sabato 31 maggio 2008

Badanti «clandestine», la giostra non si ferma

Badanti «clandestine», la giostra non si ferma
Manuela Cartosio
Tranquilli vecchietti italiani che avete la badante «clandestina», in nero o in grigio. Il governo Berlusconi, che in tanti avete votato perché i marocchini pisciano sul marciapiede, i senegalesi spacciano, i romeni stuprano e gli zingari rubano i bambini, non farà le retate nel vostro tinello. E neppure ai giardinetti o al supermarket dove vi accompagna tutti i giorni la vostra moldava (o ucraina, peruviana, ecuadoregna...). Nessun governo, per quanto assatanato e obbligato a onorare la cambiale elettorale securitaria, sarà così masochista da bombardare il «welfare fatto in casa» che vi garantisce la minestrina, il cambio del pannolone e la pillola all'ora giusta. E che libera da queste incombenze le vostre figlie (di rado i figli).
Il sistema funziona bene così. Allo Stato costa meno del welfare pubblico. Perché funzioni anche per le famiglie deve avere prezzi abbordabili, diciamo gli 800 euro al mese che si rimediano sommando alla pensione dell'anziano l'assegno di accompagnamento. Ma questa cifra, e spesso si resta al di sotto, è assai inferiore a quanto si dovrebbe sborsare (tra salario e contributi) per una badante che quasi sempre coabita e quindi lavorava un numero spropositato di ore. Per stare in piedi il sistema pretende l'illegalità. In tutte le sue sfumature: dal salario inferiore ai minimi contrattuali, all'evasione parziale o totale contributiva, fino al reato di dare lavoro a stranieri senza permesso di soggiorno. Punito, sulla carta, con una pena da tre mesi a un anno di carcere e 5 mila euro d'ammenda. L'ipotesi ventilata di trasformare la clandestinità in reato penale riempirebbe i Cpt di badanti prive di permesso di soggiorno e la patrie galere di loro datori di lavoro. Anche per questo non si andrà oltre l'effetto annuncio. Il che, se da una parte fa tirare un sospiro di sollievo, dall'altra svela l'ipocrisia di un «welfare dal basso» che si fonda sull'irregolarità e che è costretto a perpetuarla.
Lo confermano i dati dell'ultimo decreto flussi (cioè dell'ultima sanatoria mascherata). Delle 728 mila domande presentante via internet, 411 mila riguardano colf e badanti. Dei 170 permessi messi in palio, il decreto flussi ne assegnava 65 mila per colf e badanti. Significa che quasi 350 mila resteranno in (semi)clandestinità e continueranno a lavorare irregolarmente. Le 65 mila che vinceranno la lotteria smetteranno prima possibile di fare le badanti. Con un permesso di soggiorno in tasca, cercheranno un'altra occupazione e saranno rimpiazzate da nuove leve, rigorosamente non in regola. In sostanza, il mestiere di badante è la gavetta, più o meno lunga, che tutte le donne extracomunitarie devono fare una volta arrivate in Italia. Una gavetta che si chiude spesso con contenziosi economici e risentimenti. Molte ex badanti si rivolgono ai sindacati per ottenere salari e contributi pregressi (a Bologna si segnalano rivolte di pensionati Cgil perché il loro sindacato sta con le badanti).
Vogliamo continuare così? Dopo 15 anni di «welfare fatto in casa», e con la generazione dei baby boomers - gli attuali sessantenni - che presto sarà in età da badante e terrà alta la domanda - urge domandarselo. Molto si è scritto sui costi umani, pagati dalla donne straniere e dalle loro famiglie, di questo scippo transnazionale degli affetti e della cura. Ma la giostra delle badanti non si ferma. Secondo una stima prudente sarebbero 700 mila, 30 mila in più dei dipendenti del sistema sanitario nazionale.

Il Manifesto 17 Maggio 2008

venerdì 23 maggio 2008

Bertolt Brecht

Prima di tutto vennero a prendere
gli zingari e fui contento perchè
rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e
stetti zitto perchè mi stavano
antipatici.
Poi vennero a prendere gli
omosessuali e fui sollevato perché
mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti
ed io non dissi niente perchè non
ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me
e non c’era rimasto nessuno a
protestare
(Bertolt Brecht)

martedì 20 maggio 2008

Iran: il movimento delle donne

Il movimento delle donne, nonostante la repressione, negli ultimi due anni più radicato nella società
Iran, femministe ma sempre in chador

Sabina Morandi
Le donne vestite di nero passeggiano fra i gatti che scavano nella spazzatura e i muri fatiscenti pieni di graffiti di una squallida strada della periferia di Tehran. Fra loro c'è Zohreh, avvolta nel suo chador dalla testa ai piedi: l'immagine stessa della donna iraniana oppressa come l'intendiamo in Occidente. Una volta entrati nel suo piccolo appartamento però, appare chiaro che la vita di Zohreh, così come quella della maggior parte delle donne iraniane, è molto più complicata di quanto creda il mondo occidentale, anche perché «lo sanno tutti che in casa siamo noi a comandare» dice ridendo all'intervistatrice britannica - Anna Fifield - spedita dal Financial Times a svolgere un'inchiesta sulla condizione femminile nella Repubblica islamica. Zohreh è categorica: «Credo che ovunque nel mondo, anche in quei paesi dove si parla di libertà e democrazia, ci sono donne oppresse dagli uomini. Viceversa, perfino qui in Iran ci sono donne che hanno il potere decisionale di dieci uomini».
Zohreh si è sposata a 16 anni e, ora che ne sono passati dieci, non è ancora pentita di una decisione presa contro il parere della famiglia che si opponeva a un matrimonio troppo precoce. Ma quando incontrò per la prima volta Mustafa - naturalmente nel corso di un appuntamento accuratamente programmato e molto poco intimo - Zohreh capì che sarebbe stato un ottimo marito «non solo per il suo aspetto, anche se mi sono sempre piaciuti gli uomini alti - confessa - ma soprattutto per il suo carattere». Mustafa ha avuto infatti la gentilezza di informare Zohreh che dopo il matrimonio si sarebbe dovuta prendere cura della madre malata che avrebbe abitato con loro. E poi, in barba ai pregiudizi - che pure condivide - il marito le consente di seguire un corso da parrucchiera e ha promesso che, quando sarà pronta, le darà i soldi per comprare negozio e attrezzatura. Lavorare sì, ma solo fra donne: è questo il tipo di compromesso fra tradizione e voglia di modernità che si può ritrovare anche fra i settori meno abbienti e più tradizionalisti della Repubblica islamica dell'Iran.
Bisogna dire che fa una certa impressione constatare come le donne iraniane accettino di buon grado le regole dei matrimoni vecchio stile. Ancora più impressionante è che, contrariamente a quanto si creda, sono tutte tradizioni relativamente nuove per l'Iran, paese in cui il movimento per i diritti delle donne esiste dalla metà dell'Ottocento. Bibikhatoon Astarabadi fondò una scuola per ragazze ben prima di molti paesi occidentali e nel 1895 pubblicò Failings of Men , la prima dichiarazione dei diritti delle donne in Iran. Le donne iraniane hanno cominciato a frequentare le università negli anni Trenta del Novecento, hanno conquistato il diritto di voto nel 1963 (in Svizzera il suffragio femminile è passato solo nel 1971) e sono state una forza determinante nella rivoluzione che ha spodestato lo Scià nel 1979. Poi, però, le cose sono andate sempre peggio.
Sotto la modernizzazione filo-occidentale dello Scià le donne avevano conquistato libertà e diritti legali che però vennero recepiti come un'imposizione dall'alto. Oltretutto si rivelarono controproducenti perché, spaventate dall'immagine promiscua di una società "all'americana", le famiglie tradizionaliste ritirarono le figlie dalle scuole e, soprattutto nelle zone rurali, l'istruzione femminile diventò una rarità. Con l'arrivo della rivoluzione - ma soprattutto con il predominio degli islamisti a scapito delle altre realtà che vennero in fretta liquidate - i diritti imposti dallo Scià andarono a farsi benedire e la hejab (la copertura totale) diventò obbligatoria. Paradossalmente quest'obbligo è diventato un'opportunità per molte ragazze che, con il velo, sono potute tornare a studiare e a lavorare. Attualmente ben due terzi degli studenti universitari sono donne e il regime è stato costretto a introdurre delle quote "azzurre" per attirare i maschi. Simboli e paradossi che lasciano il tempo che trovano perché la veste nera lunga fino ai piedi è davvero l'ultimo dei problemi per la maggior parte delle donne iraniane. L'oppressione è evidente a tutti i livelli ma, come nota la giornalista britannica, a tutti i livelli le donne sono dinamiche, forti ed estremamente determinate: che si tratti di casalinghe come Zohreh, di attiviste, giornaliste o funzionarie governative, le donne iraniane sembrano avere un'idea abbastanza chiara di cosa vogliono e di come aggirare il sistema per ottenerlo.
Sebbene le cose siano un po' migliorate sotto la presidenza riformista di Mohammad Khatami, con l'elezione del suo successore, nel 2005, per le donne c'è stato un netto peggioramento. Mahmoud Ahmadinejad aveva infatti condotto una campagna elettorale tutta incentrata sul recupero dei valori rivoluzionari e quando è entrato in carica ha subito impresso una stretta sui costumi (i "valori rivoluzionari" relativi all'economia sono stati rimandati a tempi migliori). Risultato: il dibattito sui diritti delle donne è sparito dall'agenda governativa mentre le manifestazioni di protesta venivano disperse con la forza. Dopo le elezioni parlamentari di questa primavera gli equilibri sono cambiati sensibilmente: Ahmadinejad dovrà lavorare con una rappresentanza più vasta di riformisti anche se i conservatori hanno la maggioranza e sono state elette ancora meno donne rispetto alla precedente tornata.
Per fronteggiare la scarsa rappresentanza e la repressione violenta, le attiviste per i diritti delle donne adottano nuove tattiche. Un esempio è la petizione che si è data l'obiettivo di raccogliere almeno un milione di firme per chiedere maggiori diritti legali. Nahid Keshavarz, una delle organizzatrici dell'iniziativa, accoglie la giornalista britannica nel suo appartamento di Tehran dove, fra un espresso e un cioccolatino, le fornisce i primi rudimenti di femminismo interclassista «che non può ridursi alla protezione dell'élite colta iraniana com'è stato finora» dice in un misto di farsi e francese. Nahid viene da una famiglia medio-bassa (padre agricoltore e madre casalinga) della città di Bushehr dove ha potuto "approfittare" del ritorno del velo per frequentare l'università, «ed è stato proprio lo studio ad aprirmi gli occhi sulla questione dei diritti delle donne». Ora Nahid sta studiando per un dottorato sugli studi di genere in Francia ed è convinta che il movimento delle donne stia registrando un vero e proprio boom in Iran: «quando Ahmadinejad è stato eletto tutti erano sicuri che il movimento delle donne sarebbe scomparso. Negli ultimi due anni, al contrario, il movimento è cresciuto».
Nahid Keshavarz è stata arrestata l'anno scorso per avere raccolto firme per la petizione al Laleh Park di Tehran, segno che il regime teme l'iniziativa. Ma gli arresti sono controproducenti perché «ogni volta che qualcuna di noi finisce in galera - spiega Nahid - la questione dei diritti legali delle donne si radica più profondamente nella società. In prigione il secondino mi chiamava "femminista", e se perfino un poliziotto sa di cosa si tratta, significa che il concetto di femminismo è ormai diffuso». Oltretutto, assicura l'attivista, una cella con 25 donne è un ottimo punto d'osservazione sulla società: più della metà, infatti, sono in prigione per avere ucciso il marito «una prova evidente del fatto che abbiamo ragione - continua Nahid - perché molte di queste donne sono state date in spose giovanissime a mariti violenti e, visto che né la società né la legge le hanno protette, alla fine sono state costrette a prendere in mano la situazione. Per tutte l'assassinio del marito era il primo crimine».
Dopo due settimane Nahid Keshavarz è stata rilasciata ma il processo - è accusata di avere messo in pericolo la sicurezza nazionale distribuendo propaganda contro il sistema - va avanti senza fretta perchè le autorità preferiscono farlo pendere come una spada di Damocle sulla testa della femminista che intanto continua a raccogliere firme, anche se in modo un po' più discreto: in taxi, nei negozi, dal parrucchiere. Grazie a questo lavoro capillare, e malgrado la repressione, la campagna è uscita dalla ristretta cerchia della capitale, dove le donne sono più ricche e quindi relativamente più libere. La petizione è circolata in 20 città, dal settentrionale Kurdistan alle più remote province del Sud, dove l'interpretazione fondamentalista dei valori islamici è più forte e la popolazione più povera. E, come dice Nahid «se una donna di classe medio-alta come me può sempre trovare una scappatoia alle leggi, per le donne delle classi basse non c'è alcuna pietà». Un esempio per tutti è quello della poligamia, rarissima in città ma estremamente diffusa nelle zone rurali: «sono stata in un villaggio nel sud dell'Iran - racconta Nahid - e ho incontrato queste ragazze belle e coraggiose che sono accorse a firmare la petizione. Per loro la poligamia è in assoluto la priorità».
Nel diritto iraniano ci sono parecchie mostruosità che il movimento delle donne vuole abolire. Per la legge, ad esempio, le ragazze sono considerate adulte a 9 anni e possono essere processate e condannate a morte per omicidio come un adulto, mentre i ragazzi non sono legalmente adulti fino a 15 anni. In Iran la testimonianza in tribunale di una donna vale la metà di quella di un uomo, e se un uomo e una donna vengono feriti in un incidente, la donna riceve la metà di quanto spetta all'uomo.
Dimezzata è anche l'eredità, ma se un uomo muore senza figli alla moglie non va niente perché torna tutto ai parenti. Va detto che, per quanto altri paesi a maggioranza islamica come il Marocco, l'Egitto o la Turchia forniscano una migliore protezione per i loro cittadini di sesso femminile, le donne iraniane stanno meglio di quelle di molti paesi del Golfo. Se non altro possono votare, guidare e diventare membri del parlamento, cosa che le saudite non possono nemmeno sognare. Negli ultimi anni la pressione popolare ha costretto il regime a fare qualche concessione: ora le donne hanno diritto di custodia sui figli fino ai sette anni mentre prima erano un'esclusiva del padre in tutte le circostanze. Il divorzio resta una prerogativa maschile, a meno che non venga esplicitamente messo nero su bianco in un accordo prematrimoniale - anche in questo caso la differenza di classe è evidente.
Certamente provengono da famiglie abbienti le ragazze che affollano la palestra Zeitoon di Tehran: fasciate nella loro tenuta d'ordinanza bianca da karate, con i capelli raccolti nel classico foulard nero, le ragazze eseguono la sequenza di riscaldamento con estrema serietà. Il boom del karate fra le ragazze è un altro dei paradossi della società iraniana: l'esigenza di praticare l'autodifesa (visto che la legge latita) e il fatto che gli incontri possono essere mostrati in tv (perché l'abbigliamento casto non offende la morale) hanno fatto del karate lo sport più praticato dalle ragazze. Che si allenano con i loro iPods infilati nelle orecchie mentre le mamme coperte fino ai piedi nei loro chador aspettano pazientemente che abbiano finito di menare calci in aria. Molte delle ragazze sono delle campionesse - hanno disputato incontri in Qatar, Malesia, Slovenia e Italia - abituate a viaggiare e ad allenarsi duramente per vincere. Indossano il velo sulla tenuta da karate (anche se in palestra non è obbligatorio) ma, come le loro coetanee nel resto del mondo, hanno sogni che vanno ben al di là del matrimonio. Tutte amano gli studi e molte adorano le materie scientifiche: «Voglio diventare come Muhammad ibn Zakariya al-Razi» dice una, riferendosi al padre medievale della chimica e della matematica iraniane. «A me invece piace Marie Curie» dice un'altra. E se si fa qualche domanda sul matrimonio rispondono quasi in coro: «Siamo troppo giovani!».
Queste ragazze sono la speranza delle attiviste perché i cambiamenti politici possono essere difficili da conquistare ma il cambiamento demografico è inarrestabile e il 70% della popolazione iraniana (70 milioni) è ormai sotto i 30 anni. Il potenziale collettivo delle giovani generazioni nello sfidare i regolamenti ufficiali è enorme: i ragazzi guardano gli ultimi film hollywoodiani in Dvd, descrivono la loro vita sociale su internet e si scambiano i numeri di telefono attraverso i finestrini durante gli interminabili ingorghi di Tehran. Nei quartieri ricchi della capitale le donne portano minigonne sotto agli impermeabili e indossano canottiere minimali quando vanno agli scatenati rave che si svolgono quasi ogni notte. Secondo Mona Zandj Haghighi, una regista il cui primo film ( On a Friday Afternoon ) ha vinto premi in Germania, Francia, Grecia e Stati Uniti, oltre che al film-festival iraniano di Fajr, c'è un momento di forte risveglio: «E' un po' come essere tornati ai tempi di Khatami, solo che ora la gente è meno spaventata e non riusciranno a farla tacere». Fra il lavoro in produzione, i corsi di pilates e le feste nel weekend, Mona conduce un'esistenza non molto diversa da quelle delle sue coetanee in Occidente. E' convinta che il cambiamento sia ormai inarrestabile perché la gente «si lamenta di più e resiste di più», confida. Però, per quanto sia estremamente critica nei confronti del regime, la regista non dipinge Ahmadinejad come un mostro: «da quando è stato eletto c'è stata una stretta sulle arti, i libri e i film, ma non è tutto negativo: solo uno come Ahmadinejad poteva tenere testa a Bush». Dimostrazione perfetta di quanto la propaganda anti-iraniana sia funzionale agli interessi del regime.


