giovedì 31 marzo 2011

PVC

PVC - Ero feto
http://www.youtube.com/watch?v=Qvn_9DZ9GJs

PVC - Fotti il sistema
http://www.youtube.com/watch?v=KDKPVj_JJEo

PVC - Nuovi alfabeti
http://www.youtube.com/watch?v=Onehb_2m9Is

PVC - Canzone commerciale
http://www.youtube.com/watch?v=LMHHqwjJhmU

PVC - Cuore solitario
http://www.youtube.com/watch?v=pfjTVK4qTRg

--------

Album: Elettrodomestico (1996)

PVC nasce dalla fusione del Margine, gruppo attivo da cinque anni nella scena underground romana, con Marco Bedini già voce e fondatore dei Gronge.

Dentro l'Opus Dei

http://www.beppegrillo.it/2010/01/dentro_lopus_de/

http://www.chiarelettere.it/libro/reverse/dentro-lopus-dei.php

Italia, già spesi dodici milioni per la guerra

La prima settimana di guerra in Libia è costata all'Italia almeno 12 milioni di euro, ovvero più di 1,7 milioni al giorno. La Gran Bretagna ne ha spesi almeno 20 e gli Stati Uniti oltre 400 (Washington ha speso 130 milioni di euro solo per i centosettanta missili Tomahawk lanciati finora: ognuno di essi costa 750 mila euro).
La parte più costosa è quella aerea: le 32 sortite dei Tornado sono costate quasi 10 milioni. La nostra missione navale è invece costata nella prima settimana, di solo carburante, oltre due milioni di euro.

Liberazione 26/03/2011, pag 3

martedì 29 marzo 2011

Chiude a Milano una sette giorni "Kano", un docu dalle Filippine

Davide Turrini
Si dice tanto della depravazione del bunga bunga ed ecco un satiro ancor più libidinoso del nostro presidente del consiglio. Lo possiamo seguire domani a Milano, nell'ultima giornata del ventunesimo Festival del Cinema Africano, d'Asia e America Latina con il documentario Kano, regia della filippina Monster Jimenez. Eccolo l'americano Victor Pearson, eroe, si fa per dire, del Vietnam, che tra una mitragliata e una bomba al napalm compie escursioni vacanziere nella povera regione filippina di Negro. Anno dopo anno, sposa dopo sposa, mette insieme un harem di centinaia di signore e signorine. Un'ottantina di queste nel 2002 l'hanno denunciato per stupro. Jimenez lo va a conoscere in carcere e ne ricostruisce la lussuriosa esistenza tra assistenti sociali e "mogli" che ancora lo venerano come un dio.
Kano è una delle più interessanti proposte di una sette giorni cinematografica che ha visto scorrere sugli schermi milanesi sia i prodromi delle rivolte nordafricane (Hawi dell'egiziano Ibrahim El Batout), sia Un homme qui crie, regia del ciaddiano Mahamat Saleh Haroun, grand prix della giuria all'ultima Cannes, conflitto edipico tra l'anziano ex campione olimpico di nuoto Adam e il figlio. Quando nel resort a cinque stelle, in cui Adam svolge la funzione di guardiano della piscina, arrivano i nuovi proprietari cinesi, l'uomo viene declassato per far posto al figlio. Nel frattempo, la perenne guerra civile in Ciad richiede l'ennesimo obolo ai cittadini sottoforma di giovani soldati. Sarà Adam a tradire vigliaccamente il figlio per il bene nazionale e per riappropriarsi del suo lavoro. Tragedia classica di semplicissima e vibrante eleganza drammaturgica, Un homme qui crie è uno dei più bei film del 2010, ingiustamente dimenticato dai distributori italiani.


Liberazione 27/03/2011, pag 9

////////

Kano: An American and His Harem (2010)

http://www.imdb.com/title/tt1794826/

http://www.youtube.com/watch?v=gUvnz5Iv2Hw

http://kanothemovie.com/

America Latina, la diplomazia della pace

José Luiz Del Roio
Quando ero molto giovane, in Brasile, lessi un libro che mi impressionò per il suo titolo: La Bulgaria esiste? Era il reportage di uno scrittore che aveva viaggiato da quelle parti e aveva scelto un titolo provocatorio: credo dipendesse dal fatto che il 99 per cento dei brasiliani mai aveva sentito parlare di quel Paese.
Mi sono ricordato di questo episodio leggendo i giornali italiani sulla crisi libica, dove ho trovato pochi accenni alla posizione di alcuni paesi latinoamericani, come se quel pezzo di mondo non esistesse.
Credo sia utile ricordare in modo sia pure sommario alcuni passi e alcune posizioni dei paesi progressisti latinoamericani. All'inizio del mese di marzo, il presidente del Venezuela Hugo Chavez aveva proposto la formazione di una delegazione internazionale ampia per tentare una mediazione fra le forze antagoniste all'interno della Libia. Poco dopo riceveva l'appoggio dell'Alba, organismo composto, oltre che dal Venezuela, da Bolivia, Equador, Cuba, Nicaragua, Antigua e Barbuda, Dominica, San Vicente e Granadina. Proposta sensata, forse l'unica possibile. Le cancellerie degli Stati Uniti d'America e dell'Europa occidentale accolsero la proposta con disprezzo.
Il Brasile, in quanto presente nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu, tentò una manovra più ampia e portò la discussione all'interno del Bric (Brasile, Russia, India, Cina) e promosse contatti con la Lega Araba e l'Organizzazione dell'Unione Africana. Sfortunatamente i suoi sforzi non furono sufficienti e portarono appena all'astensione dei paesi del Bric nel Consiglio di Sicurezza, fatto in ogni caso di non secondaria importanza. Con pochissima eleganza, è il minimo che si possa dire, il presidente Obama, ordinò proprio dal territorio brasiliano, nel quale si trovava in visita ufficiale, l'attacco aereo alla Libia. Il disagio della diplomazia brasiliana è stato profondo. Pochi minuti dopo che l'aereo del presidente degli Stati Uniti ebbe abbandonato lo spazio aereo brasiliano, il governo di quel Paese produsse una nuova nota in cui chiedeva un'ulteriore riunione del Consiglio di Sicurezza, nella quale si riaffermava la solidarietà al popolo libico, ai suoi diritti umani e alla sua indipendenza e si criticava l'intervento militare, esigendo l'immediato cessate il fuoco.
Questa diverrà anche, più o meno, la posizione della Lega Araba. Inoltre espresse appoggio al Comitato di alto livello creato ad hoc dall'Unione africana per costruire una soluzione negoziata. Nella riunione del Bric che si è tenuta giovedì scorso vi è stato un irrigimento delle posizioni che ha reso ancor più forte l'esigenza di sospendere le azioni belliche e di camminare verso i negoziati. In modo convinto o ipocrita Inghilterra e Francia hanno dovuto aprire alla possibilità di dare avvio a questa soluzione.
Il governo della presidente, signora Dilma Roussef, continua a lavorare su scala planetaria per raggiungere un cessate il fuoco e trovare una via d'uscita attraverso il dialogo.
Probabilmente nei prossimi giorni verrà avanzata qualche nuova proposta da parte dei paesi dell'Alba, proposta che al momento è in fase di elaborazione.
Martedì si è riunito a Città del Messico il gruppo di lavoro del Forum di San Paolo, che raccoglie i partiti di sinistra dell'America Latina. Si tratta di un'entità che non va sottovalutata, in quanto è ampia e ospita molti partiti di governo di quest'area geografica. La condanna dell'intervento militare è stata netta ed unanime.
Ad un pranzo offerto dalla comunità islamica in omaggio all'ex presidente Lula da Silva, quest'ultimo ha attaccato duramente l'attuale struttura dell'Onu, definendola antidemocratica, e ha criticato la mancanza d'iniziativa del suo segretario generale, esprimendo il proprio totale appoggio alla dichiarazione del Ministero degli Esteri brasiliano che insiste per l'immediato il cessate il fuoco.
Come si vede, l'America Latina esiste.
E L'Europa?


Liberazione 27/03/2011, pag 1 e 4

Federalismo, così il Pd si illude di abbattere il governo

L'esasperante tatticismo per riavvicinarsi alla Lega dietro la scelta dell'astensione

Gianluigi Pegolo
All'indecoroso spettacolo che sta dando di sé in questi giorni l'opposizione parlamentare nella vicenda libica, con il tentativo di accreditarsi come la forza più convintamente interventista, si aggiunge ora un altro fatto altrettanto inquietante. Mi riferisco al voto di astensione del Pd, nella commissione bicamerale sul federalismo fiscale, sul provvedimento riguardante il federalismo regionale. Stefano Folli ha giustamente rilevato su Il sole 24ore che la scelta del Pd è stata condizionata dalle posizioni dei suoi amministratori. La trattativa serrata avviata con Calderoli ha, infatti, puntato a smussare le parti più indigeste del provvedimento, per recuperare risorse per i trasporti pubblici locali, introdurre norme di salvaguardia per far fronte ai tagli dei trasferimenti, posticipare le addizionali Irpef aggiuntive e modificare la tempistica dell'introduzione del fondo perequativo. Modifiche sollecitate, per l'appunto, dagli stessi governi regionali.
E, tuttavia, a me pare che il voto di astensione abbia anche altre spiegazioni, ben più rilevanti. Nel merito, infatti, la scelta resta in sé politicamente azzardata e poco giustificabile. In primo luogo, essa rompe il fronte dell'opposizione. Si consideri, infatti, che in contemporanea il terzo polo e l'Idv hanno votato contro. In secondo luogo, il voto di astensione è poco comprensibile dopo che lo stesso Pd si era pronunciato contro le norme sul federalismo municipale. In terzo luogo, nonostante i miglioramenti introdotti, l'impostazione del provvedimento resta inaccettabile. La compartecipazione all'Iva e all'Irpef delle regioni, congiunta con gli effetti derivanti dal provvedimento sul federalismo municipale, determinano - come hanno documentato diverse strutture di ricerca, non ultima la Cgia di Mestre - un considerevole squilibrio fra le regioni in intermini di disponibilità di risorse. Non solo, il fondo perequativo annunciato non offre alcuna garanzia di un effettivo riequilibrio (data, oltretutto, l'assenza di riferimenti chiari relativamente ai livelli di assistenza garantiti e ai costi standard considerati). Infine, i nuovi balzelli (dalle addizionali Irpef aggiuntive previste dal 2013, alle tasse di scopo che potranno essere introdotte) scaricheranno sui cittadini una parte rilevante degli oneri.
Cosa dunque ha motivato il Pd ad astenersi, oltre all'appoggio dato alle rivendicazioni dei suoi amministratori nelle regioni? A me pare che questa scelta abbia una valenza fortemente politica e che rappresenti l'ennesima prova di riavvicinamento alla Lega Nord, nel tentativo (improbabile) di disarticolare la maggioranza di governo. La stessa vicenda del dibattito parlamentare sulla Libia è in questo senso assai significativa, con la convergenza della maggioranza sulla mozione dell'opposizione, a seguito dell'iniziativa della Lega.
Che fra i due fatti vi sia una forte connessione è più che evidente. Così come è indicativo che dopo l'intesa in bicamerale il Pd e la stessa Lega Nord plaudano al nuovo clima di collaborazione. Ancora una volta la merce di scambio di questo riavvicinamento è il federalismo fiscale e cioè un disegno di trasformazione del sistema istituzionale che lede i diritti e crea le condizioni per la disarticolazione del paese. Ancora una volta rientra in campo l'esasperante tatticismo che ha ragione dei contenuti. E ancora una volta il pezzo più significativo dell'opposizione parlamentare abdica al proprio ruolo, creando ancora più confusione in un elettorato già frastornato da segnali contraddittori e inutili macchiavellismi.


