domenica 26 ottobre 2008

Intervista a Cossiga

«Bisogna fermarli, anche il terrorismo partì dagli atenei»
di ANDREA CANGINI - ROMA

PRESIDENTE Cossiga, pensa che minacciando l`uso della forza pubblica contro gli studenti Berlusconi abbia esagerato? «Dipende, se ritiene d`essere il presidente del Consiglio di uno Stato forte, no, ha fatto benissimo.

Ma poiché l`Italia è uno Stato debole, e all`opposizione non c`è il granitico Pci ma l`evanescente Pd, temo che alle parole non seguiranno i fatti e che quindi Berlusconi farà una figurac- cia».

Quali fatti dovrebbero seguire? «Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand`ero ministro dell`Interno».

Ossia? «In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino rimanesse ucciso o gravemente ferito...».

Gli universitari, invece? «Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città».

Dopo di che? «Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri».

Nel senso che...

«Nel senso che le forze dell`ordine non dovrebbero avere pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli e picchiare anche quei docenti che li fomentano».

Anche i docenti? «Soprattutto i docenti».

Presidente, il suo è un paradosso, no? «Non dico quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì. Si rende conto della gravità di quello che sta succedendo? Ci sono insegnanti che in- dottrinano i bambini e li portano in piazza: un atteggiamento criminale!».

E lei si rende conto di quel che direbbero in Europa dopo una cura del genere? «In Italia torna il fascismo», direbbero.

«Balle, questa è la ricetta democratica:

spegnere la fiamma prima che divampi l`incendio».

Quale incendio? «Non esagero, credo davvero che il terrorismo tornerà a insanguinare le strade di questo Paese. E non vorrei che ci si dimenticasse che le Brigate rosse non sono nate nelle fabbriche ma nelle università.

E che gli slogan che usavano li avevano usati prima di loro il Movimento studentesco e la sinistra sindacale».

E` dunque possibile che la storia si ripeta? «Non è possibile, è probabile.

Per questo dico: non dimentichiamo che le Br nacquero perché il fuoco non fu spento per tempo».

Il Pd di Veltroni è dalla parte dei manifestanti.

«Mah, guardi, francamente io Veltroni che va in piazza col rischio di prendersi le botte non ce lo vedo. Lo vedo meglio in un club esclusivo di Chicago ad applaudire Obama...».

Non andrà in piazza con un bastone, certo, ma politicamente...

«Politicamente, sta facendo lo stesso errore che fece il Pci all`inizio del- la contestazione: fece da sponda al movimento illudendosi di controllarlo, ma quando, com`era logico, nel mirino finirono anche loro cambiarono radicalmente registro.

La cosiddetta linea della fermezza applicata da Andreotti, da Zaccagnini e da me, era stato Berlinguer a volerla... Ma oggi c`è il Pd, un ectoplasma guidato da un ectoplasma. Ed è anche per questo che Berlusconi farebbe bene ad essere più prudente».

CONFRONTO «Ieri un Pci granitico oggi Pd ectoplasma Perciò Berlusconi dev`essere prudente».


Da "GIORNO/RESTO/NAZIONE" di giovedì 23 ottobre 2008

venerdì 24 ottobre 2008

L'inarrestabile ascesa dei Fondi sovrani

Chi sono i paesi investitori, di quanta liquidità dispongono, cosa si stanno comprando a prezzi di saldo in Europa e America
L'inarrestabile ascesa dei Fondi sovrani tra i sogni e gli incubi dell'Occidente

Gemma Contin
Fondi sovrani, che roba è? Roba che scotta, da quel che lascia intuire l'istituzione urgente del "Comitato strategico sui fondi sovrani", uno speciale gruppo di esperti oggetto di un apposito decreto governativo, che dovrebbe mettere all'opera "12 tecnici 12", trascelti pariteticamente da Palazzo Chigi, dal ministro degli Esteri Franco Frattini e dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti che, stando a quanto ha scritto sull'Unità Bianca Di Giovanni, ha investito dell'alto compito Enrico Vitali, fiscalista di portata internazionale, socio "storico" del suo privato e avviatissimo studio professionale milanese, da cui Tremonti è aduso uscire per conflitto di interessi non appena diventa ministro e rientrare un minuto dopo aver dismesso la gabanella di public servant.
Il secondo nome, tirato in ballo dal Corriere della Sera, è quello di Giancarlo Innocenzi, sottosegretario alle Comunicazioni nel precedente governo di centrodestra, quando venne varata la riforma Gasparri, «poi membro dell'Autorità delle Comunicazioni - scrive Di Giovanni - negli ultimi mesi rimasto coinvolto nel "caso Saccà"».
Nomina imbarazzante perché non si capisce quale expertise gli venga attribuita in tema di fondi sovrani e di manovre finanziarie internazionali, ma anche perché Innocenzi, secondo una ricostruzione della sua carriera precedente fatta dall'Espresso, è uomo Mediaset a 360 gradi: direttore dei servizi giornalistici di Canale5 Italia1 e Rete4, poi amministratore delegato di Titanus Spa e Odeon Tv.
Con ciò non siamo che ai primi due "esperti", già oggetto di un'interrogazione parlamentare. Il resto verrà di conseguenza, quando ancora non si sa in quali ambiti operativi e discrezionali, con quali mandati a trattare in nome e per conto del governo, sotto che regole e vincoli (della Banca d'Italia? della Consob? dell'Antitrust?) questi dodici superuomini dell'alta finanza dovrebbero riuscire a determinare l'improbabile uscita da una crisi che travalica la dimensione delle singole nazioni e la stessa capacità di intervento degli Stati.
I quali Stati, si è capito proprio da questo megaflop mondiale, sovrani non sono più, come ha detto il governatore della Banca d'Italia davanti alla Commissione Finanze del Senato. Secondo Mario Draghi, infatti: «La crisi finanziaria affonda le sue radici nei cambiamenti strutturali che hanno caratterizzato negli ultimi anni l'economia globale e in modo particolare il settore finanziario stesso. La crescita mondiale, sostenuta in modo crescente dai paesi emergenti, si è accompagnata d un progressivo ampliamento di squilibri significativi, tra loro strettamente connessi. Ad una cronica carenza di risparmio in alcune aree del mondo,particolarmente negli Stati Uniti, è corrisposta una crescente eccedenza in altre, soprattutto in Cina e in altri paesi emergenti a elevata crescita».
Ecco, è questo un incipit autorevole e necessario per ritornare a ragionare, allora, attorno ai Fondi sovrani di cui tanto si parla di questi tempi, senza che i più sappiano esattamente di cosa si tratti e, soprattutto, cosa ci sia da aspettarsi nell'immediato futuro, in quello prossimo e più ancora in quello remoto. Insomma, se davvero siano gli stessi fondamenti del capitalismo per come l'abbiamo conosciuto sinora ad essere minati.
Partiamo allora con l'elencare chi sono i paesi emergenti, a partire dalla Cina come sostiene Draghi, che hanno messo in piedi questa nuova forma di "partecipazione garantita minoritaria", cioè di ingresso in aziende quotate, strategiche, industriali o bancarie, in posizione defilata, senza rappresentanza formale o non necessariamente attraverso propri uomini nei consigli di amministrazione e negli executive board, ma con un apporto di capitali deciso a livello politico dagli Stati investitori, si presume in accordo con i governi dei Paesi in cui sono basate le società investite, garantiti dalle rispettive banche centrali o autorità monetarie.
Questi paesi sono soprattutto quelli con eccedenza di liquidità derivante dagli introiti del petrolio: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait, Brunei, Abu Dhabi, Singapore. Più di recente anche Cina, Russia, Norvegia e Canada. Ultima la Libia, messa in luce nei giorni scorsi dal suo ingresso con un miliardo di euro nel gruppo bancario Unicredit (4,3%) sottoscritto dalla Bank of Lybia, Lybian Foreign Bank e Lybian Investment Authority, ma che era già presente in Italia nella banca di Piazzale Cordusio, in Capitalia (5%), nella Fiat (2%), nell'Eni (0,7%).
Con quest'ultima società, un anno fa la società statale libica Noc, ha chiuso un accordo strategico in attività estrattive sul suolo e sottosuolo libico, estendendone la durata fino al 2042 per i pozzi petroliferi e fino al 2047 per i giacimenti di gas.
Altri investimenti in Italia vedono la partecipazione del Fondo sovrano di Abu Dhabi Investment Authority (con un patrimonio di 900 miliardi di dollari) del 2,04% in Mediaset, una quota nella Ferrari (4,2%), una in Piaggio Avio (7,5%) detenuta dalla holding pubblica Mubadala che un paio di giorni fa ha siglato un accordo di collaborazione industriale con la Aermacchi-Finmeccanica, veicolata dagli incontri del ministro degli Esteri Frattini con i vertici del maggior fondo sovrano del mondo, per la costruzione dell'M346, un aereo da addestramento ad altissima tecnologia.
Ma le partecipazioni in Italia sono ancora agli albori, tenuto conto che i Fondi sovrani asiatici e mediorientali hanno centinaia di miliardi da investire (si calcola una liquidità complessiva di circa 3.000 miliardi di dollari nelle casse degli Swf-Sovereign wealth fund) e una gran voglia di comperarsi a pezzi e bocconi il meglio che c'è sul mercato europeo e americano che in questo momento, per effetto della crisi e dei continui tracolli delle Borse, è acquistabile a prezzi di saldo.
Dalle case di moda (Prada) ai grandi alberghi (Hotel Gallia), dal circuito del lusso (Bulgari) alle marche automobilistiche, fino alle grandi banche di investimenti, ecco affacciarsi Abu Dhabi Investment Authority con 7,5 miliardi di dollari nella Citigroup (4,9%); la Qatar Investment Authority in Barclays; la China Development Bank e il fondo Temasek di Singapore (100 miliardi di asset) in Bearn Stearns e Morgan Stanley; la Korea Investment Corporation in Merrill Lynch (14%) appena incorporata dalla Bank of America.
I Fondi sovrani - di cui si sa ancora troppo poco sul piano giuridico e sugli strumenti di sorveglianza - che pure sembrano rappresentare l'ancora di salvezza nel mare di guai in cui si trova l'economia e la finanza mondiale, stanno già preoccupando le autorità monetarie e l'establishment occidentale. Berlusconi teme possibili offerte pubbliche di acquisto (Opa) ostili. Angela Merkel chiede una legge che ne argini le partecipazioni rilevanti. C'è chi invoca trasparenza, codici di comportamento, moral suasion. Chi vorrebbe escludere Cina e Russia dalla nuova "corsa all'oro". E chi teme una penetrazione massiccia in imprese strategiche e settori critici: dagli armamenti agli hedge fund, dalle merchant bank ai derivati con cui le amministrazioni pubbliche in debito d'ossigeno e con bilanci fallimentari si sono rifinanziate. Poi c'è tutto il capitolo delle mafie internazionali. Ma questa è un'altra storia.

