l’accordo interconfederale del 6 dicembre 1945. Si stabilivano 4 zone produttive nel nord, con una differenza di reddito tra la prima e la quarta del 14%. Il 23 maggio 1946 un nuovo accordo estendeva le “zone” anche al resto d’Italia. Lo spirito era quello della ricostruzione e della necessità di lasciarsi rapidamente alle spalle l’immane tragedia bellica. Nel Sessantotto, quel meccanismo che era diventato nel frattempo una trappola - visto che impediva a due lavoratori dello stesso settore, della stessa azienda, della stessa età e con la stessa qualifica, ma che operavano in due territori diversi, di percepire lo stesso reddito -, fu eliminato sotto la pressione di scioperi e mobilitazioni. Oggi è tornato d’attualità, sostenuto dalla Lega che ne vorrebbe il ripristino, mentre già le condizioni contrattuali e gli stipendi vedono nella realtà una forte sperequazione tra il nord e il sud del paese.

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Nel privato esiste già un divario tra le retribuzioni del nord e del sud

Le "gabbie" della Lega specchio dell'Italia

Piergiovanni Alleva
L'espressione "gabbia salariale" è nata negli anni '60 nel corso della vittoriosa lotta sindacale per il superamento, nei contratti collettivi nazionali, di tariffe differenziate per zone territoriali, e aveva una connotazione polemica ed un significato peggiorativo, ma non è la prima volta che un epiteto coniato con questi fini viene rovesciato nella sua valenza (si pensi a "sanculotto" o "vietcong"). Potrebbe accadere anche questa volta se a quella espressione si annette l'idea che al nord i salari dovrebbero essere più alti rispetto al sud perché al nord la vita è più cara.
In vero uno slogan di questo genere potrebbe attecchire con fulminea rapidità tra la classe lavoratrice del nord Italia, oppressa ed impaurita dalla crisi economica e sarebbe quanto mai pericoloso perché sicuramente capace di rivestire di apparente buon senso ed equità, pulsioni torbide, egoiste e separatiste. Sarebbe però uno slogan falso che descriverebbe uno scenario solo immaginario, ancorché da molti istintivamente creduto reale, perché in realtà nel settore del lavoro privato esiste invece un forte e crescente divario, già oggi tra le retribuzioni reali del nord e del sud Italia, pur nella generale miseria della condizione retributiva dei lavoratori italiani ormai agli ultimissimi posti in Europa. La commessa milanese che non riesce più, con i suoi 1200 euro mensili a pagare 600 euro di affitto o di mutuo e a vivere decentemente con il residuo, invidia forse la collega di Catania che in questa città paga un affitto di soli 200 euro, ma ignora che lo stipendio di quest'ultima raramente supera i 500 euro mensili.
Perché esista questo divario retributivo è presto detto: perché al sud il Ccnl è spessimmo disapplicato, perche infuriano il lavoro "nero" e quello "grigio", perché è di fatto assente la contrattazione aziendale, perché sono molto rari anche i superminimi individuali. Un sostenitore della "gabbie salariali" potrebbe però obbiettare che bisognerebbe allora rendere effettivamente vincolante il contratto nazionale senza consentirne l'evasione né a nord né a sud, ma che poi le tariffe minime da esso previste dovrebbero essere articolate per zone salariali geograficamente identificate. E' però agevole replicare che è la stessa configurazione del contratto collettivo nazionale, come definita dall'Accordo Interconfederale del 1993, ed ancor più "dall'Accordo separato" del 15 aprile 2009 a non consentire una soluzione o proposta di tal genere: perché quegli accordi hanno attribuito al contratto nazionale di lavoro una funzione di sola garanzia, neanche completa, del valore reale dei livelli salariali già esistenti e non più quella - tipica un tempo del contratto nazionale - di distribuzione degli aumenti di produttività ovvero della nuova ricchezza prodotta.