La Repubblica del Blogstan:
circa 60mila blog inseriti e aggiornati in varie reti

Che in Iran la censura sia particolarmente rigida è cosa nota. Meno nota è la passione degli iraniani per i blog, quei diari elettronici più o meno personali nei quali riversano i propri sfoghi o critiche e riflessioni censurabili altrove: un vero e proprio fenomeno planetario che ha attirato l'attenzione dei ricercatori di Harvard. In "Mapping Iran's Online Public: Politics and Culture in the Persian Blogosphere" (Mappando l'ordine pubblico in Iran: politica e cultura nella blogosfera persiana) John Kelly e Bruce Etling hanno cercato di analizzare un fenomeno totalmente spiazzante per chi ha dimenticato il grande amore dei persiani per la parola scritta. Dallo studio viene fuori infatti che la blogosfera iraniana è un enorme spazio di discussione costituito da circa 60 mila blog costantemente aggiornati e inseriti in varie reti.
Contrariamente a quanto si pensava non tutti i blog sono critici nei confronti del regime e non tutti i tentativi governativi di bloccarli hanno successo - anzi, dalla ricerca viene fuori che quasi tutti i blog continuano a essere visibili in Iran malgrado i tentativi di censura. Kelly ed Eltin hanno suddiviso in quattro grandi aree d'interesse e di schieramento politico queste migliaia di siti. La prima, definita secolare-riformista, raccoglie gli scritti più critici di quelli - espatriati o residenti nel paese - che premono per un cambiamento consistente. Poi ci sono i blog dei conservatori-religiosi, dove si moltiplicano gli scritti in difesa del regime ma dove talvolta si svolgono anche dibattiti molto duri e approfonditi su questioni religiose e sociali. Ci sono poi i siti dedicati alla poesia e alla letteratura - davvero molti - e quelli definiti "misti" dove c'è un po' di tutto, dai fan dei gruppi musicali occidentali ai semplici diari. La ricerca fa parte di "Internet and Democracy Project", un'iniziativa per lo sviluppo della democrazia attraverso internet portata avanti dal Berkman Center for Internet & Society della Harvard Law School.

http://cyber.law.harvard.edu/research/internetdemocracy.


