giovedì 28 agosto 2008

Abolire la NATO

Perché semplicemente non abolire la NATO?
di Rodrigue Tremblay

Articolo pubblicato il 25 agosto 2008 nel sito internet di Eurasia

L'Organizzazione del Trattato Nord Atlantico (NATO) è una reliquia della Guerra Fredda. Fu costituita il 4 aprile del 1949 come alleanza difensiva dei paesi dell'Europa Occidentale con il Canada e gli Stati Uniti per proteggere quei paesi dagli sconfinamenti dell'Unione Sovietica.
Dal 1991, però, l'impero sovietico con esiste più e la Russia ha cooperato economicamente con i paesi dell'Europa Occidentale fornendo loro gas, petrolio e tutti i tipi di materie prime. Ciò ha accresciuto l'interdipendenza economica europea e ha dunque ridotto la necessità di una simile alleanza militare difensiva al di sopra e al di là dei sistemi militari di auto-difesa dei singoli paesi europei.
Ma il governo degli Stati Uniti non la vede così. Preferirebbe conservare il proprio ruolo di sussiegoso protettore dell'Europa e di unica superpotenza del mondo. In questo senso la NATO è uno strumento che si adatta bene allo scopo. Ma forse il mondo dovrebbe preoccuparsi di chi se ne va in giro per il pianeta con una tanica di petrolio in una mano e una scatola di fiammiferi nell'altra, fingendo di vendere assicurazioni contro gli incendi.
Ora come ora, è un dato di fatto che il governo e la nomenklatura degli affari esteri degli Stati Uniti vedono la NATO come un importante strumento di intervento della politica estera americana nel mondo. Dato che di fatto molti politici americani non appoggiano più le Nazioni Unite come organo internazionale supremo dedicato al mantenimento della pace nel mondo, una NATO controllata dagli Stati Uniti è ai loro occhi un sostituto più attraente dell'ONU per fornire una copertura legale alle offensive militari altrimenti illegali da loro intraprese in tutto il mondo. Preferiscono controllare completamente un'organizzazione come la NATO, anche se è diventata un'istituzione ridondante, piuttosto che dover scendere a compromessi alle Nazioni Unite, dove gli Stati Uniti dispongono comunque di uno dei cinque veti al Consiglio di Sicurezza.
È questa la ferrea logica che sta dietro ai propositi di riorganizzazione, riorientamento e allargamento della NATO per trasformarla in uno strumento flessibile della politica estera americana. Ed è un'altra dimostrazione del fatto che le istituzioni ridondanti vivono di vita propria. E infatti quando lo scopo per il quale sono state inizialmente create non esiste più si inventano nuovi scopi per farle andare avanti.
Per quanto riguarda la NATO, il piano è quello di ingrandirla e trasformarla in un'alleanza politico-militare imperiale e offensiva contro il resto del mondo dominata dagli Stati Uniti. Secondo questo piano, la NATO si espanderebbe nell'Europa centro-orientale a includere non solo gli ex-membri del Patto di Varsavia (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria, Romania, Albania e Ungheria) e molte delle ex-repubbliche sovietiche (Estonia, Lituania, Lettonia, Georgia e Ucraina), ma anche in Asia a includere il Giappone, l'Australia, la Nuova Zelanda, la Corea del Sud e forse anche in Medio Oriente per ammettere Israele. Oggi la NATO, che all'inizio contava 12 membri, è passata a 26 membri. In futuro, se gli Stati Uniti raggiungeranno il loro obiettivo, potrebbe arrivare a 40 membri. Negli Stati Uniti sia i Repubblicani che i Democratici vedono la trasformazione della vecchia NATO in questa nuova alleanza militare offensiva come una buona idea (neocon) per promuovere nel mondo gli interessi americani e quelli dei loro stretti alleati come Israele. È un'idea promossa attivamente non solo dall'amministrazione neocon Bush-Cheney, ma anche dai consiglieri neo-conservatori di entrambi i candidati alle presidenziali americane del 2008, John McCain e il senatore Barack Obama. Infatti entrambi i candidati sostengono con entusiasmo l'interventismo militare, e questo essenzialmente perché i loro consiglieri vengono dallo stesso ambiente neo-conservatore. Per esempio, la precipitazione con cui i Bush-Cheney hanno imprudentemente promesso l'ingresso nella NATO all'ex-repubblica sovietica della Georgia e le hanno fornito appoggio e rifornimenti militari è un buon esempio di come viene vista la NATO a Washington da entrambi i maggiori partiti politici americani. Da una parte, il candidato presidenziale repubblicano John McCain progetta un nuovo ordine mondiale costruito attorno a una “Lega delle Democrazie” di ispirazione neo-conservatrice che sostituirebbe di fatto le Nazioni Unite e attraverso la quale gli Stati Uniti dominerebbero il mondo. Dall'altra, la posizione del senatore Barack Obama non è poi così diversa dalle proposte del senatore McCain in fatto di politica estera. Infatti il senatore Obama promuove l'impiego della forza militare degli Stati Uniti e degli interventi militari multilaterali nelle crisi regionali a “scopi umanitari”, anche se significa aggirare le Nazioni Unite. Dunque, se mai dovesse andare al potere, possiamo tranquillamente scommettere che il senatore Obama non avrebbe alcuno scrupolo ad adottare la visione del mondo del senatore McCain. Per esempio, entrambi i candidati probabilmente appoggerebbero l'eliminazione della clausola “no first strike” dalla convenzione della NATO. Si può stare certi che con l'uno o l'altro alla Casa Bianca il mondo sarebbe meno basato sul diritto e meno sicuro, e certo non migliore di come è stato sotto la sfrenata amministrazione Bush-Cheney. È tuttavia difficile capire come questo nuovo ruolo offensivo della NATO possa essere negli interessi dei paesi europei o del Canada. L'Europa Occidentale in particolare ha tutto da temere da un ritorno alla Guerra Fredda con la Russia e forse con la Cina. La trasformazione della NATO da organizzazione militare difensiva nord-atlantica a organizzazione militare offensiva guidata dagli Stati Uniti avrà profonde conseguenze geopolitiche internazionali in tutto il mondo, ma soprattutto in Europa. L'Europa ha una forte attrazione economica per la Russia. Dunque perché imbarcarsi nella politica aggressiva dell'amministrazione Bush-Cheney, basata sull'accerchiamento militare della Russia attraverso l'espansione della NATO fino ai confini russi e l'installazione di uno scudo anti-missile proprio lì accanto? Non sarebbe meglio per l'Europa sviluppare relazioni politiche ed economiche armoniose con la Russia? Perché preparare la prossima guerra? Per quanto riguarda il Canada, sotto il governo minoritario del neocon Harper il paese è diventato di fatto una colonia americana in materia di politica estera, e questo senza che si sia svolto alcun dibattito o referendum. L'ultima cosa di cui il Canada ha bisogno è proseguire su quella strada minata. In conclusione, parrebbe che l'idea umanistica che vede la pace, il libero scambio e il diritto internazionale alle basi dell'ordine mondiale venga messa da parte a favore di un ritorno alla grande politica della forza e alla diplomazia delle cannoniere. Così si torna indietro di cent'anni. È una vergogna.

(Traduzione di Manuela Vittorelli, membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica) http://www.tlaxcala.es/entree.asp?lg=it

martedì 26 agosto 2008

Dubai, di Mike Davis

Un Paradiso sinistro
Data di pubblicazione: 23.07.2005

Autore: Davis, Mike

Una scintillante città da incubo cresce silenziosa nel deserto arabo. Avvincente e acuto racconto di Davis, daTom Dispatch, 14 luglio 2005 (f.b.)

