mercoledì 15 giugno 2011

Giappone, la lezione di Fukushima

Meltdown a due mesi dal disastro la Tepco ammette: c'è stata fusione del nocciolo in 3 dei reattori.
Alla centrale tutto è ancora fuori controllo, mentre la radioattività è in aumento

Simonetta Cossu
Ad essere cinici viene da pensare che se la Terra avesse voluto farci sapere che il nucleare non è una buona fonte di energia il messaggio è arrivato forte e chiaro. La realtà è che gli eventi orribili e strazianti che hanno colpito il Giappone si sono presentati con una strana concatenazione di catastrofi. In primo luogo, il pianeta ha scatenato uno dei suoi colpi primordiale, un terremoto di magnitudo superiore a qualsiasi sisma precedentemente registrato in Giappone. Il terremoto, a sua volta, ha creato uno tsunami colossale, il quale, quando ha colpito le sponde nord-est del paese, ha travolto tutto quello che ha trovato sul suo percorso: automobili, edifici, case, aerei e fabbriche. L'onda di detriti è stata potenziata anche in conseguenza del fatto che il terremoto ha abbassato il livello della terra di 60 centimetri permettendole di penetrare sei chilometri verso l'interno, uccidendo migliaia di persone. Una potenza stupefacente se si considera, come ha scritto il New York Times, che ha spostato il Giappone di quasi quattro metri e di fatto accorciato ogni giorno che passa sulla terra di 1,8 millisecondi. Quello che è accaduto in Giappone è sicuramente un evento straordinario, quello che sicuramente non lo è affatto è che come sia stato possibile che un paese che ha vissuto sulla sua pelle gli effetti del nucleare con Hiroshima e Nagasaki, non abbia compreso che quel tipo di energia non è controllabile e che se se ne perde il controllo le conseguenze sono drammatiche.
Un secondo elemento va preso in considerazione. Quanto accaduto a Fukushima è stato un paradigma di un evento che anche senza l'eccezionalità del terremoto può accadere in tutti gli impianti nucleari: l'imprevedibilità dell'atomo. Il problema non è l'esistenza di un o più generatori di backup, oppure che le norme di sicurezza non siano abbastanza rigide, o che la fossa per i rifiuti nucleari è nella posizione geologica sbagliata. E' che un inciampo, una imperfezione, rendono l'uomo, creatura imperfetta, incapace di maneggiare quel tipo di energia rilasciata dalla scissione dell'atomo o dalla usa fusione. La Terra ha già abbastanza forze primordiali di distruzione senza il nostro aiuto, l'idea di crearne altre ha qualcosa di demenziale.
E' di questa settimana la conferma di quello che già molti esperti avevano predetto: la fusione delle barre di combustibile è avvenuta in tre dei reattori della centrale all'inizio della crisi. Finora Tepco aveva ammesso solo la fusione del reattore numero 1, nonostante il governo giapponese e gli esperti avessero già parlato di probabili fusioni delle barre di combustibile in tre dei sei reattori. Probabile che i tempi dell'annuncio siano stati dilatati per evitare che a Tokyo si diffondesse il panico. Gli ingegneri stanno ancora combattendo per fermare le perdite radioattive e portare sotto controllo l'impianto a più di due mesi dal terremoto e dallo tsunami. "La maggior parte del combustibile nucleare è probabilmente affondata nella parte inferiore, come nel reattore numero 1" fanno sapere i tecnici della Tepco, che attualmente sono impegnati nelle operazioni di raffreddamento. Questo è quanto presume la Tepco. Presume, ma non sa. Infatti ammette anche la possibilità che la lava radioattiva abbia bucato i reattori e si sia aperta una strada nel sottosuolo. Nel qual caso, chissà dove è andata a finire e come si potrà fare per localizzarla, raffreddarla e fermarla.
Passa quasi in secondo piano tutte le mancanze dell'azienda che ha gestito gli impianti. La Tepco mentì sulla funizonalità della sicurezza, ha mentito sulla gravità del disastro ed in ultimo molti suoi dirigenti oggi sono inchiesta per corruzione e mancati controlli. Nonostante questo lo Stato giapponese è corso in suo soccorso per evitarne il fallimento.
In ogni caso, l'edificio del reattore 1 adesso è allagato da 4,2 metri di acqua, presumibilmente molto radioattiva: in alcuni punti della costruzione infatti misurazioni effettuate da robot hanno riscontrato fino a 2 Siviert/ora, quindi inavvicinabile.
Ma il destino sia dell'azienda che della centrale è ancora molto incerto. Infatti il problema è che in caso di fusione del nocciolo i reattori si trasformano in veri e proprio sarcofaghi perpetui in cui è chiusa una massa informe di metallo fortemente radioattivo, inavvicinabile e intrattabile. E questo per l'eternità in quanto occorrono milioni di anni perché la radioattività naturali e dell'uranio si estingua naturalmente.
La pericolosità delle radiazioni è stata sin dall'inizio minimizzata. Ma che qualcuno sappia cosa sta accadendo nelle acque del Pacifico dove sono state riversate per settimane ettolitri di acqua contaminata usata per tentare di raffreddare qualcosa che non si poteva rafferddare c'è. La Marina degli Stati Uniti ha fatto muovere la sua portaerei da quell'area, la USS Ronald Reagan, dopo che 17 uomini del suo equipaggio sono stati esposti alle radiazioni durante i voli a sessanta miglia al largo della costa giapponese. E i rischi stanno aumentando. Secondo l'Istituto francese per la sicurezza nucleare e la protezione della radiazioni oltre 70 mila persone che vivono a meno di 20 chilometri dalla centrale dovrebbero essere evacuate.
Ora Tokio ha deciso un inversione e ha deciso per il futuro di investire sull'energia verde con un obbiettivo: pannelli solari su tutti i tetti entro il 2030. Nessuno ha però detto ai giapponesi che in disastro di Fukishima non è per nulla finito.


Liberazione 29/05/2011, pag 22

Cosa ne faremo dei nostri scarti nucleari?

Del loro smaltimento doveva occuparsi la Sogin spa. Un fallimento

Pietro Raitano
Il gigantesco bidone (quattro metri di altezza, cinque di diametro) che gli attivisti di Greenpeace hanno piazzato sulla terrazza del Pincio, a Roma, vale più di mille parole. Il nucleare è un bidone, una truffa molto cara e pericolosa che ricadrà sulle spalle dei cittadini. È accaduto mentre alla Camera si votava la fiducia al decreto cosiddetto omnibus, all'interno del quale ci sono le norme che dovrebbero - ma non è per nulla detto - rendere inutile il quesito referendario sul ritorno all'atomo. Tralasciamo la questione - per quanto centrale - dell'ignobile tentativo di annientare la volontà popolare, ci concentriamo anche su un altro aspetto.
Già oggi l'esperienza nucleare italiana pesa sulle nostre tasche. E non certo perché senza di essa l'energia da noi costa di più. Anche i bambini ormai sanno che da noi l'elettricità è più cara che nel resto d'Europa perché il mercato è ancora in mano a un solido oligopolio. Anche i bambini sanno che se importiamo elettricità non è perché non abbiamo centrali elettriche a sufficienza, ma perché importare di notte costa meno agli oligopolisti di cui sopra, che poi però ci fanno pagare a costo pieno. Infine, noi paghiamo di più l'elettricità perchè le nostre bollette sono infarcite di oneri di sistema che danno soldi alle ferrovie, ai grandi gruppi industriali, ai petrolieri, al governo con tasse gravose. E che ancora ci fanno pagare il nucleare.
Prendete una bolletta e cercate le componenti A2 e MCT. Si tratta dei soldi che ancora oggi, dopo oltre 20 anni dal referendum, paghiamo per lo smantellamento delle centrali nucleari e le "misure di compensazione territoriale". Ecco una cosa che non si dice mai: le centrali nucleari costano soprattutto quando a un certo punto vanno spente. E costano quando - da accese - se ne devono smaltire le scorie. La propaganda nuclearista sostiene che oggi le scorie non siano un problema. È un falso, e le esperienze in giro per il mondo lo dimostrano.
Come spiegano gli esponenti del comitato "Fermiamo il nucleare", negli Stati Uniti «è dagli anni '70 che si sta studiando un deposito definitivo per le scorie radioattive a più alta intensità. Nel 1978 furono avviati gli studi nel sito di Yucca Mountain, nel deserto del Nevada. I costi di costruzione di questo sito supereranno i 54 miliardi di dollari (che dovranno essere pagati con le tasse dei contribuenti), ma non è affatto certo che questo entrerà mai in funzione. La data d'inizio dello stoccaggio, infatti, è stata più volte fatta slittare (oggi si parla forse del 2017), questo a causa di numerosi problemi, non ultimo il fatto che il Doe statunitense ha denunziato omissioni e irregolarità negli studi geologici che minano la sicurezza stessa del sito. Peraltro proprio a marzo 2010 l'amministrazione Obama ha tagliato ingenti fondi a questo progetto, dando un forte segnale di non ritenerlo idoneo come deposito geologico per le scorie. Ma anche se il deposito di Yucca Mountain dovesse, un giorno, entrare in servizio, potrà contenere circa 70.000 tonnellate di rifiuti radioattivi, peccato che nel 2017 gli Stati Uniti avranno accumulato 85.000 tonnellate di combustibile esausto dalle loro centrali nucleari».
Agli attuali ritmi di produzione mondiale di elettricità nucleare e armamenti nucleari, il mondo avrebbe bisogno di un deposito con capacità di Yucca Mountain ogni due anni.
Oltre alle scorie che si producono a valle del reattore nucleare ci sono quelle che vengono generate dalla produzione del combustibile. Per produrre le 160 tonnellate di uranio necessarie a un reattore standard per un anno, se si parte da rocce di granito ricche di uranio (1000 parti per milione) è necessario lavorare 160 mila tonnellate di roccia che finisce come rifiuto essendo, oltre che radioattivo, fortemente contaminato dalle sostanze chimiche impiegate. Si tratta quindi di materiali inquinati e inquinanti che spesso vengono abbandonati sul posto con gravissimi danni per l'ambiente e la salute delle persone stesse. Un caso recente è stato denunciato in Niger, dove gli scarti dell'estrazione di Uranio contaminavano i villaggi esponendo le popolazioni a dosi di radiazione. «I pur modesti programmi nucleari che l'Italia aveva sviluppato nel passato e che furono chiusi con il referendum del 1987 - proseguono quelli di "Fermiamo il nucleare" - ci hanno lasciato la pesante eredità dello smantellamento delle centrali e della gestione delle scorie. Aspetti che sono assai lontani da qualsiasi vera soluzione malgrado l'elevato costo che i cittadini italiani hanno già dovuto sostenere con le proprie bollette elettriche». Gli oneri complessivi del programma di smantellamento, dalla gestione delle scorie nucleari passando per il previsto conferimento di tutti i rifiuti al deposito nazionale - la cui ubicazione non è stata ancora definita -, dal 2001 al 2008 sono ammontati a 5,2 miliardi di euro. Tutti pagati di tasca nostra.
Dello smaltimento delle scorie italiane si occupa la Sogin, costituita il 1º novembre 1999 con il compito di «controllare, smantellare, decontaminare e gestire i rifiuti radioattivi degli impianti nucleari italiani spenti dopo i referendum abrogativi del 1987». Nel 2009 il Sogin ha ottenuto ricavi per 229 milioni di euro, e ha debiti per 244.02 milioni. Oggi le vecchie scorie nucleari italiane vanno in giro per l'Europa. Dovranno essere trattate, per poi probabilmente ritornare in Italia, tra il 2020 e il 2025. Nessuno saprà che farne e soprattutto dove metterle.