Liberazione 26/03/2011, pag 8

Libera Tv

http://libera.tv/

LiberaTv è una piattaforma webtv dove coloro che sulla rete producono contenuti di controinformazione, di denuncia, di lotta politica e di battaglia delle idee possono caricare i loro materiali.

Pisa, un nuovo aeroporto al servizio della guerra

Tutte le basi Nato saranno potenziate e l'Hub toscano svolgerà un ruolo chiave per le azioni in Libia

Andrea Montella
La data scelta per comunicare l'inizio dei lavori dell'Hub di Pisa è stato il 2 agosto: proprio nell'anniversario della Strage alla stazione di Bologna, il maggiore Giorgio Mattia, portavoce della 46ma Brigata Aerea che gestisce l'aeroporto pisano, ha affidato alla stampa che Pisa diventerà «riferimento per tutte le forze armate che avranno bisogno di spostarsi per via aerea per tutte le missioni nei teatri internazionali» e «sarà costruita anche una struttura ricettiva che potrà movimentare fino a 30mila uomini perfettamente equipaggiati, in un arco di tempo di almeno un mese» diventando così il più grande aeroporto militare del Mediterraneo.
Il giorno successivo, all'annuncio, l'Aeronautica ha pubblicato il bando per la prima "tranche" di lavori da 6 milioni di euro, scavalcando anche il ministro della Difesa che ha portato l'Hub in discussione in Parlamento solo il 30 settembre.
Immediato, invece, il plauso del sindaco del Pd, Marco Filippeschi, che ha dichiarato di considerare l'Hub un onore per la città e di apprezzarne «anche le possibili ed interessanti ricadute occupazionali».
Ricadute occupazionali che sono state smentite sia dai militari ricevuti in audizione dal Comune, che dai fatti di questi giorni allo scalo di Trapani-Birgi: Trapani è stato chiuso ai civili perché utilizzato per le operazioni militari verso la Libia. Lo stesso potrebbe succedere a Pisa: il Galileo Galilei, con 4 milioni di passeggeri l'anno, è il più importante scalo aereo della Toscana, ma è "ospite" dell'aeroporto militare Dall'Oro. Se dovrà far transitare 30mila soldati al mese «perfettamente equipaggiati» verso scenari di guerra, i turisti potranno scordarsi di partire da Pisa. E dovranno andare a casa anche i dipendenti civili, primi tra tutti i precari, che costituiscono una percentuale sempre maggiore tra gli occupati degli aeroporti.
Ma c'è dell'altro: l'aeroporto di Pisa è collegato al porto di Livorno dal canale navigabile dei Navicelli, che attraversa Camp Darby, 1.000 ettari di insediamento statunitense nella pineta costiera, il più grande deposito di armi del Mediterraneo e il più fornito al di fuori degli Stati Uniti, quello che ha alimentato i bombardamenti sul Kosovo e che sta attualmente rifornendo l'attacco alla Libia, anche se non compare tra le strutture coinvolte, come se si volesse tenere in sordina l'attenzione su questa base.
I pisani non sono stati ad ascoltare i militari in silenzio, ma hanno organizzato un coordinamento No-Hub che svolge una continua attività di sensibilizzazione e di mobilitazione tra i cittadini. Il No-Hub ha presentato in Comune un corposo dossier (consultabile su HYPERLINK "http://nohub.noblogs.org/" http://nohub.noblogs.org/), portando i consiglieri a conoscenza di molti dati sui rischi ai quali l'Hub espone la città, dall'aumento delle polveri sottili al rischio di incidente per i «materiali pericolosi» trasportati - fino a 12mila tonnellate al mese - come indicato da Roberto Speciale nella relazione alla Commissione Difesa della Camera, nella quale ha specificato che «la struttura, una volta realizzata, potrà essere messa a disposizione della Nato per supportare i flussi di materiale e personale in caso di crisi internazionali».
E' quest'altro aspetto che il Coordinamento sottolinea: il ruolo giocato dall'Hub rappresenta un pericolo per tutti. Il Nuovo concetto strategico della Nato stabilisce che occorre investire meno nelle forze militari statiche e di più nelle forze militari mobili, in grado di essere proiettate rapidamente fuori dal territorio dell'Alleanza.
In questa ottica tutte le basi Nato in Italia sono in fase di potenziamento e l'Hub militare di Pisa svolgerà un ruolo chiave, non nella funzione difensiva prevista dalla Costituzione. Riuscire a muovere in un mese dai 30mila soldati e avere degli stoccaggi di armi della portata di quelli di Camp Darby, ci ha trasformato in uno Stato che fa dell'aggressione la base della sua politica estera. In questo momento stiamo esportando quello che è diventato il nostro "modello di democrazia", e se questo è il prodotto che esportiamo che cosa è successo al nostro interno?


Liberazione 26/03/2011, pag 7

Eroi di là, ma clandestini di qua

In nome loro si bombarda la Libia. Ma se i protagonisti delle rivolte arabe arrivano qui li trattiamo da profughi

Sono eroi della libertà quando riempiono le piazze del Cairo, di Tunisi, di Bengasi, della Siria e del Bahrein. Al di qua del mare diventano profughi, clandestini, sfollati. Lottare per la democrazia ha significato per loro anche aprire un varco in quelle frontiere che i regimi della paura avevano murato, con il sostegno, il denaro, la connivenza dei governi europei. Chiamandoli profughi, clandestini, sfollati, si ricostruiscono i muri sulle macerie di quelli che sono stati abbattuti.
Ponendo l'esclusiva questione del diritto d'asilo il governo italiano - ma anche quelli europei - si garantisce la possibilità di ritirare la «protezione umanitaria» una volta che la guerra sia dichiarata conclusa. Se il pericolo non sussiste, crollano anche le condizioni dell'asilo. Lo sa bene il ministro Maroni, il quale intanto invoca il principio del burden sharing e indica la via del diritto d'asilo europeo, mettendo così in questione la struttura portante della normativa dell'Unione in materia. Si chiama Dublin II, e significa che i migranti sono vincolati al luogo in cui fanno la richiesta d'asilo, dal quale non possono spostarsi fino a che non abbiano ottenuto risposta. Chiaro che se il principio fosse rispettato, il "peso" che l'Italia dovrebbe affrontare sarebbe eccessivo, soprattutto a quelli che hanno annunciato improbabili esodi biblici in modo da ergersi a eroi e protettori della patria.
Questi eroi, che non sono i nostri eroi, hanno per anni controllato i movimenti dei migranti verso l'Europa garantendo il loro sostegno ai regimi della paura non solo dell'Africa del nord, ma ovunque fosse possibile bloccare i migranti. Oggi bombardano uno di quei regimi e lo fanno in nome della democrazia per la quale sono scese in piazza le donne e gli uomini della Libia. Ma le donne e gli uomini della Libia, come quelli di Tunisi che ogni giorno arrivano sulle coste di questo paese, hanno combattuto anche per conquistarsi la libertà di muoversi attraverso le frontiere che in questi anni, e soprattutto in tempo di crisi, sono state tenute ben chiuse. La loro democrazia è questa libertà, su questa libertà si gioca la partita della rivoluzione nel mondo arabo. Solo grazie alla lotta di quegli uomini e di quelle donne la Tunisia ha aperto le frontiere a quei migranti che proprio dalla Tunisia e dall'Egitto, dalla Cina e dal Pakistan, avevano raggiunto la Libia per lavorarci e viverci mentre oggi se la lasciano alle spalle, con le bombe che la riducono in macerie.
La democrazia delle bombe è un'altra: alla "fine" di questa guerra sarà democratico quel governo - qualunque governo - che prometterà all'Europa di vigilare con ogni mezzo necessario sulle sue frontiere, aprendo gli argini solo di fronte alle esigenze della produzione. Non dimentichiamolo: alla vigilia della guerra i padroni europei hanno richiamato in patria i loro "cittadini", lasciando i lavoratori migranti a rischiare la vita per garantire il profitto. Non dimentichiamolo: mentre Maroni annunciava l'invasione delle nostre coste, Sacconi dichiarava che per uscire dalla crisi l'Italia avrebbe bisogno di due milioni di migranti, quattro milioni di braccia da mettere al lavoro.
Allora è da qui che bisogna partire: il fatto della guerra non trasforma questi migranti in profughi o sfollati. Non smettono di essere eroi della libertà quando attraversano il confine invisibile e armato che solca il Mediterraneo. Qualunque sarà il loro status, questi uomini e queste donne attraverseranno l'Europa con o senza permesso e in Europa vivranno, lavoreranno, faranno i conti ogni giorno con la realtà brutale del razzismo istituzionale che è l'ordinaria condizione di milioni di uomini e donne, non soltanto in Italia. Questa condizione non è determinata dall'eccezionalità della situazione di guerra; dalla guerra sarà forse aggravata, se migliaia di persone saranno costrette ad accettare condizioni di vita e lavoro persino più pesanti di quelle alle quali la Bossi-Fini o le normative europee già li costringono.
Sacrosanto è affermare il dovere d'accoglienza, ma l'attraversamento del mare non può rigettare questi uomini e queste donne dall'eroismo alla vittimizzazione, rendendoli oggetti inerti di doverose cure o assistenza dopo averli inneggiati come protagonisti di vere e proprie rivoluzioni. Il ponte tra le due sponde del Mediterraneo si costruisce prima di tutto qui, pensando che gli uomini e le donne che oggi raggiungono l'Italia e l'Europa stanno e staranno accanto a quei migranti che ordinariamente lottano sapendo di dover essere ogni giorno eroi per resistere allo sfruttamento e al razzismo che moltiplica le frontiere.
Noi diciamo no a questa guerra perché mentre parla di democrazia mira invece a chiudere ogni possibilità di movimento, in modo da bloccare gli individui e le generazioni in un posto assegnato loro una volta per tutte. La cosa più esplosiva dei movimenti di rivolta degli ultimi mesi è che essi trasformano definitivamente il contenuto stesso della democrazia, sia in Europa sia dove le rivolte hanno avuto luogo. In piazza Tahrir c'erano anche migranti provenienti da altri paesi africani che contestavano un regime odioso tanto a loro quanto agli egiziani. I movimenti dei migranti non esportano solo le loro braccia e i loro cervelli, ma una pretesa democratica che non è confinabile in un sistema politico territoriale chiuso. Questo è ciò che terrorizza il ministro Maroni, i governi europei e molti governanti dei paesi arabi: non è il numero di migranti che potrebbe arrivare a fare paura, ma la pretesa di democrazia, di uguaglianza e di libertà che viaggia con loro. Hanno passato gli ultimi anni a cercare di esportare un'impossibile democrazia e ora che se la vedono restituire a domicilio, tentano disperatamente di rinchiuderla a Lampedusa o in Sicilia, ma comunque ben lontano dalla Padania, da Parigi o da Londra. Dire no a questa guerra, significa dire no alla democrazia dei confini e dello sfruttamento che vogliono imporre con le armi e con gli accordi di riammissione. Non cambia nulla se questi accordi sono garantiti dalla violenza dei despoti della porta accanto, fino a poche settimane fa peraltro riconosciuti e onorati, o da regimi con la patente democratica: non si può dipingere di rosso una porta nera. Chi vuole dire no a questa guerra, chi vuole ripensare alla radice la democrazia può e deve stare dalla parte dei migranti e delle migranti che sono qui e che arrivano, che lottano per muoversi e che lottano per restare, che non vogliono essere alternativamente un "peso" oppure una risorsa, che ogni giorno sono gli eroi di una classe operaia ormai transnazionale. E, d'altronde, a working class hero is something to be...
Coordinamento Migranti Bologna
www.coordinamentomigranti.splinder.com, coo.migra.bo@gmail.com