Titolo originale: Sinister Paradise. Does the Road to the Future End at Dubai? – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

Inizia il racconto: il jet comincia la sua discesa, e si resta incollati al finestrino. La scena sotto è incredibile: più di cinquanta chilometri quadrati di isole color del corallo, a forma di puzzle del mondo quasi terminato. Nelle verdi acque basse tra i continenti, sono chiaramente visibili le forme affondate delle Piramidi di Giza e del Colosseo.
Al largo ci sono tre grandi gruppi di isole a formare una palma entro una serie di mezzelune, popolate di alberghi sviluppati in altezza, parchi tematici, e mille case di lusso costruite su palafitte sopra l’acqua. Le “Palme” sono collegate tramite moli a una spiaggia tipo Miami stipata di mega-hotel, torri ad appartamenti e approdi per yacht.
Mentre l’aereo lentamente plana verso il deserto nell’entroterra, manca il fiato per l’ancora più improbabile veduta che si para davanti. Da una foresta cromata di grattacieli (quasi una dozzina alti più di 300 metri) spunta la nuova Torre di Babele. È impossibilmente alta un miglio e mezzo: l’equivalente di due Empire State Building messi uno sopra l’altro.
Vi state ancora stropicciando gli occhi dalla meraviglia e incredulità quando l’aereo atterra, e vi da il benvenuto un emporio-aeroporto, dove vi seducono centinaia di negozi pieni di borse Gucci, orologi Cartier, lingotti d’oro massiccio da un chilo. Prendete nota mentalmente di fare qualche acquisto d’oro duty-free sulla via del ritorno.
L’autista dell’albergo aspetta in una Rolls Royce Silver Seraph. Gli amici hanno raccomandato l’Armani Hotel nella torre da 160 piani, o l’albergo a sette stelle con un atrio così gigantesco da contenere la Statua della Libertà, ma voi invece avete optato per realizzare una fantasia infantile. Avreste sempre voluto essere il Capitano Nemo delle Ventimila Leghe Sotto i Mari.
Il vostro albergo a forma di medusa, a dire il vero, sta esattamente trenta metri sotto il livello del mare. Ciascuna delle sue 220 suites di lusso è dotata di pareti di plexiglas che offrono vedute spettacolari di sirene che passano, oltre ai famosi “fuochi d’artificio subacquei”: una allucinante esibizione di “bolle d’acqua, sabbia turbinante, e illuminazione accuratamente studiata”. L’ansia iniziale per la sicurezza di un alloggio sul fondo del mare è dissolta da un sorridente responsabile. L’intera struttura è dotata si un sistema di sicurezza multilivello, vi rassicura, che comprende anche la protezione contro i sommergibili terroristi, i missili e gli attacchi aerei.
Anche se avete un importante incontro d’affari nell’area di libero scambio di Internet City, con clienti da Hyderabad e Taipei, siete arrivati con un giorno di anticipo per concedervi una delle rinomate attrazioni del parco a tema di dinosauri Restless Planet. E dopo una notte di sonno ristoratore sotto il mare, salite sulla monorotaia diretti alla giungla giurassica. La vostra spedizione incontra alcuni Apatosauri che pascolano tranquilli, ma venite immediatamente attaccati da una feroce banda di Velociraptor. Le belve animatroniche sono così impeccabilmente verosimili – sono state progettate da esperti di storia naturale del British Museum – da farvi strillare di paura ed eccitazione.
Con l’adrenalina ben pompata da questo incontro ravvicinato, rifinite il pomeriggio con un’emozionante corsa in snowboard sulla locale pista black diamond. Giusto di fianco c’è il Mall of Arabia, il più grande centro commerciale del mondo – altare dove si celebra il rinomato Shopping Festival che attira 5 milioni di frenetici consumatori ogni gennaio – ma decidete di rimandare a dopo la tentazione.
Invece, vi concedete una costosa esperienza di cucina thailandese fusion in un ristorante vicino alla Elite Towers che vi ha raccomandato l’autista dell’albergo. Una splendida bionda russa continua a fissarvi con sguardo da vampira assetata, e cominciate a chiedervi se il panorama locale del peccato sia stravagante quanto quello dello shopping…..

È il seguito di Blade Runner?
Benvenuti in paradiso. Ma dove siamo? É il nuovo romanzo di fantascienza di Margaret Atwood, il seguito di Blade Runner, o Donald Trump che si è fatto un acido?
No, siamo nella città-stato di Dubai, nel 2010.
Dopo Shanghai (popolazione attuale: 15 milioni), Dubai (popolazione attuale: 1,5 milioni) è il più grosso cantiere del mondo: un emergente mondo dei sogni del consumo opulento, di quanto qui si è soprannominato “stile di vita supremo”.
Dozzine di bizzarri megaprogetti – come “ The World” (arcipelago artificiale), Burj Dubai (l’edificio più alto della Terra), Hydropolis (quell’albergo di lusso sott’acqua), il parco tematico Restless Planet, un impianto sciistico sotto una cupola mantenuto costantemente in un ambiente che all’esterno è di 40°, e il super-centro commerciale The Mall of Arabia – sono attualmente in corso di realizzazione, o lasceranno presto i tavoli dei progettisti.
Sotto il dispotismo illuminato del Principe della Corona e Chief Executive Officer, il cinquantaseienne sceicco Mohammed bin Rashid al-Maktoum, l’Emirato di Dubai – che ha le dimensioni del Rhode-Island – è diventato la nuova icona globale dell’urbanistica immaginata. Anche se spesso viene paragonato a Las Vegas, Orlando, Hong Kong o Singapore, il regno dello sceicco assomiglia più a una loro sommatoria collettiva: un pastiche di grosso, brutto e cattivo. Non è solo un ibrido, ma una chimera: frutto del lascivo accoppiamento delle fantasie ciclopiche di Barnum, Eiffel, Disney, Spielberg, Jerde, Wynn, e Skidmore, Owings & Merrill.
Il multimiliardario Sheik Mo – come affezionatamente chiamato dagli espatriati di Dubai – non solo colleziona purosangue (la stalla più grossa del mondo) e super- yacht (il Project Platinum di 160 metri, dotato di sottomarino e ponte d’atterraggio), ma sembra anche avere impressa l’opera di culto di Robert Venturi, Learning from Las Vegas, nello stesso modo in cui i musulmani più pii mandano a memoria il Corano (una delle cose di cui lo Sceicco va più fiero, per inciso, è di aver introdotto in Arabia le gated communities).
Sotto la sua guida, la costa del deserto è diventata un enorme circuito stampato su cui l’ élite delle imprese transnazionali engineering è invitata a inserire grumi di alta tecnologia, zone per il divertimento, isole artificiali, “città nella città”: qualunque ultimo grido del capitalismo urbano. Si può trovare, naturalmente, l’identica fantasmagorica quanto generica composizione di blocchi Lego in dozzine di aspiranti città di questi tempi, ma Sheik Mo ha un suo criterio distintivo invariabile: tutto deve essere “ world class”, ovvero essere il numero uno nel Guinness dei Primati. E così Dubai sta costruendo il più grosso parco a tema del mondo, il più grosso centro commerciale, l’edificio più alto, il primo hotel subacqueo, solo per citarne alcuni.
La megalomania architettonica di Sheikh Mo, anche se ricorda Albert Speer e il suo mecenate, non è irrazionale. Avendo “ Imparato da Las Vegas” capisce che se Dubai vuole diventare il paradiso dei consumi di lusso di Medio Oriente e Asia Meridionale (l’ufficialmente definito “mercato interno” da 1,6 miliardi), deve incessantemente cercare l’eccesso.
Da questo punto di vista, la mostruosa caricatura di futurismo della città è semplicemente un’abile strategia di marketing. I proprietari adorano architetti e urbanisti che la consacrano come punta di diamante. L’architetto George Katodrytis scrive: “Dubai può essere considerata il prototipo emergente del 21° secolo: oasi protesiche e nomadi proposte come città isolate distese su terra e mare”.
In mpiù, Dubai può contare sul periodo di massime quotazioni del petrolio per coprire i costi di queste iperboli. Ogni volta che spendiamo 40 dollari per riempire il serbatoio, stiamo aiutando a irrigare l’oasi di Sheik Mo.
Ed è esattamente perchè sta rapidamente pompando le sue ultime modeste risorse di petrolio, che Dubai ha optato di diventare una post moderna “città di netti” – come Bertolt Brecht definiva la sua immaginaria città del boom economico di Mahagonny – dove i super-profitti del petrolio devono essere reinvestiti nell’unica vera risorsa inesauribile d’Arabia: la sabbia. (E a dire il vero i mega-progetti a Dubai di solito vengono calcolati secondo il volume della sabbia spostata: 500 milioni di metri cubi nel caso di The World).
Al-Qaeda e la guerra al terrotismo possono vantare qualche merito, per questo boom. Dopo l’11 settembre, molti investitori mediorientali, temendo possibili cause o sanzioni, hanno ritirato le proprie quote in Occidente. Secondo Salman bin Dasmal della Dubai Holdings, solo i sauditi hanno riportato in patria un terzo del proprio portafoglio di un trilione di dollari in investimenti esteri. Gli sceicchi li stanno riportando a casa, e lo scorso anno si calcola che i sauditi abbiano sepolto almeno 7 miliardi di dollari sotto i castelli di sabbia di Dubai.
Un altro flusso di ricchezza da petrolio scorre dal vicino Emirato di Abu Dhabi. I due staterelli dominano gli Emirati Arabi Uniti: una quasi-nazione messa insieme dal padre di Sheik Mo e governante di Abu Dhabi nel 1971 per allontanare la minaccia dei marxisti in Oman e, più tardi, degli islamisti in Iran.
Oggi, la sicurezza di Dubai è garantita dalle portaerei americane abitualmente ormeggiate nel porto di Jebel Ali. A dire il vero, la città-stato si propone aggressivamente come avamposto, “Zona Verde”, in un’area sempre più pericolosa e turbolenta.
Ne frattempo, mentre un numero crescente di esperti avverte che l’epoca del petrolio a buon mercato sta finendo, il clan di al-Maktoum può contare su un nervoso torrente di profitti da petrolio in cerca di una collocazione tranquilla e stabile. Quando i forestieri mettono in discussione la sostenibilità dell’attuale boom, i responsabili di Dubai sottolineano che la loro nuova Mecca si costruisce sui dividendi, non sui debiti.
A partire dalla decisione spartiacque del 2003, di aprire senza limiti la proprietà agli stranieri, ricchi europei e asiatici sono corsi a diventare parte della bolla di Dubai. Un affaccio su spiaggia in una delle “Palme” o, ancora meglio, un’isola privata nel “Mondo”, ora ha le quotazioni di St. Tropez o di Grand Cayman. I vecchi padroni coloniali hanno guidato il branco, con espatriati e investitori britannici divenuti la miglior pubblicità per il mondo dei sogni di Sheikh Mo: David Beckham è porprietario di una spiaggia e Rod Stewart di un’isola (si mormora sia stata battezzata Gran Bretagna).