direttore di "Altreconomia"


Liberazione 29/05/2011, pag 22

2011 military intervention in Libya

http://en.wikipedia.org/wiki/2011_coalition_intervention_in_Libya

11 Marzo 2011 cosa è davvero successo in Giappone

Dal militare al civile, il falso dogma
della sicurezza nucleare

Massimo Scalia*
Alcuni autorevoli commentatori hanno presentato l'incidente di Fukushima come figlio dell'azione devastante del terremoto e dello tsunami, e poiché neanche una società tecnologicamente molto avanzata come quella giapponese è in grado di fronteggiare gli eventi estremi della natura ne hanno concluso che si deve rinunciare al nucleare. Certo, sembra una pazzia realizzare centrali nucleari in un'area come quella giapponese, dove si scontrano quattro placche tettoniche, sicura garanzia di terremoti devastanti. Ma un'analisi più attenta di quel che è successo mette in discussione le premesse di quella conclusione. Infatti, gli edifici della centrale atomica hanno retto al terremoto - i tetti sono saltati per l'esplosione delle bolle di idrogeno formatesi coll'inarrestato progredire del surriscaldamento dei noccioli dei reattori - e le tremende accelerazioni subite dalle strutture dei reattori, causa sicura di gravi lesioni dovute soprattutto ai fenomeni di risonanza, avrebbero però dispiegato nel tempo gli effetti di rischio.
Che cosa è andato storto allora, che cosa ha portato alla fusione dei noccioli? Si deve risalire al lay out dell'impianto, in particolare alla cattiva disposizione dei servizi ausiliari d'emergenza, che, non adeguatamente protetti, investiti dall'onda dello tsunami - che peraltro è arrivata allo stabilimento della centrale all'altezza delle gambe, come si vede dai documentari - non sono riusciti a entrare in funzione quando avrebbero dovuto, quando cioè il black out elettrico della rete causato dal terremoto ha messo fuori uso gli ordinari sistemi di raffreddamento del nocciolo del reattore. E fa riflettere anche il fatto che il molo di protezione nel porto a servizio della centrale fosse alto sei metri, quando proprio la Tepco aveva documentato un terremoto della stessa magnitudo di quello dell'11 marzo, avvenuto nella stessa area 115 anni prima con un'onda di tsunami alta più di 10 metri.
Insomma, il riferimento allo scatenarsi delle forze incontrollabili della natura rischia di essere un esercizio retorico se non si tiene conto della sciatteria progettuale (lay out) e della vocazione a tirare giù i costi (l'altezza del molo) che travalicano, non davvero solo in Giappone, ogni aprioristica esaltazione dell'eccellenza tecnologica raggiunta da una società. E' perciò francamente incomprensibile l'ottimismo, ancorché relativo, che trapelava da alcuni comunicati della Tepco nei giorni scorsi.
Quanto agli effetti sanitari, aspetto di gran lunga più rilevante, la tragedia di Fukushima consente purtroppo di affermare che le vittime delle radiazioni saranno nel corso degli anni molte di più di quelle del terremoto e dello tsunami. Gli effetti somatici della radioattività - cancri e leucemie - hanno un carattere statistico, sono tanto più estesi quanto maggiore è il numero delle persone esposte. E quelle migliaia di vittime che farà la radioattività, ogni anno sull'arco di trent'anni, non le vedrà nessuno, non ci emozioneranno certo come le immagini che ci riportavano i corpi senza vita travolti dalle onde dello tsunami.
Ma quali sono allora i livelli di sicurezza raggiunti dalla tecnologia nucleare?
All'alba dell'era del petrolio, siamo nel 1960, le agenzie internazionali dell'energia riportavano il dato della produzione nucleare: 1 Mtep. Nel giro di poco più di un decennio una tumultuosa crescita degli ordinativi portò quel dato a ben 146 Mtep. Già, ma che cosa aveva consentito quella formidabile espansione che durò circa un ventennio? Certo Atoms for peace, la campagna lanciata nel 1953 da Eisenhower per sostituire al terrore del fungo di Hiroshima l'immagine positiva della produzione elettrica; certo l'esigenza per i Paesi del
"club atomico" di ripianare in parte le colossali spese militari con la vendita del kWh o la "grandeur" - è il caso della Francia - di avere tutto atomico, l'elettricità e la propria bomba, senza dover dipendere dagli altri.
Ma è indubbio che il passaggio dal nucleare militare a quello civile avvenne sull'onda del dogma della sicurezza nucleare: comunque grave sia l'incidente alla macchina, neanche una particella radioattiva deve uscire dallo schermo più esterno di contenimento della radioattività.
Poi, l'incidente di Three Mile Island (TMI), 28 marzo 1979, con oltre venti tonnellate di uranio fuoriuscite dal reattore, rilasci radioattivi incontrollati al di fuori della centrale e 140mila cittadini evacuati, volontariamente, dall'area delle 5 miglia.
Il 26 aprile 1986 si aggiunge il dramma di Chernobyl, il dogma si spezza, e la stessa IAEA inventa, con la scala INES, la distinzione tra catastrofe
"locale" e catastrofe
"globale". Sorge immediata la domanda: ma il nucleare si sarebbe mai affermato, con quell'impressionante trend di crescita che ricordavamo, se la sicurezza avesse proposto quella distinzione? Per segnalare inoltre che alla scala INES non rinunciano davvero i reattori cosiddetti di terza generazione "avanzata". Gli innegabili miglioramenti ingegneristici che si sono avuti non sono infatti in grado di rispondere agli irrisolti problemi del nucleare, perché applicati alla fissione dell'uranio, che, trasposta di peso dai laboratori e dalle esperienze per le armi alla produzione elettrica, non poteva certo avere tra le sue priorità sicurezza, protezione dalla contaminazione radioattiva e gestione delle scorie. Per questo il Nobel della Fisica, Carlo Rubbia, ha liquidato la terza generazione
"avanzata" come un'
"operazione di cosmesi"; e il proliferare di termini che vorrebbero accreditare un livello di sicurezza che non c'è fa venire in mente la massima di Goethe: «quando mancano i concetti nascono le parole». Il 24 maggio la Tepco ha annunciato le fusioni avvenute, oltre che nel reattore 1, anche nei reattori 2 e 3 di Fukushima; sommate a quella di TMI fanno quattro, e ridicolizzano le stime di probabilità che l'IAEA avanzava nelle conferenze di Columbus (Ohio) e di Roma svolte nel 1985 e che contrassegnavano con 10-5 la fusione parziale del nocciolo, cioè una ogni centomila reattori funzionanti per anno. Anche limitando quelle stime ai soli reattori di concezione occidentale, esse includevano ovviamente i BWR di Fukushima già allora in funzione.
Oggi, dopo le ammissioni della Tepco, il dato di fatto, cioè la frequenza di incidenti di fusione è uno ogni quattromila reattori per anno, cioè venticinque volte più frequente rispetto a quelle stime! Questi numeri sono lo scheletro impietoso nell'armadio dei rapporti tra scienza, tecnologia, aspettative dell'uomo della strada, pressioni delle lobby e delle cricche, manipolazione della comunicazione, democrazia delle decisioni nella società tecnologica. (Dal sito www.greenreport.it)
*ordinario di Fisica all'università La Sapienza di Roma.