Liberazione 26/03/2011, pag 6

Quando il "mostro" era la Serbia

Il 24 marzo 1999 iniziava la guerra umanitaria Allied Force per il Kosovo. Primo ministro era allora Massimo D'Alema

Maria R. Calderoni
Dejà vu, già visto, patito, pianto. Era cominciato proprio oggi (ieri per chi legge), 24 marzo 1999, l'attacco alla Serbia, in era governo D'Alema; l'attacco proprio da lui fieramente voluto ed acclamato (e il tono era proprio quello stesso, identico, con il quale ieri, 24 marzo 2011, è intervenuto alla Camera per dare la sua entusiasta approvazione alla guerra in Libia). Degià vu, e noi andavamo in corteo, con la t-shirt bianca e bersaglio disegnato sopra all'altezza del petto, a gridare «sparate qua, sparate anche a noi». Eravamo arrabbiati, arrabbiatissimi; un atto di guerra infame approvato proprio da un governo "amico" con tanto di primo ministro ex comunista, volenteroso collaboratore di un delitto internazionale detta allora non "Odissea all'alba" ma "Allied Force" (vale la pena di ricordare che l'alta compagine governativa era allora formata, tra gli altri, da Bersani, Ciampi, Dini, Rosy Bindi, Giovanna Melandri, Giuliano Amato, anche Oliviero Diliberto...). Fotocopia che mette i brividi. Stessi prodromi. Stesse parole. Stessi strumenti. Si è cominciato allo stesso modo, la costruzione del "mostro" (allora era Milosevic). Una identica, massiccia, planetaria campagna mediatica si è incaricata di demonizzare la Serbia, che improvvisamente è sbattuta davanti all'opinione pubblica mondiale come il nuovo carnefice, lo Stato-canaglia colpevole di genocidio nei confronti delle inermi genti del Kosovo. Anche allora, esattamente come oggi, la manipolazione della stampa è completa, agghiacciante («Pristina città fantasma, uccisi i leader kosovari»; «I serbi decapitano il Kosovo. Uccisi intellettuali e politici»; «La vendetta dei serbi, uccisi i capi albanesi»).
Li avete visti gli infiniti filmini, video, reportage, servizi di oggi sulla Libia? Ebbene, anche nel 1999, già mesi prima dall'inizio dell'attacco, Cnn e tante altre tv mandano in onda i filmati delle presunte stragi di civili attuate dai sanguinari serbi di Milosevic. Peccato che si trattava di parti sempre diverse degli stessi filmati, i quali diventano la prova provata delle "fosse comuni" e dei "cadaveri accatasti". La causa dell'umanità e dell'altruismo è abbondantemente creata, Wall Street Journal e New York Times scrivono, marzo 1999, che «il regime di Milosevic sta tentando di sradicare un intero popolo» (per favore andate a leggere quello che pubblicano oggi, marzo 2011, sulla Libia...).
Fallito il falso "tavolo" di Rambouillet - più che altro una trappola rifiutata dal governo serbo - quel 24 marzo di 12 anni fa partono i bombardamenti Nato su tutto il paese; e così hanno continuato per 78 giorni. I jet decollano prevalentemente dalle basi militari italiane, come quella di Aviano. Almeno 600 raid al giorno. Si tratta, come vengono definite, di bombe intelligenti, anzi intelligentissime. Che infatti colpiscono non solo basi militari, ma anche obiettivi civili, anzi civilissimi; per esempio centrali elettriche, la televisione di Belgrado, colonne di profughi, aziende, scuole, anche industrie chimiche (garantiti un bel po' di veleni sparsi in giro). Ricordiamo per esempio quel ponte di Grdelica intelligentemente bombardato dall'Us Airforce proprio mentre passa un treno, 14 persone uccise e decine di feriti (fu un mero incidente, danni collaterali, diciamo). Errori. Piccoli errori. Come le bombe sulla zona residenziale di Novi Pazar (23 morti); di Alexsinac (12 morti); di Pristina (12 morti); di Surdulica (20 morti). Anche su una corriera di Luzane (40 morti); sull'ospedale di Nis, di Surdulica e di Belgrado; sull'ambasciata di Pechino a Belgrado; suul villaggio di Korisa (80 morti); sul ponte di Varvarjin (11 morti).
Tanto per citare. Ma secondo il computo ufficialissimo targato Nato, in 78 giorni di guerra umanitaria vengono compiute 34 mila missioni di cui 13 mila d'attacco; sganciate 20.000 tra bombe e missili; distrutti 450 bersagli fissi così chiamati, tra cui il 57% delle riserve di carburante, 35 ponti, tutti i 9 aeroporti.
Bisognava difendere la popolazione kosovara, impedire la pulizia etnica. Ancora oggi non si sa il numero esatto dei morti causati dalla "protezione" umanitaria del tipo Nato, sicuramente sono svariate migliaia. Ma basta il rapporto di Amnesty International, che un anno dopo la fine dell'attacco, dice: «La Nato in più occasioni ha violato i principi umani da applicare in ogni conflitto armato».
L'Italia del popolo di sinistra non sta a guardare. «Siamo il popolo che ripudia la guerra», migliaia di fax e lettere inondano ad esempio Liberazione, pagine e pagine si riempiono di no. «Proclamiamo lo sciopero generale», è l'appello firmato dalle Rsu; mezzo milione di ascoltatori mandano in onda su "Zapping" (Raiuno) l'angoscia collettiva; «Gli operai bocciano la guerra. Sciopero all'Alfa di Arese e manifestazioni in tutta Italia», sono solo alcuni dei titoli del nostro giornale in data giovedì 1 aprile. «Caro Cofferati dove sei?», alla vigilia della manifestazione che si svolgerà a Roma il 10 aprile il mondo del lavoro rivolge la domanda al segretario Cgil; tra le altre associazioni alla giornata del no partecipa l'Anpi: in centomila invadono Roma, «Guerra infame. Il coraggio della pace». A Porta San Paolo parla Ingrao: «Oggi è solo l'inizio, l'avanguardia di una battaglia. Non ci rassegnamo, lo sappia il governo».
La guerra umanitaria avanza. Ora i suoi orizzonti spaziano oltre il Kosovo. E' un generale di nome Wesley Clark, comandante supremo Nato, che arriva a dichiarare: «Noi continueremo con le missioni esattamente come programmato, non temiamo una guerra mondiale»; e centinaia di missili Allied Force «bombardano tutto il Montenegro nella notte della Pasqua ortodossa»; mentre si calcola che il prezzo delle bombe intelligenti è di diecimila miliardi al mese, quasi quanto il Pil della stessa Jugoslavia».
Rifondazione lascia l'aula di Montecitorio, dove si discute dell'intervento dell'Italia, D'Alema gran sacerdote: «Signori del governo, noi non vogliamo legittimarvi, neppure col nostro voto contrario alle vostre pulsazioni di guerra». Giovedì 15 aprile. "L'Italia è in guerra", titola Liberazione. «Alle 12,04, bombardieri dell'aeronautica militare partiti dall'aeroporto di Istrana (Treviso) hanno compiuto il primo bombardamento italiano sul territorio jugoslavo. Sciagurata iniziativa del governo D'Alema alle spalle del Parlamento».
Non se ne pentirà mai, D'Alema. Ecco quanto dichiarerà dopo l'accordo di pace siglato il 9 giugno 1999: «Vorrei ricordare che quanto a impegno nelle operazioni militari, noi siamo stati il terzo Paese, dopo gli Usa e la Francia, e prima della Gran Bretagna. In quanto ai tedeschi, hanno fatto molta politica, ma il loro sforzo militare non è paragonabile al nostro: parlo non solo delle basi che ovviamente abbiamo messo a disposizione, ma anche dei nostri 52 aerei, delle nostre navi. L'Italia si trovava veramente in prima linea».
La storia si ripete, ma questa volta non in forma di farsa. Rimane tragedia.