Una maggioranza invisibile di non garantiti
Il carattere utopico di Dubai, va sottolineato, non è un miraggio. Anche più di Singapore o del Texas, la città-stato è davvero un’apoteosi di valori neo-liberali.
D’altra parte, offre agli investitori un comodo sistema, in stile occidentale, di diritti proprietari, inclusa la freehold ownership, caso unico nella regione. Compresa nel prezzo un’ampia tolleranza al consumo di alcol, droghe leggere, agli abiti scollati, e ad altri vizi d’importazione formalmente prescritti dal diritto islamico. (Quando gli espatriati di Dubai ne decantano l’inimitabile “apertura” stanno decantando questa libertà di gozzovigliare: non quella di organizzare sindacati o pubblicare opinioni critiche).
D’altra parte, Dubai insieme ai suoi vicini emirati ha raggiunto il massimo in fatto di annullamento delle garanzie sul lavoro. Sindacati, scioperi, militanti, sono illegali, e il 99% della manodopera del settore privato è costituita da non-cittadini, facilmente deportabili. Davvero, i grandi pensatori di istituti come lo American Enterprise o Cato devono sbavare contemplando il sistema di classi e diritti di Dubai.
In cima alla piramide sociale, naturalmente, c’è la famiglia al-Maktoum e i suoi cugini, che possiedono ogni profittevole granello di sabbia dello sceiccato. Poi, il 15% della popolazione nativa – con la caratteristica uniforme del privilegio rappresentata dal tradizionale dishdash bianco – a costituire una leisure class la cui obbedienza alla dinastia è sostenuta da trasferimenti di reddito, scuole gratuite, posti di lavoro governativi. Un gradino sotto, i coccolati mercenari: 150.000 più o meno, ex paracadutisti britannici, insieme a altri europei, libanesi, indiani, managers e professionisti, che traggono il massimo vantaggio dalla propria agiatezza ad aria condizionata, con due mesi di ferie all’estero ogni anno.
Ma sono i lavoratori a contratto dal Sud Asia, legati a una singola impresa e soggetti ad un controllo sociale totale, a costituire la gran massa della popolazione. Lo stile di vita del Dubai è sostenuto da grandi numeri di cameriere dalle Filippine, Sri Lanka, India, e il boom edilizio poggia sulle spalle di un esercito di malpagati pakistani e indiani, che lavorano su turni di dodici ore, sei giorni e mezzo la settimana, nel forno arroventato del deserto.
Dubai, come i suoi vicini, si fa gioco delle regole dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e rifiuta di adottare la Convenzione dei Lavoratori Migranti. Human Rights Watch nel 2003 ha accusato gli Emirati di costruire la propria ricchezza sul “lavoro forzato”. E davvero, cme ha sottolineato di recente il britannico Independent in un servizio su Dubai, “Il mercato del lavoro assomiglia da vicino al vecchio sistema senza garanzie esportato a Dubai dagli antichi padroni coloniali: i britannici”.
”Come i loro impoveriti antenati” continua il giornale, “gli attuali lavoratori asiatici sono obbligati a firmare un contratto di virtuale schiavitù per anni, quando arrivano negli Emirati Arabi Uniti. I loro diritti scompaiono all’aeroporto, dove i funzionari delle assunzioni confiscano passaporti e visti, per controllarli”.
Oltre ad essere supersfruttati, i servi del Dubai devono anche diventare invisibili. I desolati campi da lavoro nelle periferie della città, dove gli operai si affollano in sei, otto, anche dodici in una stanza, non fanno parte dell’immagine ufficiale turistica di una città del lusso, priva di quartieri popolari e povertà. In una visita recente, si racconta che anche il Ministro del lavoro degli emirati Arabi Uniti sia rimasto profondamente scioccato dalle condizioni squallide, quasi insopportabili di un campo di lavoro molto lontano tenuto da un grande appaltatore delle costruzioni. Ma quando i lavoratori tentano di formare un sindacato per migliorare le paghe o le condizioni di vita, vengono immediatamente arrestati.
Il Paradiso, comunque, ha anche angoli più oscuri dei campi di lavoratori senza diritti. Le ragazze russe nell’elegante bar dell’albergo sono solo la fascinosa facciata di un sinistro mercato del sesso costruito sui rapimenti, la schiavitù, la violenza sadica. Dubai – lo dice qualunque guida di tendenza – è la “Bangkok del Medio Oriente” popolata da migliaia di prostitute russe, armene, indiane, iraniane, controllate da varie bande e mafie internazionali. (La città, comodamente, è anche centro mondiale per il riciclaggio di denaro, con uno stimato 10% degli affari immobiliari che avviene in transazioni solo in contanti).
Sheikh Mo e il suo regime profondamente moderno, naturalmente negano qualunque collegamento con questa fiorente industria delle luci rosse, anche se chi ne capisce sa che le puttane sono essenziali per tenere pieni di uomini d’affari europei e arabi tutti quegli alberghi a cinque stelle. Ma anche lo Sceicco in persona è stato direttamente toccato dal più scandaloso vizio di Dubai: la schiavitù di bambini.
Le corse dei cammelli sono una grande passione negli Emirati, e nel giugno del 2004 la Anti-Slavery International ha pubblicato fotografie di bambini in età prescolare che facevano i fantini a Dubai. HBO Real Sports contemporaneamente riferiva che tra questi fantini “alcuni hanno solo tre anni: vengono rapiti, o venduti schiavi, affamati, picchiati, violentati”. Alcuni dei piccoli fantini erano ritratti al circuito di proprietà della famiglia al-Maktoum.
Il Lexington Herald-Leader – un giornale del Kentucky, dove Sheikh Mo possiede due grossi allevamenti di purosangue – ha confermato in parte la storia di HBO in un’intervista a un maniscalco locale che aveva lavorato per il principe della corona in Dubai. Raccontava di aver visto “bambini molto piccoli”, anche di quattro anni, in groppa a cammelli da corsa. Gli allenatori affermano che le grida di terrore dei bambini spingono gli animali a correre più forte.
Sheikh Mo, che si definisce un profeta della modernizzazione, ama impressionare i visitatori con antichi proverbi e acuti aforismi. Uno dei preferiti: “Chiunque non tenta di cambiare il futuro resterà prigioniero del passato”.
Ma il futuro che sta costruendo a Dubai – tra gli applausi dei miliardari e delle imprese transnazionali da tutto il mondo – non sembra altro che un incubo dal passato: Walt Disney incontra Albert Speer sulle coste della penisola arabica.

Nota: il testo originale di Mike Davis al sito TomDispatch; di seguito, alcuni links ai fantasioni progetti descritti nella prima parte dell’articolo (f.b.)
http://www.tomdispatch.com/index.mhtml?pid=5807

martedì 5 agosto 2008

Prc: svolta a sinistra o trasformismo?

Marco Ferrando*

Il settimo Congresso del Prc, nella sua dinamica e nel suo esito, non può davvero essere ridotto a fatto interno di partito. Esso è parte di un processo più generale di ricomposizione della sinistra italiana, e per questo richiama, anche per il Partito comunista dei lavoratori, la responsabilità di un giudizio politico impegnativo.