Liberazione 18/05/2008

lunedì 19 maggio 2008

La dolce dittatura

La dolce dittatura della nuova democrazia

Repubblica — 11 maggio 2008 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA
Con quello che capita nel mondo e soprattutto nel Medio Oriente, terra rivierasca del lago Mediterraneo, verrebbe voglia di sorvolare sui fatti di casa nostra, i primi passi del Berlusconi-Quater, il governo-ombra del Partito democratico, l' eterno duello eternamente smentito tra Veltroni e D' Alema. A paragone dell' orizzonte planetario sono cosette di provincia, ma quella provincia è casa nostra e quindi ci tocca da vicino. Ne va dei nostri interessi, delle nostre convinzioni e delle nostre speranze. L' impatto della crisi libanese provocata da Hezbollah e di quella israeliano-palestinese provocata da Hamas è comunque troppo violento per esser trascurato. Per di più abbiamo in Libano un contingente di tremila soldati, la nostra più importante missione militare la cui sorte condizionerà inevitabilmente le altre nostre presenze all' estero a cominciare da quella in Afghanistan. A questo punto si pone la prima domanda: esiste un legame strategico tra le iniziative militari e politiche di Hezbollah e quelle di Hamas? E - seconda domanda - si tratta di iniziative autonome o ispirate dall' esterno? C' è un' indubbia affinità tra quei due movimenti: entrambi hanno caratteristiche strutturali nei rispettivi teatri d' operazione; entrambi sono al tempo stesso milizie armate e strutture assistenziali, educative, sociali. Anche religiose, soprattutto per quanto riguarda Hezbollah. Probabilmente Hamas ha in se stessa la sua referenza ideologica e politica ma subisce ovviamente un forte condizionamento dal contesto della regione; la tuttora mancata pacificazione irachena e la presenza da ormai cinque anni di un' armata americana impantanata dalla guerriglia sciita e sunnita tra Bagdad e Bassora ha impedito il rafforzamento dell' Autorità palestinese favorendo invece il nazionalismo di Hamas e la sua identificazione con il panarabismo radicale e con il terrorismo.Per Hezbollah il fattore religioso ha sempre giocato un ruolo primario; il vincolo sciita ha progressivamente spostato la sua dipendenza da Damasco a Teheran. Allo stato attuale si gioca sullo scacchiere libanese una triplice partita: quella d' una grande Siria in funzione antisraeliana, quella d' un blocco sciita contro i governi arabi filo-americani e quella di un nazionalismo libanese come nuova potenza islamica e mediterranea. In un quadro così complesso emerge drammaticamente l' assenza d' una politica unitaria europea e la pochezza della politica mediorientale americana. Emerge altresì la catena di errori commessi dai governi d' Israele dalla fondazione di quello Stato fino ad oggi: sessant' anni di occasioni perdute, una guerra diventata endemica, l' evocazione dal nulla d' una nazione palestinese inesistente sessant' anni fa e il miraggio d' una pace che si allontana sempre di più. La formula "due paesi due Stati" ha un fascino lessicale che corrisponde sempre meno alla realtà. Il solo modo di realizzarla sarebbe quello di collocarla in un quadro internazionale sponsorizzato dall' Onu, dalla Nato e dall' Unione europea, impensabile tuttavia fino a quando l' Europa non disponga di istituzioni federali e di una sua politica estera e militare. Siamo cioè più nel regno dei sogni che in quello della realtà. * * * Nel frattempo il nuovo governo italiano si è installato ed è iniziata la quarta reincarnazione berlusconiana all' insegna di una dolce dittatura, come abbiamo già avuto modo di scrivere domenica scorsa. Dittatura dolce è un ossimoro con il quale cerchiamo di configurare un' entità politica inconsueta ma reale. Ci sono due polarità nel Berlusconi-Quater, che si confronteranno tra loro nei prossimi cinque anni e che convivono all' interno del triumvirato Forza Italia-An-Lega ma perfino all' interno di ciascuno dei tre partiti alleati. Convivono addirittura nella personalità dei tre leader e dei loro stati maggiori. Il "lider maximo" è probabilmente il più consapevole di questa duplice polarità e della blindatura zuccherosa che è l' immagine più realistica del governo testé insediato. Per questa ragione egli ha privilegiato la compattezza sul prestigio collocando nei dicasteri e nelle posizioni più sensibili persone clonate sulla fedeltà al capo piuttosto che sul prestigio e sulla competenza. Blindatura zuccherosa evoca sia il populismo sia il trasformismo, due elementi connaturati a tutto il quindicennio berlusconiano e profondamente radicati nella storia politica e antropologica del nostro Paese. Nei suoi primi atteggiamenti di nuova maggioranza tutti i dirigenti già insediati nelle varie cariche istituzionali, ministri, sindaci, presidenti di Regione e di Provincia, non fanno che lanciare appelli di collaborazione ai talenti individuali lasciando in ombra il ruolo dell' opposizione. Questa a sua volta tende a concentrare la sua forma-partito per esorcizzare tentazioni centrifughe e fughe in avanti verso ipotesi immaginarie. L' aspetto più visibile della blindatura zuccherosa è il tentativo di coinvolgere il Capo dello Stato effettuato da Berlusconi il giorno stesso del giuramento nella sala del Quirinale durante il brindisi augurale con i nuovi ministri e in assenza del presidente Napolitano appena ritiratosi per urgenti impegni istituzionali. «Questa legislatura - ha detto il neo-presidente del Consiglio - procederà sotto il segno di un patto con il presidente della Repubblica che avrà il nostro pieno appoggio e al quale sottoporremo le linee guida del governo per averne consiglio e preventivo incoraggiamento». Una simile dichiarazione era del tutto inattesa dopo una fase di crescente disagio reciproco tra i due massimi poteri istituzionali. Essa rivela la preoccupazione di Berlusconi di fronte alla complessità dei problemi da affrontare e il suo bisogno di collocare il governo nel quadro d' una "moral suasion" preventiva e preventivamente sollecitata e ascoltata come tramite e garanzia di fronte ad un' opinione pubblica frammentata e instabile. Il Quirinale non ha fatto alcun commento alle parole del presidente del Consiglio né poteva farlo essendo esse del tutto informali; del resto i rapporti tra la presidenza della Repubblica e il potere esecutivo si sono sempre basati sulla collaborazione, ferma restando la netta distinzione dei reciproci ruoli. La "moral suasion" è sempre stata uno degli strumenti di quella collaborazione nell' interesse dello Stato, a cominciare dai "biglietti" tra Quirinale e Palazzo Chigi ai tempi di Luigi Einaudi. Ma altro è la collaborazione istituzionale tra due poteri dello Stato, altro la confusione dei ruoli e un patto di legislatura che equivarrebbe ad una sorta di "annessione" del Capo dello Stato alla maggioranza parlamentare. Annessioni del genere ci furono durante la Prima repubblica e raggiunsero il culmine con la presidenza Leone, ma dalla presidenza Pertini in poi scomparvero del tutto e i ruoli riacquistarono la doverosa nettezza prevista dalla Costituzione. Nettezza tanto più necessaria in una fase in cui - al di là del conteggio dei seggi parlamentari - la maggioranza è stata votata dal 47 per cento degli elettori. * * * Sappiamo che il nuovo governo, subito dopo il voto di fiducia, si appresta ad affrontare i due primi e importanti appuntamenti: quello della sicurezza e quello dell' economia per un rilancio della domanda interna. Questioni complesse e irte di difficoltà. Il ministro dell' Interno, Maroni e quello della Giustizia, Alfano, stanno lavorando sul primo tema; il ministro dell' Economia, Tremonti, sul secondo. La premessa al pacchetto "sicurezza" è una direttiva europea in corso di avanzato esame, che dovrebbe prolungare la permanenza degli immigrati nei centri di accoglienza e custodia fino a 18 mesi. Se e quando questa direttiva entrerà in vigore, essa darebbe tempo di esaminare in modo approfondito la figura dei vari immigrati e accoglierli o rispedirli ai paesi di provenienza. Ma di ben più incisivo contenuto sono le misure di pertinenza del governo, predisposte dall' avvocato Ghedini, uno dei difensori di Berlusconi e membro del Parlamento. Si va da un elenco di reati particolarmente sensibili ai quali applicare le nuove misure, ad aumenti di pena rilevanti, all' obbligo di processi per direttissima nei casi di semi-flagranza, all' abolizione dei benefici di legge per i reati reiterati, all' istituzione del reato d' immigrazione clandestina. Infine alla chiusura delle frontiere per i "rom" provenienti dalla Romania, e al rimpatrio immediato di quelli irregolarmente entrati e residenti in Italia. Quest' ultimo punto è particolarmente delicato perché richiede un accordo con il governo di Bucarest che non sembra affatto disposto a concederlo ed anzi minaccia eventuali rappresaglie sugli italiani residenti in Romania. Il pacchetto nel suo complesso configura una politica assai dura e non priva di efficace deterrenza almeno in una prima fase, anche se è generale convinzione che politiche anti-immigrazione non avranno, sul tempo medio, alcuna efficacia se non nel quadro di un' assunzione di responsabilità europea e di accordi con i Paesi dai quali i flussi migratori provengono. Dal punto di vista della politica immediata il governo trarrebbe indubbio giovamento di popolarità da queste misure, visto che quello della sicurezza è il tema principale intorno al quale si è formato il consenso degli elettori. Proprio per questo Berlusconi punta su un decreto legge d' immediata esecutività a dispetto della complessità e delicatezza della materia. Sarà decisiva su questo specifico tema la posizione del Capo dello Stato cui spetta di decidere se l' urgenza debba prevalere sull' esame approfondito ed ampio in sede parlamentare. * * * Ancora più ardua l' apertura di partita sul terreno dell' economia. Tremonti ha ieri affermato che non esiste alcun "tesoretto" spendibile. Affermazione discutibile dopo le dichiarazioni di Padoa-Schioppa nel momento del passaggio di consegne, anche considerando che l' ex ministro non è certo incline agli ottimismi contabili. Comunque questa è la posizione di Tremonti, dalla quale discende che non c' è copertura né per il taglio dell' Ici né per la defiscalizzazione degli straordinari e dei premi di produzione per i lavoratori dipendenti. L' ammontare delle risorse necessarie per questi provvedimenti oscilla tra i cinque e i sette miliardi di euro. Se non ci sono non ci sono e si resterà al palo oppure, come Tremonti ha dichiarato, si tasseranno altri soggetti che il ministro ha indicato nelle banche e nelle società petrolifere. Ha certamente coraggio, Giulio Tremonti: tassare i ricchi (banche e petrolieri) per dare ai meno ricchi. Però attenzione: l' abolizione dell' Ici non premia i proprietari di case modeste, già esentati da Prodi, bensì i proprietari di immobili di qualità e prestigio. Questo provvedimento è classicamente elettoralistico, costa due miliardi e mezzo e non ha alcuna utilità né sociale né economica. Meglio sarebbe se Tremonti lo levasse di mezzo, ma Berlusconi ci ha costruito una buona parte della sua vittoria elettorale, ecco il guaio per il ministro dell' Economia. Le misure sulla detassazione degli straordinari sono invece importanti per ragioni sia sociali sia economiche. Abbiamo ragione di credere che per quella operazione la copertura ci sia. Pensiamo che le minacce di Tremonti alle banche e ai petrolieri abbiano come obiettivo quello di indurre le prime a sostanziali sconti sui mutui e i secondi a ribassi sui prezzi dei carburanti. Comunque sarà bene che il ministro proceda confrontandosi in Parlamento con le proposte alternative dell' opposizione: se vuole dare prove di ascolto politico, questo è il tema più adatto. * * * Non parlerò oggi del Partito democratico, in fase di riassetto e presa di coscienza della sconfitta elettorale. Condivido in proposito la diagnosi fatta l' altro ieri su questo giornale da Aldo Schiavone: Veltroni ha puntato sulla voglia di cambiamento della società italiana, Berlusconi invece sulla insicurezza e la voglia di protezione nonché su un sussulto identitario, localistico e tradizionale. La maggioranza degli elettori ha condiviso. Si deve per questo abbandonare la visione d' una società più moderna e dinamica? Credo di no. Bisognerà riproporla in modi più efficaci e meno dispersivi, concentrando l' attenzione su punti e provvedimenti concreti. Questo è mancato e questo va fatto a cominciare da subito. Ciò che non va fatto è di aprire di nuovo scontri interni e regolamenti di conti. Ciò che non va fatto è rimettere in scena lo scontro Veltroni-D' Alema. Riproporre un duello così trito sarebbe esiziale per i duellanti e per il loro partito. Temo che nessuno dei due abbia fatto abbastanza per evitare che l' ipotesi di un rinnovato scontro prendesse consistenza. Penso che debbano entrambi provvedere, ciascuno per la parte che gli compete, a dissipare l' immagine che si è formata. Se sono responsabili certamente lo faranno. - EUGENIO SCALFARI

Eurodeputata rom Viktoria Mohacsi / 2

L'eurodeputata rom Viktoria Mohacsi (Eldr) dopo la visita di due giorni negli insediamenti di Roma e Napoli. "Ecco le mie denunce al Parlamento"
'Blitz nei campi rom e bimbi spariti'
L'accusa dell'inviato Ue all'Italia
"Razzie di poliziotti senza spiegazioni". Non esiste "una vera politica sull'immigrazione"
"Perché non avete mai chiesto l'accesso ai finanziamenti per l'integrazione?"
di CLAUDIA FUSANI

'Blitz nei campi rom e bimbi spariti'
L'accusa dell'inviato Ue all'Italia


L'eurodeputata di origini rom Viktoria Mohacsi (Eldr)
ROMA - Parlerà a Strasburgo, seduta plenaria del Parlamento europeo, Commissione dei diritti umani. Parlerà di quello che ha visto in questi due giorni visitando i campi rom tra Roma e Napoli. E lancerà contro l'Italia un grave atto di accusa: violazione dei fondamentali diritti umani, bambini di cui si sono perse le tracce, razzie notturne della polizia. Vittoria Mohacsi, l'eurodeputato rom di origine ungherese è arrivata in Italia venerdì sera inviata dal suo partito (Eldr) per capire cosa sta succedendo in Italia tra annunci di deportazioni e di rimpatri di massa. Ospite del Partito Radicale sabato ha visitato due campi nella capitale (Castel Romano e Casilino 900, circa 1400 persone) e domenica è stata Napoli, dove l'intolleranza verso i rom è emergenza sociale e di sicurezza dopo gli incendi appiccati nel campo di Ponticelli. "E' tutto bruciato, le persone sono state sfollate e messe al sicuro durante la notte, una scena desolante" dice l'europarlamentare ospite di un convegno dei Radicali nella sede di Torre Argentina. Stasera pronuncerà il suo atto di accusa al momento raccolto in appunti in un quaderno rosa a disegni cachemire. Il cahier des dolehances si sviluppa lungo due direttrici. La prima di carattere politico e denuncerà la "totale assenza" in Italia di una politica per l'immigrazione. La seconda riguarda le denunce che gli stessi rom hanno rappresentato all'europarlamentare europea.

La difficoltà di avere dati certi. Purtroppo, ha spiegato l'eurodeputata di origini rom, 33 anni e tre figli, "ho avuto molta difficoltà ad avere dati e numeri attendibili sulla comunità rom in Italia" un fatto grave di per sè perchè dimostra che c'è scarsa conoscenza del fenomeno. Le informazioni più certe sono state fornite dall'Opera nomadi: "In Italia ci sono circa 200 mila rom di varie etnie di cui solo 80 mila sono residenti in Italia. Degli altri centoventimila la maggioranza sono semillegali. Soprattutto non esistono dati su quale era la situazione prima dell'ingresso nella Ue di Romania e Bulgaria" i paesi dove vive la maggior concentrazione rom. Il problema vero è che di tutte queste persone non esiste una banca dati che dica da quanto tempo sono qui, la nazionalità, manca un identikit della comunità.

"L'Italia non ha una politica sull'immigrazione". L'assenza di dati certi dimostra che manca il presupposto per la soluzione di ogni problema: la conoscenza. "L'Italia non ha una politica sull'immigrazione, non ha mai riconosciuto i rom neppure come minoranza linguistica e non ha una politica per le minoranze etniche. Ho incontrato persone che vivono qui anche da quaranta anni e ancora non hanno uno straccio di documento". Secondo Mohacsi la politica dell'Italia con gli stranieri è "assurda": "Non si base su legami geografici ma su vincoli di sangue (la cittadinanza viene data non in base allo ius soli ma in base allo ius sanguinis ndr); molti dei 120 mila senza documenti hanno ancora passaporti con la dicitura Jugoslavia che tutti sappiamo non esistere più". Adesso la politica del governo sembra orientarsi verso i rimpatri di massa ma "la maggior parte di queste persone non ha patria. Sono cittadini europei che sarebbero trasbordati da un posto all'altro. Fare quello che vuol fare l'Italia significa solo spostare il problema". L'Italia "non riconosce agli immigrati i diritti fondamentali: l'istruzione, la casa, l'assistenza sociale e sanitaria". Questo stasera Mohacsi dirà a Strasburgo.

"Si sentono come se fossero a Auschwitz". I campi sono in condizioni "orribili" , le persone vivono in baracche di lamiere, in mezzo ai rifiuti e ai topi, senza acqua corrente e senza luce. "Non ci sono servizi di alcuno tipo nelle vicinanze - racconta l'europarlamentare - . A Castel Romano su mille persone, 5 forse 6 hanno la cittadinanza. Una donna mi ha detto che si sente come se fosse ad Auschwitz...". Una citazione che non deve sembrare casuale. Durante la seconda guerra mondiale furono uccisi 500 mila zingari vittime del reich e dei folli progetti di dominazione razziale. Molti di loro furono deportati e sterminati proprio ad Auschwitz. Nella lingua gitana si chiama Porrajmos, significa "divoramento" e indica la persecuzione.

"Le razzie dei poliziotti". Nel suo viaggio nei campi Mohacsi ha soprattutto ascoltato. "Al campo Casilino 900 - dice - mi hanno raccontato che ogni 3 o 4 giorni verso mezzanotte arrivano pattuglie di poliziotti in divisa e armati. Non chiedono nulla, semplicemente picchiano. Ogni volta portano via circa 20 persone che scompaiono per 48 ore. Li tengono in celle dove vengono picchiati. Poi li rilasciano. Mi è stato assicurato che chi viene portato via non ha precedenti e non è ricercato".

"I bambini scomparsi". E' un altro punto agghiacciante del resoconto che l'eurodeputata farà a Strasburgo. "A Napoli la situazione è ancora peggiore. L'avvocato dell'Opera nomadi mi ha detto che da due anni sono state perse le tracce di dodici bambini accusati di accattonaggio. Questi ragazzini sembrano spariti nel nulla, non esiste neppure un pezzo di carta. Ho incontrato un nonno di 60 anni disperato perchè non sa più nulla di suo nipote". Se ribatti che i minori vengono spesso usati dai genitori per rubare, scippare, furti in casa, una vera e propria piaga, la risposta di Mohacsi è: "Bisogna punire chi delinque e tenerlo in carcere. Non far sparire i bambini".