Liberazione 25/03/2011, pag 12

Federalismo, ok a fisco regionale Bossi soddisfatto il Pd si astiene

La commissione bicamerale sul federalismo ha dato il via libera al decreto sul fisco regionale. I voti a favore sono stati 15, 10 gli astenuti (il Pd) e 5 i contrari (Terzo polo e Idv). In Bicamerale sono stati accolti gli emendamenti dei democratici contro i tagli alle Regioni e quello proposto dalle Regioni per il reintegro di 425 milioni per il trasporto pubblico locale. Si è stabilita, dunque, la possibilità di aumentare le addizionali Irpef regionali fino al 2013. L'aumento non potrà essere superiore allo 0,5% per il 2013, all'1,1% per il 2014 e al 2,1% dal 2015. Ferma allo 0,5% la maggiorazione per i redditi del primo scaglione irpef, quelli fino a 15mila euro. Bossi soddisfatto mentre il Pd si è astenuto. L'orientamento era emerso al termine di una riunione, conclusasi con Bersani che aveva chiesto ai presenti il silenzio stampa per dargli il tempo di convincere i contrari al decreto, in particolare per l'ala vicina a Dario Franceschini.


Liberazione 25/03/2011, pag 8

La guerra batteriologica e la politica della paura

Chi ci guadagna con il bioterrorismo

In questo contesto di dicerie atte a diffondere il panico, di progressiva militarizzazione e di transazioni economiche corrotte, il Critical Art Ensemble si è sentito costretto a scrivere una contro-retorica critica. Nelle pagine che seguono cercheremo di dar ragione del perché il bioterrorismo sia una strategia militare fallimentare; del perché sia praticamente inservibile per i terroristi; di quanto gli sforzi per «stare pronti» siano dannosi per la politica della salute pubblica; di quanto le istituzioni traggano benefici dal bioterrore; e del perché questo problema non verrà lasciato nelle mani della «comunità diplomatica». Ci rendiamo ovviamente conto delle difficoltà del lavoro che abbiamo intrapreso. La conoscenza di questa materia è molto frammentaria. Ci sono tante versioni della storia quanti sono i giocatori in campo. E visto quanto è alta la posta in gioco, non possiamo fidarci di alcun esperto biologo, né di alcun esperto politico, dal momento che tutti si trovano all'interno di un palese conflitto di interessi: ecco perché è necessario un approccio tanto scettico.
Anche per quanto riguardo le quantità, la situazione è parecchio imprecisa. Ad esempio, come possiamo sapere quanto denaro pubblico viene speso nella ricerca per la guerra batteriologica? Operazioni nascoste a parte, molte delle aree di queste discipline sono scarsamente definite. Burocrati e contabili possono giocare in modo molto disinvolto su cosa fa parte e cosa non fa parte della ricerca per la guerra batteriologica. Di conseguenza, tutto quello che possiamo dire è che le iniziative dell'amministrazione Bush per la guerra batteriologica sono costate miliardi di dollari ai contribuenti americani. Quanti miliardi di dollari è pressoché impossibile determinarlo con una certa attendibilità. Perciò ci rimangono poche alternative per descrivere quel che succede. Ci sono scaffali zeppi di documenti fondamentali e una manciata di rapporti, ma in fin dei conti possiamo contare esclusivamente sulla nostra esperienza pratica, nella vita di tutti i giorni, per giudicare se sia il reale o il surreale a regnare sovrano in questa situazione.
La nostra opinione è semplicemente che lo «stare pronti» in vista della guerra batteriologica è solo un eufemismo per il via libera di fatto allo sviluppo di tecnologie belliche e alla militarizzazione della sfera pubblica. «Stare pronti», per come stanno ora le cose, è una follia che si perpetua con l'unico scopo di fornire voti ai politici, pubblico ai dibattiti sui media, profitti alle grandi aziende e fondi alla ricerca militare. Se una qualche minaccia reale per la nostra vita o per la nostra salute esiste, non proviene dalle armi batteriologiche ma da quelle istituzioni che da questa corsa agli armamenti traggono enormi benefici.
(da Critical Art Ensemble, "Lo spettro della peste", elèuthera, pp. 128, euro 10)


Liberazione 25/03/2011, pag 5

Le armi della propaganda

Stereotipi, enfasi allarmistica, bugie vere e proprie. Così si costruisce il consenso alla guerra

Tonino Bucci
Ricordate il famoso discorso all'Onu di Colin Powell, allora segretario di stato americano dell'amministrazione Bush, quando denunciò l'esistenza di armi batteriologiche nelle mani di Saddam Hussein? Oggi sappiamo che era un'invenzione di sana pianta. Ma, sul momento, quella rivelazione ad effetto contribuì - e non poco - a mettere in moto la poderosa macchina della propaganda di guerra. Non ce n'è uno, tra i cosiddetti conflitti postmoderni degli ultimi vent'anni, che non sia stato combattuto anche sul piano della comunicazione e della sfera pubblica della politica.
Tutte le retoriche giustificazioniste delle guerre contemporanee hanno utilizzato tre tipi di argomentazioni. La prima è quella dell'intervento umanitario, dell'esportazione della democrazia con le armi e della guerra come estrema ratio per la riaffermazione dei diritti umani laddove essi vengano negati. Va da sé, il presupposto implicito in questa argomentazione è che spetta all'Occidente - e solo ad esso - in virtù di un non meglio precisato primato politico, morale e civile, il potere di stabilire cosa è la democrazia, chi la rappresenti e quale sia il metro dei diritti umani. Secondo cliché, l'elaborazione dello stereotipo del nemico dell'Occidente, incarnato di volta in volta - e secondo le convenienze della realpolitik - dall'Hitler di turno, Milosevic, Saddam Hussein o Gheddafi che sia. Last but not least, la spettacolarizzazione del potenziale distruttivo che possiede l'avversario. C'è sempre nella propaganda di guerra l'enfasi allarmistica sulle armi del nemico, armi generalmente non convenzionali, sleali, disumane (probabilmente abbiamo rimosso che nella storia militare armi del tipo gas, fosforo bianco, uranio impoverito e bomba atomica sono state utilizzate dal civilissimo Occidente). L'armamentario del nemico, di solito, è del genere terroristico. Il nemico è colui che colpisce in maniera imprevedibile, cioè vigliaccamente. Persino le sue armi evocano poteri oscuri e tremendi. Non a caso, l'effetto propagandistico del già citato discorso di Colin Powell dipendeva dal tipo di arma attribuito in quella fattispecie all'Iraq di Saddam Hussein: armi batteriologiche, invisibili agenti patogeni in grado di colpire da un momento all'altro attraverso l'aria.
Di recente è apparso in Italia un piccolo volume, una contro-retorica critica come dicono i suoi stessi autori, di un gruppo di attivisti e ricercatori statunitensi che si sono dati il nome di Critical Art Ensemble (Cae, per comodità). Il titolo del libro - anche questo, eloquente - è "Lo spettro della peste. Armi batteriologiche e politica della paura" (edito dall'anticonformista elèuthera, pp. 128, euro 10). "Batterio" sta per nemico, una sorta di significante vuoto che evoca una minaccia vaga e indefinita, ma spaventosa. «Segni di paura in un mondo minaccioso», scrivono gli autori, che hanno la funzione di tenere in piedi la fabbrica del panico e di estenderla a ogni ambito della vita quotidiana. «Chiunque sia stato di recente in un aeroporto non solo è stato testimone, ma ha provato materialmente sulla sua pelle lo spettacolo e la realtà dell'intensificazione della sicurezza (non che ora sia molto più efficace di prima). A parte i maggiori controlli sui documenti, le uniformi degli agenti della sicurezza tirate a lucido, le scarpe passate ai raggi x e l'accesso ai gates delle partenze vietato ai visitatori, la situazione è fondamentalmente la stessa di sempre». Uno spreco di denaro pubblico, visto che le tecniche per garantire l'incolumità dei passeggeri sono sempre lo stesse.
Cambia però la scenografia, il rituale, non è poco. L'industria dei trasporti è stata trasformata in una sorta di fronte interno di guerra, nel quale ci si deve attendere da un momento all'altro l'attacco del nemico. La «militarizzazione di aeroporti e metropolitane» è un gioco da ragazzi.
Ma davvero il bioterrorismo è una minaccia reale? Sul serio quelle potenze della natura che sono i batteri possono essere usate come armi? Tutte fantasie, buone tutt'al più a far prosperare una «falsa economia della minaccia» nelle mani dell'«istituzione capitalista». «Ogni potenza che tenta di trasformare in armi queste meraviglie della natura deve avere ben presente come controllare i batteri, in modo da non infettarsi da sola (bisogna appunto evitare che i batteri tornino indietro colpendo le popolazioni amiche come un boomerang)... Forse è proprio per questo che molte forze armate non hanno mai utilizzato armi di questo tipo in combattimento».
C'è chi fa risalire il primo esempio di armi batteriologiche alle malattie introdotte dagli spagnoli durante la conquista del continente americano. Sembra in effetti che il vaiolo abbia provocato milioni di morti tra i nativi, mentre tra i soldati spagnoli il tasso di mortalità fu di gran lunga inferiore. Un paio di secoli dopo l'idea di sfruttare le malattie contagiose come armi venne ai comandanti britannici del Nord America. «Sir Jeffrey Amherst suggerì di usare il vaiolo per sottomettere i nativi ostili della valle dell'Ohio durante le guerre franco-indiane. Quando il vaiolo esplose a Fort Pitt, furono raccolti tra i contagiati coperte e fazzoletti e poi distribuiti ai nativi». Difficile stabilire quanto l'espediente funzionò, sta di fatto che il vaiolo si diffuse in tutte le colonie e in particolare nella valle dell'Ohio. Anche i giapponesi durante la Seconda guerra mondiale, nel 1940, tentarono di disperdere nell'aria di alcune città della Cina pulci infettate di peste. «La lezione più importante da imparare da tutti questi eventi è che l'uso dei batteri non è mai una buona idea. Ci sono enormi danni collaterali: per questo tutti perdono».