Insomma se oggi la funzione del contratto nazionale è solo quella di fornire una modesta garanzia anti-inflazionistica, sarebbe assurdo pensare che questa garanzia debba essere ancor minore in certe zone territoriali. Il vero è che la funzione di distribuzione della nuova ricchezza prodotta è invece attribuita da quegli accordi - almeno sulla carta - alla contrattazione aziendale e proprio nulla impedirebbe alle Rsu delle aziende del nord, (le quali sicuramente possono "spendere di più") di rivendicare e ottenere contratti aziendali più favorevoli di quelli che possono esser conclusi nelle aziende del sud, dove, per il vero, se ne concludono pochissimi o nessuno.
Si vede chiaro, allora, come la polemica "leghista" sui salari uguali in territori dove la vita è più cara e meno cara sia completamente astratta e pretestuosa, con riguardo al sistema di contrattazione collettiva voluto dal Governo e dalla Confindustria: il contratto nazionale non riguarda più il problema dei differenziali salariali perché svolge solo una funzione di protezione anti-inflazionistica, mentre con la contrattazione aziendale sicuramente i lavoratori del nord potrebbero ottenere (e spesso già hanno) una condizione salariale migliore di quella del sud.
Qual è allora la vera questione politica ? Che la Lega Nord non è affatto un partito di difesa degli interessi dei lavoratori, bensì dei datori di lavoro piccoli e meno piccoli, e dunque non auspica per nulla una contrattazione aziendale al nord più intensa, aggressiva e tale da consentire ai lavoratori di fronteggiare al meglio l'aumento del costo della vita, (certamente non fronteggiato adeguatamente dal contratto nazionale). Pretende, dunque, che il potere di acquisto aggiuntivo ai lavoratori del nord venga non dai loro datori di lavoro ma, magari, dalla fiscalità nazionale attraverso sgravi fiscali che in definitiva sarebbero pagati anche dai lavoratori del sud. Per questo scopo ci si inventa la favola di stipendi uguali al nord e al sud per poi chiedere un miglioramento delle condizioni del potere di acquisto dei lavoratori del nord (in sé giusto, ma non solo per loro) e non però nei confronti dei datori di lavoro cui spetterebbe invece di pagarlo.
Si può dire anche di più: è noto che l'accordo del 15 aprile 2009 solo apparentemente incentiva la contrattazione aziendale, perché lo strumento unico dell'apparente incentivazione è dato da sgravi per aumenti salariali di tipo incentivante contrattati a livello collettivo aziendali, ma validi anche - questo è il punto - per quelli erogati a mero livello individuale.
Ciò significa che quello che veramente si vuole è solo la contrattazione individuale tra datore di lavoro e lavoratore, entro la sottile cornice di una contrattazione nazionale di mera garanzia anti-inflazionistica, con il lavoratore costretto a negoziare -se può- direttamente con il datore senza nessuna mediazione sindacale.
Anche in questo scenario, come si comprende la condizione del lavoratore del nord sarebbe molto migliore di quella del lavoratore del sud, ma è proprio questa logica di confronto e competizione tra poveri che deve essere rifiutata.
La grande questione salariale va affrontata a nostro avviso a partire dalla necessità di un plafond di salario sufficiente con standard addirittura europeo, perché ciò è imposto logicamente dall'esistenza di un mercato unico. Salva, poi, una contrattazione integrativa capace di coglier le punte di produttività delle imprese attraverso una effettiva generalizzazione della contrattazione aziendale e limitazione invece dei superminimi individuali, attraverso lo strumento del riservare unicamente al salario contrattato nazionalmente o aziendalmente con le organizzazioni dei lavoratori ogni misura di defiscalizzazione.