"Chi indaga sulle molotov?". Dopo il fatto della ragazza di 16 anni accusata di voler rapire un bambino, le razzie dei poliziotti "sono aumentate". "Ho chiesto - insiste Mohacsi - tramite l'avvocato dell'Opera nomadi cosa la giustizia stesse facendo e mi ha detto che non risultano inchieste. Nè sulla ragazza accusata di voler sequestrare un bambino, nè su chi ha lanciato le molotov contro i campi e li ha incendiati".

"L'Italia chiede i fondi Ue". L'eurodeputato sa di maneggiare una questione difficile, scivolosa e delicata. Sa che quella dei rom è "un'emergenza sociale" in tutta Europa. Ma occorre tentare, provare a distinguere il bene dal male, il buono dal cattivo. Guai generalizzare. Provarci è un obbligo per un paese civile. "Alcuni paesi come Repubblica Ceca, Spagna, Romania, Bulgaria hanno ottenuto 250 milioni di euro dalla Ue per i progetti di integrazione delle popolazioni rom. Perchè l'Italia non ha mai chiesto l'accesso a questi finanziamenti?". Perchè serve un progetto. E forse non c'è mai stato.

La repubblica 19 maggio 2008

domenica 18 maggio 2008

Eurodeputata Rom Viktoria Mohacsi

Viktoria Mohacsi, deputata ungherese a Strasburgo ha visitato
i campi romani del Casilino. "Una situazione orribile"
Nomadi, la parlamentare Rom
"Attenta Italia, c'è un brutto clima"
"Questa gente ha paura. Vivono in Italia da decenni senza nessun riconoscimento"
"Arrestate e tenete in galera chi commette crimini, ma evitate la confusione"
di CLAUDIA FUSANI

Nomadi, la parlamentare Rom. "Attenta Italia, c'è un brutto clima"


L'on. Victoria Mohacsi
ROMA - "Attenzione, c'è un bruttissimo clima. Ricordiamoci cosa è successo negli anni trenta in Europa. La mia relazione al Parlamento europeo su quello che ho visto in Italia racconterà di questo clima. E sarà molto dura". Trentatré anni, minuta, faccia da gitana è proprio il caso di dire, sguardo intenso, anche un po' triste. Si chiama Viktoria Mohacsi, è rom di origine ungherese e dal 2004 è eurodeputato dell'Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l'Europa (Eldr). Da quattro anni, con un'altra eurodeputata di origine rom però rumena, ha l'incarico di monitorare le condizioni di vita dei 150 mila gipsy che vivono in Europa. E' la prova, semmai ce ne fosse bisogno, che è troppo facile e altrettanto sbagliato dire rom quindi zingaro quindi criminale.

Con l'aria che tira in Italia - pacchetti sicurezza, annunci di misure straordinarie, esplusioni di massa, limitazione dello spazio di libera circolazione Schengen, ronde contro gli zingari e molotov contro le baracche - Mohacsi è stata spedita qui da Annemie Neyts-Uytteboeck, leader dell'Eldr di cui fanno parte anche i radicali. L'eurodeputata infatti è accompagnata nella sua visita nella paura rom dal segretario dei radicali Rita Bernardini e dai deputati Marco Beltrandi e Maurizio Turco, eletti nelle liste del Pd. Mohacsi ha visitato il campo nomadi di Castel Romano e nel pomeriggio "Casilino 900", ammucchiata di lamiere lungo la via Casilina di cui anche Francesco Rutelli, in campagna elettorale, aveva annunciato lo smantellamento. Portare le ruspe in quel campo è uno dei primi obiettivi del sindaco Alemanno.

Domani Mohacsi andrà a Napoli "dove mi dicono che la situazione sia peggiore che altrove" e poi lunedì pomeriggio farà il suo rapporto al Parlamento europeo sullo status dei rom in Italia. Viktoria Mohacsi parla un perfetto inglese ma porta con sé un interprete, un giovane di Timisoara. Nei due campi visitati oggi non ci sono stati nei giorni scorsi nè blitz di vigili né pattuglioni delle forze dell'ordine. Sono più o meno legali, se non autorizzati almeno riconosciuti, e ci vivono circa mille e quattrocento persone. "Sono venuta qui - dice Mohacsi - soprattutto per vedere e ascoltare".

In quali condizioni ha trovati i campi?
"Ho visto più di mille persone che vivono in condizioni orribili. Soprattutto nel secondo campo (Casilino 900 ndr) non sono garantite le minime condizioni di igiene e di sicurezza. Non c'è acqua, non c'è corrente elettrica, le persone vivono in baracche fatiscenti, umide, sporche, tutto è assolutamente precario. Sono negati i diritti umani e civili basilari come l'assistenza sanitaria e l'accesso alle scuole. Non esiste nulla di simile negli altri paesi europei".

Cosa le hanno raccontato i rom che vivono in questi campi?
"Hanno paura, molta paura. Sono diffidenti. Anche quando siamo arrivati noi, lì per lì hanno mostrato diffidenza. Si tratta di persone che vivono in Italia da oltre vent'anni, per lo più di origine bosniaca, eppure non hanno documenti e nessun tipo di diritto riconosciuto. Mi è stato riferito che da un paio di mesi sta accadendo qualcosa che non era mai successo prima: almeno due rom sono stati presi dalla polizia, picchiati, portati in cella due giorni e poi rilasciati".

Saranno stati responsabili di qualche reato.
"No, non sono stati accusati di nulla. Semplicemente la polizia è venuta, li ha presi e li ha picchiati. A Castel Romano mi hanno raccontato che di notte girano gruppi di italiani armati di coltello e di pistole e bombe molotov, e così gli uomini del campo si sono organizzati per fare le ronde, tutta la notte fino all'alba".

Quali nazionalità vivono in questi campi?
"Per lo più bosniaci, kosovari, slavi, gente che è qui da decenni. E, ripeto, non hanno ancora un documento di identità o per l'accesso al servizio sanitario".

L'etnia rom conta numerose nazionalità, compresa quella italiana. E quella rumena, sicuramente la comunità più numerosa. E poi ci sono i rumeni e basta, che non c'entrano nulla con i rom. Crede che sia stata fatta un po' di confusione?
"Un po'? E' stata fatta molta confusione. Troppa. Qui ora sono gli zingari sono tutti rumeni e comunque sono tutti criminali. Non è così. La responsabilità della politica è proprio questa: aver semplificato il messaggio. Non è affatto positivo per un partito come quello che ha vinto le elezioni in Italia che la campagna elettorale si sia basata soprattutto sul sentimento antirom. Questa non è politica. Crea solo risentimento, incita all'odio, a sparare nel mucchio".

Dopo Roma, andrà a Napoli dove la situazione è, se possibile, ancora peggiore. Saprà, ad esempio, che pochi giorni fa una donna rom è entrata in una casa e ha cercato di portare via un neonato. E che ci sono state le ronde contro i campi. Quale la soluzione?
"Io credo e ho fiducia nella democrazia e nei diritti. In questo ambito va trovata la soluzione. Quindi le regole devono essere rispettate da tutti e chi sbaglia deve pagare. Chi commette un crimine deve essere arrestato. La giustizia italiana deve arrestare chi delinque e tenerlo in carcere. Questa è democrazia. Chi sbaglia paga. Non si può mescolare tutto".

Dirà questo nella sua relazione al Parlamento europeo?
"Anche. Non solo".


(La Repubblica 17 maggio 2008)

venerdì 16 maggio 2008

La Deriva

Un Paese di poeti, santi e scodellatrici

E siamo arrivati al bivio: o una svolta o la sindrome Argentina

C'erano una volta le impiraresse che perdevano gli occhi a infilar perline, le filandine che passavano la vita con le mani nell'acqua bollente e le lavandere che battevano i panni curve sui ruscelli sospirando sul bel molinaro. Ma all'alba del Terzo Millennio, al passo col resto del mondo che produceva ingegneri elettronici e fisici nucleari e scienziati delle fibre ottiche, nacquero finalmente anche in Italia delle nuove figure professionali femminili: le scodellatrici. Cosa fanno? Scodellano. E basta? E basta. Il moderno mestiere, per lo più ancora precario, è nato per riempire un vuoto. Quello lasciato dalle bidelle che, ai sensi del comma 4 dell'art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124, assolutamente non possono dare da mangiare ai bambini delle materne. Detta alla romana: "Nun je spetta".
C'è scritto nel protocollo d'intesa coi sindacati. Non toccano a loro le seguenti mansioni: a) ricevimento dei pasti; b) predisposizione del refettorio; c) preparazione dei tavoli per i pasti; d) scodellamento e distribuzione dei pasti; e) pulizia e riordino dei tavoli dopo i pasti; f) lavaggio e riordino delle stoviglie. Scopare il pavimento sì, se proprio quel pidocchioso del direttore didattico non ha preso una ditta di pulizie esterna. Ma scodellare no. Ed ecco che le scuole materne e primarie, dove le bidelle (pardon: "collaboratrici scolastiche") sono passate allo Stato, hanno dovuto inventarsi questo nuovo ruolo. Svolto da persone che, pagate a parte e spesso riunite in cooperative, arrivano nelle scuole alle undici, preparano la tavola ai bambini, scoperchiano i contenitori del cibo, mescolano gli spaghetti già cotti con il ragù e scodellano il tutto nei piatti, assistono gli scolaretti, mettono tutto a posto e se ne vanno. Costo del servizio, Iva compresa, quasi un euro e mezzo a piatto. Mille bambini, 1500 euro. Costo annuale del servizio in un Comune di media grandezza con duemila scolaretti: 300.000 euro. Una botta micidiale ai bilanci, per i Municipi: ci compreresti, per fare un esempio, 300 computer. Sulla Riviera del Brenta, tra Padova e Venezia, hanno provato a offrire dei soldi alle bidelle perché si facessero loro carico della cosa. Ottocento euro in più l'anno? "Ah, no, no me toca..." Mille? "Ah, no, no me toca..." Millecinque? "Ah, no, no me toca..." Ma ve lo immaginate qualcosa di simile in America, in Francia, in Gran Bretagna o in Germania? (…) E sempre lì torniamo: chi, se non la politica, quella buona, può guidare al riscatto un Paese ricco di energie, intelligenze, talenti straordinari ma in declino? Chi, se non il Parlamento, può cambiare le regole che per un verso ingessano l'economia sul fronte delle scodellatrici e per un altro permettono invece agli avventurieri del capitalismo di rapina di muoversi impunemente con la libertà ribalda dei corsari? (…)
Giorgio Napolitano ha ragione: "Coloro che fanno politica concretamente, a qualsiasi schieramento appartengano, devono compiere uno sforzo per comprendere le ragioni della disaffezione, del disincanto verso la politica e per gettare un ponte di comunicazione e di dialogo con le nuove generazioni".
Ma certo questa ricucitura tra il Palazzo e i cittadini, necessaria come l'ossigeno per interrompere la deriva, sarebbe più facile se i partiti avessero tutti insieme cambiato quell'emendamento indecente infilato nell'ultimo decreto "milleproroghe" varato il 23 febbraio 2006 dalla destra berlusconiana ma apprezzato dalla sinistra. Emendamento in base al quale "in caso di scioglimento anticipato del Senato della Repubblica o della Camera dei Deputati il versamento delle quote annuali dei relativi rimborsi è comunque effettuato". Col risultato che nel 2008, 2009 e 2010 i soldi del finanziamento pubblico ai partiti per la legislatura defunta si sommeranno ai soldi del finanziamento pubblico del 2008, 2009 e 2010 previsto per la legislatura entrante. Così che l'Udeur di Clemente Mastella incasserà complessivamente 2 milioni e 699.701 euro anche se non si è neppure ripresentata alle elezioni. E con l'Udeur continueranno a batter cassa, come se fossero ancora in Parlamento, Rifondazione comunista (20 milioni e 731.171 euro), i Comunisti italiani (3 milioni e 565.470), i Verdi (3 milioni e 164.920). (…) E sarebbe più facile, questo "ponte verso il Paese", se fosse stato cambiato un dettaglio del primo decreto economico del Prodi bis, che aggiungeva altri soldi ai partiti per gli elettori all'estero, decreto contestatissimo dal centrodestra salvo appunto quel dettaglio, che distribuiva 3 milioni e 691.960 euro all'Unione, a Forza Italia, all'Italia dei valori, al movimento Per l'Italia nel mondo di Mirko Tremaglia...
E sarebbe più facile se i 300 milioni di euro incassati nel 2008 dai partiti sulla base della legge indecorosa che distribuisce ogni anno 50 milioni di rimborsi elettorali per le Regionali (anche quando non ci sono), più 50 per le Europee (anche quando non ci sono), più 50 per le Politiche alla Camera (anche quando non ci sono: quest'anno doppia razione) e più 50 per le Politiche al Senato (doppia razione) non fossero un'enormità in confronto ai contributi dati ai partiti negli altri Paesi occidentali. (…)
Certo che ha ragione Napolitano, a mettere in guardia dai rischi dell'antipolitica. Ma cosa dicono i numeri? Che la legge attuale, che nessuno ha voluto cambiare, spinge i partiti a spendere sempre di più, di più, di più. Per la campagna elettorale del '96 An investì un milione di euro e fu rimborsata con 4, in quella del 2006 ne investì 8 e ne ricevette 64. E così tutti gli altri, dai diessini ai forzisti. Con qualche caso limite come quello di Rifondazione: 2 milioni di spese dichiarate, 34 incassati. Rimborsi per il 2008? C'è da toccar ferro.
(…)
"Un fantastilione di triliardi di sonanti dollaroni." Ecco a parole cos'hanno tagliato, se vogliamo usare l'unità di misura di Paperon de' Paperoni, dei costi della politica. A parole, però. Solo a parole. Nella realtà è andata infatti molto diversamente. E si sono regolati come un anziano giornalista grafomane che stava anni fa al "Corriere della Sera" e scriveva ogni pezzo come dovesse comporre un tomo del mitico Marin Sanudo, il cronista veneziano che tra i 58 sterminati volumi dei Diarii e i 3 delle Vite dei Dogi e il De origine e tutto il resto, riuscì a riempire l'equivalente attuale di circa 150.000 pagine. Quando il vecchio barone telefonava in direzione per sapere della sua articolessa, il caporedattore sudava freddo: "Tutto bene il mio editoriale, caro?". "Scusi, maestro, dovrebbe tagliare 87 righe." "Togliete gli asterischi."
Questo hanno fatto, dal Quirinale alle circoscrizioni, nel divampare delle polemiche sulle spese eccessive dei nostri palazzi, palazzetti e palazzine del potere: hanno tolto gli asterischi.
Sperando che bastasse spargere dello zucchero a velo per guadagnare un po' di tempo. Per tener duro finché l'ondata d'indignazione si fosse placata. Per toccare il meno possibile un sistema ormai così impastato di interessi trasversali alla destra e alla sinistra da essere diventato un blocco di granito. (…)
Almeno una porcheria, i cittadini italiani si aspettavano che fosse spazzata via. Almeno quella. E cioè l'abissale differenza di trattamento riservata a chi regala soldi a un partito piuttosto che a un'organizzazione benefica senza fini di lucro. È mai possibile che una regalia al Popolo delle Libertà o al Partito democratico, a Enrico Boselli o a Francesco Storace abbia diritto a sconti fiscali fino a 51 volte (cinquantuno!) più alti di una donazione ai bambini leucemici o alle vittime delle carestie africane? Bene: quella leggina infame, che avrebbe dovuto indignare Romano Prodi e Silvio Berlusconi e avrebbe potuto essere cambiata con un tratto di penna, è ancora là. A dispetto delle denunce, dell'indignazione popolare, delle promesse e perfino di una proposta di legge, firmata a destra da Gianni Alemanno e a sinistra da Antonio Di Pietro. Proposta depositata in un cassetto della Camera e lasciata lì ad ammuffire. Ma se non ora, quando?