Ho e abbiamo un rispetto profondo per i militanti e gli iscritti di Rifondazione comunista, ove ho militato per quindici anni. E ho ragione di credere che questo rispetto sia ricambiato. Proprio per questo voglio onorarlo col dono della sincerità - com'è dovere dei comunisti - fuori da ogni ipocrita diplomatismo.
No, non ho visto nell'esito del settimo congresso quella svolta strategica "a sinistra" che tanti tendono in questi giorni, per interessi opposti, ad esaltare o demonizzare. Ho visto piuttosto un altro fenomeno, sicuramente anch'esso "di svolta", ma di altra natura: un ricambio traumatico degli assetti dirigenti, nel segno di una guerra spietata per la leadership e di uno spregiudicato trasformismo.
Il cuore del vecchio gruppo dirigente "bertinottiano" ha perso non un congresso, ma un partito: più precisamente il "suo" partito, quello che per lungo tempo è stato il partito del segretario, e dei gruppi dirigenti che egli ha raccolto e selezionato attorno a sé sulla base della fedeltà alla linea. Quel gruppo dirigente - è bene riconoscerlo - non è stato travolto da un complotto interno, ma, in ultima analisi, dall'onda d'urto della disfatta di quell'intero corso politico che ha trascinato Rifondazione nel governo del grande capitale, e che per questo l'ha compromessa, contro i lavoratori, nei sacrifici sociali e nelle missioni di guerra.
Ma proprio qui sta, a me pare, il primo paradosso del congresso. La nuova leadership non solo non è stata l'esito di una battaglia interna contro quella lunga politica di compromissione, ma si è improvvisamente incarnata nell'unico "ministro comunista" del governo confindustriale di Prodi: ossia in chi, fino all'ultimo e senza incertezze, ha direttamente cogestito per due anni le politiche della borghesia (col plauso postumo di D'Alema); ha pubblicamente difeso il proprio voto ministeriale a tutte le scelte di fondo del governo (decreto antirumeni incluso); ha avuto persino un ruolo diretto nella repressione di quelle minoranze interne del Prc che, in fasi diverse e con diverse coerenze, contrastavano o disturbavano il governismo del partito. Non è un po' singolare?
Osservo questo, sia ben chiaro, non per contestare il diritto alla conversione politica anche la più repentina, che è un diritto democratico di chiunque, persino di un ex ministro, persino se avviene dopo la caduta del governo e alla vigilia di un congresso. Ma perché questo interroga la credibilità politica della "svolta a sinistra" che il congresso ha annunciato, e quindi la stessa natura del nuovo Prc nella sinistra italiana.
Dov'è il segno della "svolta strategica", nelle stesse pieghe del documento congressuale conclusivo?
Nel testo approvato dalla nuova maggioranza non vi è un solo rigo - uno solo - sulle responsabilità del Prc negli anni di Prodi contro i lavoratori e i movimenti (neppure sulle missioni di guerra). Si dice semplicemente che «è superata la collaborazione organica col Pd nella fallimentare esperienza dell'Unione». Ma questa non è né un'autocritica, né una svolta: è la banale constatazione postuma di un decesso.Nel testo si legge che «è sbagliato» riproporre oggi il centrosinistra «quando il Pd ha una linea neocentrista» e «i rapporti di forza esistenti» sono sfavorevoli. Dunque se un domani il Prc si rafforzasse e il Pd "riaprisse" al Prc, si potrebbe ritornare al governo col Pd di Calearo e Colaninno? Emblematico è il passo sulle giunte locali. Dove non c'è alcuna rettifica di linea generale. Si dice semplicemente che «andranno verificate» sui contenuti. Ma è quello che si ripete ritualmente da tredici anni; è quello che ha ritualmente ribadito persino il recente congresso del Pdci (!); è la frase canonica con cui si rimuove la verifica impietosa dei fatti, quelli che vedono assessori di Prc e Pdci in tutta Italia coinvolti da anni in amministrazioni sempre più impresentabili (inclusa la provincia di Milano, la Toscana, la Liguria, come ieri l'Abruzzo…). In base ad una linea nazionale spregiudicata che ha sempre usato la partecipazione alle giunte come canale di rapporto col centrosinistra nazionale, o come leva negoziale di pressione per ricomporre il centrosinistra. Il fatto che il primo atto del nuovo segretario del Prc sia stato quello di rassicurare il Pd sulla continuità delle giunte chiarisce ogni dubbio al riguardo. E' questa la "svolta a sinistra"?
Peraltro da quando è nato, il Prc celebra in ogni congresso una "svolta a sinistra". Fu chiamata "svolta a sinistra" l'opposizione al governo Dini nel '95: ma servì a preparare contrattualmente il primo accordo di governo con Romano Prodi ('96). Quello del voto al pacchetto Treu e ai Cpt. Fu chiamata "svolta a sinistra" quella del '98, poi ricelebrata nel 2002, sullo sfondo della stagione dei movimenti: ma servì a ricostruire la massa critica negoziale per ricomporre il secondo governo Prodi (2006), con tanto di sottosegretari, ministri, presidenze. L'attuale "svolta a sinistra" del Prc si muove in un contesto politico certo più problematico e con un partito notevolmente più debole: ma la sua immutata ambizione è quella di favorire il ritorno, in prospettiva, nel grande gioco del governo.
Del resto, se il "comunismo" rimane - per citare Ferrero - un puro "universo simbolico"; se dunque, al di là delle parole, tutto si riduce all'esistente (cioè al capitalismo reale), per quale ragione di principio si dovrebbe rinunciare ad un assessore oggi e a un ministro domani? Se tutto si riduce all'esistente, il governo dell'esistente diventa il tutto: cioè la meta della politica. E l'opposizione, anche la più gridata, diventa ogni volta l'anticamera del governo o della sua ricerca. Questa è stata la storia della socialdemocrazia e dello stalinismo nella lunga pagina del Novecento. Quella Rifondazione che avrebbe dovuto ripudiarla, l'ha invece riproposta, seppur in miniatura.
E qui osservo un secondo paradosso del settimo congresso. Meno appariscente del primo, ma forse ancora più clamoroso. Quello che ha visto la confluenza attorno a Ferrero, in una comune maggioranza politica, di quei gruppi dirigenti del terzo e quarto documento che avevano formalmente evocato, anche contro Ferrero, la necessità di una autentica Rifondazione. E' troppo vedere anche qui il segno triste del trasformismo? Il terzo e quarto documento avevano denunciato pubblicamente per mesi la "falsa alternativa" tra Ferrero e Vendola. Avevano raccolto il voto di migliaia di militanti comunisti del Prc attorno al rifiuto del bipolarismo interno. Avevano raccolto più in generale, su basi politiche diverse, una domanda reale di svolta strategica, comunista e classista, del partito.
Ma tutto questo patrimonio di quadri e militanti è stato portato in dote alla nuova leadership in sole 48 ore. La "svolta operaia" di Falce e Martello si è improvvisamente inchinata alla continuità degli assessori. La celebrazione retorica della Rivoluzione d'Ottobre si è sposata con "la ricerca della non violenza". Il comunismo più ideologico o formalmente "rivoluzionario" ha scoperto "la Sinistra europea". Il tutto in cambio di qualche pallidissima concessione letteraria (e della pubblica promessa di nuovi ruoli di gestione).
Questa è la vera vittoria di Paolo Ferrero. E la misura, se posso complimentarmi, della sua indubbia capacità. Non quella di aver sconfitto Vendola, con cui ha condiviso il corso politico governativo. Non quella di aver conquistato la leadership di quel campo di rovine che lui stesso ha concorso a produrre. Ma quella di aver assimilato e arruolato le sinistre interne. Come aveva fatto Bertinotti, proprio con Paolo Ferrero e la sua area, nel '95. Come Bertinotti e Ferrero avevano fatto con l'area di Bandiera Rossa (futura Sinistra Critica) nel '98-2003. Ogni volta le cosiddette "svolte a sinistra" hanno assimilato le sinistre interne claudicanti e disponibili, sgombrando la via alle successive svolte governiste. La storia si ripete, come si vede, immemore delle lezioni. Lasciando ogni volta sulla strada, purtroppo, migliaia di compagni disorientati, delusi, traditi.
Il Partito comunista dei lavoratori è nato da una lunga battaglia politica e morale, controcorrente, contro il trasformismo della sinistra italiana. Anche di quello che ha attraversato il Prc. Il bilancio del settimo congresso di Rifondazione ci consolida nelle nostre ragioni e nelle nostre scelte.
Naturalmente ci rapporteremo con attenzione al nuovo Prc di Paolo Ferrero. Ricercheremo ovunque possibile la più ampia unità d'azione nella lotta contro il padronato e Berlusconi: a partire da quella grande manifestazione unitaria d'autunno che proponiamo per l'11 Ottobre e che sarebbe ora di iniziare a preparare. Saremo disponibili a costruire col Prc e con tutti i suoi compagni e compagne, esperienze comuni di confronto e di iniziativa nelle quotidiane battaglie di classe, ambientaliste, antimperialiste, femministe. E speriamo anche, finalmente, anticlericali.
Ma lo faremo orgogliosi della nostra costruzione indipendente e della nostra identità: quella dell'unico partito della sinistra italiana che non si è inginocchiato di fronte alla borghesia; che non si è compromesso, né in tutto, né "criticamente", nella disfatta di questi anni; che ha fatto e fa dell'indipendenza di classe del movimento operaio, e quindi della rottura col Pd confindustriale (ieri, oggi e domani), l'asse strategico della propria proposta politica nella prospettiva di un'alternativa anticapitalista. L'unico partito, insomma, che considera il comunismo non un simbolo da riverire, ma un programma da realizzare: quello della rivoluzione sociale e del governo dei lavoratori.
*Portavoce nazionale del Pcl