Liberazione 25/03/2011, pag 5

Croce uncinata in salsa verde. Così t'invento i nemici della Padania

In libreria "Svastica verde", un lavoro di Walter Peruzzi e Gianluca Paciucci sul vocabolario leghista

Tonino Bucci
Sulla Lega esiste ormai un'ampia letteratura. Il partito di Bossi non è più un oggetto politico sconosciuto, come quando alle sue origini sembrava saltato fuori da chissà dove nell'opulento nord. Non è un fenomeno effimero, come ancora si poteva pensare agli inizi degli anni Novanta. I suoi esponenti, da capi di un movimento di protesta sono diventati classe di governo. Quella della Lega è, per così dire, una storia "interna" alla crisi della società italiana e le risposte politiche avanzate in questi anni continuano a essere parte della medesima crisi. La Lega si alimenta della crisi tanto quanto cerca di riprodurne indefinitamente le dinamiche dalle quali, in una sorta di circolo vizioso, dipende la sua esistenza di soggetto politico. Persino i temi della sicurezza e della difesa dell'identità etnica della Padania che pure stanno a cuore al movimento leghista, vengono affrontati con proposte che hanno l'obiettivo non di risolverli, ma di potenziarli a dismisura. Se per assurdo le ricette politiche della Lega in tema di sicurezza, come su altri versanti, dovessero avere successo e, come d'incanto, svanisse il disagio dei ceti medi (e operai) del nord, verrebbe meno il serbatoio di voti da cui dipendono le sue fortune politiche.
Va segnalata l'uscita nelle librerie del lavoro di Walter Peruzzi e Gianluca Paciucci, Svastica verde, sottotitolo Il lato oscuro del Va' pensiero leghista (Editori Riuniti, prefazione di Annamaria Rivera, pp. 438, euro 15), un'antologia in presa diretta che segue di poco un altro studio dedicato al Carroccio, La rivincita del nord, del sociologo Roberto Biorcio (di cui s'è già parlato su Liberazione). Nel giro di vent'anni i dirigenti leghisti si sono accreditati come personaggi pubblici, a dispetto di un repertorio politico e di un orizzonte culturale criptonazisti. «Vengono declassati a innocue e risibile sparate folcloristiche - scrivono i due autori, Peruzzi Paciucci - linguaggio, gesti triviali, gesti e comportamenti violenti, che ricordano le camicie nere e i cappucci bianchi del Ku Klux Klan, o altre camicie verdi di estrema destra, come le Croci frecciate ungheresi e la Guardia di ferro rumena». «Lo strumento più semplice e più diretto per contestare il quadretto idilliaco cui è ridotta la Lega Nord ci è parsa un'antologia. Ecco quindi "la Lega raccontata dalla Lega", attraverso una raccolta sistematica e ampia, anche se ovviamente incompleta, di opinioni e dichiarazioni dei dirigenti leghisti, degli articoli de "la Padania" e delle proposte legislative, di iniziative nazionali e locali tratte dalla nuda cronaca, aggiornate ai primi giorni del dicembre 2010». Il risultato, neanche a dirlo, è inconfondibile. Sotto la patina di un partito dell'ordine e della legalità si cela «un movimento eversivo, razzista e tendenzialmente totalitario», fondato su una doppia occupazione, dell'immaginario e del territorio - non da ultimo, «mediante alleanze e intese con lobby e centri di potere politico, economico e bancario».
È sorprendente che sia diventato partito di governo un partito che nel primo articolo del proprio statuto recita: «il movimento politico denominato "Lega Nord per l'indipendenza della Padania" ha per finalità il conseguimento dell'indipendenza della Padania attraverso metodi democratici e il suo riconoscimento internazionale quale Repubblica federale indipendente e sovrana». Del resto anche la versione più soft del federalismo contiene indizi di autoritarismo e di destabilizzazione dello Stato. Il primo a fornire una spiegazione teorica del federalismo leghista fu l'ideologo delle origini, quel Gianfranco Miglio al cui nome il sindaco di Adro aveva di recente proposto di intitolare una scuola elementare. «Non ha niente a che vedere con Cattaneo e Gioberti. Io immagino un federalismo autoritario... Non si può dare lo stesso diritto civile e penale a tutte le regioni... Io sono anche per il mantenimento della mafia e della 'ndrangheta». «Il destino dell'Europa è rivivere le invasioni barbariche. Dovremo incorporare alcuni milioni di immigrati che svolgeranno i lavori rifiutati da noi europei. Ma bisogna evitare i mescolamenti, se vogliamo far sopravvivere l'Occidente». Nel tempo la Lega non ha mantenuto le stesse posizioni ideologiche. La coerenza non è una virtù del partito di Bossi, che ha fatto della disinvoltura teorica la propria forza. «Bossi? L'ho chiamato io nel 1989 - parole sempre di Miglio - perché volevo conoscerlo... Mi rendevo ben conto di che cos'era: un politico, quindi un ignorante. E da ignorante l'ho sempre trattato».
In origine la Lega ha provato a legittimarsi come uno dei tanti movimenti autonomisti e indipendentisti esistenti in Europa. «Ma si tratta di un falso - scrivono gli autori - poiché a differenza dei Paesi baschi, della Catalogna, della Corsica, dell'Irlanda, entità realmente esistenti e con un'identità, una cultura, una lingua e anche una storia comune d'oppressione, di rivendicazioni e lotte, la Padania non è mai esistita». A volerla dire tutta, la Padania esiste perché esiste la Lega. Ma si tratta di un'invenzione che per poter vivere ha bisogno di un territorio, di una comunità e di una identità etnica da definirsi in una relazione di ostilità amico-nemico. «L'altra faccia del ripiegamento ossessivo e celebrativo su una propria patria inventata, ha come risvolto l'odio verso le patrie degli altri e le loro identità: da Roma a un Sud indefinito e generico, dai migranti agli omosessuali. Sembra quasi che l'inconsistenza del concetto di "Padania" possa acquisire concretezza solo attraverso il rifiuto e il disprezzo dell'altro». La variante economica dell'antimeridionalismo è la proposta delle gabbie salariali. Poco più di un anno il ministro Calderoli ha rilanciato l'idea di buste paga parametrate sul reale costo della vita nelle diverse aree del paese. L'altro campo è la scuola, vecchio cavallo di battaglia. «Vogliamo professori che parlino come noi... che abbiano la nostra mentalità, che ci spieghino le nostre tradizioni e le nostre usanze. Perché anche il Manzoni, spiegato da un meridionale, può avere un significato diverso», diceva nel 1996 il responsabile del Movimento giovani della Lega. E ancora: «Mai più professori meridionali nelle nostre scuole... No al colonialismo romano che tenta di eliminare l'identità padana». Persino la spazzatura diventa un demarcatore etnico. «Non li vogliamo, perché i nostri rifiuti sono diversi da quelli napoletani», ha detto pochi mesi fa il leghista Luca Zaia, governatore del Veneto.
Tutti gli ingredienti del discorso leghista servono da demarcatori di una comunità fittizia e inventata da zero. L'antimeridionalismo, certo, ma anche il sessismo, l'omofobia ("questo non è un paese per culattoni" e anche le donne "devono avere le palle", parole di Gentilini) e il cattolicesimo (arrivederci e grazie al paganesimo delle origini). «Siam venuti giù in Emilia e ve le abbiam trombate tutte. E da come ci han votato, si vede che gli è anche piaciuto», firmato Bossi, aprile 2008. «Essere culattoni è un peccato capitale e chi vota una legge a favore dei Dico finirà nelle fiamme del più profondo dell'Inferno», Calderoli, 31 marzo 2007. «Non vogliamo vedere film dove gli omosessuali si slinguano tra di loro: la depravazione morale sta raggiungendo il suo limite estremo, arrivando a superare la cattiveria con la quale Hitler ha mandato sei milioni di ebrei a morire» (Andrea Rognoni, conduttore di "Radio Padania"). «Il leghismo - annotano gli autori - è riuscito a fare del razzismo un senso comune». La punta di diamante, se così si può dire, è Borghezio, "nazista identitario" cresciuto in gioventù nel movimento di estrema destra "Giovane Europa". Un tempo ferocemente antigiudaico, oggi Borghezio è in prima fila nella propaganda antiislamica: «queste brutte barbe, questi pupazzi con la palandrana, un giorno o l'altro li prendiamo per la barba e li cacciamo via a calci in culo», dice nel 2002, anno in cui è condannato per aver appiccato con le sue camicie verdi un incendio alle baracche di alcuni stranieri. Calderoli non è da meno: «che gli immigrati tornino nel deserto a parlare con i cammelli o nella giungla con le scimmie, ma a casa nostra si fa come si dice a casa nostra» (18 settembre 2005).
«Lega ed estrema destra tradizionale certamente non coincidono, ma vi sono indubbi elementi ideologici comuni che rendono possibile una convergenza-concorrenza, come il tradizionalismo, la xenofobia, il razzismo e la tendenza totalitaria». Nulla di sproporzionato in questa tesi. «Vi è un filone di pensiero - scrive nella postfazione Annamaria Rivera - occultato anche da alcuni critici della Lega Nord che può essere fatto risalire direttamente all'ideologia nazionalsocialista, come peraltro ammettono alcuni ideologi leghisti. Per accertarsene basterebbe visitare di tanto in tanto il sito ufficiale del Movimento giovani padani».


Liberazione 22/03/2011, pag 9

///////

Libro: Svastica verde

Titolo Svastica verde
Autore Peruzzi Walter; Paciucci Gianluca
Prezzo
Sconto 5% € 14,25
(Prezzo di copertina € 15,00 Risparmio € 0,75)
Prezzi in altre valute

Dati 2011, 437 p., brossura
Editore Editori Riuniti


http://www.ibs.it/code/9788835990055/peruzzi-walter-paciucci-gianluca/svastica-verde.html

«La Nato è divisa sulla guerra Per questo non avrà il comando»

Fabio Mini generale, ex capo di stato maggiore Nato per l'Europa del sud,
oggi anche autore, saggista e fondatore dell'associazione Peace generation

Matteo Alviti
Sono passati ormai quattro giorni dai primi raid aerei francesi, e le operazioni militari contro le forze libiche sembrano lontane dalla meta. Quale che sia. L'obiettivo di questa "coalizione di volenterosi", così dice la risoluzione 1973 dell'Onu, è impedire violenze contro la popolazione inerme. Ma quali sono i limiti dell'operazione? Ne abbiamo parlato con un militare esperto, da qualche tempo "non operativo". Nella sua lunga carriera il generale Fabio Mini è stato ai quattro angoli del pianeta, ha comandato la KFOR della Nato in Kosovo, è stato capo di stato maggiore Nato per l'Europa del sud. Da qualche tempo scrive libri e saggi, ed è fondatore dell'associazione Peace generation.

Generale Mini, come si è arrivati dall'imposizione di una no-fly zone ai bombardamenti su Tripoli? Gli alleati si sono spinti oltre il mandato, come ha detto il segretario della Lega araba Moussa?
Non mi pare. L'imposizione di una no-fly zone comporta l'eliminazione delle minacce per gli aerei che devono far rispettare l'area di non sorvolo. Per cui, siccome nessuno ha mai accettato una no-fly zone - eccetto Saddam Hussein - quello che sta accadendo non è niente di più di ciò che si doveva fare, anzi. Oggi si vede un certo tentennamento che in altre occasioni non c'è stato. Chi dice il contrario o ha letto male la risoluzione o, come al solito, fa il levantino. Tutti sapevano benissimo quel che sarebbe successo. Le parole di Moussa dal punto di vista tecnico sono una stupidaggine.