Liberazione 29/05/2011, pag 20

Il nucleare uccide anche quando non esplode

Mauro Mocci*
Quando in una centrale nucleare succedono incidenti con danni gravissimi - Tree Miles Island nel 1979, Chernobyl nel 1986 o Fukushima - solo qualche prezzolato giornalista minimizzatore non si rende conto della estrema pericolosità del "nucleare". Il rilascio in ambiente di quantità enormi di materiale radioattivo provocherà tumori, malformazioni, cardiopatie ecc... che si manifesteranno anche dopo decine di anni, coinvolgendo purtroppo anche le incolpevoli generazioni future non esposte, e che necessiterà di centinaia di anni per riportare l'ambiente in condizioni di vivibilità e poter riprendere le attività agricole, la pesca, l'allevamento.
Soltanto per l'evento di Fukushima, la contaminazione radioattiva potrebbe causare oltre 400mila casi di cancro nei prossimi 50 anni in raggio di 200 km dalla centrale (Studio recentissimo di Chris Busby, segretario scientifico Ecrr, comitato indipendente di scienziati.)
Quello che invece si sono chiesti da anni gli studiosi degli effetti del nucleare, è che cosa succede in una centrale che funziona "normalmente", senza incidenti. Che effetto può avere sui lavoratori e sulle popolazioni che vivono intorno agli impianti. Ebbene, si sono succeduti numerosi lavori epidemiologici, spesso purtroppo non completamente indipendenti, che hanno tentato di dare una risposta ai tanti dubbi di innocuità. Alla fine degli anni 80, nel Regno Unito, alcuni studi misero in evidenza un aumento di incidenza di casi di leucemia infantile vicino a centrali elettriche nucleari. Nel 2002, in Germania, la pressione esercitata dall'opinione pubblica indusse il governo tedesco a commissionare al Childhood Cancer Registry della University of Mainz (Magonza), uno studio caso-controllo per valutare l'incidenza del cancro intorno alle 16 centrali nucleari commerciali allora in attività. Nel 2008 è stato pubblicato lo studio: Kikk (Kinderkrebs in der Umgebung von Kernkraftwerken = tumori infantili nelle vicinanze di impianti nucleari) che aveva esaminato tutti i tumori insorti attorno a tutti i 16 reattori nucleari tedeschi tra il 1980 e il 2003. Nelle conclusioni si rilevava un incremento di 1.6 volte dei tumori solidi (soprattutto di tipo embrionario) e di 2.2 volte delle leucemie tra i bambini di età «5 anni residenti entro 5 km da tutti gli impianti (più del doppio dei casi rispetto ad aree controllo, distati dai reattori).
Successivamente alla pubblicazione dei preoccupanti risultati dello studio Kikk, iI Federal Minister for the Environment, Nature Conservation and Nuclear Safety, ha incaricato la Commission on Radiological Protection di riesaminare i dati dello studio. Nel settembre 2008 la Commission on Radiological Protection ha pubblicato i risultati della rielaborazione confermando l'aumento di incidenza del cancro infantile osservata nella studio originale.
Lo studio ha suscitato un ampio dibattito in Germania ed ha ricevuto grande attenzione nella comunità scientifica mondiale, ma purtroppo scarsa attenzione altrove, perché si è trattato di uno studio molto dal punto di vista epidemiologico. Primo perché ha esaminato tutti i tumori con una accurata misurazione delle distanze tra le abitazioni dei casi di malattia e le centrali (593 bambini afferri da leucemia e 1.766 controlli), poi perché è il primo ad avere esaminato la relazione distanza/rischio, e soprattutto perchè è stato uno studio indipendente, commissionato dall'Agenzia per la radioprotezione del Governo Federale Tedesco e la validità dei suoi risultati è stata ammessa dallo stesso Governo.
Le cause di tali evidenze non sono chiare e, chi contesta le conclusioni, fa riferimento ai bassi livelli di radiazioni medie misurate intorno alle centrali.
Ci sono varie ipotesi, ed una delle principali motivazioni di quanto sta accadendo, è l'esposizione della donna durante la gravidanza. Potrebbe esserci un effetto teratogeno da parte dei radionuclidi sui tessuti dell'embrione e del feto, come suggerito dal riscontro di un aumentato tasso di carcinomi embrionari. Probabilmente i responsabili potrebbero essere i molto pericolosi i picchi di H3 (Trizio ) e C14 (Carbonio) che vengono registrati circa una volta l'anno, in occasione del rifornimento di combustibile nucleare. Come dimostrato da altri studi, le concentrazioni di H3 nel feto sono maggiori del 60% di quelle della madre.
Ad oggi i dati sulla radiosensibilità dell'embrione e del feto provengono per lo più da studi sugli effetti dell'esposizione a raggi X sull'addome nel terzo trimestre, mentre ci sono pochi dati sul rischio emergente dall'esposizione in utero dall'interno (i radionuclidi incorporati dalla madre); inoltre è stato stimato che il rischio nel primo trimestre sia cinque volte maggiore.
Inoltre la maggiore radiosensibilità del midollo e del tessuto linfatico embrionari, ricchi di cellule staminali le cui mutazioni potrebbero essere trasmesse ai globuli bianchi. In conclusione gli spikes delle centrali nucleari marcherebbero i tessuti embrio-fetali, particolarmente quello ematopoietico, e i bambini potrebbero nascere con alterazioni preleucemiche. Lo studio KiKK suscita molti interrogativi.
Gli autori si auspicano che altri studi in altre paesi produttori di energia da impianti nucleari raccolgano dati epidemiologici e stimino dosi e rischi delle emissioni episodiche di radionuclidi, le dosi che arrivano al tessuto ematopoietico embrionale e i susseguenti rischi.
In seguito all'aumento statisticamente significativo, già rilevato in Italia, del tasso di incidenza del cancro nella fascia di età 0 -14 anni, sembra veramente opportuna l'applicazione del Principio di Precauzione al fine di evitare un eventuale, non escludibile ulteriore incremento dei tumori infantili. La Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia Europea applicano con fermezza questo principio che entra in contrasto con la costruzione di nuove centrali nucleari. Secondo la Direttiva 2003/35/Ce del Parlamento Europeo, al fine di contribuire a tutelare il diritto di ogni persona, nelle generazioni presenti e future, a vivere in un ambiente atto ad assicurare la sua salute e il suo benessere, deve essere garantito anche il diritto di partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale: le popolazioni devono essere informate che, alla luce delle più recenti evidenze scientifiche, non è possibile escludere un aumento del rischio di cancro in coloro che risiedono nei pressi di un impianto nucleare.
Qualora si proseguisse nella volontà di costruire nuove centrali nucleari in Italia, la popolazione che vive vicino ai siti designati (in particolare i bambini), dovrà essere sottoposta ad uno stretto controllo epidemiologico per valutare precocemente l'incidenza di neoplasie maligne. E se si volesse fare una corretta informazione, bisognerebbe consigliare alle donne di andare a vivere lontano dai reattori da prima del concepimento fino ad almeno quando il nascituro non avrà compiuto qualche anno, o addirittura, per chi ha vissuto per anni nei pressi di una centrale, sconsigliare una gravidanza o quantomeno avvertirla del rischio.
*medici per l'ambiente, Isde (International Society of Doctors for the Environment)


Liberazione 29/05/2011, pag 18

La multinazionale che vende acqua, energia e libertà

Come si intreccia il nucleare col servizio idrico
e i "lager" per migranti

Roberto Guaglianone*
La gestione dei rifugiati in Italia, affidata fino a fine anno al "sistema protezione civile" da un recente decreto ministeriale (13 aprile 2011), è sempre più contrassegnata dagli interessi privati che entrano nel gioco delle strutture "emergenziali" di accoglienza. E così la Pizzarotti di Parma ha affittato allo Stato fino al 31 dicembre il "Villaggio degli Aranci" di Mineo perché ci venga ricavato un Centro sorvegliato di raccolta per oltre 2000 richiedenti asilo, che vi vengono trasferiti dai Cara (Centri Accoglienza Richiedenti Asilo) di tutta Italia.
Qualche settimana dopo il "caso-Mineo", è in arrivo il secondo caso di privatizzazione spinta in fatto di reclusione dei migranti. Dal primo giugno, infatti, in caso di rigetto del ricorso del Consorzio Connecting People (precedente gestore), il Centro di Identificazione ed Espulsione e il Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo di Gradisca d'Isonzo (Gorizia) saranno gestiti da una multinazionale francese della detenzione (di migranti e non) legata a filo doppio a Gdf-Suez.
Aggiudicataria della gara d'appalto indetta dalla locale prefettura è infatti l' Ati (associazione temporanea d'impresa) che vede capofila la società francese Gepsa, in associazione con l'altra società francese Cofely Italia, la cooperativa romana Synnergasia e l'associazione agrigentina Acuarinto.
La privatizzazione della carcerazione in Italia passa, quindi, attraverso la detenzione amministrativa delle persone straniere, vero e proprio "laboratorio" per la prossima estensione alle carceri del modello statunitense di gestione della pena detentiva. Con l'aggravante, se così si può dire, che la struttura comprende anche la gestione dell'adiacente Centro di Accoglienza per Richiedenti Asilo, che per legge non prevede (a differenza del Cie) il trattenimento coatto dei suoi occupanti. Ciononostante, la sua conduzione sarà tra breve affidata alle società che qui sotto esaminiamo.
Iniziamo da Gepsa: l'acronimo sta per Gestion Etablissements Penitenciers Services Auxiliares: una SpA francese con sede in rue Henri Sainte-Claire Deville a Rueil-Malmaison, che (sito ufficiale di Cofely-Gdf Suez), che - traduciamo dal sito - è una «filale di Cofely» e «partecipa al funzionamento di stabilimenti penitenziari nel quadro dei mercati multitecnici e multiservizi». Gepsa nasce nel 1990 e viene definita come «uno dei partner principali dell'Amministrazione Penitenziaria [francese, NdA]», per cui «interviene in 15 stabilimenti a gestione mista». Tra le sue finalità c'è quella di «riavvicinare le persone detenute al mercato del lavoro». Inoltre Gepsa gestisce in Francia, «per conto del Ministero degli Interni, quattro centri di detenzione amministrativa, oltre alla base militare di Versailles Satory per conto del Ministero della Difesa». Quanto al suo dimensionamento, conta su 270 collaboratori, 34 stabilimenti gestiti in Francia (tra cui i centri di detenzione amministrativa); inoltre forma 1500 persone detenute e propone 1600 proposte di avviamento al lavoro ogni anno, che diventano 182 inserimenti professionali effettivi.
Come si è detto, Gepsa è una filiale di Cofely, società del gruppo multinazionale Gdf-Suez, in testa alle classifiche mondiali delle privatizzazioni dei servizi energetici: Cofely, in articolare, si occupa di energie alternative: la sua presenza all'interno del partenariato è la meno attinente al tema, ma è pur vero che Cofely rappresenta all'esterno il marchio Gdf Suez.
Molto più attinenti al tema dell'immigrazione le realtà italiane coinvolte: della cooperativa Synergasia, sede a Roma, si sa che dal 21 luglio 2010 gestisce, in accordo con l'Ufficio della Commissione Nazionale Immigrazione, il sito WikiMigration: se ne può quindi prevedere un intervento nel campo della comunicazione interna ed esterna alle strutture. Piuttosto sorprendente, infine, la presenza nell'Ati dell'associazione Acuarinto di Agrigento, organizzazione fino ad oggi attiva nel campo della promozione sul proprio territorio di interventi a favore di migranti e rifugiati.
*Attac Saronno


Liberazione 29/05/2011, pag 19

«Figli di immigrati e figli della banlieue. Ecco perché i calciatori possono far paura»

Stéphane Beaud Sociologo, considerato l'erede di Pierre Bourdieu, autore di "Traitres à la nation?"