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Nate nel dopoguerra furono messe in discussione con i contratti del 1969

Le "zone salariali" sconfitte dalla solidarietà

Fabrizio Loreto
Le cosiddette "zone salariali", porzioni di territorio nazionale dove erano in vigore differenti minimi salariali, furono introdotte in Italia con l'accordo interconfederale del 6 dicembre 1945, siglato dalla Cgil unitaria e da Confindustria. L'intesa, valida soltanto per le province del Nord, è ricordata soprattutto per l'introduzione della scala mobile, il meccanismo automatico di adeguamento dei salari al costo della vita; tuttavia, essa prevedeva anche la fissazione di 4 zone, con una differenza di reddito tra la prima e la quarta del 14%. Il 23 maggio 1946 un nuovo accordo estendeva le "zone" anche al resto d'Italia.
Per comprendere appieno il significato degli accordi interconfederali del 1945-46, occorre posizionarli nel difficile contesto del secondo dopoguerra. Di fronte alla necessità di lasciarsi rapidamente alle spalle l'immane tragedia bellica, bisognava progettare con urgenza un percorso di ricostruzione - non soltanto materiale - che permettese al Paese di voltare finalmente pagina. A tale proposito, la scelta fortemente centralizzatrice operata sul piano contrattuale dalla Cgil era funzionale ad una accelerazione del processo di rinascita nazionale; Giuseppe Di Vittorio, leader di quella Cgil, era profondamente convinto che soltanto limitando le pressioni corporative presenti nel mondo del lavoro, anche a costo di frenare le spinte più radicali delle masse popolari, si potevano tenere insieme il Nord e il Sud, operai e braccianti, lavoratori e disoccupati, giovani apprendisti e vecchi pensionati. Da tale convinzione scaturirono alcuni accordi generali (sulle Commissioni interne, sui licenziamenti, sulla tredicesima, sulla cassa integrazione, ecc.) che limitavano l'attività contrattuale delle Camere del lavoro e riducevano l'autonomia delle federazioni nazionali, cui era sottratta la contrattazione dei minimi salariali.
Il periodo successivo, inaugurato dalla rottura della Cgil unitaria nel 1948, coincise con i "duri anni cinquanta", quando la guerra fredda estese i suoi effetti laceranti anche a livello sindacale. Il simbolo della divisione sindacale fu l'accordo separato sul "conglobamento" - non firmato dalla Cgil - che, tra le varie disposizioni prevedeva l'innalzamento delle "zone" da 4 a 13, con un ulteriore allargamento fino al 30% della forbice tra i salari.
La "ripresa sindacale", avviata nel pieno del "miracolo economico", migliorò i rapporti tra le Confederazioni, favorendo la firma di accordi più vantaggiosi per i lavoratori. Il 2 agosto 1961 le "zone" tornarono a ridursi, diventando 7, con una differenza salariale del 20%. Esisteva una "zona zero", che comprendeva i territori di Genova, Milano, Roma e Torino (con indice pari a 100); nelle zone 1, 2 e 3 (con gli indici, rispettivamente, a 97, 95 e 92) si trovava la gran parte delle province del Centro-Nord (unica eccezione era Napoli, in zona 3); nelle zone 4, 5 e 6 (indici: 89, 84.5 e 80) si trovava la gran parte delle province meridionali e insulari.
Di fronte ad una crescita della ricchezza nazionale senza precedenti, ottenuta però con gravi sacrifici da parte dei lavoratori - in gran parte emigrati e con salari da fame -, la divisione dell'Italia "a fette" appariva sempre più intollerabile. Eppure, difficilmente il quadro avrebbe subito modifiche sostanziali, se non fosse sopraggiunto il Sessantotto, cioè quel movimento radicale e antisistema, antiautoritario e anticapitalista, che vide come protagoniste le giovani generazioni. Di fronte alla contestazione studentesca e operaia, il sindacato - non senza difficoltà - cercò di recuperare e fare propri alcuni temi della rivolta, a partire dall'adozione di metodi più democratici nei processi decisionali e di una linea più egualitaria.
Fu così che, a partire dalla primavera del 1968, parallelamente all'altra grande battaglia sulle pensioni, iniziò la vertenza per l'abolizione delle cosiddette "gabbie" salariali, che impedivano a due lavoratori dello stesso settore, della stessa azienda, della stessa età e con la stessa qualifica, ma che operavano in due territori diversi, di percepire lo stesso reddito. Cgil, Cisl e Uil disdettarono l'accordo del 1961 e iniziarono una lunga fase di trattative e di lotta, destinata a mutare i rapporti di forza tra gli attori in campo. L'autunno del 1968 fu il momento in cui il conflitto sociale nei singoli territori si fece più aspro; furono soprattutto i lavoratori del Sud a guidare la protesta, seguiti più tardi anche dagli operai del Nord, fino ad arrivare alle imponenti mobilitazioni delle "zone zero" (del triangolo industriale) che sancirono la definitiva maturazione del movimento.
La Confindustria oppose una tenace resistenza, convinta di interpretare le volontà delle piccole imprese del Sud, le quali avrebbero subito un evidente aggravio del costo del lavoro; in realtà, anche le grandi imprese del Settentrione sarebbero state penalizzate, perché l'innalzamento dei salari avrebbe rallentato il flusso di manodopera verso il Nord. Dopo alcune settimane di scontro serrato, la vertenza si sbloccò proprio a partire dal lato più "debole" del fronte datoriale, quello pubblico: il 21 dicembre 1968 l'Intersind accettava l'eliminazione graduale delle "zone", da realizzare entro il giugno 1971. A quel punto il Presidente di Confindustria Angelo Costa provò a mediare, offrendo soluzioni più morbide (4 zone e differenze al 13%, l'eliminazione delle prime due zone). Ma lo sciopero generale del 12 febbraio 1969 rappresentò un passaggio decisivo: l'8 marzo capitolava la Confapi, mentre il 18 marzo toccava a Confindustria, la quale riusciva a ottenere soltanto una maggiore gradualità nell'applicazione del provvedimento.
Il successo dei lavoratori e del sindacato era pieno e indiscutibile. La solidarietà mostrata dai lavoratori fu ampia, soprattutto da chi, come gli operai delle grandi aree industriali del Nord, nell'immediato non avrebbe guadagnato nulla dall'abolizione delle "zone". Il ruolo attivo svolto dal Ministro del lavoro, il socialista ed ex segretario della Cgil Giacomo Brodolini, fu molto importante. La vertenza ebbe un chiaro valore politico, riproponendo all'opinione pubblica la priorità della "questione meridionale" e mostrando una notevole carica combattiva dei lavoratori del Sud. Come ha scritto nelle sue memorie Ivo Jorio, all'epoca Segretario generale della Cgil dell'Aquila ( Appunti e spunti di un sindacalista di provincia. Riflessioni sul movimento sindacale aquilano e abruzzese , Ires Abruzzo Edizioni, 2007), «la battaglia contro le "zone salariali" non soltanto significò un fatto economico, ma liberò nel movimento forze nuove, soprattutto nel Mezzogiorno»: è un insegnamento, questo, che non va dimenticato, anche oggi che, con il pretesto di eventi "oggettivi" e "naturali" - si chiamino essi "crisi economica" o "terremoto" -, l'obiettivo resta sempre quello di penalizzare e dividere il mondo del lavoro.