Cosa si deve fare, tecnicamente, per bloccare i cieli libici?
Eliminare tutte le basi aeree e i radar. Anche quelli spenti. Cioè bisogna fare di tutto per farli accendere: bisogna volarci sopra più bassi, non da 11mila metri di altezza. Prendersi qualche rischio. Oggi tutti gli interventi sono stati fatti "a distanza": o con i missili cruise o con bombardamenti da alta quota. A eccezione degli interventi sulle colonne corazzate di Gheddafi, ma anche questo era previsto. Nella risoluzione si parlava di proteggere le popolazioni civili, non solo di no-fly zone. Tutti gli interventi fin qui operati rientrano pienamente nel mandato Onu. L'unica limitazione riguarda l'occupazione militare del suolo libico. Ma nel caso in cui Gheddafi dovesse continuare a attaccare, di sicuro il Consiglio di sicurezza si riunirà di nuovo per autorizzare anche l'intervento di terra. Spero di no, ma la mia esperienza mi dice che non c'è mai stata una no-fly zone che non sia stata seguita da un intervento di terra.

Il comando militare è su una nave statunitense di stanza a Gaeta, la Mount Whitney. Chi ha veramente il controllo delle operazioni, gli Usa o la Nato?
A Napoli ci sono anche i comandi statunitensi, non solo quelli Nato. La marina statunitense ha una sua base a Capo di Chino che controlla tutta la quinta flotta, impegnata su due fronti: proteggere gli interessi nazionali o agire per conto dell'Alleanza atlantica. A seconda del tipo di intervento indossa un cappello diverso. Oggi sono gli Stati Uniti a comandare.

Fino a che gli Usa non hanno preso in mano il coordinamento degli attacchi però c'è stata una certa confusione: Francia e Gran Bretagna si sono mossi individualmente. E' normale?
Non è normale. La confusione deriva dalla risoluzione dell'Onu, che invita tutti i paesi membri ad assicurare con la forza la no-fly zone. Non c'è stata la designazione di qualcuno - un organismo regionale come la Nato, o una nazione - che dovesse prendere la leadership della coalizione. Sarebbe stato auspicabile che prima della risoluzione una serie di paesi si fosse messa d'accordo. Ma non è successo. Probabilmente perché c'erano molti dubbi sul fatto che la risoluzione potesse passare. In passato è accaduto che gli Usa abbiano iniziato da soli. Ma non era ancora successo che non si sapesse, come in questo caso, chi debba prendere il comando della coalizione. Gli italiani vogliono metterla sotto la Nato, ma è un'opzione più complicata che non farla fare a nazioni singole.

Perché?
Nella Nato le decisioni si devono prendere all'unanimità, non c'è astensione - e questa è una debolezza endemica della Nato ridisegnata dal Nuovo concetto strategico dell'anno scorso. La Turchia non vuole l'intervento, e la Germania, che si è già astenuta all'Onu, direbbe di no. Insistere con la Nato è fumo negli occhi per evitare di assumersi delle responsabilità. L'ombrello della Nato, stavolta, sarebbe politico. Se l'Italia vuole stare con francesi e inglesi deve assumersi le proprie responsabilità. Se c'è qualcosa di scordinato è la politica, non il livello militare.

Poi c'è la questione delle basi.
E qui si potrebbe scrivere un'enciclopedia... Paesi terzi possono usare le nostre basi solo per missioni Nato. Quindi per tutte le missioni che non sono sotto l'ombrello Nato, le nazioni interessate dovrebbero chiedere bilateralmente il permesso all'Italia per avere l'uso delle basi. E in questo caso non ci sarebbero automatismi, ma sarebbe necessaria una decisione politica, un'approvazione da parte del governo o del parlamento.

Di quale arsenale dispone Gheddafi?
Materiale bellico molto datato. Hanno missili contraerei che potrebbero dare fastidio sotto i 5mila metri. Ma è tutta roba, quella sì, veramente scordinata. Anche perché i centri di controllo libici sono stati distrutti. Ora bisognerà eliminare fino al 90% di tutte le minacce aeree e contraeree. Per il resto, le forze armate libiche sono poca cosa: stiamo parlando di una decina di migliaia di persone armate. Non costituiscono, in sé, una vera minaccia.

Nemmeno per l'Italia?
Men che meno per l'Italia. Né in Gran Bretagna, né in Francia c'è l'allarmismo che c'è da noi, esagerato e strumentale per le beghe interne.

Cosa stanno facendo i piloti degli otto aerei italiani?
Un'operazione importantissima: svelare i radar. Si fanno puntare dai radar facendo da obiettivi ed eventualmente distruggono i radar pericolosi che hanno scoperto.

Una nostra specialità, se non sbaglio.
Più che una specialità è una necessità: non disponendo di mezzi sofisticati dobbiamo fare tutto con gli aeroplani. Altrimenti non ci sarebbe bisogno di andare a fare gli obiettivi umani, quello che è capitato a Bellini e Cocciolone nella prima guerra del Golfo.


Liberazione 22/03/2011, pag 4

lunedì 21 marzo 2011

Guerra e Borsa: 21 marzo

Borsa, i mercati europei ripartono acquisti su banche e industriali

Gli investitori trovano rassicurazioni nello stabilizzarsi della crisi giapponese e nell'esplicitarsi di quella libica. Le dichiarazioni di Trichet sulla ripresa portano denaro su credito e assicurazioni. A Milano i listini chiudono in positivo dell'1,5%. vendite su Parmalat e Fonsai

MILANO - Inizio di settimana col segno positivo a Piazza Affari. Il Ftse Mib, sostenuto dalla performance della altre Borse europee, dall'avvio scattante di Wall Street e dalle notizie che arrivano da Giappone e Libia, ha chiuso in rialzo dell'1,569% a 21.527 punti, poco sotto i massimi di giornata. Bene anche l'All Share, salito dell'1,5% a 22.186 punti. Positivi i bancari sulle rassicurazioni arrivate dal presidente della Bce, Jean Claude Trichet, secondo cui la ripresa "resta positiva" nell'Eurozona e la Spagna "sta andando nella giusta direzione".

Fra gli istituti di credito, reduci da una settimana difficile, spicca la performance di Intesa Sanpaolo, salita del 3,54%. A ruota Unicredit (+2,43%) e la Bpm (+2,51%). Sempre nel comparto finanziario ben comprati anche il risparmio gestito e le Generali (+1,5%), mentre è scivolata Fondiaria Sai (-3,76%) all'inizio di una settimana decisiva per le operazioni di ricapitalizzazione della società. Nella galassia Ligresti rimane positiva Premafin (+0,83%), mentre cade anche la Milano assicurazioni (-4,3%).

Denaro anche sugli industriali: bene Pirelli (+2,19%), Finmeccanica e Ansaldo Sts (rispettivamente +1,55% e +1,77%), in ordine sparso la galassia Fiat. Industrial chiude attorno alla parità, Fiat Spa sale dell'1,33% e la controllante Exor sale del 2,53%. Brillanti Buzzi (+3,24%) e i tecnologici (Stm +3,01%). Nell'energia denaro su Enel (+1,91%), che spicca su un comparto comunque positivo (Eni e Saipem +0,6%). Corre anche il lusso, con Luxottica e Tod's che guadagnano il 2,08 e il 2,32%, mentre scivola il comparto alimentare. Parmalat, colpita dal giudizio negativo di Cheuvreux e dall'annunciato intervento del governo a difesa delle aziende strategiche, è stata colpita dai realizzi e ha perso il 5,15% mentre Davide Campari, nonostante conti in crescita, perde l'1,07%.

Fuori dal paniere principale brilla Mondadori che nel giorno della presentazione del bilancio 2010 guadagna il 6,86%, trascinando al rialzo tutti gli editoriali (Rcs +4,09%, L'Espresso +2,94%). Scivola, invece, Edison, che perde il 2,18% dopo aver annunciato che non pagherà dividendi per l'esercizio 2010.
(21 marzo 2011)

http://www.repubblica.it/economia/2011/03/21/news/la_borsa_del_21_marzo-13917458/

Unicredit +2,43%

Finmeccanica +1,55%

---------

http://borsa.corriere.it/azioni/xpisapi.dll?page=MercatiInternazionali&ID=2

Libia: Impregilo, Finmeccanica, Eni e non solo. Tutti gli interessi in gioco

Con l'intervento militare contro il rais rischiano di restare congelati a lungo investimenti consistenti, grandi appalti, forniture di materie prime e maxi-commesse. Il governo italiano vuole partecipare a pieno titolo alla gestione del dopo-Gheddafi per non perdere denaro e opportunitàNon solo la finanza, con le quote libiche, e quindi i diritti di voto e i dividendi, che sono state già sterilizzate dall’Unione Europea. L’acuirsi della crisi, con l’escalation militare di queste ore, riporta in primo piano anche gli interessi delle imprese italiane in Libia. Si tratta di investimenti consistenti, grandi appalti, forniture di materie prime e maxi-commesse che rischiano di restare congelati a lungo. O anche di finire in altre mani. Con ripercussioni consistenti sui bilanci delle società e sull’economia italiana. Ecco perché il governo italiano ritiene prioritario per il Paese partecipare a pieno titolo alla gestione del dopo-Gheddafi. Fino a poche settimane fa, sull’asse Tripoli-Roma, in entrambi i sensi di marcia, hanno viaggiato infatti denaro e opportunità di sviluppo. E i legami economici sono andati bel oltre la vicinanza geografica.

La Libia si colloca al quinto posto nella graduatoria dei Paesi fornitori dell’Italia, con il 4,5 per cento sul totale delle nostre importazioni, mentre il nostro Paese rappresenta il primo esportatore, che ricopre circa il 17,5 per cento delle importazioni libiche, con un interscambio complessivo stimato nel 2010 di circa 12 miliardi di euro. La Libia risulta essere il primo fornitore di greggio e il terzo fornitore di gas per l’Italia. Il nostro è il terzo Paese investitore tra quelli europei (escludendo il petrolio) e il quinto a livello mondiale. L’importanza che il mercato libico riveste per il nostro Paese è dimostrata anche dalla presenza stabile in Libia di oltre 100 imprese italiane.

L’Eni - L’azienda del cane a sei zampe è il principale operatore internazionale nell’estrazione del petrolio e del gas nel paese nordafricano. A preoccupare c’è l’impatto diretto sul fatturato del gruppo e anche il timore generale del balzo del prezzo del petrolio, in particolare per l’attività di raffinazione. Sia gli esponenti libici che i vertici dell’Eni hanno comunque ribadito per ora una reciproca ‘amicizia’. Tripoli ha confermato tutti i contratti anche dopo l’inizio della guerra civile. Il gruppo guidato da Scaroni, per altro, paga al governo di Tripoli anche una tassa del 4 per cento sugli utili imposta alle compagnie petrolifere. Un onere che per la società italiana, che è in Libia dai tempi di Mattei e ha una presenza assicurata fino al 2045 grazie al rinnovo delle concessioni, ammonta a 280 milioni di euro l’anno. Ora il rischio è che l’intervento militare occidentale possa provocare una ritorsione di Gheddafi contro l’azienda occidentale più esposta nel suo Paese.