Guido Caldiron
La Francia di Zidane, Thuram, Vieira, Anelka e Henry. La Francia "Black Blanc Beur" dei trionfi calcistici e delle grandi affermazioni simboliche della fine degli anni Novanta, "una nazionale che porta i colori del paese molto più della sua politica", non ha retto all'urto della deriva identitaria imposta da Nicolas Sarkozy alla politica francese allo scopo di recuperare qualche voto all'estrema destra del Front National e all'imporsi nella società transalpina di un ossessivo dibattito sull'immigrazione, la sicurezza e le presunte derive "comunitarie". E quando anche i risultati in campo non sono arrivati più, come è accaduto l'estate scorsa in Sudafrica in occasione dei Mondiali, tutto è sembrato andare in pezzi: l'equilibrio interno della squadra nazionale francese di calcio e lo stesso simbolo di convivenza e meticciato che ha rappresentato per molto tempo.
Così, prima si è parlato, nel 2010, dello "sciopero" dei giocatori contro le scelte dell'allenatore Raymond Domenech nei termini di "un atto di insubordinazione", di "una rivolta" e della figuraccia rimediata nel torneo, fuori fin dal girone eliminatorio, come di "una sconfitta sportiva e morale" e di un "disatro nazionale", poi è arrivato, negli ultimi mesi, lo scandalo delle "quote etniche" che sono costate il posto a più di un dirigente del calcio francese. L'ipotesi che era stata ventilata dallo stesso commissario tecnico francese Laurent Blanc, era quella di introdurre delle quote sul numero dei giocatori arabi ed africani nei vivai delle squadre transalpine per evitare che gli atleti con doppio passaporto, cresciuti in Francia, decidessero di giocare con una nazionale diversa da quella di Parigi. L'altra motivazione che aveva fatto pensare alle "quote", e urlare giustamente al razzismo una parte dell'opinione pubblica, era quella di ottenere per questa via una sorta di "riequilibrio" etnico, tra bianchi, oggi minoritari, e neri, nell'équipe nazionale.
Che quella che si gioca sul "colore" del calcio e dei suoi protagonisti sia perciò diventata rapidamente una battaglia tutta politica, è evidenziato dal facile parallelo che si può fare con il dibattito sull'"identità nazionale" che ha segnato l'ultimo anno del dibattito pubblico francese. Un «dibattito - come ha sottolineato lo storico Michel Winock davvero - molto sospetto: si tratta di definire questa identità per servire da modello per gli stranieri che vengono a vivere in Francia o per proteggersi da essi? L'identità nazionale non si decreta. Se lo Stato se ne interessa, non lo fa forse per arrivare a delle conclusioni normative, per definire una sorta di quintessenza della francesità nei confronti della quale sarebbe lecito fare la distinzione tra buoni e cattivi francesi?». Allo stesso modo viene da chiedersi se l'enfasi posta intorno alla "fedeltà" o al "tradimento" dei giocatori della Nazionale non abbia a che fare con le loro origini sociali, i figli dellle banlieue popolari, e, soprattutto, con il colore della loro pelle, gli "immigrati" di seconda o terza generazione, vale a dire in realtà i figli dei grandi flussi migratori giunti nel paese dal Maghreb e dall'Africa Sub-sahariana.
E intorno al significato reale del dibattito sul calcio che si è aperto di recente in Francia ruota l'ultimo lavoro di uno dei maggiori sociologi del paese, considerato per molti versi l'erede di Pierre Bourdieu, Stéphane Beaud: Traîtres à la nation? appena pubblicato da La Découverte (pp. 288, euro 18).
Docente di sociologia all'Università di Nantes, Beaud ha indagato a lungo l'attualità del lavoro operaio in Francia, Retour sur la condition ouvrière (Fayard, 1999), prima di occuparsi dei giovani di banlieue e del loro percorso formativo, 80% au bac… et après? (2003) e Pays de malheur! (2004) entrambi pubblicati da La Découverte e Violences urbaines, violence sociale (Fayard, 2003). Inoltre ha guidato il lavoro dell'equipe che ha tracciato le quaranta voci - da "banlieusard" a "sans-domicile" - di La France invisibile (La Découverte, 2006) un libro che ha scosso la Francia illuminando quella sua parte in ombra fatta di povertà e di molte forme di esclusione e ha scritto la voce sul rapporto tra movimento operaio francese e immigrazione per il volume collettivo De la question sociale à la question raciale? (La Découverte, 2006).
Nel suo nuovo libro, scritto con la collaborazione di Philippe Guimard, Stéphane Beaud, analizza innanzitutto le polemiche sorte intorno alla sconfitta della Nazionale francese ai mondiali sudafricani dello scorso anno. In un clima di "unità della Nazione", sottolinea il sociologo, i Bleus, come i francesi chiamano gli atleti della loro équipe, sono stati trattati da "traditori" e hanno finito, in un clima sociale reso ancora più teso dagli effetti della crisi economica, per essere indicaticome i "colpevoli" e i responsabili di ogni sciagura del paese. A questa aperta stigmatizzazione del comportamento, fuori e dentro il campo, dei giocatori, si è aggiunto un atteggiamento esplicitamente discriminatorio, una sorta di domanda del tipo: "Ma cosa vi aspettavate da loro? Sono pur sempre i figli delle banlieue e dell'immigrazione di massa...". Un atteggiamento, quello evocato dai media, dai rappresentanti istituzionali e dai politici all'indomani della sconfitta in Sudafrica, che sembra segnalare in profondità cosa sia accaduto nel paese nel decennio che separa le vittorie di Zidane dalle sconfitte di Ribéry. «La squadra francese era partita per il Sudafrica con la missione, indicata da Sarkozy, di riportare a casa un trofeo che potesse far dimenticare la crisi che si vive in patria. - spiega Beaud, prima di aggiungere come - Invece le "due crisi", quella sociale del paese e quella calcistica vissuta dall'équipe nazionale, abbiano finito per coincidere». E' a questo punto che la denuncia del "tradimento" che sarebbe stato compiuto dagli atleti ha assunto la forma della ricerca di un capro espiatorio cui "far pagare" il malessere diffuso. «I politici populisti - sottolinea ancora Beaud - hanno speculato su questa sconfitta e hanno aprofittato del clima che si era creato per colpevolizzare questi ragazzi, eredi dell'immigrazione postcoloniale».
L'altro elemento che Stéphane Beaud pone al centro del suo lavoro sembra stabilire una relazione tra l'affaire football e la crisi urbana di cui la rivolta delle banlieue è diventato un drammatico simbolo. Accanto alle accuse razziste, i giocatori della Nazionale francese sono infatti vittime anche di quel pregiudizio sociale che vede nei giovani delle periferie uno dei "grandi problemi della Francia". «I Bleus - spiega Beaud - sono figli della segregazione urbana. Il che equivale, ancora una volta, a dire che sono soprattutto "neri" e "arabi", ma non solo. Le biografie dei giocatori della Nazionale raccontano come si tratti ancora, e in maggioranza, di figli di operai e di lavoratori manuali nei confronti dei quali si è espresso un vero e proprio disprezzo sociale, quasi un "razzismo sociale". Con il paradosso e la contraddizione di fondo che questi ragazzi, figli delle classi popolari, simboleggiano oggi la figura del "vincitore" nello scenario del "foot-business" dell'era neoliberista. Proprio per questo agli eroi individualisti del calcio moderno non è perdonato di esprimere una critica, o ancora peggio, un accenno di ribellione, alle regole del gioco».