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Gli accordi separati sottoscritti da Cisl e Uil aprono la strada al peggio

Rischio balcanizzazione per i diritti nel lavoro

Barbara Pettine
I metalmeccanici vanno al rinnovo del contratto su due diverse piattaforme. Da una parte il testo della Fiom che chiamerà le lavoratrici e i lavoratori ad esprimersi con il referendum sul rinnovo del solo biennio economico, dall'altra la piattaforma di Fim e Uilm, che, disdettando in anticipo un contratto firmato unitariamente solo 18 mesi fa e valido fino a dicembre 2011, hanno deciso di presentare un'ipotesi di rinnovo «in coerenza con quanto previsto dall'Accordo interconfederale 15 aprile 2009», operando uno strappo netto con la Fiom e tutta la precedente esperienza contrattuale.
«Poche chiacchere: facciamo il contratto» è lo slogan che la Fim ha scelto per la sua campagna di comunicazione. Sui volantini si legge che il rinnovo del contratto (parte normativa e parte economica) è stato da loro voluto per tutelare i lavoratori con «regole certe, misurabili e verificabili». Ma quali siano queste regole Fim e Uilm non lo dicono, anzi tacciono volutamente alcuni importanti clausole contenute negli accordi del 15 aprile e del 22 gennaio 2009, che rappresentano il quadro normativo entro cui le due organizzazioni hanno scelto di esercitare il ruolo negoziale. La loro piattaforma contrattuale non sarà sottoposta a referendum dei lavoratori, sarà votata dai soli iscritti alle due organizzazioni (che insieme sommano meno del 20% dei lavoratori della categoria). Questa piattaforma, nei suoi non detti, contiene norme che funzionano come quei pericolosi virus che si insinuano nei nostri computer e, senza che noi ce ne accorgiamo, incominciano ad attaccare dall'interno i file e l'architettura del sistema, fino a distruggerli completamente. Attenzione! «poche-chiacchere-facciamo-il-contratto» nasconde al suo interno un virus che porterà con sé la possibile frantumazione del sistema contrattuale basato sul contratto nazionale, su diritti acquisiti ed esigibili in modo uguale per tutti i lavoratori. Il virus distruttore si chiama articolo 5. dell'Accordo separato del 15 aprile 2009 e, prima ancora, si chiamava articolo 16 dell'Accordo quadro firmato il 22 gennaio con Governo e parti datoriali, accordi non sottoscritti dalla Cgil e non sottoposti al voto dei lavoratori.
Vediamo come è strutturato il virus.
L'articolo 16 dell'accordo quadro del 22 gennaio recita «per consentire il raggiungimento di specifiche intese per governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale, le specifiche intese potranno definire apposite procedure, modalità e condizioni per modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria». Certo, l'italiano è piuttosto contorto ma il significato è esplicito.
I contratti nazionali che saranno rinnovati secondo il sistema definito dall'accordo separato del 22 gennaio 2009, saranno chiamati a regolare le modalità con cui sarà possibile derogare a livello territoriale o aziendale a quanto stabilito nel contratto stesso. L'art. 5 dell'accordo con Confindustria del 15 aprile, poi, specifica ulteriormente i criteri sulla base dei quali sarà possibile esercitare il diritto a derogare. Sono indicati: «l'andamento del mercato del lavoro, i livelli di competenze e professionalità disponibili, il tasso di produttività, il tasso di avvio e di cessazione delle iniziative produttive, la necessità di determinare condizioni di attrattività per nuovi investimenti». Cioè praticamente tutto. In applicazione di tale clausola sia in aziende/aree in crisi che in aree/aziende in sviluppo, si potrebbero concordare minimi retributivi e parti normative inferiori a quelli previsti dal Ccnl. Per esempio in un mercato del lavoro in sofferenza per l'alta disoccupazione, si potrebbero concordare modalità di contratti a termine o di apprendistato o interinali ben oltre i tempi massimi e con retribuzioni inferiori al contratto e senza maturare mai alcun diritto alla stabilizzazione.