Unicredit – Sotto i riflettori, da mesi, c’è la partecipazione libica nella banca di Piazza Cordusio. Tra gli azionisti, infatti, ci sono la Central Bank of Libya (4,988%) e Libyan Investment Authority (2,594%). Sommando le due quote la componente libica è di gran lunga il primo azionista, oltre il 7,5%. Quota che, come tutte le altre detenute dai libici in società europee, è al momento congelata.

Finmeccanica – Lybian Investment Authority detiene anche una quota del 2,01 per cento in Finmeccanica. Grazie alla collegata Ansaldo Sts, la società guidata da Pierfrancesco Guarguaglini ha una buona presenza in Libia. Nel luglio del 2009, Finmeccanica e Libya Africa Investment Portfolio, il fondo di investimento posseduto da Lia, hanno costituito una joint venture paritetica per una cooperazione strategica nei settori dell’aerospazio, trasporti ed energia. Inoltre, Finmeccanica si è aggiudicata numerosi contratti in Libia attraverso le sue controllate, come Ansaldo Sts e Selex Sistemi Integrati. Nel campo elicotteristico, AgustaWestland ha messo in piedi un sistema industriale di manutenzione e assemblaggio tramite la Liatec. Si calcola che le commesse di Finmeccanica in Libia ammontino a circa 1 miliardo di euro nei settori dell’elicotteristica civile e ferroviario.

Impregilo – Altrettanto presente in Gran Jamahiria è Impregilo. E’ impegnata attraverso una società mista (Libco) partecipata dalla multinazionale italiana al 60% e al 40% da Libyan development investment. Impregilo ha in essere progetti nel settore costruzioni: la Conference hall di Tripoli; la realizzazione di tre poli universitari e la progettazione e realizzazione di lavori infrastrutturali e di opere di urbanizzazione nelle città di Tripoli e Misurata. Si tratta di ordini che si aggirano, complessivamente, attorno al miliardo di euro

Autostrada dell’amicizia - La maxi infrastruttura chiesta dal colonnello Gheddafi come riparazione per i danni subiti nel periodo coloniale. Con i suoi 1700 km che dovrebbero attraversare la Libia da Rass Ajdir a Imsaad, ovvero dal confine con l’Egitto a quello con la Tunisia, è la più imponente e impegnativa infrastruttura stradale mai realizzata da aziende italiane, con tempi di lavoro stimati fino a vent’anni e una spesa di 3 miliardi di dollari. Nel dicembre scorso, al termine di una gara affidata a una commissione italo-libica, il raggruppamento di imprese costituito da Anas (capofila) – Progetti Europa & Global- talsocotec si è aggiudicato la gara da 125,5 milioni di euro, bandita dall’ambasciata di Tripoli in Italia, per il servizio di ‘advisor’ per tutto il processo che condurrà alla costruzione dell’autostrada. Oggi, anche in questo caso, è tutto fermo.

Altre partecipazioni libiche – si può ormai definire ‘storica’ la presenza libica nella Juventus, di cui la Libyan arab foreign investment company detiene ancora una quota pari al 7,5%. Presenze minori, ma che avevano possibilità di forte crescita, risultano in Eni (meno dello 0,1%, ma con il consenso alla possibilità di salire fino al 5) e Telecom (con meno dello 0,01%). Lybian Post, con il 14,8%, è presente in Retelit, operatore di telecomunicazioni specializzato nella fornitura di servizi a banda larga a enti e aziende.

Altre imprese italiane - L’elenco delle imprese che fanno affari in Libia comprende anche Telecom e Alitalia, Edison e Grimaldi, Visa e Saipem.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/03/20/libia-impregilo-finmeccanica-eni-e-non-solo-tutti-gli-interessi-in-gioco/98970/

Il business di Mineo salvato dai profughi

Convertito in centro per immigrati il villaggio che gli americani hanno abbandonato

Stefano Galieni
Ha aperto le sue porte l'altroieri, a 210 richiedenti asilo provenienti dai Cara di Trapani, Bari, Caltanissetta, Foggia e Crotone; altri 150 sono giunti ieri sera. Ha aperto in sordina dopo che il sindaco Castania aveva dichiarato inutilmente «spero ci avvisino almeno 24 ore prima». La struttura ribattezzata con misera ipocrisia "Villaggio della Solidarietà" di Mineo, provincia di Catania, non ancora chiaro se per richiedenti asilo o per immigrati da espellere, è l'ennesima operazione di indecoroso business sulla pelle di chi fugge.
L'incontro con gli altri sindaci della Calatina e con il presidente della Provincia di Catania, le telefonate con il commissario straordinario per l'emergenza immigrazione, il prefetto Giuseppe Caruso, non hanno ancora risolto i numerosi problemi. La bozza di "patto territoriale per la sicurezza" (si ritorna con i patti onnicomprensivi) non si è tradotta in un testo adatto a quanto ci si appresta a realizzare. La Croce Rossa, che non perde occasione, gestirà per ora l'accoglienza, i negozianti della zona si preparano a divenire i fornitori per i pasti, le strutture di recinzione nuove, di sorveglianza e di video sorveglianza ci sono e già, in alcuni alberghi, sono stati prenotati posti per polizia e carabinieri. Mancano dettagli, politici e organizzativi e manca anche una piccola quisquilia: chi ci finirà nel residence oltre al primo gruppo? E come mai la scelta di questo posto sperduto?
Partiamo dalla seconda domanda. La struttura, originariamente "Residence degli Aranci" viene realizzata dalla centenaria ditta Pizzarotti di Parma, 10 anni fa, 404 villette, 25 ettari di verde, negozi, infrastrutture, ma nessun collegamento con la rete idrica - per lavarsi ci si è collegati ad un pozzo distante 21 km - una spesa enorme affrontata accendendo un mutuo di 100 milioni di euro. Roba da poco, basti pensare che solo di manutenzione ordinaria il residence costa 2,5 milioni di euro l'anno. Fino allo scorso anno nelle grandi unità abitative erano ospitati i militari americani della base di Sigonella, l'amministrazione americana pagava circa 8,5 milioni di euro l'anno di affitto che venivano, a detta di rappresentanti della Pizzarotti, interamente utilizzati per pagare il mutuo, durata 14 anni. Lo scorso anno gli americani se ne sono andati insoddisfatti da questo "paradiso" lasciando la Pizzarotti S.p.a. in braghe di tela.
Chi paga il resto del mutuo alla Banca San Paolo Intesa? In autunno si raggiungeva un accordo con la provincia di Catania per l'utilizzo degli appartamenti in Social housing: non case popolari, come si tenta di far credere, ma un investimento per abitazioni a costi contenuti che vede presenti pubblico e privato. L'accordo sembrava fatto ma c'era qualche difficoltà. Non erano molte le famiglie disponibili ad andare a vivere in una contrada a 8 km dal paese, nel verde sì, ma isolata totalmente da un contesto reale e sociale. L'arrivo dei profughi tunisini è sembrata, alla Pizzarotti e al governo nazionale, provvidenziale. Ci penserà la collettività a saldare il mutuo con gli interessi. Gli americani hanno reciso un contratto senza pagare un euro di penale, nulla di strano la potente Pizzarotti ha avuto in appalto la realizzazione di nuove strutture per l'amministrazione statunitense. E poi, l'idea di rivolgersi a questa azienda dalla longa manus e dalle molteplici attività, è farina del sacco di una persona di massima fiducia, il presidente del consiglio.
Oltre alla Pizzarotti a beneficiare di questa genialata saranno la Cri, i fornitori, la prefettura e l'esercito. Certo utilizzando per i rifugiati il sistema Sprar (affidamento di piccoli progetti di inserimento sociale ai Comuni) i costi si sarebbero ridotti in maniera stratosferica, ma quando si tratta di grandi eventi a che serve risparmiare?
In 10 sindaci su 15 hanno firmato la prima intesa, a condizione che non venisse messo a rischio l'ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini. E lì scatta la seconda trovata: deportare nel centro tutti i richiedenti asilo dispersi nei Cara nazionali. Che importa se le pratiche di richiesta o di ricorso sono nelle mani di altre commissioni? Che importa se il singolo profugo abbia trovato un po' di pace e magari sia seguito da persone di cui si fida per ricostruirsi una vita dopo aver subito tortura? Che importa se si trovi ad aver trovato un contesto in cui inserirsi lavorativamente e socialmente? Il profugo è un pacco da trasportare anche senza troppe cautele.
Si dice: «Ma nel "Villaggio della solidarietà" i profughi saranno liberi ad orari prestabiliti di entrare e uscire a piacimento». Certo con i centri abitati lontani è agevole per tutti stabilire una relazione col tessuto sociale. Se poi, come sembra, vincerà l'emergenza, a finire nel recinto dorato saranno i tanti ammassati oggi a Lampedusa - si parla di una tendopoli nella ex base Loran - ma i nuovi arrivati a Mineo non li vogliono, li temono. Nei comuni si vogliono i richiedenti asilo, considerati meno "problematici" e più redditizi (costano 52 euro al giorno per un risultato di circa 100 milioni di euro l'anno, "spesa contenuta") e si prospetta anche, superata la fase emergenziale, una gestione pubblica del centro.
Del resto a Mineo arriveranno quest'anno 130mila euro in meno, tanti sono quelli che l'amministrazione americana pagava infatti al Comune di Ici. Soldi creati dall'indotto e posti di lavoro sono le armi utilizzate per convincere i recalcitranti, si parla di 300 assunzioni, ma il vortice di interessi è enorme, coinvolge enti locali, Cri, l'Agci, Associazione di cooperative che ha inviato a Maroni una inquietante lettera dichiarando che i propri mezzi e le proprie strutture sono a disposizione da subito. Leone Venticinque, giornalista, anima il sito "Qui Mineo" per cui ha realizzato numerose inchieste, esprime preoccupazioni di diverso tipo. «Nel residence c'è un piano sociale da ghetto - afferma - Sarà difficile costruirci convivenza migliore. L'ipotesi di far convergere da noi i richiedenti dei vari centri era stata fatta per accontentare amministratori che nel dire sì non avevano fatto i conti con la pubblica opinione. Io temo, al di là di tutto, che queste siano cose nate male che possono finire anche peggio».
Leone Venticinque teme che, in assenza di un serio intervento politico, finiscano col prevalere gli istinti peggiori: «Questo paese non è immune dalla microcriminalità - afferma - Quello che si sta mettendo in piedi è un gigantesco capro espiatorio, basterebbe un nulla a scatenare i pogrom. Ho messo in piedi il "Comitato cittadino Calatino Solidale per Davvero", abbiamo raccolto firme antirazziste e siamo intervenuti in consiglio comunale per scoraggiare questa realizzazione, ma temiamo soprattutto la rassegnazione di fronte a grandi e piccoli business. Invece occorre che il mondo dell'informazione, del sociale, della politica intesa come interesse collettivo, si mobilitino senza minimizzare».
Ieri le forze politiche di sinistra e il mondo dell'antirazzismo hanno tenuto un dibattito pubblico. Fra i relatori, Domenico Lucano (Sindaco di Riace), Antonio Mazzeo, giornalista e Tania Poguish, operatrice sociale. Un momento per cercare di uscire dalla confusione in cui sembrano permanere tutti. Confusione mista a fatalismo e indifferenza, all'idea che contro certi poteri non si possa fare nulla, che non serve opporsi. Eppure Mineo non va lasciata sola, quello che si determinerà con il residence peserà sulla politica nazionale. Soprattutto ora, che la sciagurata ipotesi della guerra sembra avvinarsi.