Libia:
Unicredit4,23%
Capitalia5%
Fiat2%
Eni0,7%

Abu Dhabi:
Mediaset 2%
Ferrari4,2%
Piaggio7,5%
B.ca Pop.Comm.Ind. 2,04%

Liberazione 23/10/2008

Le banche a Berlusconi: non ricapitalizziamo

Gli istituti hanno paura di rivelare l'entità della crisi. Le borse li puniscono

Salvatore Cannavò
Le banche italiane respingono gli inviti di Berlusconi e dicono no agli aumenti di capitale: «Credo che due o tre banche dovrebbero adottare l'esempio di Unicredit e mettere mano alla propria capitalizzazione » aveva detto il presidente del Consiglio parlando all'Unione industriali di Napoli. Ieri a rispondergli è stato l'amministratore delegato dell'altra grande banca italiana osservata attentamente da analisti e risparmiatori, Corrado Passera di BancaIntesa: «Pensiamo di avere una struttura patrimoniale adeguata e il piano di impresa che stiamo realizzando la rafforzerà ulteriormente» ha detto l'artefice del piano di svendita dell'Alitalia mentre il presidente di Ubi Banca, Emilio Zanetti, ricordava che la sua banca è «tra le più capitalizzate d'Italia». Anche il presidente della Banca popolare di Milano ha parlato di conti «a postissimo» mentre Luigi Abete, presidente Bnl ostentava sicurezza: «La notte dormo tranquillo, e a maggior ragione adesso».
Ma la Borsa ieri ha continuato a punire impietosamente i titoli bancari - Unicredit a -7,3, BancaIntesa a -3,5, etc. - che hanno contribuito a trascinare al ribasso gli interi listini azionari. Milano ha perso il 3,47, Londra il 4,47 e così Francoforte, mentre Parigi ha superato il -5% e Madrid ha pagato duramente la decisione argentina di nazionalizzare i fondi pensioni lasciando sul terreno oltre l'8%. Un altro massacro, insomma.
Come si spiega? Colpa della recessione globale, dicono gli analisti, che viene scontata dal mercato: basti pensare alla discesa di tutti i titoli, a partire da quelli industriali (vedi il continuo scivolone della Fiat o la misera quotazione di Telecom Italia). E non c'è dubbio che la recessione è in arrivo, forse è già arrivata come dimostra in particolare la frenata, relativa ma evidente, delle economie asiatiche.
In Giappone la Borsa va a picco e la crisi si trasferisce già da tempo sul piano politico. Altre economie emergenti continuano a crescere ma con forti riduzioni rispetto agli ultimi due anni, si pensi al Brasile o alla stessa India. E per quanto riguarda l'economia regionale ormai più rilevante, quella cinese, va detto che sia pure in una prospettiva di crescita dell'8-9% la frenata rispetto agli scorsi anni è di circa 2-3 punti percentuali.
Segno della recessione che avanza è del resto anche la quotazione del petrolio, sceso sotto i 70 dollari al barile - ma la diminuzione consistente non si riflette ancora nel prezzo alla pompa: avete visto quanto cosa la benzina al distributore? Quindi, i dati confermano questa tesi e, anzi, ci sentiamo di dire che il peggio deve ancora venire, perché la bolla non si riflette sull'economia reale solo per effetto indotto ma anche perché i profitti delle grandi imprese internazionali sono stati condizionati pesantemente dall'esposizione finanziaria e quindi la commistione è più rilevante di quanto si creda (quando i bilanci segneranno il rosso i licenziamenti si faranno più dolorosi).
Ma c'è di più, e quel di più riguarda proprio le banche. Se esiste una penalizzazione per alcune di esse, si pensi a Unicredit, non è solo per un'azione speculativa - che pure esiste e spesso è alimentata da settori interni allo stesso mondo bancario - ma anche perché la reale consistenza della crisi non è mai stata denunciata e confessata apertamente. I banchieri fanno la voce grossa rispetto al governo perché ne temono l'influenza al proprio interno e si cautelano da possibili azioni di disturbo e di rimaneggiamento dei propri vertici. Ma in realtà nessuno sa veramente quanti siano i cosiddetti titoli tossici contenuti nei loro forzieri. Anche il governatore Draghi, nella sua audizione al Senato, si è mantenuto sulle generiche, quando invece il problema concreto è proprio quello. Guardiamo, ad esempio, alcuni dati pubblicati domenica da Il Sole 24 Ore e riguardanti il rapporto tra titoli "tossici" e capitalizzazione (cioè il valore complessivo quotato in borsa) dei primi venti istituti finanziari mondiali. Deutsche Bank, ad esempio, ha una capitalizzazione di 26 miliardi e un totale di titoli "illiquidi" (cioè che nessuno è disposto a comprare) pari a 115,6 miliardi; Ubs poggia 63,9 miliardi di "spazzatura" su una capitalizzazione di 51 miliardi e Credit Suisse 100,7 su 45. Chi sta messa meglio è Bank of America che ha "solo" un terzo della sua capitalizzazione esposta in titoli inconsistenti. I dati delle banche italiane non sono disponibili e quindi nessuno si fida veramente. Lo stesso governo italiano, tra l'altro, non ha mai voluto quantificare il grado di copertura pubblica che intende garantire.
La caduta è dunque logica anche perché nel corso degli ultimi dieci anni i profitti delle banche italiane sono cresciuti in misura esponenziale: calcolato dal 1996 a giugno 2008 il rendimento medio annuo delle banche italiane è ancora del 12% contro l'11% dei titoli industriali e solo il 6,5% di quelli assicurativi. C'è ancora spazio dunque per ribassi. Anche perché, scendendo le quotazioni i dirigenti aziendali sono sempre più deboli ed esposti a quei rimaneggiamenti di cui sopra. L'unica via di uscita sarebbe quella delle fusioni e delle alleanze, magari internazionali e non è da escludere che qualche sorpresa possa arrivare a breve. Anche se recentemente un dirigente di un'importante banca italiana commentava ridendo: «Noi ci vorremmo fondere, ma in queste condizioni chi ci si piglia?».