Allo stesso modo la fragilità occupazionale di alcuni soggetti rispetto ad altri (penso alle donne, alle persone ultracinquantenni, ai lavoratori extracomunitari, ma anche ai giovani in cerca di prima occupazione), potrebbe essere invocata come condizione che necessita un abbassamento del costo del lavoro e quindi una diminuzione delle loro retribuzioni sotto i minimi tabellari. Anche tutte le parti normative relative al governo degli orari e dei turni di lavoro, alle trasferte o alla reperibilità, come quelle che riguardano il part time, lavoro festivo e notturno, potrebbero essere derogate in peggio per favorire la produttività o l'avvio di nuove iniziative produttive. Per le categorie a più alta qualificazione la tanto agognata non assorbibilità degli aumenti contrattuali, anche se realizzata nel contratto nazionale, potrebbe essere rimessa in discussione e annullata da una accordo a livello territoriale o aziendale. Diritti individuali quali permessi, malattia, diritto allo studio, aspettative per studio o lavoro di cura, potrebbero venir congelati o comunque diminuiti attraverso accordi territoriali, anche sancendo condizioni diverse tra soggetti di una stessa azienda o di uno stesso comparto produttivo.
Le modalità e le forme e gli ambiti in cui potrebbe essere esercitato il diritto di deroga sono così ampi (infatti gli accordi di riferimento parlano genericamente di istituti economici e normativi, quindi di tutte le parti del Ccnl) che senza fare particolare catastrofismo è possibile prevedere come conseguenza diretta della trasposizione di queste regole nel Ccnl, uno scenario di possibile balcanizzazione dei diritti individuali e collettivi, dei salari, degli orari, di tutte le condizioni che regolano la prestazione. Anche lo stesso diritto alla contrattazione aziendale potrebbe essere sterilizzato da un meccanismo di questo tipo in un'area territoriale in crisi o oggetto di piani di sviluppo come condizione per favorire nuovi investimenti o per creare condizioni di maggiore competitività.
Di tutto questo non parlano però i documenti di Fim e Uilm e nulla dicono di come le due organizzazioni intendano regolare nel nuovo contratto questo potere di deroga. O ritengono di potersi sottrarre agli obblighi in tal senso che la firma degli accordi separati del 22 gennaio e 15 aprile ha consegnato loro?
E' evidente infatti che proprio sul principio di derogabilità si fonda il nuovo sistema contrattuale auspicato da Confindustria e Governo in esplicita rottura di continuità rispetto al sistema precedente accusato di essere anacronistico ed eccessivamente centralizzato. Non a caso Ceccardi, nella sua relazione introduttiva all'Assemblea annuale di Federmeccanica, ha richiamato il tema della contrattazione individuale come elemento vitale per le politiche dell'impresa, lasciando ben intendere fino a dove deve spingersi il principio di derogabilità. Mi chiedo se Fim e Uilm portino alla discussione dei loro iscritti anche questo sistema di deroghe che è parte fondamentale del sistema contrattuale previsto dall'accordo del 15 Aprile, visto che non se ne trova traccia nella loro piattaforma.
Ma anche se gli iscritti a queste organizzazioni fossero coinvolti e condividessero proposte nel merito, altri interrogativi ben più gravi meriterebbero risposta. Può una minoranza imporre alla maggioranza un sistema derogatorio ? Può la disdetta ad opera di sindacati di minoranza far decadere il Ccnl sottoscritto insieme ad un'altra organizzazione, maggioritaria, ed approvato a seguito del voto referendario di lavoratrici e lavoratori? Quale condizione di certezza del diritto si viene a determinare per gli iscritti alle diverse organizzazioni sindacali e quale per la maggioranza delle lavoratrici e lavoratori non iscritti? Ma di che stiamo parlando?... Poche chiacchere: facciamo il contratto!!! L'accordo è a portata di mano, la democrazia è una perdita di tempo, lo stato di diritto un'illusione ottica e chi si dilunga in sterili congetture (chiacchere) un disfattista!