Liberazione 20/03/2011, pag 8

"Stop the war", Usa in campo. I pacifisti tornano in azione

Dal sito "AnswerCoalition" appello alla mobilitazione. Ed in migliaia rispondono

Castalda Musacchio
Rullano i tamburi. Le bombe sono cadute come si temeva. Ed ora, come si può ancora parlare di «intervento umanitario»? A chiederselo sono in molti. A partire dalle migliaia di pacifisti che hanno subito lanciato un appello che, ironia della sorte, cade proprio nell'ottavo anniversario dell'invasione in Iraq. Un appello alla mobilitazione che ha percorso in pochi istanti, in un tam tam mediatico, la Rete. E sono state decine le manifestazioni che si sono svolte in tutta America, da Washington fino alla lontana Hilton Head Island in South Carolina, attraversando le principali città degli Usa: Los Angeles, Boston, San Francisco, Phoenix, Chicago, Orlando, Kansas city, Cincinnati, fino ad arrivare a Portland, Dallas, Austin e Seattle. Si sono dati appuntamenti in luoghi simbolici ed in altri del tutto sconosciuti. E si sono ritrovati insieme studenti, disoccupati, lavoratori, "radical" e democratici e persino i veterani di altre ben note guerre per chiedere di «fermare questo attacco pianificato».
Le azioni? Sono state del tutto impreviste. C'è chi ha improvvisato "sit in" in angoli di strada come è accaduto a Racine (in Wisconsin), solo per citare una delle tantissime città coinvolte; chi ha bloccato il traffico con bici e pattini; chi ha partecipato a flash-mob; chi ha promosso concerti per la pace come ad Austin; chi, più semplicemente, è sceso in strada con bandiere e slogan decisi quanto mai a proseguire nelle loro azioni non violente. La conferma? Proviene dal sito "answercoalition.org" dove è anche possibile reperire con facilità tutte le news riguardanti i prossimi eventi.
E i documenti stilati dovrebbero far riflettere persino il democratico presidente Obama. «Il movimento contro la guerra statunitense - si legge nel testo stilato da "answercoalition" - deve prendere una chiara posizione contro ogni intervento militare degli Usa o di ogni altro Stato dell'Onu dominato dagli Usa. L'intervento non porterà democrazia e libertà al popolo libico. Per il Governo americano non esiste un "intervento umanitario". Il popolo progressista deve strappare la maschera e gli slogan falsamente umanitari utilizzati dalla Casa Bianca, dal Segretario di Stato e dal Pentagono circa la loro "profonda preoccupazione" per la sorte del popolo libico. Ogni intervento militare contro la Libia non libererà il popolo libico non più di quanto è accaduto con l'invasione in Iraq». Ed è con queste parole che il movimento pacifista si è di nuovo messo in azione. Altri sit in, marce e proteste si sono avute in Inghilterra ed in Francia. In Italia il movimento si sta organizzando. A Bologna, ieri, è stata subito convocata una prima manifestazione. Lo stesso è accaduto a Roma dove è scattata una pre-mobilitazione dopo la notizia dell'attacco francese. Così, a Torino, un'iniziativa promossa dal Comitato torinese di solidarietà dei popoli arabi, dal centro di documentazione "Filastin" e dai gruppi cittadini di Sinistra critica e del Pcl, ha portato decine di persone a Porta Palazzo. A Milano, ancora, un corteo piccolo ma combattivo, convocato da tutte le sigle della sinistra parlamentare insieme al Comitato immigrati, si è snodato per le vie del centro. «Mentre a Parigi, Europa e Stati Uniti, insieme a Qatar, Giordania, Emirati Arabi e Marocco - si legge in un comunicato - davano il via alle azioni militari in Libia e i caccia francesi volavano su Bengasi, la sinistra milanese si è data appuntamento a piazzale Loreto per protestare contro "l'ennesimo intervento imperialista mascherato da guerra umanitaria"».
«Quello che sta succedendo in Libia è solo un tassello di una mobilitazione che sta investendo tutta l'area del Nord-Africa», spiega un manifestante. «Il sostegno più grande che possiamo dare ai ribelli di Bengasi - continua un altro - è quello di una mobilitazione di massa in tutti i paesi, schierandoci senza esitazioni per la cacciata del colonnello e contro i tentativi imperialisti». Eppure, dalle istituzioni, non si sono levate voci di responsabili parlamentari che hanno cercato di uscire dall'"impasse" libico con altre strategie, se non quella di dichiarare, a tutti i costi, una nuova guerra.


Liberazione 20/03/2011, pag 4

Quando l'emergenza abitativa va a braccetto con il business

Residence, l'Unione inquilini di Roma denuncia gli sprechi del Comune

Daniele Nalbone
Quando l'emergenza abitativa si coniuga con il business. L'Unione Inquilini di Roma ha effettuato un'inchiesta sui residence per le famiglie senza casa che è destinata a far discutere. «Residence che dovrebbero essere alloggi temporanei utilizzabili in casi di sfratti o sgomberi forzosi per pubblica utilità, e invece…».
Invece a Roma esistono ben 22 residence, di cui ben otto appartengono all'Arciconfraternita che fa capo al Vaticano. «Quei contratti» spiegano dal sindacato degli inquilini «sono scaduti lo scorso 31 dicembre ma il Comune li ha prorogati fino a marzo 2011, giusto in tempo per emanare un nuovo bando». Le altre strutture, per i quali il Comune di Roma versa un lauto contributo annuale, appartengono: una alla Ten Immobiliare (società che fa capo al calciatore Francesco Totti); quattro a società riconducibili all'imprenditore Pulcini; due «attraverso intrecci di società» alla famiglia Caporlingua; una a Stefano Caporicci (proprietario della catena di elettronica Euronics); una a Fabio Marenghi Vasselli, erede del conte Vasselli. Gli altri residence, denunciano da UI, «sembra appartengano a società con sedi in Lussemburgo, Inghilterra e Isole Vergini».
Totale del costo annuale per consentire alle famiglie in emergenza abitativa di abitare in queste strutture, nella maggioranza dei casi ex uffici sorvegliati h24 o strutture fatiscenti (basta fare un giro in via di Val Cannuta o in vicolo del Casale Lumbroso per rendersene conto): 33 milioni di euro per 1400 famiglie e un totale di tremila persone. Il che significa un costo medio per famiglia di 2140 euro al mese di affitto; 842 euro al mese a persona.
Mediamente, infatti, gli "appartamenti" per i quali il Comune di Roma paga un affitto da casa di lusso in pieno centro sono spazi di 25/30 metri quadri. Spesso senza pareti e con solo pannelli di cartongesso a dividere gli ambienti. Sono tutte strutture poste ai margini del tessuto cittadino, poco collegate al centro di Roma, con portineria che chiede i documenti a ogni ospite.
Il record di spesa per le casse pubbliche è per il residence di Pietralata: 33 famiglie ospitate al costo di 1,65 milioni di euro, circa 4200 euro al mese ad appartamento. Al primo posto per il costo dei servizi di portineria, pulizia, manutenzione, etc., c'è il residence di via Tineo, zona Tor Tre Teste. Per alloggiare circa quattrocento persone qui la spesa è di 3,6 milioni di euro l'anno, di cui ben 1,2 milioni di euro per i servizi. «Anche un bambino» denunciano dall'UI «capirebbe che a questi costi, anche utilizzando la metà dei 2140 euro al mese, si potrebbero trovare alloggi veri, vivibili e che non infangano la dignità delle persone». A tal proposito, dalla Federazione della Sinistra si chiedono, tramite il portavoce Fabio Alberti, «se la Corte dei Conti non ha nulla da dire su questo spreco di denaro pubblico» e chiedono «che i contratti stipulati con i "pescecani" dell'emergenza vengano rescissi immediatamente, ponendo fine a questa enorme speculazione».
Per dimostrare l'entità di questo business, l'Unione Inquilini ha paragonato le cifre spese dal Comune per questi residence con le offerte di alcuni enti privatizzati scoprendo «che questi ultimi, da mesi, offrono alloggi ma non riescono a locarli a causa di richieste esose ma comunque molto al di sotto del costo dei mini-appartamenti dei residence». Alcuni esempi: a via di Porta Fabbrica, a pochi passi da San Pietro, la Cassa di Previdenza e assistenza Forense affitta un appartamento all'interno 2 a "soli" 1500 euro al mese; l'Inpgi in via Giulio Galli (zona Giustiniana) chiede 850 euro; Enpaf, in via Courmayer 74, offre tre appartamenti considerati di pregio e di ampia metratura a 1400 euro al mese. E così via.
Con un elenco di 21 appartamenti in locazione, l'Unione Inquilini ha segnalato una serie di immobili liberi di enti «che pur locando a canoni di libero mercato, chiedono meno soldi di quanti ne spende il Comune per i residence». Per questo la richiesta del sindacato è che si apra «immediatamente» un tavolo presso la Prefettura, con Comune, Enti e casse professionali, sindacati degli inquilini «per verificare la possibilità di una vera fuoriuscita dai residence offrendo, con l'utilizzo dell'invenduto, a ogni famiglia in attesa di una casa popolare una sistemazione dignitosa».


Liberazione 19/03/2011, pag 5