Liberazione 29/05/2011, pag 14

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In libreria "Noir et Français!" e "On ne nait pas Noir, on le devient"

Cosa significa essere neri e francesi? Due inchieste cercano di spiegarlo

Il dibattito sorto intorno alla Nazionale di calcio francese ne cela secondo molti osservatori un altro: quello sulla non assunzione da parte di una componente non trascurabile dell'opinione pubblica transalpina dello spazio e del ruolo occupato dai "neri" nel paese. Un tema meno indagato di quello dell'islamofobia o dell'arabicidio ma non per questo meno preoccupante. Due ricerche pubblicate negli ultimi anni hanno cercato di approfondire il tema. Da un lato Stephen Smith e Géraldine Faes, studiosi della storia africana, hanno indagato in Noir et Français! (Pluriel, 2006) la condizione nera in Francia dall'epoca coloniale ad oggi. Dall'altro il filosofo e drammaturgo Jean-Louis Sagot-Duvauroux indaga in On ne naît pas Noir, on le devient (Non si nasce neri, lo si diventa) (Albin Michel, 2004) quella che potrebbe essere definita come la costruzione sociale della "negritudine".
Nel primo caso emerge tutta la difficoltà di questa parte della popolazione francese a veder riconosciuti fino in fondo i propri diritti di cittadinanza. Eredi degli "zoo-umani", dello schiavismo e dell'occupazione coloniale francese a sud del Sahara, i neri, spiegano i due autori, sono costantemente ricondotti alla loro origine "straniera", quando pian piano si comincia invece a riconoscere il contributo dell'Islam e della cultura araba alla costruzione dell'Europa e della Francia.
Quanto alla seconda ricerca, parte da un assunto: quello secondo cui l'essere neri non vuol dire solo avere un ben preciso colore della pelle, quanto piuttosto essere giudicati e considerati in base a un amalgama di riferimenti socio-culturali che sembrano non coincidere con quelli in base ai quali si è associati all'"identità francese". Come a dire che indipendentemente dai propri documenti, l'essere nero ricondurrebbe sempre e comunque a una condizione di estraneità rispetto alla République. E' a partire da questa constatazione, resa drammatica dagli episodi di razzismo e di discriminazione che riempiono le cronache francesi che si è costruita, secondo Sagot-Duvauroux, molto spesso l'identità dei giovani neri su cui le esperienze e la cultura personali finiscono per rischiare di essere schiacciate sotto il peso dello sguardo, ostile, dei "bianchi".


Liberazione 29/05/2011, pag 14

Film: Im Sang-soo

The Housemaid di Im Sang-soo

Padrone e cameriera a Seoul

Davide Turrini
La locandina ufficiale di The Housemaid, non quella italiana, vuole un uomo nudo, con una bottiglia di vino rosso in mano, mentre osserva verso il basso una nuca di donna mora, arrivata con la bocca all'altezza del suo ombelico e con l'intenzione di andare oltre. Im Sang-soo non è regista da mezze inquadrature. Nel suo nuovo lungometraggio, in concorso a Cannes nel 2010, esaspera nuovamente i termini della lotta di classe mescolati ad una esplicita sessualità.
Euny (Jeon Do-youn), la ragazza di cui sopra, pulisce pesce al mercato ma ha anche buone referenze tanto da finire aiuto-governante in una ricca famiglia borghese di Seoul. Mister Hoon, il giovane padrone di casa, ama bere vino da una bottiglia appena stappata per aperitivo, come suonare il pianoforte per rilassarsi; la gentildama di casa è incinta e fa di tutto per rimanere in forma nonostante il pancione, coadiuvata dalla matura madre e da una severa capo-governante. Quadretto borghesemente idilliaco fino a quando Hoon, scrutata per caso Euny mezza nuda a pulire la vasca da bagno, decide che la nuova arrivata diventerà la sua amante. Allora via di sesso con richieste esplicite e avventurose, inavvertitamente origliate dalle più attempate signore di casa.
Remake dell'omonimo film girato nel 1960 da Kim Ki-young, The Housemaid aggiorna i rapporti di potere tra servo e padrone, insufflando una dose di erotismo torbido e di franca esposizione corporea, lasciando che sia come sempre il potere a delinearne corsi e ricorsi storici. La regia di Im, zeppa di grandangoli e di diagonali basso-alto su cui costruire l'asse di ripresa, stimola un'irriverenza di sguardo che buca i confini del melò e fa diventare il film una specie di parabola surrealista.


Liberazione 29/05/2011, pag 9


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http://en.wikipedia.org/wiki/The_Housemaid_(2010_film)

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Im Sang-soo

http://en.wikipedia.org/wiki/Im_Sang-soo

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Gwangju Democratization Movement

http://en.wikipedia.org/wiki/Gwangju_Massacre

Riaperto il valico di Rafah con Gaza (era chiuso dal 2007)

L'Egitto ha riaperto ieri in maniera permanente il valico di Rafah, alla frontiera con la Striscia di Gaza, che era chiuso dal giugno 2007, quando Hamas assunse con la forza il controllo dell'enclave palestinese. In realtà il varco di confine, l'unico che collega il minuscolo territorio con il mondo esterno senza dover passare per Israele, già da un anno prima era per lo più inagibile, a causa del blocco di Gaza imposto dallo Stato ebraico dopo il rapimento del giovane sottufficiale Gilad Shalit, tuttora in ostaggio. Il provvedimento di riapertura, che era stato preannunciato tre giorni fa, è stato disposto dal Consiglio Supremo delle Forze Armate, che ha preso il potere al Cairo dopo la caduta di Hosni Mubarak, come ulteriore segnale di discontinuità rispetto al vecchio regime. Il valico rimarrà aperto dalle 9 alle 18 tutti i giorni tranne i festivi, a cominciare dal venerdì del riposo islamico. Per il momento il transito non riguarderà le merci, che dovranno continuare a passare per i varchi in comune con Israele, e sarà prevalentemente pedonale: anche se tra le prime a entrare in territorio egiziano sono state due ambulanze della Mezzaluna Rossa che hanno trasportato alcuni pazienti a ricevere cure piu' idonee oltre frontiera; dalla direzione opposta è giunto al contempo un minibus con una decina di passeggeri, per lo più palestinesi in visita a parenti. Nel complesso comunque non si notava un particolare affollamento, come se la novità richiedesse un po' di tempo per essere metabolizzata dagli abitanti della Striscia. Per chi ha meno di 18 anni o più di 49 sarà sufficiente ottenere un visto per passare, mentre per coloro che hanno un'età compresa fra tali due estremi continuerà a essere necessario l'assoggettamento a rigidi controlli di sicurezza. Anche sotto questo profilo sono peraltro previste eccezioni: per chi ha bisogno di assistenza medica, e per gli studenti palestinesi iscritti alle Università in Egitto. Un portavoce di Hamas, Fawzi Barhoum, ha definito la mossa «una decisione coraggiosa e responsabile, in armonia con le opinioni pubbliche palestinese ed egiziana», e ha auspicato che sia "un passo avanti verso la completa revoca dell'assedio a Gaza". Plauso anche dall'Unione Europea e dalle Ong israeliane, mentre il governo dello Stato ebraico non ha nascosto i proprio atteggiamento fortemente critico: «Creerà soltanto una situazione molto problematica», ha avvertito il laburista Matan Vilnai, ministro per la Sicurezza Interna.


Liberazione 29/05/2011, pag 7

E' morto un poeta: addio a Gil-Scott Heron

Usa aveva saputo unire musica e politica

Sandro Podda
Si è spento ieri a New York all'età di 62 anni. Fatale è stato l'ultimo tour che lo aveva portato in Europa e riportato sotto i riflettori. Lui che sotto i riflettori c'era stato forse troppo poco rispetto a quanto meritava. La notizia l'ha data il suo produttore britannico su Twitter: «Ho appena ricevuto la triste notizia che il mio caro amico e una delle persone più ipirate ed entusiasmanti che abbia mai incontrato, il grande Gil Scott-Heron, è morto oggi». La maggior parte delle persone ricorda di lui la celebrissima "The revolution will not be televised". Un pezzo di spoken poetry del 1970 considerato a buon diritto antesignano del rap e della cultura Hip Hop che di lì a poco sarebbe emersa. Poesia, parole, rime per spedire messaggi, concetti, idee. Nel brano Gil-Scott Heron inchioda con le sue rime il ruolo dei mass media nella rappresentazione della realtà e la prepotente rivincita della vita sulle misitficazioni della televisione puntando il dito contro il razzismo dell'informazione statunitense dell'epoca, la Società dello Spettacolo. Proprio in questi giorni da Puerta Sol a Madrid, i ragazzi della "rivoluzione spagnola, il movimento 15M, da un palco improvvisato avevano riscritto la loro versione di "The revolution will not be televised", alternandosi al microfono. Quale tributo migliore pensando al loro slogan "Toma la calle" e al primo verso del brano "Non potrai startene a casa, fratello". Coscienza e poesia, attivismo e soul, blues, jazz, funk. L'antinuclearismo, il razzismo, la critica ai media e al consumismo sono stati i temi che hanno ispirato i suoi versi spesso accompagnati dalle musiche di Brian Jackson. Dopo 16 anni di silenzio discografico nel 2010 era arrivato "I'm New Here", l'album che lo aveva riportato all'attenzione dei media per questioni artistiche e non biografiche, visto che giornali e tv si erano recentemente occcupati di lui solo per riportarne gli abusi con le droghe, una condanna per possesso di cocaina e il fatto che avesse contratto l'Hiv. Quest'ultimo disco è stato accolto molto calorosamente dalla critica e lo ha portato in tour in Europa (anche in Italia). Un tour faticoso per le sue precarie condizioni di salute e dopo il quale è rimasto a lungo ricoverato in un letto d'ospedale a New York. Ci piace pensare, ancora adesso, ai tempi di Internet, che avesse ragione: «The Revolution will be Live"