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Leo Caroli
Segretario generale delle Cgil di Brindisi

«Al Sud i redditi sono già decurtati»

Fabio Sebastiani
La Lega propone le gabbie salariali ma al Sud di fatto i livelli salariali sono già bassi. Che cosa sta accadendo con l'accordo separato?
A Brindisi è stato appena rinnovato il contrato provinciale per i lavoratori agricoli, senza la firma della Flai Cgil. Nella provincia c'è una situazione diffusa di crisi. L'articolo 23 dell'accordo separato stabilisce che, di fronte alla crisi, in deroga da quanto previsto dal contratto nazionale si applicano livelli retributivi differenti attraverso una riparimetrazione del personale. Significa che che l'operaio qualificato viene declassato ad operaio comune. Le retribuzioni di ogni livello sono comunque ridotte. Questo articolo 23 in deroga a quanto previsto dal contratto nazionale ufficializza le gabbie salariali.

E quando finisce lo stato di crisi cosa accade, si torna come prima?
La cosa grave di questo meccanismo è che lo stato di crisi non viene certificato. Si tratta in realtà di una pattuizione. Non è previsto da nessuna parte un terzo soggetto, un ente istituzionale o un garante che accerti lo stato di crisi e quindi sappia dire quando ha un termine. Non solo, a questo regime di deroga possono aderire tutte le imprese, anche quelle illegali, cioè quelle che fino ad oggi si sono mosse nel nero. In questo modo si è di fatto costruita una gabbia salariale a Brindisi. E' una sorta di esperimento. Tutto questo perché il nuovo accordo separato ha introdotto il regime delle deroghe.

Una deroga che in realtà agisce come un bulldozer se non vado errato.
Intanto, va detto che questo accordo che contiene la deroga è in realtà un contratto integrativo pronviciale che riguarda un contratto già in essere. Si tratta quindi del secondo biennio. La sua efficacia dovrebbe decorrere dal nuovo contratto nazionale e non quando è in essere ancora quello precedente. Si apre un contenzionso che è non solo sindacale ma anche legale, e di natura costituzionale. Uno scenario complicato sul quale serve una riflessione approfondita.

Come intendete reagire?
Siamo pornti a mettere in campo anche azioni mirate. Se c'è la crisi deve essere certificata, altrimenti c'è una deriva della illegalità.

C'è il rischio che l'esperimento si estenda?
Questa operazione la stanno sperimentando a Brindisi. Ci stiamo interrogando sul pericolo che questo tipo di contratto venga esteso alle zone limitrofe. Siccome nelle altre province non hanno ancora firmato il timore è che a cascata forti dell'esempio brindisino qusto modello arrivi a diffondersi.