giovedì 1 maggio 2008

FMI: cambio di rotta

Di fronte alla crisi del globale del credito, brusco cambio di rotta al Fmi
Per salvare il culo alle banche e al modello economico Usa il Fondo si scopre statalista

Sabina Morandi
Senza interventi governativi non si esce dalla crisi del credito che rischia di penalizzare la crescita globale. A dirlo è il capo del Fondo Monetario Internazionale Dominique Strauss-Kahn che aggiunge: «la necessità di un intervento pubblico sta diventando sempre più evidente». In occasione degli incontri di primavera, le due istituzioni che più hanno fatto per diffondere il neo-liberismo rampante - Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale - hanno perso la fede nelle capacità taumaturgiche del mercato e consigliano una terza linea difensiva da aggiungere a quella monetaria e a quella fiscale perchè, come dice Strauss-Kahn, se la liquidità delle banche «non può essere ripristinata abbastanza rapidamente dal settore privato, bisogna considerare l'impiego dei soldi pubblici». E, tanto per mostrare che fa sul serio, il Fondo mette sul mercato le sue riserve di oro il cui valore si aggira sui 6 miliardi di dollari.
La doppia morale del libero mercato non è una novità: se i soldi pubblici servono per salvare le banche non c'è niente di male, ma se a qualcuno viene in mente di utilizzarli per dare un tetto ai cittadini vittime dei mutui o per finanziare la sanità pubblica, finisce immediatamente all'indice per sospette nostalgie stataliste. Del resto, anche il ruolo che il Fondo recita per conto del Tesoro americano non è affatto nuovo, anche se stavolta le sue stime di crescita, chiaramente confezionate per arginare la fuga dei capitali verso l'eurozona, sono state apertamente criticate da esponenti di rilievo dell'establishment europeo come il ministro tedesco Junker, il commissario europeo Almunia e il governatore di Bankitalia Draghi. Quello che non si era mai visto, però, è un'inversione di tendenza così netta da parte di un'istituzione che ha mostrato un'intransigenza criminale nel difendere la purezza del suo assunto ideologico anche di fronte a crisi ben più devastanti di quella di oggi.
Nel corso di tutti gli anni Novanta, com'è noto, l'ideologia del mercato über alles ha indotto buona parte dei paesi a rinunciare a ogni controllo sugli investimenti esteri, aprendo così la strada alle scorribande del capitale speculativo e alle annesse crisi ricorrenti. Una delle più gravi, la crisi asiatica del 1997, fu il prodotto di una manovra speculativa alimentata dal panico che, in pochi mesi, mise in fuga tutti i capitali dalla regione malgrado le economie delle Tigri fossero più che solide. Il risultato, come scrisse l'Economist, fu «una distruzione di risparmi di proporzioni generalmente associate a una guerra totale». Per invertire la tendenza e calmare il panico finanziario sarebbe bastato un prestito rapido e deciso come fece il Tesoro statunitense per salvare il Messico nel '94, tanto per dimostrare al mercato che le istituzioni internazionali consideravano quelle economie solide. Nel '97, invece, la parola d'ordine era lasciar fare al mercato e anzi approfittare della crisi per finire di smantellare «i residui di un sistema fortemente condizionato da investimenti gestiti dal governo» come dichiarò Alan Greenspan.
Mentre l'Asia veniva sconquassata da un'epidemia di suicidi, assalti ai negozi e bancarotte, l'allora capo del Fondo Monetario, Michel Camdessus, si adeguò al verbo di Wall Street: dopo mesi di criminale inattività - durante i quali si sarebbero potuti autorizzare dei prestiti tampone per arginare il panico - il Fondo preparò dei pacchetti di aiuti da discutere con i paesi in crisi. Le discussioni, che si protrassero per parecchi preziosi mesi, erano necessarie perché gli aiuti, in realtà dei prestiti, erano condizionati alla disponibilità di smantellare l'odioso "intervento governativo" nell'economia. In sostanza, a paesi rovinati proprio per avere rinunciato a ogni controllo sui movimenti di capitali, vennero "consigliate" ulteriori deregulation.
La Malesia, che non ritenne ragionevole «distruggere la propria economia per farla migliorare» - come dichiarò il primo ministro di allora - rifiutò gli aiuti del Fondo e per questo finì all'indice ma si salvò. Gli altri, Indonesia, Thailandia, Filippine e Corea del Sud, dovettero aprire ogni settore alle corporation e, soprattutto, s'impegnarono a non interferire in alcun modo con la falce darwiniana del mercato. Mentre le imprese fallivano una dietro l'altra, ai governi di quei paesi venne tassativamente vietato di finanziare cuscinetti sociali per salvare le masse immiserite e anzi venne imposto loro di abbandonare anche i normali strumenti di controllo, come per esempio calmierare i prezzi dei generi di prima necessità. A differenza di oggi, allora il Fondo Monetario non ritenne necessario «valutare l'impiego di soldi pubblici» per dar da mangiare a un esercito di disoccupati anche se, secondo dati raccolti dalla Banca mondiale, in seguito alla crisi asiatica almeno 20 milioni di persone precipitarono sotto la soglia della povertà. Fu quell'intransigenza a spingere molti paesi - soprattutto quelli latino-americani - a sganciarsi dal sistema dei prestiti provocando quella crisi di liquidità che adesso costringe il Fondo a mettere in vendita le sue riserve auree per trovare i soldi con cui salvare le banche statunitensi.

Liberazione 09/04/2008

Muhammad Yunus

La finanza etica sfida il sistema: un'alternativa è possibile alla rapina delle grandi banche. L'intervento di Muhammad Yunus
«La povertà può diventare un ricordo
Vi dico come farlo concretamente»