Liberazione 05/08/2008

domenica 3 agosto 2008

Filippine

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venerdì 1 agosto 2008

Edward Said

Giorgio Baratta
Dopo aver riletto (nell'accurata traduzione italiana) lo splendido "Labirinto delle incarnazioni dedicato alla filosofia del vissuto di Merleau-Ponty" - primo dei 46 saggi disposti in ordine cronologico (1967-1998) che compongono Nel segno dell'esilio ( Reflexions on Exile and Other Essays , trad

Giorgio Baratta
Dopo aver riletto (nell'accurata traduzione italiana) lo splendido "Labirinto delle incarnazioni dedicato alla filosofia del vissuto di Merleau-Ponty" - primo dei 46 saggi disposti in ordine cronologico (1967-1998) che compongono Nel segno dell'esilio ( Reflexions on Exile and Other Essays , trad. it. di M. Guareschi e F. Rahola, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 655, 45 euro), pubblicato dallo stesso Edward Said nel giugno 2000 - ho avuto la brillante idea di ripercorrere il testo dall'ultimo saggio (unico non datato) sino a tornare al primo. E' stata così appagata la mia ansia di attualità. Non consiglierei però ai lettori di seguire la medesima procedura, perché così si perde l'essenziale: e cioè il gramsciano "ritmo del pensiero in sviluppo", che costella passo per passo l'andamento di questo libro.
Ritmo di uno sviluppo: sono espressioni calzanti. Nel segno dell'esilio si presenta come una sinfonia, che potremmo immaginare articolata in quattro metaforici movimenti: allegro ma non troppo, andante con moto, scherzo, finale presto, associando ad ognuno dei movimenti una o più "figure" saidiane.
L'allegro ma non troppo copre i primi 14 saggi e si conclude con le "Esplosioni di significato" (1982) dedicato a John Berger, artista-scrittore caro a Said per la carica politica e libertaria che anima la «continua ricerca di verità accessibili alle arti visive». La questione irrisolta di Berger, fotografo non solo del presente ma «della memoria e del passato», e che riguarda anche Merleau-Ponty «visibilista» è: «che fare?», «che dire del futuro?», come passare «dall'estetica all'azione»? Il breve saggio su Berger è preceduto dal lungo e complesso "Opposizione, pubblico, referenti e comunità", uno dei gioielli del libro. Viene messo in rilievo un punto di approdo storicamente negativo, generatore di «un certo numero di imperativi epistemologici e ideologici», che Said chiama l'"Era di Ronald Reagan". L'analisi è impietosa nella denuncia della degenerazione dello spirito critico e secolare o mondano, fautore di "un umanesimo più universale" di quello realmente esistito, circoscritto all'Occidente. Bersaglio concreto di Said è il «comfort dell'atteggiamento specialistico» che si bea delle gabbie e «ghetti disciplinari in cui, come intellettuali, siamo stati confinati», e che cede «la rappresentazione oggettiva del mondo (da sempre un potere) a un ristretto novero di esperti e ai loro clienti». Tutti i processi sociali e culturali vengono subordinati a una logica di mercato mascherata di efficientismo, scientismo e progressismo, sostanzialmente antidemocratica. Said ci "rappresenta" plasticamente il controllo da parte di una «ristretta e potente oligarchia» di circa il 90 per cento della società dell'informazione e dei flussi di comunicazione a livello mondiale.
All'approdo drammatico cui abbiamo accennato corrisponde per contrasto la crescita potenziale degli elementi portanti di uno «spazio orizzontale e secolare» nel cui terreno l'attività rappresentativa e interpretativa non riconosce «nessun centro, nessuna inerzia, nessuna autorità scontata e accettata», nessun dogma, nessuna religione. Si afferma un "lavoro intellettuale secolare" che Said vede proposto nella misura più pregnante dalla coppia ideale Vico-Gramsci, e che riconosce come suoi maestri, in toni e limiti diversi, Kuhn, Foucault e Fish, ma anche i citati Merleau Ponty e Berger, e Lukács e Adorno, e in modo particolarissimo, andando a ritroso nel tempo, Conrad, presentato simpaticamente da Said, rispetto alla sua stessa esperienza di lettura e di studio, come un "cantus firmus" .
Entriamo nel movimento più lungo, che abbiamo chiamato andante con moto, e che si addentra particolarmente nei percorsi determinati dall'anima palestinese, araba, "orientale" di Said. Prende le mosse dai "Riti egizi" (1983), riferito all'apertura della nuova sezione egiziana del Metropolitan Museum. L'Egitto, scrive Said, che vi ha trascorso buona parte della sua giovinezza, gode ancor oggi (nell'epoca di Sadat che ha frustrato le novità contraddittorie ma "interessanti" di Nasser) di una «integrità millenaria», ove però «l'eredità araba del paese non si adatta al suo presente arabo». «Qual è il vero Egitto? Come possono i moderni egiziani svincolarsi da un sistema mondiale egemonizzato dall'Occidente senza precipitare in in un mondo fossilizzato di traffici aridi e annichilenti?». Il movimento si conclude con il racconto-gioiello "Omaggio a una danzatrice del ventre" (1990): cioè a una divina sovversiva contraddittoria artista del corpo, la sensuale egiziana Tahia Carioca - reincarnazione della figura della almeh (letteralmente, "la donna istruita") vagheggiata «da una schiera di viaggiatori europei come Henry Lane e Flaubert nei resoconti dei loro viaggi in Oriente» - incontrata al Cairo, sul finire del 1989, ormai settantacinquenne, da Said. Compare in questo arco il saggio bellissimo che dà il titolo all'edizione originale del libro, "Riflessioni sull'esilio": che è «qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi … la tristezza di fondo che lo definisce è inaggirabile»; e tuttavia Said si sente fratello di Auerbach nel rievocare la «straordinaria bellezza» delle parole di Hugo di Saint-Victor, un monaco sassone del XII secolo: «Perfetto è solo colui al quale il mondo intero appare come una terra straniera».
"Lo scherzo" (1991-1995) si inaugura con una magistrale "Introduzione a Moby Dick" per una nuova edizione del romanzo curata da Said, e si snocciola in una forma-sonata ove si intrecciano (come del resto in tutto il libro) tra esposizione, sviluppo e ripresa - temi e percorsi più vari, dalla filosofia alla letteratura e l'estetica, dalla politica alla musica. Si conclude con un altro gioiello: "Storia, letteratura e geografia" che mette a confronto il senso del tempo di Lukács con il senso dello spazio di Gramsci. Le pagine 516-520 sono a mio avviso tra le più penetranti mai scritte sul filosofo sardo. Il punctum (nel senso di Barthes) è la straordinaria energia immaginativa con la quale Said si proietta sul vissuto carcerario di Gramsci - universale singolare, avrebbe detto Sartre - quale genealogia dell'opera. Credo che Said sia il primo (con un antecedente forse in Luporini) ad aver considerato il pensiero «radicalmente secolarizzato» di Gramsci quale «erede di una cospicua tradizione italiana di pessimismo materialista che va da Lucrezio a Vico a Leopardi».
Il finale è nel segno della musica. Dopo Il genio di Bach, l'eccentricità di Schumann, la crudeltà di Chopin, il talento di Rosen, leggiamo "Dal silenzio al suono e… ritorno" (1997), che è indirettamente un'esemplare, per alcuni aspetti secondo me definitiva risposta al celebre quesito di Gayatri Spivak ("Possono i subalterni parlare?"). Compare in questo saggio un personaggio forse inaspettato per chi è abituato a vedere in Said, oltre che un saggista impegnato, anche un musicista con gusti prevalentemente classici o tradizionali. Mi riferisco a John Cage, del quale Said ricorda il comune sodalizio newyorchese per un anno intero all'epoca del Sessantotto. Il richiamo a Spivak intende sottolineare indirettamente come in questo testo Said - che considera Wagner come un geniale maniaco del suono=vita, ossessionato dalla paura del silenzio=morte - giunga a proclamare il rispetto (se non la necessità) del silenzio, quando rappresenta l'unica forma di opposizione al «sequestro del linguaggio che è leitmotiv del nostro tempo».
Finito il libro, pardon la sinfonia, al silenzio subentra il brusio della memoria che ci riporta ad altri testi e ad altri motivi, in primo luogo a The World, the Text and the Critic , pubblicato anch'esso, nel 1983, dalla Harvard University Press (mai tradotto in italiano), e anch'esso espressione diretta di 12 anni di "lavoro di insegnamento e di studio". C'è una sovrapposizione perché Nel segno dell'esilio raccoglie saggi scritti dal 1967. «Gran parte del materiale qui raccolto - sottolinea Said - è in contrasto con la politica, e si colloca nell'ambito dell'estetica, sebbene le relazioni tra politica ed estetica, oltre che molto produttive, siano continuamente ricorrenti». Per venir compreso e ripercorso nelle correnti profonde che lo alimentano, il libro va letto insieme al più breve Umanesimo e critica democratica , pubblicato postumo nel 2004 dalla Columbia University Press, tradotto recentemente in Italia da Il Saggiatore.
Due libri di Said possono venir considerati come il suo opus magnum: Orientalismo (1978, trad. ital. 1991), la sua opera più famosa, alla cui rilettura è dedicato qui un saggio (del 1985), che prende posizione sulla grande costellazione di critiche che gli sono state rivolte con motivazioni, dice Said, prevalentemente politiche, sia nel senso dell'odio contro la Palestina, sia nel senso dell'avversione a ciò che Said chiama «politica del sapere», inteso come un «diffuso e generalizzato attraversamento di confini», che contraddice la cultura canonizzata e disciplinare (disciplinata) sostenuta dagli orientalisti. L'altro candidato, per così dire, a presentarsi come opus magnum di Said è Cultura e imperialismo (1993, trad. it. 1998): un libro sfortunato, curato benissimo dal compianto Stefano Chiarini (assieme a Patrizio Esposito), per le edizioni Gamberetti, da lui dirette. Sfortunato in senso letterale, per la scarsa… fortuna e attenzione che è stata riservata a quest'opera (tutta da studiare), che espone ed esprime a tutto tondo la necessità di una lettura contrappuntistica della storia e della (delle) civiltà.
Nel senso dell'esilio è a sua volta un opus magnum. Come il più breve, saporito piccante pamphlet sull' Umanesimo , questo libro è una lunga meditazione-conversazione civile nata interamente all'interno del lavoro di Said alla Columbia University. Il saggio in esso contenuto "Identità e libertà. Il sovrano e il viaggiatore" (1991), scritto da Said ospite dell'Università di Citta del Capo (in una Sud-Africa ancora afflitta dall'apartheid) è un inno alla libertà accademica e di pensiero, alla vena utopica nonostante tutto ancora possibile nel mondo universitario. Qui il leitmotiv, dominante in tutta l'opera di Said, il contrappunto e le sue variazioni, aderisce al vissuto del critico palestinese-americano: al suo zigzagare efficace rigoroso produttivo tra studio e vita, tra pensiero e azione, tra mondo e Palestina (la sua Palestina, per la quale, in punta di morte, egli si è drammaticamente chiesto se le avesse rivolto tutte le attenzioni possibili). Con la terminologia di uno degli ultimi saggi del libro, "Sulle cause perse" (1997), le sorti della sua patria (una delle sue tante patrie, la più tormentata) gli apparivano funeste. Ma il saggio si conclude con una domanda, che amiamo fare nostra, proponendoci di continuare con Said: "Davvero una causa persa è persa per sempre?"