Liberazione 23/10/2008

La Ces verso la mobilitazione sull'orario di lavoro

I sindacati europei all'Ue: basta i soldi alle banche

Fabio Sebastiani
Salvare l'Europa dagli speculatori finanziari, salvare i salari dalle banche centrali e salvare l'economia reale dalla catastrofe delle borse. Sul disastro del "casino capitalism", come l'ha più volte definito il segretario generale della Ces John Monks, interviene il sindacato europeo che due giorni fa ha mandato una delegazione, guidata dalla presidente Wanja Lunddby-Wedin, al summit europeo. All'Europa dei 27 le organizzazioni dei lavoratori lanciano delle precise proposte per uscire dalla crisi, nella convinzione che questa fase può essere trasformata in una opportunità «per regolare il funzionamento dei mercati finanziari, evitare gli eccessi futuri e metterli al servizio del bene pubblico». Il tempo a disposizione sembra ormai scaduto, anche perché «i cittadini europei potrebbero non capire perché l'Europa non sta curando i loro interessi mentre si preoccupa molto degli interessi dei mercati finanziari». Il prossimo anno, sembra voler ricordare la Ces, ci saranno le elezioni europee.
Secondo la Ces (Etuc) il primo punto all'ordine del giorno è l'intervento è salvare l'Europa dagli speculatori finanziari attraverso un fondo di ricapitalizzazione europeo. L'obiettivo di questo fondo deve essere sì quello di immettere capitali freschi nel settore bancario ma a fronte di una «divisione del peso delle responsabilità». Collegata a questa operazione deve esserci, inoltre, un intervento sull'economia reale. «Le conseguenze della crisi dei mercati finanziari - si legge in un documento della Ces - ha avuto un grosso impatto sull'economia reale. La disoccupazione è tornata di nuovo a rialzare la testa e la gente non riesce a far fronte ai debiti, soprattutto con le banche. Ciò porterà a un incremento dei "working poor" (lavoratori che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese) e a creare nuovi livelli di esclusione sociale e povertà».
Sui salari, il sindacato europeo chiede una vera e propria svolta. E' da tempo, infatti, che tenta di far capire alla Banca centrale europea come la politica sui tassi di interesse e la conseguente richieste di moderazione salariale sta portando milioni di lavoratori sull'orlo del disastro. In occasione del summit europeo la Ces è tornata a battere lo stesso tasto chiedendo ai leaders del vecchio continente una urgente inversione di tendenza. «Per questa ragione la Etuc propone - si legge ancora nel comunicato - la creazione di un Consiglio europeo dei partners sociali con dentro la Banca centrale europeo». In questo modo si potrà avere un meccanismo di regolazione che attualmente non esiste in quanto la politica economica è affidata di fatto alla Bce che attraverso le periodiche decisioni sul tasso di sconto di fatto orienta pesantemente il corso di tutta la struttura economica del vecchio continente. E proprio per dare un maggiore impulso all'economia reale, il sindacato europeo propone la creazione di un fondo europeo di investimento, con l'obiettivo di promuovere interventi nei settori delle energie rinnovabili, il risparmio di energia, l'innovazione nella rete infrastrutturale europea.
In occasione del summit europeo il sindacato europeo ha presentato le sue richiesta anche in merito alla questione ambientale, «che non deve subire rinvii con la scusa della crisi finanziaria». Insomma, fiutando l'aria, la Ces ha cercato di costruire un argine contro tutti quei paesi, come l'Italia, che giudicano poco opportuno applicare i requisiti di Kyoto alla crescita economica. La Ces ha riproposto ai leaders europei il suo punto di vista: il coordinamento degli stati membri per il raggiungimento di nuovi obiettivi nei settori dell'efficienza energetica e le rinnovabili, l'adozione di strumenti di supporto per quei settori economici, e i relativi lavoratori, che in qualche modo saranno interessati dalla transizione verso un modello di sviluppo sostenibile, come è il caso delle lavorazioni legate al carbone.
«Il casino capitalism - ha sottolineato il segretario John Monks - ha fallito e le politiche devono cambiare registro. L'Europa non può permettere ai suoi membri di perseguire obiettivi legati agli interessi nazionali».
Intanto, i leaders europei hanno messo sotto tiro le remunerazioni esagerate e le liquidazioni d'oro dei manager del settore finanziario. «Il Consiglio europeo richiama con forza alla responsabilità di tutti gli attori del sistema finanziario. I leader sottolineano che la performance reale dei dirigenti deve riflettersi nelle loro remunerazioni, comprese le liquidazioni, paracaduti dorati, che dovrebbero essere in funzione del contributo effettivo dei dirigenti alla riuscita della società», si legge nelle conclusioni del Summit Ue in corso a Bruxelles. «Allo stesso modo bisognerà vigilare affinchè i benefici delle stock option o il sistema di remunerazione, soprattutto nel settore finanziario, non comporti nè una presa di rischio eccessiva nè un'estrema concentrazione sugli obiettivi di breve termine». «Il Consiglio europeo lancia dunque un appello agli Stati membri - concludono i leader europei - affinchè aprano all'applicazione di questi principi e chiede al Consiglio di fare dei rapporti sulle decisioni prese entro l'anno».
Forse per i sindacati europei è un po' poco. Il prossimo confronto è atteso a metà dicembre quando il Parlamento europeo discuterà di allungamento dell'orario di lavoro. La Ces è pronta alla mobilitazione.

Liberazione 17/10/2008

giovedì 23 ottobre 2008

Immanuel Wallerstein

«Il sistema capitalista oggi? Un malato allo stadio terminale»

Antoine Reverchon
La crisi economica attuale segna la fine del capitalismo, è l'opinione del sociologo americano discepolo di Fernand Braudel e ispiratore del movimento altermondialista. A breve, un nuovo sistema emergerà. Sara più redistributivo o più violento? Il campo è aperto

Lei è considerato uno degli ispiratori del movimento altermondialista, nel 2005 lei era tra i firmatari del manifesto del Forum sociale di Porto Alègre («Dodici proposte per un altro mondo possibile»). Ha fondato e diretto il centro Fernand-Braudel per lo studio dell'economia dei sistemi storici e delle civiltà dell'università dello Stato di New York, a Binghamton. Come colloca la crisi economica e finanziaria nei «tempi lunghi» della storia del capitalismo?
Fernand Braudel (1902-1985) distingueva nella storia dell'umanità i tempi della «lunga durata», caratterizzati dal succedersi di sistemi che strutturano i rapporti tra l'uomo e l'ambiente materiale che lo circonda. All'interno di queste fasi individuava dei cicli lunghi congiunturali, descritti da economisti come Nicolas Kondratieff (1882-1930) o Joseph Schumpeter (1883-1950). Oggi ci troviamo chiaramente nella fase B di un ciclo di Kondratieff, iniziato circa 30-35 anni fa dopo una fase A che è stata fino ad ora la più lunga (dal 1945 al 1975) nei 500 anni di storia del capitalismo. Nella fase A, il profitto è generato dalla produzione materiale, industriale o altro; nella fase B il capitalismo per continuare a ricavare profitti deve finanziarsi e rifugiarsi nella speculazione. Da oltre 30 anni le imprese, gli Stati e le famiglie s'indebitano massicciamente. Siamo quindi nell'ultimo tratto della fase B di Kondratieff, quando il declino virtuale diventa reale e le bolle speculative esplodono una dietro l'altra: i fallimenti si moltiplicano, le concentrazioni del capitale aumentano, la disoccupazione progredisce e l'economia conosce una situazione di deflazione reale. Ma questo momento del ciclo congiunturale coincide oggi con un periodo di transizione tra due sistemi di lunga durata che ne aggrava le conseguenze. Sono convinto, in effetti, che da almeno 30 anni siamo entrati nella fase terminale del sistema capitalista. Ciò che differenzia fondamentalmente questa fase dalla successione ininterrotta dei cicli congiunturali passati è il fatto che il capitalismo non perviene più a «farsi sistema», nel senso in cui lo intende la fisica e chimica Ilya Prigogine (1917-2003): cioè quando un sistema, biologico, chimico o sociale, devia troppo sovente dalla sua situazione di stabilità e non arriva più a ritrovare l'equilibrio. Si assiste allora a una biforcazione: la situazione diventa caotica, incontrollabile per le forze che la dominavano fino a quel momento. Emerge in questo modo una lotta non più tra sostenitori e avversari del sistema, ma tra tutti gli attori che lo compongono per arrivare a determinare ciò che potrebbe rimpiazzarlo. Personalmente riservo la parola «crisi» a questo tipo di periodi. E bene, oggi siamo in crisi. Il capitalismo è giunto alla sua fine.