Vorrei toccare alcuni aspetti per spiegare che cos'è che vogliamo raggiungere e da dove siamo partiti. Negli anni Settanta il Bangladesh si trovava in una situazione di gravissima crisi; la nostra economia era sull'orlo del collasso e nel 1974 abbiamo avuto una carestia. Potete immaginare il livello della nostra frustrazione? Chiunque si trovi a vivere in un Paese che attraversa una crisi così profonda, ogni giorno si augura un indomani migliore, e ogni giorno si affronta la frustrazione di vedere che le cose anziché migliorare peggiorano...
La prima cosa che ho tentato di fare è stato cercare di rendermi utile a singole persone anziché ambire a risolvere l'interezza del problema, cosa che era evidentemente impossibile. L'ho fatto nei pressi del campus universitario dove insegnavo, con le persone che abitavano in quei paraggi. Ho cercato di capire se c'era qualcosa che potesse rendergli la vita più facile. Subito mi sono reso conto che c'era un problema di usura. I prestatori - evidentemente a condizioni proibitive - davano ai poverissimi pochissimi soldi e chiedevano indietro grosse somme, che di fatto li strangolavano. Ho fatto un elenco dei creditori per capire chi fossero e quanto avessero preso in prestito. Alla fine della ricerca avevo 42 nomi per un totale pari a 27 dollari!
Sono rimasto sconvolto. Nelle aule delle facoltà di economia non si parla di cifre come 27 dollari ma di milioni se non di miliardi di dollari; si parla di grandi iniziative, incontri di sviluppo nazionale, ecc. Quindi ho pensato di aiutare queste 42 persone prestando loro i 27 dollari che cercavano, in modo che potessero rimborsare i loro creditori...
Mi sono detto di proseguire su quella strada perché una somma così piccola riusciva a rendere felici tante persone. In cerca di una soluzione più stabile, sono andato alla banca all'interno del campus, pensando che creando un collegamento diretto tra queste persone e la banca il problema si sarebbe risolto. Ma la banca ha risposto: non prestiamo soldi ai poveri perché non possono restituirli. Ho cercato di persuaderla, invece la banca sollevava ogni sorta di obiezioni inaccettabili. Ho finito per mettere insieme una lunga lista di lamentele sul sistema bancario perché lo trovai molto ingiusto nel respingere i poveri e le donne. Per quanto riguarda la questione di genere mi sono reso conto che tra coloro che avevano chiesto prestiti solo l'1% erano donne.
Dopo mesi di tentativi, vedendo che una qualche soluzione ci sfuggiva, ho avanzato una nuova proposta: mi farò garante io, firmerò io le carte relative ai prestiti di ciascuno. Sono effettivamente riuscito a realizzare questo progetto, cercando anche di attivare procedure semplificate per ciascuno dei prestiti. E ha funzionato. La gente si prendeva il suo piccolo prestito e poi lo restituiva; più persone riuscivamo a coinvolgerere più la banca sembrava recalcitrante. Mi sono detto: se dobbiamo fare affidamento su questa banca non faremo molta strada. È necessario fondare una banca alternativa che si dedichi esclusivamente a questa idea. Ho iniziato così trattative a livello governativo per ottenere la licenza per l'avvio di un istituto bancario. È stata una procedura lunga, complessa ma finalmente nel 1983 siamo diventati una banca.
La prima decisione assunta è stata quella di continuare a fare prestiti ai poveri, ma in modo che il 50% fossero donne. Dopo aver tanto criticato il sistema bancario perché rifiutava le donne, adesso dovevo correggerlo. Proponevo prestiti alle donne, ma queste rifiutavano perché non avevano mai avuto la possibilità di gestire somme di denaro. I miei studenti, a loro volta frustrati per quanto succedeva, mi consigliavano di lasciare stare. Ma ho deciso di insistere. Secoli di paura non si superano così facilmente. Per arrivare al 50% di prestiti a donne ci abbiamo messo 6 anni. Ci siamo accorti che il denaro che arrivava attraverso le mani delle donne produceva per quelle famiglie vantaggi molto maggiori rispetto a quanto sarebbe successo se fosse arrivato attraverso le mani degli uomini. Visto questo fenomeno abbiamo pensato di non fermarci al 50% ma di concentrarci solo sulle donne. Da allora sono donne la maggioranza delle persone che hanno usufruito dei prestiti.
Attualmente sono 7 milioni e mezzo le persone che usufruiscono dei prestiti accordati dalla Grameen Bank di cui il 97% è costituito da donne. In questi anni molte persone mi hanno chiesto che regole ci siamo dati, come le abbiamo trovate. Quando abbiamo bisogno di una regola, di una procedura, prima vediamo come si comportano le banche tradizionali e poi facciamo il contrario…
Il principio di fondo dei prestiti normali fatti da banche tradizionali è che più soldi il cliente dispone, più gli viene prestato. Noi abbiamo ribaltato questo principio: meno il cliente ha e più diventa attraente per noi. Se proprio non ha nulla, è il nostro cliente migliore. Altro principio sacrosanto delle banche tradizionali è il bisogno di garanzie. Dal primo giorno di attività della Grameen Bank abbiamo fatto a meno di garanzie.
Inoltre noi facciamo a meno degli avvocati. Non ci sono procedure legali, non ci sono carte da firmare. E ancora. I proprietari della banche sono uomini ricchi. La "mia" banca è proprietà dei poveri, e per lo più di donne povere.
Noi abbiamo ribaltato anche la prassi di doversi recare in banca. Di fatto questi sette milioni e mezzo di donne e uomini del Bangladesh li abbiamo sempre incontrati di persona, andando noi sulle porte delle loro case.
A differenza delle banche convenzionali, che si disinteressano completamente dei figli delle persone a cui si prestano i soldi, a noi questi bambini interessano moltissimo. Le persone a cui abbiamo concesso i prestiti sono per lo più analfabeti. Ora quasi il 100% dei figli dei nostri clienti va a scuola. Per incoraggiarli abbiamo introdotto un programma di borse di studio: 30.000 l'anno. Ci siamo accorti che molti di questi bambini progredivano bene negli studi e avevano capacità tali per cui avrebbero potuto fare bene alle scuole superiori, ma le loro famiglie non disponevano del reddito necessario. Abbiamo introdotto un tipo di prestito a scopo educativo, per finanziare tutti i corsi di studio, comprese le scuole superiori. Sono 18.000 i ragazzi che frequentano le scuole superiori e le università grazie a questi finanziamenti. Una nuova classe di professionisti, laureati e dottori sta nascendo.
Che cos'è la povertà? È qualcosa che sta nelle persone, negli individui? O sta per caso nel sistema? Per noi la povertà non è qualcosa di insito nelle persone, è qualche cosa che viene imposto.
Le stesse persone che qualche tempo fa dicevano: «No, no, io i soldi no, non ne so niente, non ci capisco niente, mi fanno paura». Adesso ci sono donne che conducono aziende piccole ma fiorenti. Capisci che ci sono tanti doni e talenti che queste persone non hanno mai avuto l'opportunità di sviluppare.
Ogni essere umano è dotato di una potenzialità pressoché illimitata. Ma attorno a queste persone abbiamo creato una società che non consente a ciascuna di scartare il regalo e scoprire che cosa è.
Queste persone sono riuscite a migliorare il loro livello di reddito, a mandare i figli a scuola. Noi non abbiamo fatto altro che prestare dei soldi. Semplicemente abbiamo messo queste persone nelle condizioni di esplorare la propria creatività, il proprio ingegno e sviluppare le proprie risorse.
Quando parlo dei poveri mi piace usare l'analogia del bonsai: si prendono delle sementi molto selezionate, si mettono in un vasetto, cresce una piantina, un albero piccolo piccolo. Era cattivo il seme per cui l'albero è venuto così piccolo? Non era cattivo il seme, il seme era ottimo. È stato piantato in un vaso piccolo anziché lasciargli lo spazio per affondare le radici e diventare alto. E così sono i poveri, sono bonsai. Non c'è niente che non vada in loro, è solo che la società non gli ha dato lo spazio per crescere.
Davanti all'esempio della Grameen Bank, le altre banche non possono più dire che i poveri non sono creditori affidabili. I nostri tassi di rimborso sono migliori, molto più elevati di quelli delle banche convenzionali.
C'è un unico concetto di impresa in circolazione oggi: l'impresa nasce per fare soldi, per massimizzare i profitti. Concepirli come robot per massimizzare il profitto è un insulto agli esseri umani. Per rendere giustizia all'essere umano penso che al mondo ci dovrebbero essere almeno due tipi di impresa: una creata per il vantaggio personale di chi l'avvia e l'altra di tipo sociale, creata per fare del bene alla gente. L'impresa di tipo sociale non ha perdite e non distribuisce dividendi, realizza finalità sociali e non profitto.
Il dollaro creato dall'impresa sociale ha una vita infinita perché si ricicla ogni volta. Un esempio di impresa sociale è quella che abbiamo creato in collaborazione con un grande produttore caseario, quella dello yogurt. Questa impresa si chiama Danone (non è la multinazionale francese, ndr ) e fabbrica sì yogurt, ma lo fa con un obiettivo sociale. In Bangladesh ci sono milioni di bambini malnutriti. Nello yogurt noi aggiungiamo dieci micronutrienti di cui ha bisogno un bambino con un livello nutrizionale insufficiente. Questo yogurt viene venduto a un prezzo molto abbordabile cosicché ogni famiglia povera se lo può permettere. Due confezioni di questo yogurt a settimana sono in grado di fare superare a un bambino la sua condizione di malnutrizione.
Perché la chiamo impresa sociale? È evidente: né Danone né Grameen possono prendersi dei dividendi da questa impresa, possono bensì ritirare il capitale investito nell'arco di alcuni anni se lo desiderano. Lo yogurt prodotto in questa maniera non serve a far profitti, serve a risolvere il problema del malnutrizione.
Un'impresa sociale si può creare con diverse finalità: una per tutti è quella di fornire acqua veramente potabile alle persone che non ne hanno a disposizione. L'impresa può essere anche di tipo sanitario, per esempio un ospedale, una clinica, un ambulatorio che cura i ricchi a pagamento in modo di poter curare gratuitamente i poveri.
Una volta accettato il concetto di impresa sociale occorre fare altre cose: un nuovo mercato azionario, una nuova borsa. Oggi le società che producono profitti vendono le proprie azioni per realizzare introiti, investirli e produrre profitto. In un mercato azionario alternativo ci sarebbero soltanto aziende sociali, in modo che chiunque voglia realizzare delle finalità sociali, possa andare nella borsa sociale, incontrando altre aziende lì quotate.
Un altro progetto riguarda l'educazione, l'istruzione universitaria: credo che nelle nostre università dovrebbero aprirsi nuove scuole di amministrazione, di gestione aziendale che diano in uscita un titolo di studio "sociale". Immagino un master di amministrazione di imprese sociali, un corso nel quale si formino i giovani a sposare ideali per poi gestire le imprese sociali, innovare e impiegare le nuove tecnologie riducendo sempre più i costi d'impresa e aumentando i benefici, eliminando tutti i fronzoli e fare in modo che le imprese sociali si rivolgano direttamente ai poveri e alle persone che ne hanno più bisogno.
Le teorie correnti non consentono il decollo delle imprese sociali. Siamo di fronte a teorie economiche che non lasciano spazio, quindi noi sogniamo "l'altra economia". La questione non è di creare un'altra economia o un'economia alternativa ma di completare le teorie economiche esistenti perché riguardano soltanto un aspetto, il profitto, e prendono di mira la creazione di un solo tipo di azienda. Integrando questa teoria, creando istituzioni che tengano presente le diverse esigenze credo che possa non esserci più una persona povera al mondo. Dobbiamo far diventare la povertà un ricordo…


Muhammad Yunus, in lingua bengalese: Muhammod Iunus, (Chittagong, 28 giugno 1940) è un economista e banchiere. È ideatore e realizzatore del microcredito, ovvero di un sistema di piccoli prestiti destinati a imprenditori troppo poveri per ottenere credito dai circuiti bancari tradizionali. Per i suoi sforzi in questo campo ha vinto il premio Nobel per la Pace 2006. Yunus è anche il fondatore della Grameen Bank, di cui è direttore dal 1983. Bibliografia consigliata: Il banchiere dei poveri , Feltrinelli, 1998, Il credito come diritto umano , conferenza tenuta dall'autore alla Camera di commercio di Ravenna il 9 ottobre 2003. Il sito della Grameen Bank è www.grameen-info.org.

Yunus è stato recentemente in Italia. Pubblichiamo l'intervento fatto in quell'occasione.


Liberazione 12/04/2008

Europa - Islam

Filosofia, matematica, medicina, astronomia... mentre l'Europa si dibatteva nell'oscurantismo la cultura araba fioriva in libertà
La civiltà occidentale?
Non sarebbe esistita senza l'Islam

Sabina Morandi
E' l'alba di un giorno scuro e piovoso. Un ragazzo si nasconde fra la folla per assistere alla tortura e all'esecuzione del suo maestro, la cui unica colpa è stata quella di avere diffuso le conoscenze sacrileghe e blasfeme degli antichi filosofi greci. Sul rogo, insieme al filosofo, bruciano infatti le traduzioni proibite in un'Europa dominata dalla superstizione e dalla violenza dei signori della guerra che regnano incontrastati. Dopo avere assistito all'atroce spettacolo il ragazzo scappa verso Sud portando con sé alcune opere del maestro, deciso ad abbandonare quelle terre di oppressione e di oscurantismo. Quando finalmente riesce a valicare i Pirenei gli si apre davanti una terra ricca e pacifica, dove le donne discutono alla pari con gli uomini e dove i libri, invece di essere distrutti, vengono conservati nelle biblioteche pubbliche.
E' l'inizio de Il destino , un film di qualche anno fa ambientato nei secoli più bui del Medioevo che il regista egiziano Youssef Chahine ha dedicato alla vita di uno dei più importanti filosofi della storia, Averroè, il cui razionalismo influenzò fortemente gli intellettuali occidentali dell'epoca. Dante, fra gli altri, si considerava un "averroista" convinto e l'intero pensiero islamico era una vera e propria boccata di ossigeno fra i cristiani illuminati che mal sopportavano la soffocante cappa di censura e superstizione che era, all'epoca, la caratteristica principale della cristianità. I libri di Averroè venivano contrabbandati, le sue dottrine trasmesse e le sue parole imparate a memoria per non incorrere nelle ire dell'Inquisizione. Spostando il punto di vista come ha fatto il regista, e riportando alla luce la storia rimossa di quei secoli oscuri, si capisce che la religione ha ben poco a che fare con i fondamentalismi di ogni epoca e di ogni latitudine.
Lo spiazzamento del pubblico occidentale nei confronti di un film girato per denunciare il fondamentalismo islamico attuale, non stupisce. Ci hanno insegnato che i secoli che separano la caduta dell'impero romano dal rinascimento sono stati anni di paura e barbarie, ma non ci è stato spiegato che ne siamo usciti unicamente perché siamo venuti in contatto con la civiltà più ricca e più evoluta dell'epoca, appunto l'Islam. Pochi occidentali sanno che, mentre l'Europa veniva spopolata dalle malattie e dalla fame, a Sud fioriva una civiltà che aveva come capitali Baghdad e Damasco, una civiltà cui noi occidentali dobbiamo la salvezza del patrimonio che consideriamo fondativo per la nostra cultura: la filosofia greca. Se gli studiosi dell'epoca di Solimano e del Saladino non avessero fatto propria la grande filosofia antica non avremmo né Platone né Aristotele perché la raffinata rete dei traduttori arabi, attraverso i quali ci sono pervenute le loro opere, non sarebbe esistita. Né, del resto, sarebbe potuta nascere la scienza moderna senza la libertà di studiare e sperimentare concessa ai matematici e agli scienziati arabi, il cui contributo è stato completamente cancellato per fare posto alla propaganda dello scontro fra civiltà.