Liberazione 24/07/2008

NEPAL: I maoisti non entrano nel governo

I maosti nepalesi, che contano sulla minoranza relativa in parlamento, non ce l'hanno fatta a far eleggere il loro candidato presidente, il militante anti-monarchico Ramraja Prasad Singh, che pure era indicato come grande favorito. E ieri hanno annunciato che non prenderanno parte al prossimo governo, facendo così precipitare il paese ancora un volta nell'incertezza politica.
Singh, pur godendo dell'appoggio del partito maggioritario, non è andato oltre 282 voti sui 590. Primo presidente della Repubblica nella storia del Nepal sarà Ram Baran Yadav, appoggiato dal moderato Partito del Congresso, che ha conquistato 308 preferenze. Lo scorso 28 maggio l'Assemblea costituente controllata dagli ex-guerriglieri maoisti, vincitori delle elezioni politiche del 10 aprile, aveva posto fine a 240 anni di monarchia destituendo l'ultimo sovrano hindù al mondo, re Gyanendra. Singh sembrava poter contare su una base di consenso sufficientemente ampia per poterla spuntare, ma lo scrutinio segreto ha portato a un esito a sorpresa. I maoisti sostengono che l'insediamento di un presidente ostile impedirebbe loro di varare le riforme in programma e li esporrebbe al pericolo di continue imboscate. Il neopresidente, al pari degli altri candidati, è espressione della minoranza dei Mahadhesis, un gruppo etnico originario del Terai, regione pianeggiante lungo la frontiera meridionale con l'India, e che è stato protagonista in tempi recenti di rivolte e manifestazioni contro le discriminazioni.

Liberazione 23/07/2008

INDIA: Singh perde la sinistra

I nazionalisti denunciano la compravendita di voti
Accordo nucleare Usa
Singh salva il governo ma perde la sinistra

La giornata è finita con balli e canti dei sostenitori del partito de Congresso sotto casa si Sonia Ghandi, la leader ufficiosa del partito di maggioranza relativa indiano

Martino Mazzonis
La giornata è finita con balli e canti dei sostenitori del partito de Congresso sotto casa si Sonia Ghandi, la leader ufficiosa del partito di maggioranza relativa indiano. Nelle ore precedenti le scene trasmesse dai network televisivi indiani somigliavano da vicino alle giornate drammatiche e farsesche del Parlamento italiano. Urla, accuse, discorsi retorici e un voto sul filo di lana.
Ieri il governo Singh affrontava un passaggio politico chiave. Il premier che guida la coalizione di centrosinistra, sostenuta fino a ieri dall'appoggio dei partiti comunisti e dei partiti tribali e di casta tra cui quello di Mayawati Kumari, presidente dello Stato dell'Uttar Pradesh, aveva deciso di porre la fiducia per far approvare l'accordo di fornitura nucleare siglato con gli Stati Uniti. La Lok Sabha , come si chiama la Camera bassa, gli ha concesso dato ragione per un pugno di voti. Ma la seduta è stata di quelle infuocate, ricche di insulti e accuse, ma anche di politica seria. Proprio come è la democrazia indiana: enormi limiti, corruzione diffusa, ma anche partecipazione e confronto di idee veri. Il casus belli è il presunto tentativo della maggioranza di comprare voti. Per la precisione il tentativo è stato quello di comprare astensioni. I membri del principale partito di opposizione, i nazionalisti indù del Bjp hanno agitato mazzette di rupie in aula, urlato che il governo si deve dimettere e portato il caos in aula. Rahul Ghandi, erede della principale famiglia politica del Paese, è stato interrotto e insultato perché teneva il suo discorso in inglese. Ma dopo ore di dibattito, tanta tensione e una conta dei voti lenta e confusa, Singh ha ottenuto la fiducia.
In effetti, promesse, giochi politici ambigui, manifestazioni di massa a favore contro il governo, hanno caratterizzato le ultime giornate della politica indiana. Senza i voti dei partiti di sinistra, al Congresso servivano 46 voti per ottenere la maggioranza. Alla fine ne ha ottenuti di più, convincendo, ma anche utilizzando metodi improbabili. Sei deputati in carcere hanno avuto il permesso di votare, una pratica legale, e deputati il Bjp ha trasportato un suo membro dall'unità di rianimazione fino in Parlamento. Se il governo avesse perso, le regole imponevano il ritorno automatico alle urne entro sei mesi. Ed è per questo che il voto era tanto importante: la coalizione guidata dal Partito del Congresso difficilmente avrebbe potuto ricomporsi dopo la sfiducia e il Bjp si preparava alla rivincita.
Al voto di ieri si è arrivati dopo un dibattito intenso e molto lungo. Sia il Bjp che la sinistra ritengono che l'accordo con gli Stati Uniti sia un'ipoteca all'indipendenza indiana. L'accordo prevede la fornitura di tecnologia americana in cambo dell'ingresso nell'Aiea (l'Agenzia atomica intenazionale), con la conseguente condivisione di tutte le informazioni relative al proprio programma nucleare civile e militare. Per i nazionalisti si tratta di una svendita del Paese, impossibilitato, d'ora in poi, a sviluppare armi nucleari proprie. Per il Bjp si trattava soprattutto dell'occasione per far cadere il governo: circa dieci anni fa il governo cadde per un voto e i nazionalisti presero il potere per la prima volta. Per i comunisti, che governano con diverse contraddizioni in molti stati importanti e tra i più dinamici l'argomento è simile, ma dettato soprattutto dalla ammirazione per l'esempio cinese. Il gigante asiatico è geloso della propria sicurezza interna e tende a non condividere informazioni con nessuno. Per i Pc c'è anche un'ostilità nei confronti degli Stati Uniti maturata nei decenni della guerra fredda. Per il partito del Congresso, l'accordo è invece l'unica chiave per accedere al club delle potenze nucleari e garantirsi in futuro l'energia necessaria.
Un voto di ratifica definitivo era urgente e necessario. Negli Stati Uniti infatti, c'è chi, con una posizione uguale e contraria a quella dei nazionalisti indù, non vorrebbe cedere nessuna tecnologia a un grande governo asiatico, potenzialmente pericoloso.
Alla fine Singh ha ringraziato per una «maggioranza così convincente», ma l'incognita è il futuro della coalizione di centrosinistra. Singh, che ha attaccato duramente il Bjp, è stato blando nei confronti degli alleati. Ha chiesto ai suoi «amici» di rivedere le loro posizioni, di «considerare con che compagnia vi state mettendo». In passato la sinistra ha strappato diverse misure importanti, ma oggi accusa il Partito del Congresso di avere tradito il programma. Per adesso ha vinto Singh.