Ma perché invece di una crisi finale non si tratterebbe piuttosto di una nuova mutazione del capitalismo, che dopo tutto ha già conosciuto il passaggio dalla fase mercantile a quella industriale e poi ancora a quella finanziaria?
Il capitalismo è onnivoro, capta il profitto là dove è più importante in un momento dato. Non si contenta dei piccoli profitti marginali, al contrario tende a massimizzarli creando dei monopoli. Ha cercato ancora di formarli ultimamente nelle biotecnologie e nelle tecnologie dell'informazione. Credo però che le possibilità d'accumulazione reale del sistema abbiano raggiunto il loro limite. Dalla sua nascita nella seconda metà del XVI secolo, il capitalismo si nutre del differenziale di ricchezza tra un centro, nel quale convergono i profitti delle periferie (non per forza geografiche) sempre più impoverite. Il recupero economico dell'Asia dell'Est, dell'India e dell'America latina costituisce una sfida insormontabile per «l'economia-mondo» creata da un Occidente che non arriva più a controllare i costi dell'accumulazione. Da decenni le tre curve mondiali dei prezzi della manodopera, delle materie prime e delle imposte sono ovunque in forte rialzo. Il breve periodo neoliberale che sta terminando ha invertito solo provvisoriamente la tendenza: alla fine degli anni 90, questi costi erano certo meno elevati che nel 1970, ma molto più importanti del 1945. Infatti, l'ultimo periodo d'accumulazione reale - i «trenta gloriosi» - è stato possibile soltanto perché gli Stati keynesiani hanno messo le loro forze al servizio del capitale. Ma anche qui il limite è ormai raggiunto!

Ci sono dei precedenti simili alla fase attuale, come quelli che hai appena descritto?
Ce ne sono molti nella storia dell'umanità, contrariamente a quanto ci viene riportato dalla rappresentazione di un progresso continuo e inevitabile, forgiata nella metà del XIX secolo e presente anche nella versione marxista. Per quanto mi riguarda, preferisco attenermi alla tesi della possibilità del progresso e non della sua ineluttabilità. Certo il capitalismo è il sistema che ha saputo produrre, in modo straordinario e stupefacente, il maggior numero di beni e di ricchezza. Ma occorre guardare anche alla somma delle perdite che ha generato nell'ambiente e nella società. Il solo vero bene è quello che permette d'ottenere una vita razionale e intelligente per il maggior numero di persone. Ciò detto, la crisi più recente che può vantare delle somiglianze con quella di oggi è il crollo del sistema feudale in Europa, tra la meta del XV e del XVI secolo, e la sua sostituzione col sistema capitalista. Questo periodo che culmina con le guerre di religione vede crollare il dominio delle autorità monarchiche, signorili e religiose sulle più ricche comunità contadine e sulle grandi città. È in quel contesto che prendono forma, dopo ripetuti tentativi e in modo incosciente, delle soluzioni inattese e il cui successo finirà per «fare sistema», estendendosi poco a poco nella forma del capitalismo.

Per quanto tempo ancora la transizione attuale dovrà durare e quale sarà lo sbocco possibile?
Il periodo della distruzione del valore che chiude la fase B di un ciclo di Kondratieff dura generalmente dai due ai cinque anni prima che si trovino riunite le condizioni d'entrata nella fase A, ovvero quando un profitto reale può di nuovo essere ricavato dalle rinnovate produzioni materiali descritte da Schumpeter. Ma il fatto che questa fase corrisponda attualmente ad una crisi di sistema ci ha fatto entrare in un periodo di caos politico, durante il quale gli attori dominanti alla testa delle imprese e degli Stati occidentali tenteranno tutto ciò che è tecnicamente possibile per ritrovare l'equilibrio. Ma è molto probabile che non ci riusciranno. I più intelligenti hanno già capito che bisogna mettere mano a qualcosa d'interamente nuovo, anche se dei molteplici attori stanno già agendo in maniera disordinata e incosciente per far emergere delle nuove soluzioni, senza che però si sappia ancora quale sistema verrà fuori da questo stato confusionale. Siamo in un momento molto raro, nel quale la crisi e l'impotenza dei potenti lasciano posto al libero arbitrio di ognuno. Si è aperto un lasso di tempo all'interno del quale vi è la possibilità d'influenzare l'avvenire con la nostra azione individuale. Ma poiché questo futuro sarà la somma di un numero incalcolabile di azioni, è assolutamente impossibile prevedere quale modello s'imporrà alla fine. Tra 10 anni si riuscirà forse a vedere più chiaro. Tra 30 o 40 un nuovo sistema avrà visto la luce. Alla fine però non è da escludere che possa venirne fuori un sistema di sfruttamento ancora più violento del capitalismo piuttosto che un modello sociale più egualitario e redistributivo.

Le precedenti mutazioni del capitalismo sono spesso sfociate in uno spostamento del centro dell'«economia-mondo», per esempio dal bacino mediterraneo verso la costa atlantica dell'Europa, poi verso quella degli Stati uniti. Il sistema che verrà sarà centrato sulla Cina?
La crisi che viviamo corrisponde anche alla fine di un ciclo politico, quello dell'egemonia americana già avviato negli anni 70. Gli Stati uniti resteranno un attore importante, ma non potranno più riconquistare la loro posizione dominante di fronte alla moltiplicazione dei centri di potere, con l?Europa occidentale, la Cina, il Brasile, l'India. Se facciamo riferimento al tempo lungo braudeliano, per imporsi un nuovo potere egemonico può richiedere ancora cinquanta anni. Ignoro tuttavia quale potrà essere. Nell'attesa le conseguenze politiche della crisi attuale saranno enormi, nella misura in cui i padroni del sistema cercheranno di trovare dei capri espiatori per giustificare il crollo della loro egemonia. Ritengo che la metà del popolo americano non accetterà quello che sta succedendo. I conflitti interni si accentueranno in un luogo come gli Stati uniti che stanno per divenire il paese del mondo più instabile politicamente. E non bisogna dimenticare che noi, gli Americani, siamo tutti armati…

Da Le Monde del 12-12 ottobre 2008-10-14
(Traduzione di Paolo Persichetti)

Liberazione 16/10/2008

Orario lavoro, direttiva di Bruxelles

Con la nuova direttiva di Bruxelles si potrà arrivare a 78 ore senza accordi collettivi
Orario, sabato Se in piazza contro le 65 ore