Nell'ottica di Allah
Beltegeuse, Rigel, Aldebaran, Algol e Sirrah. Le stelle parlano arabo da secoli, da quando scienza, civiltà e tecnologia se ne stavano al di là del Mediterraneo, e i barbari sporchi, ignoranti e poveri che calavano per razziare le ricche città o per emanciparsi attraverso lo studio nelle rinomate università locali, eravamo noi. Per secoli la filosofia, la matematica e la medicina, per non parlare dell'astronomia, della chimica o dell'ottica, sono state islamiche, nel senso che l'Islam ha trasmesso e rielaborato le antiche discipline egizie, babilonesi, indiane e greche, e ne ha fondate di proprie. Un debito, quello nei confronti della scienza islamica, di cui si trovano innumerevoli tracce nel linguaggio stesso di molte discipline moderne che consideriamo, a torto, figlie della superiore "civiltà occidentale" ma che i nostri progenitori riconoscevano appieno, facendo di tutto per procurarsi i testi scientifici degli "infedeli".
L'origine della scienza islamica affonda nei nostri secoli più bui. Gli arabi avevano già preso a studiare il cielo, raccogliendo l'eredità dei greci e degli indiani, già nel VIII° secolo e nell'828 fu costruito a Baghdad il primo osservatorio astronomico del mondo. L'astronomia andava di pari passo con l'ottica e con lo studio della fisiologia dell'occhio: se ne ritrovano tracce nell'origine araba di termini medici come "retina" o "cataratta". L'amore della cultura musulmana per tutto ciò che aveva a che fare con la visione ha indubbiamente radici religiose, ma l'afflato mistico non deve trarre in inganno: la scienza islamica era sostanzialmente empirica - cioè amava sperimentare - e fortemente matematizzata, cosa questa che fa affermare ad alcuni storici che siano stati proprio gli arabi a insegnarci i primi rudimenti della formalizzazione matematica, caratteristica principale della scienza occidentale doc. Ibn Al-Haitham, ad esempio, noto in occidente con il nome di Alhazen, è considerato il massimo esperto di ottica tra Tolomeo e Witelo. L'alta considerazione di cui godeva anche fra i contemporanei non deve stupire: già intorno all'anno Mille Alhazen combinava elaborati trattamenti matematici con i modelli fisici e un'accurata sperimentazione, dando così una svolta empirica all'indagine scientifica, cosa che, in Occidente, avverrà solo dopo cinque secoli.
I calcoli degli astronomi e degli studiosi di ottica arabi furono possibili solo perché gli strumenti matematici erano già altamente sviluppati. L'apporto degli arabi alla scienza del calcolo fu così importante che non se ne è persa memoria e infatti uno dei pochi debiti che gli occidentali non hanno dimenticato è l'invenzione dello zero che rese possibile la nascita del calcolo posizionale, quello in colonne per intenderci. L'introduzione dei numeri indiani - da noi chiamati arabi - e lo sviluppo dell'algebra, fecero il resto. Un nome per tutti è quello del grande matematico del IX° secolo, Al Khwarizmi, che scrisse il Libro del compendio nel processo di calcolo per trasporto ed equazione , più volte tradotto in latino e diffuso in Europa con il nome di Liber Algorismi , una latinizzazione del suo nome da cui deriva il termine "algoritmo".

La medicina
Per secoli la medicina araba è stata talmente più avanzata di quella occidentale da indurre gli stessi crociati a servirsi dei dottori cavallerescamente offerti dal nemico assediato. Gli arabi conoscevano infatti i testi greci di Ippocrate e di Galeno, che l'Europa aveva perduto, insieme alle molte nozioni derivanti dalle teorie e dagli esperimenti degli alessandrini che si erano diffuse nell'Egitto ellenizzato e in Asia minore. L'arrivo in Occidente delle traduzioni di Platone e Aristotele rese accessibile agli studiosi del barbaro Nord anche le teorie dei filosofi e dei medici islamici. Per circa due secoli la filosofia greca è stata infatti studiata nelle versioni arabizzate tratte dai commenti del razionalista Averroè o del mistico Avicenna, i più importanti filosofi dell'Islam, ed è a queste versioni che si riferivano i nostri filosofi. A Bologna come a Parigi gli studenti, ma anche i padri del dogma cattolico come San Tommaso d'Aquino, dovettero piegarsi alla superiorità della sapienza araba del tempo.
Ma Avicenna non era soltanto un filosofo. Mentre nei villaggi nordici che in seguito divennero noti con il nome di Parigi o di Londra, si curavano le malattie con gli incantesimi, nel profondo Sud veniva fondata la medicina moderna. Il Canon medicinae di Ibn Sina, nome originale appunto del grande Avicenna, è stato praticamente l'unico libro di testo degli studenti di medicina per quasi tre secoli e ha continuato, per tutto il Rinascimento, a essere il libro più stampato in Europa. Ma Avicenna è in buona compagnia. Fu l'arabo Al-Razi a fondare l'ostetricia e a fornire la prima descrizione scientifica del vaiolo e del morbillo - e a prospettare la possibilità di immunizzare i sani attraverso le secrezioni dei malati - mentre Ibn Nafis fu il primo a descrivere il meccanismo della circolazione sanguigna. Tutti nomi ignorati dai manuali di storia della medicina che riportano solo le date - e gli autori - delle ri-scoperte occidentali.
Con le sue grandi intuizioni, come l'ipotesi dell'esistenza dei microbi e i primi esperimenti con i vaccini, la medicina araba era decisamente all'avanguardia nella teoria così come lo era nell'insegnamento e nella pratica. Nelle scuole di medicina islamiche si cominciò a pretendere che gli studenti si misurassero con la pratica clinica oltre che con i testi e per favorire l'apprendistato, oltre che per il controllo delle epidemie, venne abbracciata un'idea del tutto nuova: raggruppare i malati in una struttura dove i medici avrebbero potuto assisterli e gli studenti imparare dalla pratica dei propri maestri. Venne inventato insomma quello che, per dirla con parole moderne, è il policlinico universitario, che fece la sua comparsa in Europa solo nel diciannovesimo secolo. A Damasco la prima struttura ospedaliera del mondo venne costruita esattamente mille e cento anni prima: nel 707 dopo Cristo, data che lascia un tantino allibiti visto che, a quell'epoca, dalle nostre parti ancora non si pensava nemmeno ai lazzaretti.
Malgrado un'attenzione particolare per l'aspetto psicosomatico che colpisce per la sua modernità, l'approccio medico islamico era sostanzialmente razionalista e si basava su approfondite conoscenze anatomiche che gli europei, a cui non era consentito lo studio dei cadaveri, non potevano avere. Del resto il tabù sulle autopsie rimase valido in tutta la cristianità almeno fino al XVII° secolo e oltre - come testimoniano le rocambolesche "avventure" dei pittori rinascimentali, più note di quelle dei loro contemporanei medici. Ma un'altra caratteristica che rendeva i dottori arabi estremamente efficienti rispetto ai colleghi occidentali, era la possibilità di disporre di una quantità incredibile di sostanze provenienti dagli estesi domini dei califfi - ovvero sali, acidi, alcaloidi ed erbe - che rifornivano il prontuario con una serie di rimedi degni di una moderna farmacia. L'alchimia, da cui trae origine la moderna chimica, era infatti un altro settore particolarmente fecondo della scienza islamica.

A tutta chimica
Lo sviluppo dell'alchimia proviene dall'altro grande filone culturale che si unì a quello greco per dare luogo alla scienza islamica, ovvero le antichissime conoscenze provenienti dall'India e dalla Cina. Nel periodo della sua massima espansione, infatti, l'Islam si estendeva dall'India alla Spagna passando per la Persia, il nord-Africa e la Sicilia. La capitale venne spostata da Damasco a Baghdad dove, grazie alla grande tolleranza culturale del califfo Harum al-Rashid (786-809 d.C.), cominciarono a convergere i saperi e le tradizioni dei popoli conquistati. Sotto il regno dell'Illuminato, come venne chiamato il califfo più volte citato in Le mille e una notte , venne fondata e sviluppata la "Casa della sapienza", ovvero un centro di mecenatismo finanziato dallo Stato che sorgeva intorno a una grandiosa biblioteca inter-religiosa. Nella Casa della sapienza cominciarono ad affluire da tutto il mondo studiosi e religiosi, pensatori e praticanti, in un'atmosfera di libertà intellettuale mai conosciuta prima, e Baghdad diventò per la scienza quello che Atene era stata per l'arte durante l'età di Pericle.
Fu in questo clima che l'alchimia si sviluppò e cominciò a cimentarsi con la produzione di alcune sostanze utili. La chimica islamica, libera dalle condanne e dai pregiudizi religiosi che in Europa la condannarono alla clandestinità fino ai tempi di Newton, a Baghdad ebbe la possibilità di svilupparsi come una scienza e una tecnologia specifica, separandosi molto presto dalle sue origini magiche. Jabir ibn Hayyan, il più famoso alchimista arabo vissuto nella seconda metà del VII° secolo, perfezionò il processo di distillazione dell'alcool (la cui etimologia deriva appunto dalla parola araba "al-ghul"), costruendo nuovi tipi di alambicchi. E' da notare che la preparazione e la produzione dell'alcool a uso medicinale fu consentita, malgrado la ben nota proibizione coranica.
Un altro importante frutto degli esperimenti dei chimici di Baghdad furono i progressi relativi alla fabbricazione della carta, che utilizzarono e migliorarono gli antichi metodi importati dalla Cina. Nel 793 venne fondata a nella capitale una vera e propria fabbrica che, attraverso una produzione semi-industriale, ricavava la carta da una pasta di fibre di canapa e di gelso mescolate ad allume e colla. E con la produzione della carta su larga scala, ovviamente, la diffusione dei libri nel mondo islamico divenne molto più rapida e immensamente più economica, anche se bisognerà aspettare l'invenzione della stampa in Occidente - più di sette secoli dopo - per arrivare alla possibilità di un accesso davvero universale al sapere scritto.


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Storie del mondo al contrario

Nell'estate del 999 il ricco mercante ebreo Ben-Atar salpa da Tangeri alla volta di Parigi. E' un viaggio pericoloso perché la sperduta cittadina è nel cuore di un continente, l'Europa, in preda alla superstizione per l'approssimarsi dell'Anno mille. Comincia così Viaggio alla fine del millennio , dello scrittore israeliano Abraham Yehoshua (Einaudi, pp. 375, 9,70 euro) che racconta la storia del viaggio di Ben-Atar in cerca del nipote Raphael Abulafia, suo socio in affari, che fino a un paio di anni prima aveva venduto con profitto la merce dello zio in Francia. La loro collaborazione è stata però troncata in seguito alle critiche rivolte alla bigamia del mercante sefardita dalla moglie di Abulafia. Compagni di viaggio di Ben-Atar sono il socio musulmano Abu-Lufti, le sue due mogli, e un rabbino andaluso che ha il compito di convincere la devota moglie di Abulafia della legittimità della situazione famigliare di Ben-Atar. Oltre a essere scritto magistralmente il romanzo è occasione per gettare uno sguardo sul "mondo al contrario" della fine del millennio scorso, dove musulmani ed ebrei convivevano in pace e guardavano con preoccupazione ai barbari del Nord dalle vette della loro evoluta e pacifica civiltà mediterranea.
Anche in Lo schiavo del manoscritto , dello scrittore indiano Amitav Ghosh (Einaudi, pp. 330, 9,30 euro) la civiltà islamica è al centro del racconto, ma stavolta la vicenda ruota intorno alle rotte commerciali che attraversano il Mare Arabico, e ai fitti interscambi fra la cultura islamica e quella indiana. La storia dello schiavo protagonista del libro è depositata nel manoscritto H. 6 che è stato redatto nel 1156 e ritrovato, da un ricercatore moderno, nell'antica sinagoga di Ben Ezra al Cairo. Con in mano soltanto il frammento di una lettera, il giovane ricercatore indiano si mette alla ricerca delle tracce storiche di un ignoto schiavo di novecento anni prima di cui non conosce neppure il nome, e che tuttavia gli appare come una chiave per intendere e raccontare i legami tra la sua India e l'Egitto.
Senza alcuna pretesa letteraria ma pieno di interessanti riferimenti storici è invece il romanzo di Noah Gordon, uno scrittore "di cassetta" specializzato in romanzi storici. In Medicus (RL Libri, pp. 670, 4,60 euro) viene raccontato il difficile apprendistato di un guaritore inglese, che attraversa l'Europa medioevale sempre sull'orlo di una condanna per stregoneria, da cui riesce a fuggire solo grazie all'intervento di pazienti potenti che hanno bisogno della sua arte. Alla fine del viaggio approderà appunto a Baghdad, dove troverà finalmente il riconoscimento professionale e la fonte della più moderna conoscenza medica dell'epoca.
Sa.Mo.

Liberazione 13 aprile

Post-global. Globalizzazione in crisi

Nel mondo post-global il «mercatismo» non incanta più

Vittorio Bonanni
Christian Marazzi, economista, è professore e direttore di ricerca socio-economica presso la Scuola Universitaria della Svizzera Italiana. Attento osservatore della realtà sociale ha realizzato numerose pubblicazioni sulla trasformazione del lavoro e dell'economia del post-fordismo. A lui abbiamo chiesto di commentare l'allarme lanciato dal Wall Street Journal sul rinnovato intervento statale nell'economia un po' in tutto il mondo. Una sorta di "addio alla globalizzazione", come ha intitolato ieri Repubblica l'articolo di Federico Rampini.

Professore, come valuta questo nuovo scenario? E' veramente l'inizio della crisi di una tendenza estrema, quella appunto del neoliberismo, oppure si tratta soltanto di alcuni aggiustamenti necessari?
Direi che siamo arrivati al punto in cui le società sentono di doversi difendere dalla finanza, la quale si è autonomizzata in un modo assolutamente spropositato, del tutto autoreferenziale e sta creando dei seri problemi di governabilità.