Liberazione 29/05/2011, pag 7

Antonveneta, 4 anni per Fazio

Giorgio Ferri
Finisce con una condanna a 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e un milione e mezzo di multa per l'ex governatore della Banca d'Italia Antonio Fazio, il processo di primo grado per il tentativo di scalata ad Antonveneta da parte della Bpl contro gli olandesi di Abn Amro. I giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano hanno condannato anche Giampiero Fiorani, amministratore della Bpl, ad 1 anno e 8 mesi di reclusione, Giovanni Consorte, ex presidente di Unipol, a 3 anni di reclusione, 1 milione di euro di multa e 2 anni di interdizione dai pubblici uffici. Stessa pena per Ivano Facchetti, anche lui dirigente Unipol. Il senatore del Pdl Luigi Grillo si è visto infliggere 2 anni e 8 mesi. Stessa pena per l'immobiliarista Luigi Zino con l'aggiunta di 850 mila euro di multa. La condanna più alta è toccata a Francesco Ghioldi ritenuto il fiduciario di alcune società e conti occulti sui quali confluiva il denaro raccolto attraverso operazioni illecite. Il gruppo Unipol è stato condannato ad una sanzione di 900 mila euro e ad una confisca pari a 36,9 milioni di euro. Assolto invece l'ex capo della vigilanza di Bankitalia, Francesco Frasca, per non aver commesso il fatto. I reati contestati riguardano l'aggiotaggio, l'insider trading, l'appropriazione indebita, l'ostacolo all'attività di vigilanza della Consob, l'evasione fiscale. E' la prima volta che un governatore di Bankitalia viene condannato in un processo penale. L'inchiesta era partita il 2 maggio 2007 ed oltre ai vertici di palazzo Koch ha raggiunto 84 persone e 9 società. Secondo l'accusa Fazio, violando gli obblighi inerenti alla carica di governatore della Banca d'Italia, aveva assunto l'impegno di favorire Fiorani nell'ostacolare l'opa lanciata dall'Abn Amro su Antonveneta, ritardando anche il rilascio delle necessarie autorizzazioni per consentire a Fiorani di proseguire il rastrellamento occulto di azioni di Antonveneta. L'operazione stoppata dalla magistratura rappresentava un tentativo di scalzare alcuni vecchi equilibri della finanza italiana da parte di un'alleanza eterogenea, un fronte trasversale che vedeva uniti un gruppetto di rampanti avventurieri: i "furbetti del quartierino" insieme ad alcuni pilastri della finanza rossa come Unipol e Banco dei Paschi di Siena. In una gustosa recensione del libro Capitalismo di rapina, scritto da Paolo Biondani, Mario Gerevini e Vittorio Malagutti, apparsa sul "Sole 24 ore", si tratteggia quale avrebbe potuto essere la nuova mappa del potere economico-finanziario italiano se le scalate del 2005 fossero andate in porto. «Gianpiero Fiorani a capo del gruppo Banca popolare italiana-Antonveneta, Giovanni Consorte al vertice della Bnl e pronto alla fusione col Monte Paschi di Siena (l'operazione che aveva fatto raggiungere un orgasmo telefonico a Fassino), Stefano Ricucci fra i soci che governano il "Corriere della Sera", Sergio Billé pronto a candidarsi in Parlamento per un partito di centro, Danilo Coppola nel cda di Unipol-Bnl-Mps e componente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca, Emilio Gnutti vicepresidente di Bpi-Antonveneta, consigliere di Unipol-Bnl-Mps e pronto a dare l'assalto alle Generali, Antonio Fazio presidente della Repubblica, Sergio Cragnotti proprietario della Del Monte, Calisto Tanzi presidente della Bon Lat». Ma le vecchie famiglie della borghesia italiana non hanno tollerato l'affronto. E così ai perdenti non è rimasto altro che la patente di "pirati dell'economia".


Liberazione 29/05/2011, pag 5

Dai G8 40 miliardi di dollari per la "primavera araba"

Matteo Alviti
«Quando Angela è felice, vuol dire che le cose sono andate bene». Parola di Sarkozy, padrone di casa al vertice del G8 francese di Deauville. Ma di cosa era mai felice la cancelliera tedesca Merkel?
Il vertice di Deauville, ridente cittadina balneare della Normandia, si è concluso ieri con gli incontri con i rappresentanti degli stati africani e delle istituzioni internazionali. La dichiarazione finale, come altre in passato, è una summa di buone intenzioni. Stavolta da sostenere c'era il vento di democrazia che ha spirato sulle coste dell'Africa del nord. E che metà dei grandi stanno già "alimentando" da mesi a suon di bombe sulla Libia. Gli otto grandi - Usa, Russia, Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone e Gran Bretagna - si sono impegnati a mettere insieme un pacchetto di aiuti da 40 miliardi di dollari per la «primavera araba». «Siamo pronti ad estendere tale partnership globale», sta scritto nel comunicato finale, «a tutti i paesi della regione che intraprenderanno una transizione verso società libere, democratiche e tolleranti». Dove, come e perché saranno spesi i soldi del cosiddetto "partnerariato di Deauville", non è ancora dato sapere. Ieri l'Italia aveva proposto un piano di aiuti per le piccole e medie imprese locali. Ma il nostro paese da tempo non gode di grande considerazione.
Dal vertice è poi arrivato un sostegno alla linea di Obama per la pace in Medio Oriente. Anche se la linea di Obama non è sempre dritta. Nella dichiarazione finale dei cosiddetti grandi c'è anche la richiesta al leader libico Gheddafi di abbandonare il potere. Il risultato più concreto uscito dal G8 sembra essere la proposta di mediazione russa per la guerra in Libia, confermata da Medvedev: «Siamo pronti a mediare. Siamo in contatto con tutte e due le parti». In occasione del vertice la Russia ha "spostato" il suo asse verso occidente, unendosi al coro di voci dei paesi che chiedono al leader libico di lasciare. Ieri dopo un colloquio Francia-Usa Obama ha ribadito che i volenterosi sono «determinati a concludere il lavoro». E la condizione imprescindibile è che il colonnello lasci il potere e, dunque, il paese. Presto Sarkozy e il premier britannico Cameron si recheranno a Bengasi per una visita congiunta, ha reso noto il presidente francese.
Sul fronte siriano, fatto salvo l'appello al presidente Assad affinché fermi le violenze sulla popolazione, i G8 sono meno uniti. La Russia è contraria alle sanzioni a Damasco. «Crediamo però che Assad debba passare dalle parole ai fatti», ha detto Medvedev. Dovrebbe cioè «impostare cambiamenti democratici, dare voce all'opposizione e non permettere la violenza durante le manifestazioni». Per Francia e Usa Assad deve fare le riforme o lasciare la guida del paese. Sarkozy per la prima volta ha parlato di un ritiro di Assad: «Abbiamo discusso con i siriani, cercato di aiutarli. Purtroppo i dirigenti siriani hanno fatto un'incredibile marcia indietro. In queste condizioni la Francia ritira la sua fiducia e denuncia ciò che deve essere denunciato».
Altro grande tema a Deauville è stata la coda della crisi economica, che sta trascinando nel baratro le economie di alcuni paesi. Gli otto si sono detti determinati «a prendere tutte le azioni necessarie, collettive o individuali, per affrontare le attuali sfide». La ripresa globale, hanno scritto, si sta rafforzando, anche se rimangono «rischi» legati all'aumento dei prezzi delle materie prime. Da Deauville arriva insomma un segnale per tranquillizzare i mercati, il cui esito andrà verificato nelle prossime settimane.
Infine il nucleare. Nella dichiarazione ufficiale si cita più volte l'autorità dell'Aiea, l'Agenzia nucleare delle Nazioni Unite, per il miglioramento del livello di sicurezza nel mondo. Il G8 ha incoraggiato «a ratificare le pertinenti convenzioni internazionali adottate sotto l'egida dell'AIEA». Quanto alla Convenzione sulla sicurezza nucleare, «la pietra angolare del regime di sicurezza internazionale», si accoglie con favore la riunione straordinaria tra le parti che si terrà nel mese di agosto 2012.
Le discussioni sulla successione di Strauss-Kahn al Fondo monetario internazionale sono invece rimaste chiuse nelle stanze del vertice. Da quel che è emerso ufficiosamente, però. l'elezioni di Lagarde non avrebbe ormai grandi ostacoli. Ci sarebbe da pensare a una "compensazione" per i paesi cosiddetti emergenti, che avevano espresso la volontà di eleggere un loro candidato.


Liberazione 28/05/2011, pag 6

Stati Uniti il Congresso vota per mantenere il Patrioct Act. Obama firma da Parigi la legge

Il Congresso degli Usa ha approvato un'estensione per altri 4 anni della legge antiterrorismo nota come Patriot Act. L'approvazione è arrivata pochi minuti prima che scadesse la validità dell'ultima proroga, tanto che il presidente Obama ha firmato la legge da Parigi, dove si trova per il G8. La proroga, approvata da una maggioranza trasversale, è stata contestata dalle ali più estreme di entrambi i partiti: da quella più a sinistra del Partito Democratico, che l'aveva già contestata alla sua prima approvazione da parte dell'amministrazione Bush, e da quella che fa riferimento ai tea party e agli ultraconservatori, che la considerano un'eccessiva ingerenza del governo negli affari privati dei cittadini.