Roberto Musacchio
«No alle 65 ore, si al lavoro dignitoso», firmato Gue (Gruppo parlamentare europeo della Sinistra unitaria). Sarà la scritta che apparirà sulle magliette che indosseremo sabato alla manifestazione di Roma. Sperando di poterle tornare ad indossare per la manifestazione europea contro la direttiva che potrebbe esser indetta a Bruxelles per i primi di dicembre, e che fortemente auspichiamo. E sperando di fermarle veramente queste maledette 65 ore. Per riuscirci dobbiamo far crescere la mobilitazione. Solo ora ci si comincia a rendere conto di cosa significa l'arrivo di una disposizione che consente ai padroni d'imporre le 65 ore.
E anche di più. E sì, perché già oggi è in vigore un'altra direttiva che prevede si possa lavorare 13 ore al giorno, recepita nel 2003 dal Governo Berlusconi di allora. Ma poi però c'è ancora l'orario settimanale, le 48 ore, e ci sono i contratti. Con la nuova direttiva invece il calcolo dell'orario si fa annuale, addirittura i riposi settimanali possono essere rimandati nel tempo, e dunque si possono arrivare a 78 ore e si può fare a meno anche degli accordi collettivi. E' il testo che arriva in Parlamento con mittenti i governi che hanno stracciato il già assai discutibile compromesso partorito dal Parlamento stesso in prima lettura. Almeno lì si "scambiava" l'annualizzazione del calcolo con la fine dell'opt-out, e cioè degli accordi individuali in deroga a quelli collettivi. Ora, dopo la sentenza Laval, quella per cui i contratti nazionali contanto solo fino a un certo punto, il nuovo testo si prende sia l'annualizzazione che l'opt-out. Nell'Europa della crisi delle banche, dei frutti amarissimi di Maastricht, sarebbe un affronto colpire così i lavoratori.
Che cominciano a mobilitarsi. La Fiom ha chiesto la manifestazione europea. In Spagna, per la recente giornata a sostegno del lavoro dignitoso, si è scesi in più di 40 piazze contro la direttiva. E sempre in Spagna si è mossa anche la sinistra, al punto che il Parlamento ha approvato addirittura all'unanimità un testo durissimo.
Abbiamo cominciato a lavorare anche come deputati europei progressisti e di sinistra per creare condizioni di contrastare il testo dei governi. Del resto l'allora governo Prodi, al pari di quello spagnolo, lo aveva bloccato. E il nuovo Berlusconi ha cambiato la posizione del nostro paese. Sarà bene chiedergliene conto, anche domandando cosa ne pensa ad esempio la cosiddetta destra sociale e le sue organizzazioni sindacali. Questa battaglia ha tanti valori. Uno assai concreto e riguarda la vita ei lavoratori. L'altro concerne la struttura contrattuale così duramente attaccata: se si toglie il ruolo sindacale sull'orario tutto il poter contrattuale residuo è minato. Ma poi c'è un valore simbolico e di civiltà. Se dalle 48 ore delle conquiste del secolo scorso e dalle 35 ore simbolo di una stagione di riforme mancate, arriviamo alle 65, questo è il segno di una sconfitta storica.
Dobbiamo farla dunque questa battaglia. E farla su una dimensione nuova, quella europea. Del resto è per questo che abbiamo pensato il Partito della sinistra europea.
Europarlamentare e capogruppo Prc-Se

Liberazione 09/10/2008

Austria, l'estrema destra verso la riunificazione?

Il leader della Fpo Schassel lancia un appello all'ex partito di Haider

Alexandra Föderl-Schmid
Il paesaggio politico austriaco è alla vigilia di profondi sconvolgimenti. E' infatti impossibile concepire un partito come il Bzo privo di Jörg Haider, né in Carinzia di cui era governatore, né a livello federale. Stiamo parlando di una formazione che doveva tutto il suo successo alla persona di Haider. In tal senso è logico che Heinz-Christian Strache,
leader della Fpo (abbandonato da Haider nel 2005 per fondare la Bzo). gli abbia lanciato un'offerta di fusione.
Sapendo che con Haider in vita non aveva alcuna possibilità di poter guidare un grande partito unificato, Strache si era fin qui sempre opposto ad ogni prospettiva unitaria. Nessun partito può infatti sostenere due egocentrici al comando. C'è anche da dire che nessuno si aspettava che Haider, dopo il suo gran ritorno sulla scena nazionale dutante le legislative del 28 settembre, si ripiegasse sulla Carinzia.
Jörg Haider ha cambiato il volto dell'Austria, le reazioni che ha suscitato dimostrano fino a che punto ha avuto influenza. Nel 1991 elogiava la «buona politica sociale» del reich nazista. Una vague di indignazione aveva allora scosso il paese; Haider venne escluso dal parlamento regionale della Carinzia. Dieci anni dopo, quando non permise l'istallazione di cartelli stradali bilingue (tedesco e sloveno) disobbedendo alle leggi dello Stato, non successe nulla. Dopo l'inquietudine legata alla coalizione "nero-blu" (che nel febbraio 2000 univa la destra moderata e quella estrema nel sostegno al cancelliere democristiano Wolfgang Schüssel), gli stessi leader della protesta si sono presto rassegnati. Nel frattempo Haider era diventato più abile, mostrandosi più conciliante e moderato.
Dalla metà degli anni 80 è però riuscito a far passere tra i costumi nazionali molte cose che fino ad allora venivano considerate tabù. Questo non riguarda soltanto le esternazioni filo-naziste, ma anche le sue invettive, spesso smodate, contro «quelli che stanno in alto», che hanno polarizzato e alterato il dibattito politico nel Paese. Socialdemocratici (Spo) e democristiani (Ovp) si sono in qualche modo "haiderizzati" anche loro; persino il centrosinistra si è unito alle campagne contro l'Unione europea. Durante l'ultima campagna elettorale, la Spo si è sforzata di copiare lo stile populista di Haider, rivolgendosi alla «gente comune», chiedendo l'abbassamento dell'Iva. Con le sue diatribe xenofobe Haider è stato precursore degli slogan dell'Ovp come «gli stranieri devono parlare tedesco». Con il suo stile "legge e ordine" la ministra dell'interno Maria Fekter (Ovp) si è fatta sentire soprattutto in Carinzia. L'ex cancelliere Schüssel, che voleva «addomesticare» Haider cooptandolo, ha decisamente fallito, così molti dei suoi hanno preferito votare per "l'originale".
Ciò che accadrà a quello che viene chiamato terzo polo (il polo liberale) dipenderà in parte dalla concorrenza. Per gli altri partiti si tratterà di gestire la pesante eredità di Haider. Come ci mostra l'analisi dei flussi elettorali molti ex elettori dell'Ovp hanno migrato verso la Bzo, mentre lo stesso fenomeno è accaduto dalla Spo alla Fpo. E quasi un elettore su due tra i meno di 30 anni ha scelto Bzo e Fpo. I Verdi non sono più la formazione politica che seduce i giovani. Questi nuovi elettori resteranno fedeli alle loro scelte? Ciò dipenderà in larga misura dal comportamento dei partiti tradizionali, ridotti a una taglia "medium". Hanno capito che il messaggio essenziale di questo voto rappresenta un rigetto del loro modo di far politica? Al di là di tutti i suoi difetti Haider ha messo in evidenza tutti i mali politici dell'Austria, i suoi piccoli accordi tra amici e l'arroganza di chi è al potere.
Ci vorrà dunque una reazione della politica, un ritorno al rispetto dello Stato di diritto in questo Paese. Gli stranieri devono tornare ad essere considerati come concittadini e non come potenziali criminali. In altri termini bisogna impedire una nuova "haiderizzazione" dell'Austria.
(Der Standard)

Liberazione 15/10/2008

E il vecchio Marx sogghigna

Le Borse continuano a precipitare. Milano perde quasi 6 punti. Unicredit a -12.
Le Banche centrali riducono il costo del denaro (meno 0,5%). Londra, interviene lo Stato con 200 mld
La crisi economica divampa su scala mondiale. Per il Fmi «è peggio del 1930». L'autore del Capitale aveva visto lungo
E il vecchio Marx sogghigna: «Capitalisti, vi avevo avvertito...»

Salvatore Cannavò
Per quanto si affannino nel mettere al riparo il sistema, ricorrendo ai vari brunovespa, a commentatori compiacenti, a giornalisti economici inconsistenti, il faccione barbuto del buon vecchio Marx scruta la crisi dall'alto, compiaciuto. Guarda la folla di Wall Street, la faccia pallida di Profumo, quella inebetita di Bush o quella di cera di Berlusconi con un sorriso sornione come di chi ripete instancabilmente: «Vedete che avevo ragione?» e magari scalpita per poter tornare ad aggiornare dati e contesto di quell'opera - Il Capitale - che lo consacra come l'interprete fondamentale del capitalismo. Marx aveva ragione, gli analisti seri lo sanno: certo non poteva prevedere il ruolo inedito di Cina e India, né che un capitalismo malato si sarebbe inventato i titoli "salsiccia" - quelli dove dentro ci sta di tutto ma nessuno sa con precisione cosa contengano. Ma se potesse guardare le convulsioni dei "talebani del libero mercato" e sentire la voce imbarazzata di chi si prodiga a rappresentare gli interessi dei titoli spazzatura - tra loro giornalisti e ministri di ogni paese - oggi Marx direbbe semplicemente che lo sviluppo del capitale commerciale o finanziario è inversamente proporzionale al saggio di profitto garantito da investimenti produttivi. Insomma, che la crisi è figlia della caduta tendenziale del saggio di profitto.