«Globalizzazione in crisi, all'orizzonte il ritorno di Keynes»

Vittorio Bonanni
E' proprio a partire da questa autonomizzazione che la stessa economia reale, che pure non sta attraversando un particolare periodo di crisi, rischia di entrare in una lunga recessione. C'è dunque questa prima consapevolezza e una conseguente alzata di scudi. Resta il fatto che la globalizzazione da questo punto di vista mi sembra che stia dando sicuramente dei segnali di crisi proprio per quanto riguarda il suo tratto originario, ovvero le liberalizzazioni, la deregolamentazione e la crescita transnazionale. E questo porta anche ad un rafforzamento di una configurazione policentrica del globo.

Insomma più potenze economiche...
Ci sarà un'Europa, che ricerca una sua autonomia e una sua identità, l'Asia, anche se al suo interno possono essere presenti poli che si possono contrapporre l'uno con l'altro, e anche l'America latina. C'è insomma un inizio di deglobalizzazione e allo stesso tempo, con tutti i rischi che questo comporta, di ristatalizzazione. Non a caso ci sono sempre di più delle grosse imprese multinazionali che sono di fatto pubbliche, statali.

Secondo lei questa inversione di tendenza potrò riportare a galla il keynesismo?
Ancora no. Non credo che ci saranno ancora delle forme di riregolamentazione di tipo keynesiano sul piano delle politiche statali. E questo è l'aspetto più complesso della faccenda che riguarda sicuramente una crisi della mercatizzazione che Giulio Tremonti nel suo ultimo libro La paura e la speranza affronta riprendendo le critiche mosse negli ultimi anni dal movimento no-global. Questa degenerazione del neoliberismo evidentemente anche a destra viene vista come qualcosa da cui proteggersi. Io però non riesco a vedere come questa deglobalizzazione, intesa come spinta verso il policentrismo planetario, possa tradursi in un recupero e in un rilancio appunto delle politiche keynesiane sul piano dello stato nazione. Se vogliamo parlare di un rilancio della dimensione pubblica e dell'intervento pubblico penso che posso soltanto immaginarlo sul piano continentale. Parlando dell'Europa potremmo paventare, per esempio, un superamento di quelli che sono i limiti dei parametri di Maastricht, una camicia troppo stretta per l'iniziativa pubblica sul piano locale. Parlare dunque di un keynesismo post-liberista mi sembra comunque pertinente e legittimo come orizzonte verso il quale quasi inevitabilmente si dovrà andare. Non sono sicuro però che questo poi significhi capacità di regolamentare la finanza impazzita. A me sembra che questa crisi è pesantissima. E durerà ancora per un po' di tempo e gli esiti non sono scontati. C'è una grandissima inquietudine all'interno di quel mondo, si è creato veramente il mostro e non c'è nessuno ancora in grado di fermarlo. Però allo stesso tempo per attraversare questa fase si sono inventate quantità veramente astronomiche di liquidità che non potranno non preparare la prossima bolla speculativa che potrebbe riguardare, dopo il mercato immobiliare, le energie alternative.

Professor Marazzi, se il keynesismo può tornare ad essere un orizzonte legittimo, non crede che potrà, nel futuro, stimolare anche i grandi partiti della sinistra europea a ritrovare la strada di una politica più attenta alle questioni sociali?
In teoria sì. E' anche vero però che chi è stato paradossalmente più keynesiano in questi anni è stata la destra che ha lasciato spesso ai governi socialdemocratici il compito di contenere il debito. E la sinistra, o il centro-sinistra, non ha dato certo prova di grande coraggio in questo senso. Per esempio io sono convinto da tempo che un modo per rilanciare questo modello sia finalmente attuare delle politiche di investimento nel settore della formazione e del lavoro cognitivo. Perché ancora oggi, vera eredità dell'epoca fordista, gli investimenti sono una caratteristica che riguarda soprattutto tutto ciò che concerne il genio civile, e cioè gli immobili, le scuole per esempio, e non quello che ci sta dentro. Un rilancio del keynesismo sulla spinta di quella che è la situazione sul piano globale, con le sfide tecnologiche della Cina e dell'India, sta proprio nel considerare la formazione e la ricerca come dei veri e propri investimenti e non delle spese.


Liberazione 01/05/2008

Globalizzazione e protezionismo

Addio alla globalizzazione torna di moda il protezionismo

Repubblica — 30 aprile 2008 pagina 1 sezione: PRIMA PAGINA
A prima vista è difficile trovare analogie tra Hillary Clinton, Barack Obama e il presidente cinese Hu Jintao. In realtà questi leader, nonostante le differenze che li separano, condividono un' intuizione: il neoliberismo è in crisi, è giunta l' ora di rallentare la marcia trionfale della globalizzazione. La ritirata del mercato e la rivincita del dirigismo statale assumono forme diverse in ogni paese.Ma la tendenza è così netta da mettere in allarme The Wall Street Journal, la Bibbia quotidiana del capitalismo americano. «Il mondo non è più piatto», sentenzia il quotidiano rovesciando il titolo del celebre saggio di Thomas Friedman. (Lo stesso Wall Street Journal è una vittima del riflusso: comprato l' anno scorso da Rupert Murdoch che si appresta a liquidarne il gruppo dirigente, il giornale finisce nella pancia di un semi-monopolio, anche nell' informazione Usa la concorrenza si riduce). Dall' Ohio alla Pennsylvania e ora in vista dell' Indiana, i due candidati democratici alle presidenziali hanno capito che nell' America dei colletti blu travolti dalla recessione i voti si conquistano attaccando il made in China e il Nafta: quell' accordo di libero scambio con Canada e Messico firmato da Bill Clinton, che segnò una tappa cruciale della globalizzazione. L' Inghilterra, patria storica del liberismo, ha nazionalizzato la banca Northern Rock travolta dalla crisi dei mutui: era dai tempi di Harold Wilson negli anni Sessanta che il Labor Party non osava tanto. George Bush e il suo banchiere centrale Ben Bernanke non sono da meno. Insensibili a milioni di sfratti e pignoramenti di case delle famiglie meno abbienti, i repubblicani sono scattati in aiuto di Wall Street quando l' Sos è arrivato dai banchieri. La Bear Stearns evita il fallimento finendo nelle braccia della J.P. Morgan: in realtà anche quello è un salvataggio di Stato, interamente garantito con risorse pubbliche e cioè i fondi della Federal Reserve. Un vero spartiacque, un evento senza precedenti, perché dal 1929 l' America ha una rete di salvataggio riservata alle banche - studiata per proteggere i piccoli risparmiatori - ma la Bear Steerns è una "brokerage house" altamente speculativa, i cui clienti sono altre istituzioni finanziarie o grandi patrimoni. Di fronte ai cattivi esempi che vengono dalle roccaforti storiche del capitalismo, le potenze emergenti si adeguano. La Cina approfitta della crisi mondiale dei mutui per infiltrare il suo capitalismo di Stato nel cuore di Wall Street, Londra e Zurigo: a colpi d' investimenti miliardari entra nei consigli d' amministrazione delle banche occidentali la China Investment Corporation, "fondo sovrano" posseduto dalla banca centrale di Pechino (1.700 miliardi di dollari di riserve valutarie). In casa sua il governo cinese manipola apertamente le quotazioni della Borsa di Shanghai, per impedire che cada prima delle Olimpiadi. L' India, altro protagonista influente dell' economia globale, frena la sua apertura ai mercati in un settore cruciale, vietando ai suoi agricoltori di esportare riso. Perfino le elezioni italiane si possono inserire in questa tendenza. La paura dell' immigrazione - che già ebbe un ruolo nel no francese alla Costituzione europea del 2005 - ha favorito la Lega e Alemanno; Tremonti cavalca il protezionismo; Berlusconi blocca Air France a costo di scaricare di nuovo un' Alitalia decotta sul contribuente italiano. La destra italiana non ha mai creduto seriamente al mercato, adesso trova un alibi e una sponda nella revisione ideologica che serpeggia da Washington a Londra a Pechino. Segno dei tempi, la "liberal" Cnn ha dato in appalto una fascia oraria all' anchorman Lou Dobbs per una crociata contro l' immigrazione. Anche ai vertici delle grandi istituzioni internazionali - gli arbitri della globalizzazione - il mutamento degli equilibri è evidente. Dalla Banca mondiale ha dovuto dimettersi il neoconservatore Wolfowitz, scivolato su uno scandalo sessuale ma soprattutto isolato nel suo iperliberismo. Al Fondo monetario internazionale è arrivato un socialista francese, Dominique Strauss Kahn, che predica aumenti di spesa pubblica per contrastare la recessione. Le cause di questa inversione di tendenza sono molteplici. La più ovvia è che la globalizzazione si è spinta molto avanti e prima o poi una battuta d' arresto era prevedibile. Il ciclo vittorioso del neoliberismo si può far risalire molto indietro. A metà degli anni Settanta avvengono le prime innovazioni della deregulation finanziaria; nel 1979-80 le privatizzazioni di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Nel 1989 cade il Muro di Berlino e s' impone il "pensiero unico", il modello vincente è il mix fra liberaldemocrazia e capitalismo. Due anni dopo l' India esce da una lunga esperienza di socialismo protezionista e vara le liberalizzazioni che la lanciano verso lo sviluppo. Nel 1995 sulle ceneri del Gatt nasce il Wto (l' organizzazione del commercio mondiale) e accelera l' abolizione delle barriere agli scambi. Nello stesso periodo l' Europa costruisce il suo mercato unico e ne prepara il coronamento finale con l' euro. Le crisi finanziarie che alla fine degli anni 90 scoppiano in America latina, nel sud-est asiatico, in Russia, danno all' Occidente un potere d' influenza smisurato: i governi in bancarotta sono costretti ad accettare i diktat del Fmi, il "pensiero unico" impone le ricette ai paesi emergenti. Il culmine è il 2001, quando la Cina fa il suo ingresso nel Wto: la nazione più popolosa del mondo, che sotto Mao Zedong fu il teatro dell' esperimento più radicale di comunismo, irrompe nell' arena del capitalismo globale. Il 2001 è l' anno di tutte le contraddizioni, contiene già i segnali del riflusso attuale. L' 11 settembre impone all' America la sicurezza come priorità assoluta: ne soffriranno certe aperture all' immigrazione, e la fiducia nel multilateralismo. L' ingresso della Repubblica Popolare nel Wto è una bomba a scoppio ritardato. Col passare degli anni mette in difficoltà industrie tradizionali e fasce di classe operaia in Occidente. L' invasione del made in China apre in casa nostra i varchi alla demagogia populista, che promette un futuro migliore se solo si fermano le lancette della storia, e si erige attorno ai nostri paesi una Grande Muraglia anti-cinese. Stati Uniti e Unione europea avevano spinto sull' acceleratore della globalizzazione quando erano convinti di ricavarane i maggiori benefici. Le sorprese sono clamorose e innescano i ripensamenti. In seno al Wto europei e americani scoprono di non essere più i padroni del gioco. Si forma un' alleanza dell' emisfero Sud del pianeta, capitanata da India e Brasile, che mette sotto accusa le politiche agricole di Washington e Bruxelles e pretende accesso ai mercati ricchi. I paesi emergenti rimettono in discussione le regole quando le giudicano inique, e trovano alleati nel movimento alter-global o nelle ong umanitarie: è il caso dei brevetti sui medicinali, dove India Brasile e Thailandia sfidano la lobby dell' industria farmaceutica e sfornano prodotti "generici" a una frazione dei prezzi occidentali. L' emergere di Cindia come il nuovo baricentro dell' economia globale ha un altro effetto choc che si riverbera a ondate progressive in tutto il pianeta: esplodono i consumi di energia e di alimenti, scatenando l' inflazione di tutte le materie prime, dal petrolio al gas, dai metalli al legname, dal riso ai cereali. Nel settore energetico la penuria e l' impennata secolare dei prezzi sconvolge i rapporti di forza. Nei paesi produttori torna a imporsi di prepotenza il ruolo dello Stato: dal Venezuela alla Russia è una catena di ri-nazionalizzazioni. Si ridimensiona il potere dei petrolieri occidentali: la Shell calcola che l' 80% delle riserve petrolifere mondiali sono controllate da enti pubblici. Anche nel mercato agroalimentare la globalizzazione è vittima del suo successo. Grazie al boom economico dei loro paesi centinaia di milioni di asiatici possono permettersi una dieta più ricca. Ma i raccolti non hanno tenuto il passo con questa esplosione dei consumi. Ecco perché i governi produttori erigono ostacoli all' export per sfamare in precedenza i loro cittadini. Il Tibet e i Giochi olimpici del 2008 segnano la caduta di un altro dogma del "pensiero unico": l' idea di un automatismo dei diritti umani, l' illusione che lo sviluppo capitalistico generi di per sé democrazia. Il colpo di grazia alla lunga avanzata della globalizzazione è venuto dal centro del capitalismo finanziario, l' America. La crisi dei mutui subprime non ha finito di mietere vittime e di seminare danni. Un dato è ormai certo: quando i banchieri di Wall Street e la classe operaia di Detroit convergono nel chiedere protezione allo Stato, è il segno che una fase storica sta cambiando. - di FEDERICO RAMPINI