Liberazione 23/07/2008

NEPAL: maoisti fuori dal governo

Battuti per il presidente: maoisti fuori dal governo

Il governo nepalese resta un tabù per i maoisti, e non sono bastate la rinuncia alla lotta armata praticata per decenni né la vittoria elettorale che li ha trasformati nel primo partito del paese a portare il partito di Prachanda alla guida del Nepal. Dopo la sconfitta nell'elezione del nuovo presidente della Repubblica, infatti, i maoisti hanno annunciato che non entreranno nel nuovo governo, il primo governo repubblicano dopo la fine della secolare monarchia-teocrazia.

Lunedì il parlamento nepalese aveva bocciato il candidato dei maoisti, (non il «candidato naturale» cioé lo stesso Prachanda, leader del Cpn-M fin dai tempi della guerriglia, ma l'indipendente Ramraja Prasad Singh), preferendogli per 308 voti a 282 il candidato del Partito del Congresso, Ram Baran Yadav. A sconfiggere i maoisti una alleanza di centrosinistra e destra «autonomista» che il leader maoista ha definito «il contrario della Santa alleanza». L'accordo tra Congresso, Uml e Mjf prevede la presidenza ai centristi del Congresso, la vicepresidenza agli autonomisti del Madhesi Janadhikar Forum (che adesso rivendicano anche la guida del governo) e il posto di segretario dell'assemblea costituente ai comunisti moderati del Uml.
Tutto nel quadro della neonata democrazia, comunque, anche se il nuovo presidente Yadav ha immediatamente dedicato le prime dichiarazioni alla costituzione che ora dovrà essere scritta e approvata, e alle necessità di una (rischiosa) riforma federale dello stato e della lotta ai gruppi armati che ancora esistono nel Terai, la regione meridionale più fertile e ricca.

Il Manifesto 23 Luglio 2008

INDIA: Sinistra ko

Sinistra ko: sì del congresso al patto atomico con gli Usa
a. g.
Il governo indiano della United Progressive Alliance (Upa), guidata dal Partito del Congresso, ha ottenuto ieri la fiducia alla Camera Bassa del parlamento (Lok Sabha). La mozione di fiducia, sollevata dal premier Manmohan Singh, si era resa necessaria dopo che quattro partiti di sinistra avevano ritirato il loro appoggio all'Upa, a causa del controverso accordo portato avanti da Singh con gli Stati Uniti per lo sviluppo della collaborazione nucleare, ufficialmente in ambito civile. Per l'opposizione l'accordo causerebbe un'eccessiva dipendenza del Paese da Washington. A favore del governo si sono espressi 275 deputati, 256 sono stati i contrari e 10 le astensioni. La seduta è stata interrotta dall'opposizione, che ha denunciato offerte di denaro da parte di esponenti dell'esecutivo negli ultimi giorni in cambio dell'astensione o del voto a favore. Il parlamento è precipitato nel caos quando un deputato della formazione nazionalista hindù Bharatiya Janata Party (Bjp), la maggiore dell'opposizione, Ashok Argal, ha mostrato borse piene di banconote che ha cominciato a distribuire ai deputati. Erano, ha detto, la prova che la maggioranza aveva tentato di comprare il suo voto. «Ora che questo è stato scoperto - ha detto il presidente del Bjp, Rajnath Singh - il Primo ministro di questo Paese dovrebbe rassegnare le proprie dimissioni. Questo scandalo ha distrutto la dignità del nostro parlamento», ha proseguito il presidente.
Secondo quanto riportato dall'agenzia Reuters, inoltre, alcuni legislatori in carcere per omicidio ed estorsione sono stati messi in libertà per qualche giorno per deporre il loro voto, e altri membri malati sono stati portati al voto in lettini d'ospedale.

Il Manifesto 23 Luglio 2008

CGIL

Passo doppio per la Cgil
Radiografia del più grande sindacato italiano. Tra vertici che si compattano e una base scossa dalla crisi di una rappresentanza messa sotto attacco
Loris Campetti