E' in effetti ciò che è accaduto nel ciclo di crescita lenta degli ultimi trenta anni, quella fase di stagnazione dell'economia mondiale che, dopo lo shock petrolifero del '73-'74, non ha più conosciuto - tranne che per la Cina, l'India o il Brasile - i tassi di crescita dell'età dell'oro seguita alla Seconda Guerra Mondiale. Una stagnazione caratterizzata da una tendenziale saturazione dei mercati di sbocco e da una conseguente tendenza ribassista dei saggi di profitto. Da qui lo sbocco nell'economia di carta, in quella finanza che Marx chiamava capitale fittizio e che, guarda caso, periodicamente, secondo un ritmo implacabile, viene letteralmente distrutta dal crollo puntuale delle borse. E' accaduto nel '97 con la crisi asiatica, era accaduto nel '94 con quella messicana, e poi nel 2001 con l'esplosione della new economy, fino ad arrivare ai vertici giganteschi dell'attuale crisi, la più pesante, quella che forse ridisegnerà equilibri e rapporti di forza a livello mondiale.
Ancora Marx, molto compitamente (citiamo Il Capitale, stavolta), avrebbe segnalato che «il vero limite della produzione capitalista è il capitale stesso; è il fatto che in essa sono il capitale e la sua stessa valorizzazione che costituiscono il punto di partenza e quello di arrivo». La produzione per la produzione, «lo sviluppo incondizionato delle forze sociali produttive» è un mezzo che «si scontra costantemente con il fine perseguito che è un fine limitato: la valorizzazione del capitale esistente». Una contraddizione esaltata dalla natura del capitalismo, dalla sua anarchica competizione selvaggia che non assume un punto di insieme, rifugge dalla regolazione salvo poi cercarla puntualmente quando i tassi di profitto sprofondano, il crollo allaga la stiva del sistema e la paura rende il gotha del capitalismo mondiale simile a tanti topolini ciechi che sbattono la testa al muro alla ricerca di "mamma Stato". Uno spettacolo disgustoso.
Quello che accade in questi giorni, e il peggio che dovrà ancora accadere - non ci si illuda delle rassicurazioni, la crisi è pesante e si riverberà sulle condizioni reali, produzione, salari, consumi, financo sui fondi pensioni ancora oggi raccomandati dai ministri-vampiri del governo Berlusconi - somiglia a uno spettacolare processo al capitalismo senza che purtroppo ci sia un Pubblico Ministero all'altezza del compito (Di Pietro, in questo caso, davvero non è adatto...). Un atto di accusa contro quell'ondata liberista, avviata nei primi anni 80 e capitanata da Reagan e Thatcher - e che via via ha attratto l'intero spettro della politica, a cominciare dalla socialdemocrazia divenuta liberale - quando la necessità di tenere alto quel saggio di profitto decadente ha imposto di tagliare i salari, ridurre lo stato sociale, aumentare la produttività del lavoro, realizzare il più grande trasferimento di ricchezza tra le classi avutosi dalla nascita del capitalismo a oggi. Così facendo si è ridotta la domanda globale, si è realizzata una sovrapproduzione che ha dirottato capitali nel sistema finanziario. Basta con la frottola della "finanza cattiva" che si mangia il capitalismo buono e produttivo come vanno ripetendo gli arroganti esponenti di Confindustria (e del governo o dell'opposizione) nei vari salotti televisivi. Nel 2006 i profitti delle principali aziende quotate a Wall Street derivavano per oltre il 33% da attività finanziari e lo stesso è accaduto in Italia. Senza contare l'intreccio perverso e pervasivo tra banche e industrie e tra tutti i principali attori di questo balletto globale che si chiama capitalismo.
Quanto accade è però anche un atto di accusa contro l'illusione della "gestione temperata" del capitalismo, a opera di uno Stato severo e compiacente allo stesso tempo. Gli osservatori attenti e onesti, infatti, sanno bene che la responsabilità di Bush nel provocare il disastro è certa ma sanno anche che la bolla speculativa, con il suo corredo di deregolamentazione, è stata incubata dall'amministrazione Clinton, in piena Terza via.
Il capitalismo si serve dello Stato come un servo sciocco: ne occupa i posti chiave per dirottare le risorse - che dire del presidente della Goldman Sachs, Paulson, che diventra Segretario al Tesoro Usa, fa fallire la Lehman Brothers e invece salva...la Goldman Sachs? - e poi lo spreme per salvarsi dalla catastrofe. In questi giorni tutti i governi stanno salvando le banche e i banchieri (vedi il "comitato di affari della borghesia" di quel Manifesto che fa ascolti record su ITunes) ma nessuno muove un dito per quei poveracci che hanno perduto la casa e sono accampati in una Tendopoli tra la California e il Messico; nessuno interviene là dove si deve intervenire, a sostegno dei salari dei lavoratori anche per dare ossigeno alla domanda globale; nessuno mette sotto processo una torma di speculatori, pescecani e parassiti che hanno contribuito attivamente al disastro attuale. Al danno, si aggiungerà la beffa di uno Stato nazionale che salvando otto banche in Gran Bretagna, quattro o cinque negli Usa, tutto il sistema in Irlanda e in Germania, favorirà al termine della crisi una superconcentrazione bancaria mai vista (saranno probabilmente solo tre le grandi banche che si spartiranno il potere negli Usa).
Delle tante definizioni che si possono utilizzare e che sono state utilizzate per descrivere il capitalismo, quella che mi è rimasta sempre in mente è quella che utilizza un celebre dipinto di Bruegel: "Pesce grande mangia pesce piccolo". Oggi sembra che tutti i pesci stiano boccheggiando ma l'esito della crisi sarà quello. Marx ce l'aveva chiaro e lo ha scritto. E' ora di tornare a leggerlo con attenzione. Senza scimmiottare D'Alema che forse non lo ha mai capito, ma senza fare sconti a quel sistema di cui lui auspicava la fine.