Che grado di contaminazione ha questa esperienza della deroga nel territorio?
Nell'industria ci sono due esempi. Il primo è del settore industriale. Nei contratti nazionali non esiste la quattordicesima. Grazie alla contrattazione territoriale e aziendale in alcune realtà del settore della gomma plastica e chimica eravamo riusciti a conquistare questo istituto, non previsto, nel rispetto pieno della contrattazione integrativa. Cosa è accaduto a questo punto in queste aziende? In una in particolare, ha deciso di cambiare contratto nazionale di riferimento passando al metalmeccanico. Primo perché i livelli retributivi sono più bassi e, secondo, per togliersi questo istituto della quattordicesima. Anche in questo caso Cisl e Uil hanno firmato mentre la Cgil è rimasta da sola con i lavoratori che per sei giorni hanno presidiato i cancelli. Se in un settore importante come questo si arretra immaginiamoci cosa accade negli altri settori e nella rete degli appalti e delle aziende non sindacalizzate. Almeno nel novanta per cento delle imprese meridionali non c'è questa contrattazione aziendale.

Appunto, unan deroga nel lavoro regolare ha effetti devastanti comunque nell'ambito del lavoro nero.
Abbiamo a Brindisi degli insediamenti industriali importanti, soprattutto nel settore petrolchimico. Il 50% delle attività di manutenzione, non strettamente legate al core business è esternalizzato. Nelle gare di appalto mai in nessun bando viene citato il contratto di lavoro di riferimento né il numero di unità minime per garantire il servizio e il coefficiente di valutazione per gli strumenti tecnici. E quindi rimane un solo elemento di valutazione, il massimo ribasso.
Nel territorio sei costretto a fare la battaglia solo per conservare i livelli occupazionali. E quindi su tutto il resto non c'è possibilità di mettere bocca. Ti devi accontentare e basta. Manca la copertura previdenziale in caso di cessazione di attività e senza cassa integrazione. Anche questo va considerato. Quando si guarda ai salari delle persone occorre anche soffermarsi su questo aspetto ovvero sul costo del lavoro. Quando finisce l'appalto non c'è diritto a niente.

Veniamo al punto. Perché il Sud ha accumulato un così forte ritardo nei livelli di reddito da lavoro?
La mancata redistribuizione dei premi di produttività cioè la mancata contrattazione aziendale ha di fatto fermato le buste paga ai minimi salariali. Al Nord non c'è una fabbrica che non redistribuisca la produttività. Questo istituto, qui, semplicemente non esiste. Non c'è la contrattazione perché c'è la rete delle piccole e medie imprese in cui i lavoratori non sono sindacalizzati. Si tratta di imprese famigliari o comunque di piccole comunità in cui il controllo è totale. Occorrerebbe fare in modo che la possibilità di far lievitare questi salari da un lato preveda una maggiore presenza del sindacato e dall'altra parte consentire ai lavoratori di integrare il salario con un elemento retributivo. La questione non può essere risolta attraverso la sola contrattazione. Occore un intervento straordinario, magari attraverso il fisco.

C'è poi il grande tema del salario indiretto, ovvero la mancanza di servizi pubblici che costringe il lavoratore ad acquistarli dai privati.
Se a Brindisi ci sono due asili nido e la città ha centomila abitanti è chiaro che devo provvedere diversamente e quindi mi devo rivolgere alle strutture private. Se nella Asl l'assistenza domiciliare integrata per gli handicappati costretti all'immobilità non c'è sono costretto a pagare il servizio. La rete dei servizi sociosanitari non è ancora esigibile. Tutte voci che incidono sul salario.

Cosa pensi politicamente della proposta della Lega?
Sono scandalizzato perché quella proposta tende ad ufficializzare ed allontanare il Sud dal resto del paese. Ho una mia profonda convinzione: il contratto nazionale di lavoro rappresenta lo strumento attraverso cui nel valore del lavoro si realizza l'unità, non solo dei lavoratori ma dei territori e del paese. Ciò che tiene insieme il paese è la contrattazione collettiva.

Come pensi che debba regolarsi il sindacato?
Il sindacato deve fare di questo una battaglia identitaria. Se le cose precipitano perderemo tutti. In questi giorni a Brindisi hanno soppresso lo scalo merci delle ferrovie. Questo vuol dire che il sistema produttivo non è più collegato al resto del mondo. Se a questo ci aggiungi il fatto che la nostra zona industriale non è bonificata vuol dire che Brindisi si appresta ad uscire dalla crisi in condizioni più penalizzanti rispetto a prima. Tutti questi fattori non fanno che condannare il Sud e la proposta della lega vuol dire immediamtaente tagliare l'Italia in due.