Che scandalo: in Italia ci sono 700 mila delegati, Rsu per chiamarli con il loro vero nome. Recenti inchieste sul sindacato che mirano a dimostrarne la natura di casta - pezzo di ceto politico, assistito, parassitario - denunciano questo presunto scandalo. E inoltre, continuano le intemerate a cui ben si associano i feroci ministri del governo Berlusconi, questi 700 mila «privilegiati» hanno diritto a un certo numero di ore di permesso per svolgere il loro lavoro sindacale. Come gli Rls, i rappresentanti per la sicurezza sul lavoro che con la scusa di garantire il rispetto di normative considerate troppo penalizzanti dagli imprenditori, riducono la loro prestazione e mettono lacci e lacciuoli al flusso produttivo. Per non parlare dei distacchi, garantiti sia dalle imprese private che dai settori pubblici (sui quali, però, un qualche approfondimento sarebbe meritorio). Ebbene, la nostra inchiesta sulla Cgil va nella direzione opposta: i delegati sono il principale, talvolta unico, rapporto tra l'organizzazione sindacale, la confederazione, la categoria e i lavoratori. Insomma, l'ultimo legame tra rappresentanti e rappresentati. Semmai si potrebbe riflettere sui 14 mila funzionari sindacali e sulla qualità del lavoro svolto in rapporto con i lavoratori e la materialità della loro condizione. Potremmo dire che le Rsu, con tutti i limiti di cui ci occuperemo, sono una delle poche resistenze allo snaturamento della rappresentanza sociale del lavoro, se non proprio nella direzione della casta, certamente in quella cara alla Cisl del sindacato dei servizi. Un sindacato, cioè, che non costruisce vertenze e conflitti dal basso, che non trova il suo sostentamento e la sua legittimazione nel rapporto con i lavoratori (garantito economicamente dall'automatismo del rinnovo delle tessere), ma piuttosto con le controparti, con la politica, i governi, le amministrazioni locali. I servizi svolti sono spesso sostitutivi del welfare pubblico e rischiano di trasformare il sindacato in un pezzo dello stato, pagato per questo scopo e così percepito. Più patronato, Caf, assistenza, enti bilaterali e minor conoscenza e rapporto con la condizione di lavoro.
Autonomia limitata
Fatta questa premessa - dovuta nel clima di restaurazione imperante - ne è necessaria una seconda: il passaggio dalla centralità della solidarietà al dominio della competitività mina i valori fondativi del movimento operaio, sempre in un cocktail di antico sfruttamento e antisindacalità e moderno assetto dei poteri; si snatura il conflitto di classe attraverso la produzione di nuovi conflitti, non più tra capitale e lavoro ma tra stati, aziende, stabilimenti, tra gli stessi lavoratori. In questo contesto e di conseguenza, procede a livello mondiale l'indebolimento del ruolo sindacale che si rapporta alla frantumazione del lavoro luogo per luogo, paese per paese e senza un progetto alternativo alla globalizzazione data. In Italia, come in Germania, tentennano i contratti collettivi di lavoro e l'obiettivo del salario minimo si fa strada nel dibattito tra le residue forze di sinistra e all'interno degli stessi sindacati, come risposta alla spinta verso l'individualizzazione dei rapporti di lavoro. Se la prospettiva è il «contratto su misura», la prima conseguenza è che ogni lavoratore si troverebbe solo davanti al potere del padrone, pubblico o privato che sia. E' quel che in molti casi sta già avvenendo. Per questo diventa fondamentale la rottura di quella rete diffusa di democrazia che è costituita dai rappresentanti sindacali nei luoghi di lavoro.
Come si attrezza la Cgil in questo nuovo, pericoloso scenario? Partiamo dal vertice, dunque dal centro nazionale di corso d'Italia, per arrivare alle Camere del lavoro e alle Rsu, passando attraverso le categorie. Il punto di riflessione più diffuso al vertice come alla base è che in presenza di un mutato scenario anche la politica sindacale deve cambiare. Il congresso di Rimini del 2006 non ha messo al centro i nodi strategici della fase che interrogano sulla natura stessa del sindacato, al contrario ha investito tutte le sue azioni sul governo Prodi («Il mio programma è il vostro programma», e viceversa). Con la conseguente perdita di autonomia della Cgil, ribadita nella campagna elettorale di quest'anno, sempre più spesso identificata dai lavoratori con quel ceto politico di centrosinistra che ha deluso ogni aspettativa, abbandonando il mondo del lavoro ai venti liberisti. E' quel che sostiene chi non ha condiviso questa scelta, dalla Fiom alle aree programmatiche Lavoro e società e Rete 28 aprile. Anche chi, come il segretario della Funzione pubblica Carlo Podda, pur negando che la Cgil abbia «perso le elezioni» ammette l'errore congressuale - «un abbaglio collettivo» - giunge con toni e motivazioni diverse alla stessa conclusione del segretario Fiom Gianni Rinaldini e di Nicola Nicolosi (Lavoro e società) e Giorgio Cremaschi (Rete 28 aprile): il governo Prodi ha finito la sua corsa e oggi al governo è tornato Berlusconi con Tremonti, Sacconi e Brunetta. La Cgil deve prendere atto del cambiamento e ripensarsi in grande, e in autonomia.
Come si ripensa la Cgil, come affronta il nodo dell'autonomia? A che punto sono democrazia interna e partecipazione, cioè il rapporto con la propria base sociale? Si ripensa nel modo peggiore secondo molti, collocati alla sinistra come alla destra (è il caso della segretaria dei tessili Valeria Fedeli) del segretario generale Guglielmo Epifani, a cui non risparmiano critiche per il metodo scelto per rinnovare la segreteria confederale - una rottura della tradizione, un vulnus, nella direzione della democrazia maggioritaria in base alla quale chi ha il 51% dei consensi comanda tutto e forma i gruppi dirigenti a sua immagine e somiglianza. Nessuna rappresentanza alle minoranze e neppure alle diverse articolazioni della maggioranza, chi ieri non condivideva il protocollo sul welfare e oggi quello sulla riforma del sistema contrattuale non ha voce, mentre all'interno dell'unico partito «di riferimento» - il liquido Pd - rafforzano la loro influenza i dirigenti di tradizione socialista, così almeno denuncia chi dai tempi del Pci è stato sempre fedele alla linea senza mai recidere il cordone ombelicale e oggi si sente emarginato. Si costringe la vecchia segreteria a rassegnare le proprie dimissioni a costo di trovarsi contro mezzo direttivo nazionale, poi si scelgono i nuovi segretari uno a uno, in base al principio della massima fedeltà al capo che giunge a scegliere come rappresentante di Lavoro e società una segretaria che non rappresenta più quell'area. Anche chi ha sempre praticato una certa autonomia - come il segretario della Flc Enrico Panini - viene scelto per la segreteria confederale come individuo e non come rappresentante di una cultura interna all'organizzazione. Non è escluso che da lui possa arrivare qualche sorpresa a chi paventa il monocolore di Epifani. Forse il segretario generale temeva un'ipotetica alleanza tra un'area già di sinistra come quella guidata da Paolo Nerozzi e finita con lui nel calderone veltroniano e una di destra come quella guidata da Passoni, ben più organicamente interna al Pd. Fatto sta che entrambi le ali sono state tagliate e sia Podda che Fedeli sono fuori dalla segreteria. Ciò fa dire alla destra che si è rotta una tradizione pluralista che aveva sempre visto, dopo lo scioglimento delle componenti di partito deciso da Trentin, il segretario generale affiancato da rappresentanti delle varie culture interne. Oggi siamo alla «segreteria del segretario». Dal lato opposto, il bresciano emarginato ante litteram dal nuovo corso, Dino Greco, denuncia la centralizzazione, il leaderismo e l'autoreferenzialità, l'esclusione del dissenso dentro una pratica di «ossequiente ossessione all'accomodamento alla volontà del capo». Siamo alla democrazia plebiscitaria?
Movimenti al vertice
Ma le destre non mancano in Cgil, cosicché non restava che l'imbarazzo della scelta. Dentro Agostino Megale, proveniente dall'Ires-Cgil in via di fusione con la Di Vittorio, dentro il segretario dei trasporti Fabrizio Solari. La scelta più netta compiuta da Epifani riguarda il delfino, anzi la delfina (socialista) Susanna Camusso, portata a Roma dalla Lombardia per prendere la guida dell'organizzazione quando, forse già tra un anno in occasione delle elezioni europee, il primo segretario generale di marca socialista lascerà il sindacato. Scelta mal digerita da molte anime, dalla Fiom che in passato ha avuto modo di conoscere la Camusso, fino alle principali categorie dell'industria e dei servizi. Solo i potenti pensionati dello Spi, oggi diretti da Carla Cantone, non hanno mai alcuna critica da avanzare al segretario, qualunque esso sia. Epifani è andato avanti senza ripensamenti, fino ad assegnare alla delfina la responsabilità dell'industria che in Cgil vuol ancora dire qualcosa. Nella segreteria non sono rappresentate né la Fiom né la Funzione pubblica.
Le scelte del gruppo dirigente procedono di pari passo con la formazione della volontà politica. La lente attraverso cui vengono selezionati gli orientamenti è l'unità con Cisl e Uil. Sognando un Pd vincente si era andati oltre l'unità strategica: il fantasma del sindacato unico si agitava sui cieli sopra corso d'Italia. Infranto il sogno del partitone, resta l'obiettivo se non dell'unificazione, dell'unità a ogni costo con Cisl e Uil, accompagnato da un tentativo di normalizzazione moderata delle Camere del lavoro e delle categorie. Ciò comporta una modifica delle scelte politiche della Cgil e una riduzione del tasso di democrazia interna e nel rapporto con i lavoratori.
Il nodo contratti
Prendiamo il caso del protocollo confederale sulla riforma del sistema contrattuale con cui Cgil, Cisl e Uil si sono presentate al confronto con Confindustria. Il documento è stato redatto da Epifani, Bonanni e Angeletti, quindi presentato agli organismi dirigenti: prendere o lasciare, con una sorta di voto di fiducia sul segretario. Una volta approvato dal direttivo, il documento è legge nell'organizzazione in cui vige un ferreo centralismo democratico, con la differenza che ai tempine della Terza internazionale tale regola non era che il punto di arrivo di un percorso che coinvolgeva l'intera rete degli iscritti, dei dirigenti locali e delle categorie. Ora non resta che l'ordine finale a cui tutti devono adeguarsi. E del referendum sull'eventuale accordo che modificasse il sistema contrattuale, sterilizzando il contratto nazionale e vincolando gli aumenti salariali di secondo livello alla dilatazione dell'orario di lavoro e agli utili d'impresa, neanche si parla. Un vulnus, la messa in mora della partecipazione dei lavoratori nella formazione delle scelte strategiche, come ci raccontano i metalmeccanici torinesi. E dire che il protocollo sul welfare aveva lanciato segnali chiari di critica e di rabbia, ma i fischi di Mirafiori sono stati rapidamente archiviati, come la promessa dei tre segretari generali di tornare presto nella fabbrica più difficile. Poi ci si interroga sul «riflusso» dei lavoratori, sul loro allontanamento dal sindacato, sui voti che se ne vanno a destra.
C'è chi la racconta così: «all'evanescenza della rappresentanza politica si sta affiancando l'evanescenza della rappresentanza sociale». La motivazione che spinge Epifani a rinsaldare il rapporto con Cisl e Uil è ragionevole e per molti aspetti condivisibile: siamo sotto l'attacco più sfrontato ai diritti dei lavoratori e ai sindacati, da cui ci si può difendere solo con l'unità. Effettivamente l'attacco è inedito ed è condotto contemporaneamente dal governo e dai padroni (anche, va detto, gli strali di Epifani si sono concentrati solo sul governo, e questo è stato notato nell'organizzazione, al di là delle rituali alzate di mano nelle votazioni degli organismi dirigenti). Persino l'articolo 18 torna a sollecitare molti palati, in modo trasversale nei banchi di Montecitorio. Sotto botta sono finite le poche norme non regressive varate da Prodi e quelle regressive vengono ulteriormente peggiorate. Il lavoro straordinario costa il 20-30% in meno del lavoro ordinario, si ripristina il job on call, si mette sotto accusa la nuova normativa per la sicurezza del lavoro. Al punto che la legge 30, contro cui la Cgil aveva mobilitato da sola milioni di lavoratori, appare rose e fiori. Dall'altro lato, la Confindustria vuole stravincere sui contratti, sulla flessibilità, sulla messa in mora del primo livello e, nel secondo livello, vuole cancellare la trattativa con le Rsu. Unità, dunque. Peccato che Cisl e Uil, cofirmatarie della legge 30, siano molto più possibiliste verso le politiche econonomiche e sociali del governo e con l'idea padronale di controriforma contrattuale.

Il Manifesto 23 Luglio 2008
(1-continua)