Liberazione 09/10/2008

E il capitalismo verrà rianimato dal drago cinese

Salvatore Cannavò
La finanza internazionale, le banche, gli stati occidentali guardano con attenzione a quanto avviene nel paese di Mao Tze Tung. Il prossimo anno la Cina celebrerà il 60° anniversario della Rivoluzione comunista - bel paradosso per un paese che è orientato a inserirsi pienamente nel capitalismo mondiale - e gran parte del mondo capitalista spera che le sue eccedenze valutarie, la sua crescita impetuosa, il suo consolidamento internazionale possano costituire dei fattori di controbilanciamento alla crisi finanziaria globale e di contenimento alla recessione che ormai è annunciata e i cui effetti si faranno sentire proprio nel 2009.
La Cina, del resto, non smette di stupire come ha dimostrato anche nell'organizzazione delle recenti Olimpiadi. La crescita del suo Pil si aggira attorno all'8-9%, l'inflazione, oggi al 6,4% viene prevista nel 2009 al 4%, il suo bilancio è in nero, con un +0,4% sul Pil, le sue riserve valutarie ingenti così come il surplus con l'estero. Insomma, un attore di primaria grandezza che, seppur sempre più interno ai meccanismi del capitalismo globalizzato, mantiene oltre la metà della sua popolazione al riparo delle dinamiche economiche globali, che può contare su un ruolo dello Stato oggi invidiato dalle stesse banche commerciali statunitensi e che ha una centralizzazione politica dura e infame sul piano delle libertà civili e sindacali ma non per questo meno efficace su quello della regolamentazione delle storture di mercato. Insomma, la Cina è un osservato speciale e forse in lei vengono riposte molteplici speranze. Ma è proprio così? Davvero si potrà raccontare di un capitalismo salvato dalla Cina?
Difficile rispondere alla domanda e prevedere l'evoluzione delle dinamiche economiche. Ma alcuni elementi possono essere sintetizzati. Innanzitutto, la crisi ha già contagiato Pechino. La sua poderosa crescita del Pil (anche per il quinquennio 2009-2013 si prevedono tassi di crescita del Pil dell'8%) deve fare i conti comunque con un rallentamento rispetto agli anni passati (nel 2007 l'incremento era sopra l'11%) in gran parte dovuto al rallentamento delle esportazioni. Tutti i dati parlano di un calo generalizzato dell'economia cinese e non a caso la Banca del Popolo ha realizzato un taglio del tasso di interesse a settembre per dare un segnale di fiducia agli investimenti e ai consumi. Dall'inizio dell'anno, poi, la borsa di Hong Kong ha perso il 35% contro il -26% dell'indice S&P di New York.
I fattori di debolezza poggiano sulle caratteristiche principali della crescita e del boom cinese che dipendono per il 40% dalle esportazioni e per un 45% dall'investimento interno che continua a crescere a un ritmo del 25% annuo come rilevato da un recente studio sullo stato della salute cinese redatto da The Economist. Poiché buona parte della crescita dei consumi globali nel periodo 2001-2007 sono dipesi dal rigonfiamento del credito statunitense - che ha sostenuto la domanda Usa e così anche l'export Ue e cinese - il suo rallentamento non potrà non avere conseguenze sull'economia di Pechino. Basta leggere il Quotidiano del Popolo per accorgersi che questa è oggi la principale preoccupazione del gruppo dirigente cinese unitamente ai timori di un ricorso a dazi e protezionismi da parte dell'Unione europea, cioè l'altro grande mercato di riferimento.
Questo squilibrio oggi non può essere immediatamente compensato da una crescita della domanda interna. Come abbiamo detto questa dipende soprattutto dagli investimenti - spesso disordinati e caoticamente determinati dalle varie province locali e dalle competizioni tra i vari apparti di partito - su cui convergono molti investimenti stranieri. Ma la loro ulteriore crescita rischia di innescare una crisi di sovrainvestimento e di sovrapproduzione con effetti perversi anche sul sistema creditizio. Senza considerare che questo può spingere al rialzo l'inflazione.
In un recente commento pubblicato sull'edizione inglese del Quotidiano del popolo si leggono queste preoccupazioni e si intravedono alcune risposte: "Il nostro principale scopo oggi non è produrre più beni o costruire nuovi e più alti grattacieli ma di sostenere i consumi". Questa attenzione al "sociale" non è isolata. Da tutt'altra parte, negli Usa, sta facendo discutere un libro sul capitalismo cinese a opera di Yasher Huang, professore del prestigioso Mit di Boston, che mette l'accento sugli squilibri sociali di fondo che esistono in Cina e sulla necessità, per il governo di Pechino, di farvi fronte cercando di intervenire sulle campagne - 800 milioni di cinesi sono legati alla terra - in direzione del sistema sociale e di quello ambientale. Huang pone l'accento sull'arretratezza del sistema scolastico e sociale come fattori che dimostrano una debolezza di fondo del capitalismo cinese e che se non governati potrebbero esplodere. In tempi di riscoperta dell'intervento pubblico una discussione su un nuovo keynesismo potrebbe paradossalmente farsi strada in Cina. Forse non basterà a salvare le banche di Wall Street- ed eventualmente quelle europee - ma non è detto che questa sia la priorità oggi di Pechino.

Liberazione 08/10/2008

lunedì 6 ottobre 2008

Vittoria nucleare per l’India

Quale paese del mondo è pronto a spendere 175 miliardi di dollari per costruire nuove centrali nucleari, diventando un protagonista mondiale del “revival” dell’energia atomica? Se questa domanda viene posta a un cittadino europeo o americano, è poco probabile che indovini la risposta giusta. E’ l’India la nazione a cui guardano oggi la General Electric, Westinghouse e gli altri colossi occidentali che fabbricano reattori nucleari. Mentre il resto del mondo aveva gli occhi puntati altrove – sulle crisi bancarie o sulle elezioni americane – l’India è stata al centro di una svolta storica. Ha spezzato 34 anni di isolamento e sanzioni, un vero e proprio “apartheid nucleare” che le impediva di acquistare tecnologia atomica nel resto del mondo. L’embargo scattò in seguito a uno strappo indiano, quando New Delhi decise una fuga in avanti per dotarsi dell’arma nucleare. Nel 1974 e nel 1998 fece dei test condannati dalla comunità internazionale. Rifiutò di aderire al trattato sulla non-proliferazione. Lo rifiuta tuttora, e sostanzialmente la sua posizione non è cambiata dai tempi in cui Indira Gandhi varò il programma dell’atomica. Da allora si sono succeduti governi di diverso colore, maggioranze con dentro i comunisti oppure i nazionalisti indù, ma sulla Bomba la linea è la stessa. L’India si convinse di averne bisogno quando fu sconfitta dalla Cina e le colonne dell’Esercito Popolare di Liberazione comandato da Mao Zedong arrivarono a poca distanza da New Delhi. L’attaccamento all’arsenale nucleare si rafforzò per l’appoggio dell’America al Pakistan, con cui l’India ha combattuto diverse guerre. Per queste ragioni strategiche gli indiani per un terzo di secolo hanno sfidato l’ira delle altre potenze, hanno incassato tutte le sanzioni. Ora di colpo cosa è cambiato? Non il comportamento dell’India, ma il “valore” dell’India. Di fronte all’ascesa della potenza cinese – non solo sul piano economico ma anche militare – gli Stati Uniti si sono convinti ad accantonare ogni principio pur di corteggiare l’India. La speranza degli americani è di poter coinvolgere l’India in un ruolo amico, per contenere l’espansione dell’influenza cinese nel mondo. L’India non ha mai detto che ci sta a giocare questo ruolo. Ma per ingraziarsela gli americani le hanno fatto un regalo eccezionale. Poco prima dell’uscita di scena di George Bush, la sua Amministrazione ha convinto il Congresso a levare l’embargo sulle forniture di tecnologia nucleare civile all’India. La stessa cosa faranno le altre 45 nazioni che avevano aderito alle sanzioni contro New Delhi, comprese la Francia e la Russia che sono anch’esse interessate a entrare nel business della vendita di reattori nucleari. E così di colpo l’India diventa il mercato più desiderato da tutta l’industria atomica mondiale. New Delhi non ha concesso praticamente nulla in cambio: solo un simbolico diritto d’ispezione nelle 14 centrali nucleari già esistenti; ma restano top secret gli otto impianti militari. Il via libera alla costruzione di molte centrali atomiche aggiuntive, insieme con il sacro rispetto per la Bomba, è uno degli aspetti dell’India contemporanea che stupiscono gli occidentali. Si concilia male con la semplificazione stereotipata che descrive il gigante asiatico come un paese impregnato di pacifismo e nonviolenza. Il paradosso è che tra i maggiori difensori dell’arsenale nucleare ci sono proprio gli indù. Lo spiega bene Sunil Khilnani, un giovane intellettuale di New Delhi allevato a Trinity Hall e al King’s College di Cambridge. Acuto studioso della storia del suo paese, Khilnani ha fatto la sua carriera accademica all’estero tra Inghilterra, Stati Uniti e Francia. La sua opera più importante, “The Idea of India” ha ricevuto il plauso del premio Nobel Amartya Sen. Khilnani sfida gli stereotipi che abbiamo sull’India. “Una delle più inquietanti immagini nella storia recente del mio paese – ricorda – è la processione di fedeli indù vestiti di tuniche color zafferano che nel 1998 andarono nel deserto del Rajahstan dove l’India aveva appena compiuto cinque test nucleari: i pellegrini raccoglievano sabbia radioattiva da portare in giro per il paese come una reliquia sacra. Fu una svolta, un cambiamento repentino dell’idea che l’India ha di se stessa. Un paese costruito sul pluralismo religioso e il pacifismo è minacciato da uno sciovinismo religioso che inneggia all’atomica”.