Liberazione 28/05/2011, pag 6

Permessi di soggiorno, il Viminale si smentisce

Sanatoria per 24mila? Il ministero degli interni annulla la (sua) circolare

Stefano Galieni
Quanto accaduto negli ultimi due giorni al ministero dell'interno ( e pensare che c'è chi ipotizza un premierato Maroni), ha dell'inverosimile. Malgrado la voce grossa il ministro si è trovato a dover fare i conti con una sentenza del Consiglio di Stato e della Corte di Giustizia Ue. che dichiarava inefficaci i provvedimenti di diniego di accesso ai percorsi di sanatoria per chi aveva subito provvedimenti precedenti di espulsione ( circolare Manganelli). La cosiddetta "sanatoria truffa" per colf e badanti. E' diventata memorabile la lotta dei lavoratori di Brescia prima e di Milano poi, che erano rimasti su gru e torri a protestare contro il torto subito, mentre prefetture e questure venivano inondate di quesiti posti dai lavoratori non sanati. Le decisioni del Consiglio di Stato e dell'Europa costringono il governo a riconoscere l'illegittimità di una circolare, peraltro emanata mesi dopo l'apertura della sanatoria. In altri termini almeno 24 mila persone altrimenti condannate alla clandestinità potevano reclamare giustizia. In sordina, il 24 maggio, partiva una circolare firmata dal dottor Malandrino (Direttore centrale per le Politiche dell'Immigrazione e dell'Asilo) che, in sintesi riconosceva le ragioni del Consiglio di Stato e disponeva sia per coloro che avevano già avuto notificato il decreto di diniego o di emersione che per quelli i cui procedimenti non erano ancora stati definiti, il blocco dei provvedimenti di espulsione. Addirittura si chiede, nel testo della circolare giunta a tutte le prefetture, di «determinare, nei casi controversi, la cessazione della materia del contendere, con possibile conseguente rinuncia al ricorso e limitazione dei costi erariali». A Brescia e non solo si stava già e giustamente considerando come, una lotta ancora in corso, contro una prefettura i cui dirigenti sembrano convinti di aver giurato fedeltà alla padania, fosse riuscita a produrre risultati. Ma la circolare, ha alzato un vespaio di polemiche. Un quotidiano "pacato e sobrio" nei giudizi in materia come Libero, denunciava l'ennesimo complotto comunista annunciando però che il granitico Maroni sarebbe rapidamente corso ai ripari. E nelle ultime righe di un articolo scritto in evidente stato alterato di furore ideologico, si concludeva affermando che, secondo indiscrezioni, si stava già trovando una soluzione per recuperare a quest'onta. Ci sono ancora voci disposte a ricordare, magari anche in parlamento, che si sta giocando cinicamente col destino di 24 mila persone che lavorano e già vengono abbondantemente sfruttate in Italia? Diretta la risposta di "Progetto Diritti", legali che avevano richiesto l'intervento del Consiglio di Stato «il comportamento ondivago e tremebondo dell'amministrazione crea ulteriori danni e incertezze per i lavoratori stranieri e per i loro datori di lavoro. I lavoratori stranieri già condannati per inottemperanza all'ordine di espulsione vanno tutti ammessi alla procedura di regolarizzazione». Di decisione gravissima parla anche Paolo Ferrero: «Questo balletto altalenante di circolari e contro circolari è un modo vergognoso di gestire il tema dell'immigrazione. Sono pezzi di carta che cambiano la vita di uomini e donne e queste persone non possono essere trattate burocraticamente come numeri».


Liberazione 28/05/2011, pag 5

Roma svende il “patrimonio” Atac. Blitz dei movimenti per la lotta all’abitare e dei centri sociali

Svendita del patrimonio, assunzioni di parenti e amici, riduzione dei servizi, maxibonus per i dirigenti (sempre amici) e ingresso in Unindustria (guidata da un fedelissimo di Alemanno). Stiamo parlando di Atac, l'azienda municipalizzata dei trasporti della città di Roma, un'azienda strategica della capitale, i cui destini sono la miglior fotografia della gestione della città governata dalla giunta Alemanno. Atac, infatti, entra ora in Unindustria, al costo di 75000 euro l'anno, l'associazione romana di Confinfustria, guidata da Aurelio Regina. Che, solo e sempre per caso, è l'uomo che Alemanno ha messo al vertice dell'Auditorium. Una mossa che in molti interpretano come il preludio alla futura privatizzazione della municipalizzata capitolina. Una mossa che però sta incontrando una vasta opposizione, anche in diversi settori del Pd. Un secco no è arrivato stamattina dai movimenti romani per la lotta all'abitare (Action, Coordinamento, Bpm), dai centri sociali e dalle diverse realtà sociali e sindacali riunite sotto la sigla Roma bene comune. Un centinaio di attivisti ieri mattina hanno fatto un blitz nella sede dell'Atac a via Prenestina srotolando striscioni e chiedendo un incontro con i vertici dell'azienda. Incontro infine ottenuto per il sei giugno (oltre i vertici Atac dovrebbero essere presenti l'assessore alla mobilità Antonello Aurigemma), quello al bilancio Carmine Lamanda e quello all'Urbanistica Marco Corsini) e che si pone l'obiettivo di fermare questa colossale svendita ribadendo un punto fondamentale: ciò che è pubblico deve rimanere tale. E anzi, diventare ricchezza comune e condivisa.


Liberazione 28/05/2011, pag 3

«Si son dimenticati di misurarci le palle!»

Checchino Antonini
Cipputi!
Bravo! Era un po' che me lo domandavo: come cazzo mi chiamo.
(Viene avanti in mezzo alle tute blu che discendono verso San Giovanni. E' il 16 ottobre. E sono felice di averlo riconosciuto. Impossibile sbagliare chè da trent'anni e passa mi spunta sui volantini, sulle riviste preferite. Perfino incorniciato nei salotti buoni oppure sui frigoriferi, tenuto fermo da un magnete, con la battuta fulminante a funzionare per il codice politico o familiare. Rispunta nei momenti speciali, il Cipputi, quando sono in ballo la Costituzione, la democrazia, il futuro. La prima cosa che dice è che un corteo così non dovrebbe essere un evento).

Il Fiat, intanto, vuole togliere il contratto nazionale e imporre ritmi frenetici per fare milioni di auto.
E poi chi le compra, lui?

Per non dire che uno di questi giorni sarete sostituiti da un robot.
Allora i padroni verranno a romperci i coglioni a casa.

Tempi duri, eh Cipputi?
Non dirmelo: stamattina vedendomi allo specchio mi sono messo a gridare che c'era un comunista nel bagno.

Aggiornarsi Cipputi, oggi vige il liberal...
Voglio venirci incontro: mi chiami còmunist!
(Intorno a noi c'è un fiume di gente come non si vedeva da un po': operai, studenti, precari, migranti. E quando mi ricapita - realizzo - di intervistare Cipputi, proprio lui! Lo hanno definito poeta solitario, vetero-comunista, saggio ma non rassegnato, Don Chisciotte di questa fine secolo, quello che più di altri personaggi assomiglia ad Altan. Accanto a noi, senza la casacca blu, un bell'uomo, barba grigia e occhi chiari, scuote la testa e soffia il fumo del cigarillo nell'aria quasi fredda di quest'ottobre romano. Ma pare Altan. Forse è proprio Altan. «Credo abbia avuto ragione Vittorio Foa più di altri: Cipputi è l'uomo che lavora. No, non è un poeta. E nemmeno mi somiglia, spesso viene usato dai titolisti al di là delle mie intenzioni». «Altan, Maestro...». Ma l'uomo col cigarillo sembra svanito nella folla che salta e sfila e urla e canta. Mi riavvicino alle tute blu).

Ma questi sacrifici li faremo?
Certo, adoro tutto ciò che è nuovo e moderno.

Ma se li facciamo sempre noi!
E' roba delicata. Non glieli si può far fare a della gente che non è abituata.
(Interviene un altro operaio, dice di chiamarsi Bislazzi. «Ma non si può darci la colpa ai padroni: fanno il loro mestiere». «Allora diamola ai disoccupati - ribatte Cippa - che non fanno un'ostia dal mattino alla sera!». Tocca al compagno Girgoni, dicono sia un timido: «Non dimenticatevi che l'economia di mercato ha le sue regole». «Appena vado in cassa integrazione me le ripasso», gli risponde Bullonzi. Provo a fare il realista).

Hanno fatto i conti, Cippa (posso chiamarti così anch'io?): crescita zero.
Si son dimenticati di misurarci le palle.

Però questo corteo è un successo. Adesso ci vorrebbe lo sciopero generale.
Ok! Facciamogli vedere chi eravamo!

Ma... ma... ma allora saremo sempre lì a sognare il centrosinistra?
(«Temo di sì». Mi volto. E' ancora Altan. «Sono tempi di mediazioni, tempi difficili per i sogni più radicali... ». Come ha fatto a rispuntare, penso. Ma certo Cippa sarà ancora incazzato, mi dico. Ma non ho il coraggio di chiederglielo. Poi però mi torna in mente l'immagine del delegato Fiom e contemporaneamente leghista).

Ne ho visto uno in carne ed ossa vicino Brescia. Ma voi non ve n'eravate mai accorti?
(Un'altra tuta blu del gruppo anticipa tutti sul tempo. E' il compagno Bisnaghis. «Probabilmente sì - dice - ma lui è impermeabile». E indica Cipputi che, intanto, si pulisce gli occhiali con un pizzo della casacca).

E come la metti col compagno Altan (prendo confidenza, d'altra parte ho la soffitta piena di annate di Linus e CortoMaltese e Tango e Cuore) che rivela pubblicamente di votare Pd?
C'è tolleranza reciproca tra noi. Non litigo con tutti.

Forse dovremmo ammettere che se non ci liberiamo del bipolarismo non si esce dall'epoca dei pifferai magici.
Le semplificazioni fanno sempre danni.
(Cipputi mi dà ragione ma Altan rintuzza: «Forse ne fanno anche le identità troppo piccole». Touché. Prendo coraggio e chiedo all'autore dov'è che sparisce ogni tanto. «Vado a fare il mio mestiere: a intercettare i suoni del bailamme». «Una risata (amara) li seppellirà?». «Sì, ma fino alle caviglie». Avvampo dalle gote alle orecchie quando mi ascolto domandargli: «Non temi che la satira rischi di essere consolatoria? Anche la tua». «C'è un elemento consolatorio ma quando uno si consola con qualcun altro almeno non è più solo». E sparisce di nuovo. Finalmente soli, Cipputi ed io. Il nostro operaio ha il berretto con la visiera rivoltata, come i ciclisti a cui pensa mentre sta attaccato alla macchina. Perché da lì non si è mosso, non s'è piazzato in tinello, lui, a differenza di altri personaggi del Grande romanzo italiano affrescato da Altan).

La classe operaia non fa più notizia.
Finalmente hanno imparato a rispettare la privacy.

Dice che va in tv solo quando sale sui tetti o vota Lega. E quando va in tv, dice che cala l'audience.
Manca la sùspens, lo sanno tutti che prima o poi lo prendiamo nel didietro!