http://rampini.blogautore.repubblica.it/2008/10/03/vittoria-nucleare-per-lindia/

venerdì 3 ottobre 2008

Nucleare, il Senato approva storico accordo con l'India

Nucleare, il Senato approva storico accordo con l'India

Il Senato degli Stati Uniti ha approvato l'accordo che permette a Washington di vendere tecnologia e materiale nucleare civile all'India. Dopo l'approvazione con 298 voti favorevoli e 117 negativi di sabato scorso alla Camera, al senato una nettissima maggioranza, 86 favorevoli e 13 contrari, ha così dato il via allo storico provvedimento. Una misura che rovescia la politica che gli Stati Uniti hanno seguito negli ultimi trent'anni in cambio dell'assenso di Nuova Delhi ad ispezioni internazionali del suo programma nucleare civile. «Questa legge permetterà di rafforzare i nostri sforzi per la non proliferazione globale - ha detto il presidente George Bush che aveva firmato l'accordo con il primo ministro indiano Manmohan Singh nel 2006 - la protezione dell'ambiente, la creazione di nuovi posti di lavoro. E ci permetterà di aiutare l'India a rispondere alla crescente domanda di energia in modo responsabile». Al termine di complicati negoziati di natura tecnica, seguiti alla firma dell'accordo politico di due anni fa, tesi soprattutto ad evitare che la tecnologia americana possa essere usata per il programma nucleare militare indiano, Bush aveva chiesto al Congresso di approvare in fretta la misura per permettere all'industria americana di competere per gli appalti nell'emergente settore energetico indiano.
Il senatore repubblicano Richard Lugar, commentando il via libera all'accordo, ha speso parole entusiaste, spiegando che si tratta di «una delle iniziative strategiche e diplomatiche più importanti prese negli ultimi dieci anni». La partnership d'altra parte era una priorità anche per il capo del governo indiano: «il presidente Bush ha giocato un ruolo storico nell'avvicinare le nostre due democrazie», aveva detto il primo ministro Manmohan Singh nel corso della sua visita a Washington giovedì scorso, aggiungendo che sarebbe rimasto «molto deluso» se l'accordo non fosse stato firmato. L'accordo invece è passato sena intoppi, inaugurando una nuova era nelle relazioni economico-energetiche tra i due Paesi.

Liberazione 03/10/2008

L'Europa teme la crisi e si aggrappa alla destra

Voci di un piano europeo anti-crack. Sarkozy invita gli europei del G8 a «rifondare il sistema»

Salvatore Cannavò
L'Europa si aggrappa al piano Paulson-Bernanke sperando che la sua approvazione restituisca serenità oltre Oceano e allevi la pressione sulle banche europee. Ieri il presidente della Bce, il francese Trichet si è detto "fiducioso" che il piano statunitense possa passare cogliendo la differenza di fondo tra le due sponde dell'Atlantico: «Non siamo una piena federazione con un bilancio federale. Ogni Paese deve mobilizzarsi con i propri mezzi» ha spiegato infatti Trichet mettendo il dito sulla piaga che affligge i paesi europei, quel limite che il presidente di turno della Ue, Sarkozy, vuole affrontare nel vertice G4 - i quattro paesi europei del G8 - convocato per sabato prossimo. Il dòmino dei fallimenti giornalieri è destinato a ingrossarsi anche in Europa. Il caso delle banche Fortis e Dexia dimostra infatti quanto il credito europeo sia "intossicato" dalla carta straccia dei titoli legati ai subprime e lo stesso si può dire per Unicredit. Dal fronte delle banche italiane, tra l'altro, si registra un'inquietudine crescente anche perché sono gli stessi dirigenti a non sapere fino in fondo cosa contengono le casse degli istituti di credito e fino a dove può spingersi l'effetto perverso della crisi.
L'Europa dunque rischia e si profilano tempi duri, dunque, come hanno fatto notare le Confederazioni industriali europee, riunite nell'Unice - tra loro anche l'italiana Marcegaglia - al presidente di turno Sarkozy, nell'incontro che si è tenuto due giorni fa all'Eliseo. Incontro nel quale Sarkozy ha sondato gli imprenditori prima di avanzare ufficialmente la proposta di tenere un G4 a Parigi sabato prossimo mettendo attorno al tavolo, oltre a sé stesso, la cancelliera Merkel, Silvio Berlusconi e il premier inglese Gordon Brown. Con loro anche il presidente della Bce, Trichet, il presidente della Commissione europea, Barroso e quello dell'Eurogruppo, Junker.
Che dirà Sarkozy? Dalle indiscrezioni, sembra che il modello di riferimento continui a essere il piano predisposto dall'Amministrazione Usa e che stanotte è passato nuovamente al vaglio del Congresso (e al momento in cui scriviamo non conosciamo l'esito del voto). Si parla di un piano di circa 300 miliardi di euro, ma i francesi smentiscono sia la loro proposta, a disposizione di un Fondo di salvataggio delle banche soggette a default. Il fondo potrebbe essere assegnato alla Bei, la Banca europea degli investimenti, per la quale, poche settimane fa, era stato l'italiano Tremonti a immaginare un ruolo più interventista anche se di sostegno alle attività produttive piuttosto che di assunzione dei rischi bancari. A rincarare il profilo "interventista" ci ha pensato lo stesso Berlusconi che, dopo le asserzioni della vicenda Alitalia, ha ieri assicurati che il suo governo non permetterà alcun fallimento di alcuna banca italiana.
La destra europea, quindi, come quella statunitense è condannata a volgere le spalle al proprio credo liberista e a resuscitare un interventismo statale che sembrava sepolto? Le cose stanno apparentemente così ma in profondità e nella sostanza sono diverse. La pretesa di Tremonti e Sarkozy, o dello stesso Bush, di assegnare alle proprie misure una patina neokeynesiana, non regge. Quella politica - cui la sinistra europea resta agganciata non immaginando, dopo 80 anni alcun avanzamento - puntava a sostenere la domanda aggregata interna, a gestire la politica monetaria in funzione della produzione e dei consumi, immaginando un circolo virtuoso che poggiasse sulla produzione di beni, immateriali e non. Oggi invece si tratta semplicemente di salvare speculatori e affaristi per evitare che il sistema nel suo insieme salti per aria. Gli statisti di oggi si occupano soprattutto di salvare le banche d'affari da cui provengono - eclatante il caso del ministro del Tesoro Usa, Paulson, già amministratore delegato di Goldman Sachs, salvata dal fallimento all'ultimo momento.
Allo stesso tempo, questa destra legata intimamente alla finanza - si pensi a Berlusconi il cui conflitto di interessi lo pone al centro di un tela politico-finanziaria esplicitata dai casi Alitalia e Mediobanca, o a Sarkozy che esibisce le vacanze in barca con il magnate della pubblicità mondiale, Bollore, anch'egli socio di Mediobanca - è costretta a ricorrere allo Stato per gestire la contraddizione principale del nostro tempo: quella tra una globalizzazione finanziaria che sembra non conoscere frontiere, e uno Stato nazionale che resta ancora il depositario degli aspetti normativi oltre che sociali e securitari.
La destra conservatrice si incarica così di gestire il binomio Stato/globalizzazione ma non bisogna farsi illudere dall'apparenza dei fatti. Non c'è una destra che scavalca a sinistra la sinistra: la destra, anzi, ricorre ad alcuni suoi capisaldi, il ricorso al protezionismo statale risolvendo verso "l'alto" le contraddizioni esistenti e adottando una centralizzazione statale delle leve decisionali che negli sforzi di Sarkozy potrebbe proiettarsi anche a livello europeo (pur in presenza di limiti strutturali, quali l'assenza di poteri di Vigilanza per la Bce o la presenza di normative nazionali molto vincolanti).
Il tentativo è di arrivare a una gestione ottimale della contraddizione che possa prevedere un di più di Stato e di centralismo nazionale e allo stesso tempo un di più di "governance" globale. Non ci stupirebbe, infatti, veder riesumato il ruolo e la funzione di quel G8 che dal 2001 in poi è stato messo in secondo piano dal prepotente unilateralismo Usa e che, guarda caso proprio alla vigilia del vertice in Italia, potrebbe tornare a essere il luogo decisivo in cui affrontare e gestire la crisi economica.
Non sappiamo se la destra riuscirà a risolvere questa contraddizione, certamente dimostra di avere spirito di iniziativa e spregiudicatezza adeguati. Quello che sicuramente salta agli occhi è l'inconsistenza della sinistra socialiberista e democratica. Negli Usa, Obama si è dovuto allineare al piano Paulson; in Europa la socialdemocrazia è silente. La crisi è globale e i suoi effetti si scaricano localmente; la destra, ancora una volta si adegua ai tempi, recepisce la pressione che proviene da fenomeni populisti come dimostrano le elezioni in Austria e svolge il suo ruolo. Chi sembra non avere più ruolo è quella sinistra moderata che si è illusa di poter governare la globalizzazione capitalistica e che oggi rischia di essere spazzata via.

Liberazione 02/10/2008