Ma oggi il re, che sia Marchionne o Berlusconi, è nudo, Cippa!
Sì ma ha un affare grosso così.
(Sarà il lungo viaggio in treno, sarà il barbera che circola tra i metalmeccanici in gita, ma Bistazzoni si sente strano: «Sono in crisi di identità, Cipputi». «Fatti l'autoipnosi - risponde il nostro - scoprirai che sei Bistazzoni, il famoso rivoluzionario che paga le tasse». Mi decido a parlare di Liberazione).

Il nostro giornale tenta di uscire dalla crisi. Che se ne dice in fabbrica?
Temo che in troppe fabbriche nessuno compri più un giornale, nemmeno gli edili per farcisi il cappello. Ci stanno prendendo in mezzo. E' la famosa centralità operaia.

E' tutta la vita che stiamo in mezzo al guado.
E' che spostano l'altra sponda.

Dice che se diminuisce il costo del lavoro diventiamo più competitivi.
Così un coraggioso film dimostrerà che loro avere lingua biforcuta. E vinceremo il Leone d'Oro.

Si può sapere perché da noi il capitalismo funzioni peggio che dagli altri?
Perché non gli vogliamo bene. Non basta che lo mantieni, devi dargli affetto.
(Si fa avanti il Barigazzi, ha una smorfia contrita. «Non possiamo più vederci Cipputi, il Bonanni non vuole». «Adios, Barigazzi, vieni a vedermi di nascosto quando cavalco la tigre!». «Mia figlia s'è fidanzata con un cassintegrato!», confessa Ghizzi ch'era un po' che voleva prendere la parola. «Nessuno proibisce i matrimoni misti», sentenzia Girgoni. «E se ci mettono in cassa integrazione pure noi?». «Beati voi che tornerete a svolgere un ruolo nella famiglia italiana». «Guarda che sto parlando di licenziamenti!». «Guarda che sto parlando di licenziamenti!». «Finalmente qualcosa a tempo indeterminato»).

Non penserete proprio adesso di abbassare la cresta Cipputi?!
Si figuri! A me se non mi sfruttano perdo l'identità.

Però così non si va avanti, Cippa.
Si vede che abbiamo i coglioni lisci, proviamo a montargli le catene.

Mi chiedo, valeva la pena di spenderci una vita in questa lotta?
Tanto se non la spendevi se la rosicchiava l'inflazione.

E il sol dell'avvenire?
Non farmi il patetico, ci sono delle ottime lampadine.

La merda dilaga, Cipputi.
Tu fai finta di niente, sennò dicono che l'hai fatta te, dati i tempi.
(Il corteo è agli sgoccioli, la pazienza di Cipputi pure, mica è un Guru lui. E neppure Altan che s'è sciolto nel movimento, si direbbe. Non resisto a stuzzicare la classe operaia sull'evolversi del quadro politico, sulle tensioni tribali nella maggioranza).

Diciamocelo, stavolta il Fini si è messo piuttosto a sinistra.
Si vede che si è dimenticato il copione.

Poteva andare anche peggio.
No.
(Guardo sfilare la coda del corteo, le ultime bandiere rosse e, a ruota, i lampeggianti azzurri dei blindati. Mi viene in mente Stefano Benni: «Altan è comunista o forse anarchico o forse altaniano di centro... per cui capirete non si può chiedere ad Altan cos'è un Altan». E Cipputi? E' fatto della stessa materia dei sogni in forma di satira. Una sostanza «ambigua e complice», direbbe il Fofi).


Liberazione 28/11/2010, inserto "Compagna Satira", pag 26

Come ti metto il potere in mutande

Tonino Bucci
Dici satira e pensi a lui. Dai tempi di "Morte accidentale di un anarchico" è l'ossessione dei censori, il nemico giurato del politically correct. Dario Fo - di lui si parla - è da una vita che porta la satira in scena. L'autore di "Mistero buffo" non ha fatto sconti a nessuno, ce n'è per papi e sovrani, preti e governanti, moralisti e bigotti, reazionari e demagoghi. Nei suoi spettacoli il mondo gira al contrario, i giullari sono eroi e i re mezzetacche in mutande. Il Nobel non l'ha cambiato, anzi. L'"Anomalo bicefalo", per fare un esempio, è una commedia su Berlusconi che ha scatenato un putiferio, tanto che provano addirittura a bandirla dalla televisione. Dalla satira in scena a quella sulla carta. Di recente ha pubblicato "Il mondo secondo Fo" (Guanda, conversazione con Giuseppina Manin, pp. 157, euro 13,50) e "L'amore e lo sghignazzo" (Guanda, pp. 145, euro 14), un collage di racconti popolati da eretici, giullari, provocatori e trasgressori.

Si dice che la sinistra è pessimista, che sa alimentare solo passioni tristi. Ma è proprio vero che non riusciamo più a mettere paura ai potenti con la risata?
Niente di più falso. Dovranno continuare a sopportarci, a sopportare la satira di sinistra, la satira democratica. Siamo gli unici in Italia ad avere ancora la capacità di mettere il potere in ridicolo. Magari saremo pure un po' anarcoidi… Poi, certo, c'è la sinistra pomposa che sta nei luoghi di potere e crede di avere le ricette per cambiare le cose, ma è invece senza immaginazione. Senza fantasia. Chi governa la sinistra ha scimmiottato per anni la destra. A ogni modo è miracoloso che dentro lo spegnimento della cultura critica abbiamo ancora la forza della satira. E quando il potere si accorge di noi, fa di tutto per eliminarci. Lo vediamo continuamente con gli ostacoli e gli impedimenti che vengono messi davanti a chi fa inchieste nella televisione pubblica e nell'informazione. Il potere non sopporta chi riesce a parlare in grottesco e con giocondità delle cose orrende e tragiche. La forza della satira è parlare della tragedia ridendo. Non per nulla gli antichi mettevano tragedia e commedia sullo stesso piano, no? Aristofane diceva della satira che è il momento più alto dell'intelligenza dell'uomo. Il saper ridere non soltanto di coloro che bisogna battere, ma anche di se stessi e degli amici più cari, irridere è la vera intelligenza. L'uomo ha dimostrato di essere diverso da tutti gli altri animali col suo sghignazzo e la sua ironia. Questa è la dimostrazione del valore della satira presso gli antichi. Dovremmo ricordarlo più spesso.

La satira è l'arma dei poveri, no?
Dei poveri e di coloro che non hanno il potere. Chi ha il potere potrebbe mai fare satira? Non sono due cose incompatibili? Ci sono anche quelli che sono spiritosi, quelli che hanno il potere e sanno fare satira. Ma è una satira truce, violenta, derisoria, spesso impostata su uno sberleffo di irrisione verso coloro che stanno sotto. Del tipo, "Taci tu, zozzone". A volte il potere usa il linguaggio della comicità. I politici populisti sanno farlo bene. Del resto, non abbiamo al governo un comico? Ma le battute del nostro presidente del Consiglio non hanno senso. Non è né un satiro né un comico. Tanto è vero che racconta barzellette e la barzelletta non è altro che sfottò, il contrario della risata intelligente. La differenza che c'è tra la satira e lo sfottò è abissale. La satira ha la tragedia sullo sfondo, lo sfottò è solo sberleffo.

A rivedere oggi certi classici della stampa satirica c'è da rimanere stupiti dalla capacità di infrangere le "regole". Non è che oggi chi fa satira è troppo ossessionato dal politicamente corretto?
Da sempre agli uomini di satira hanno detto di essere fuori dalle regole. Hanno detto perfino a Dante: esageri a essere così ironico e strafottente e irrispettoso del potere. Perfino nel paradiso, figuriamoci, lo hanno accusato di fare sberleffi e parlare di Dio contemporaneamente. Se si va a sfogliare il "Becco giallo", uno dei fogli satirici anticlericali più noti e potenti che ci siano mai stati, ci si accorge che non c'erano confini che tenessero. Chiesa e preti erano raffigurati senza ombra di asservimento, fregandosene del politicamente corretto…Questo dimostra che il coraggio di realizzare una rottura e di mettere il re in mutande è solo della satira. Una risata vi seppellirà. Non è solo una battuta; è una forza reale, l'unica che ci può salvare dalla guerra e dalla violenza di quelli che hanno il potere. L'unica arma che abbiamo nelle mani, è lo sghignazzo.


Liberazione 28/11/2010, inserto "Compagna Satira", pag 25

Le 14 battute da non perdere

I terroni non so, ma noi italiani non siamo razzisti.

Giuseppe: «E pensare che vivrà solo 33 anni...». Maria: «Beh, per essere un Palestinese è già tanto!».

«Andreotti è Andreotti». «Basterebbe questo a inchiodarlo».

I miti sono necessari: i giovani devono avere delle T-shirt in cui credere.

Sarà dura spiegare ai pensionati come si arriva in Europa. La maggioranza di loro non sa come si arriva alla fine del mese.

Clima cileno, democrazia sospesa, diritti civili calpestati. Mi chiedo quale Italia consegneremo ai figli di Berlusconi.

Non è successo niente. E' arrivato il duemila e nel mondo è tutto come prima. Dunque il panico era giustificato.

Il mio compagno "prima" mi riempie di coccole, "dopo" si fuma una sigaretta. Cosa faccia "durante" ancora non l'ho capito

I Ds non sanno che fare. E' la cosa che gli riesce meglio.

Ogni 22 minuti a Kabul esplode una mina. Segno che nonostante tutto la vita continua.

Le donne prima provocano e poi si lamentano se vengono stuprate. Lo sanno tutti che sotto il golfino, i jeans e il reggiseno se ne vanno in giro tutte nude.

Ma Tony Blair è di destra o di sinistra? Sai che in tutti questi anni di bombardamenti non l'ho mai capito?

Difficile tracciare il bilancio di un anno di governo Sharon. E' tutto sotto terra.

Ogni popolo ha il governo che si merita. Noi anche l'opposizione.


Liberazione 28/11/2010, inserto "Compagna Satira", pag 24