venerdì 25 giugno 2010

Lettera degli economisti

14 giugno 2010

La gravissima crisi economica globale, e la connessa crisi della zona euro, non si risolveranno attraverso tagli ai salari, alle pensioni, allo Stato sociale, all’istruzione, alla ricerca, alla cultura e ai servizi pubblici essenziali, né attraverso un aumento diretto o indiretto dei carichi fiscali sul lavoro e sulle fasce sociali più deboli.

Piuttosto, si corre il serio pericolo che l’attuazione in Italia e in Europa delle cosiddette “politiche dei sacrifici” accentui ulteriormente il profilo della crisi, determinando una maggior velocità di crescita della disoccupazione, delle insolvenze e della mortalità delle imprese, e possa a un certo punto costringere alcuni Paesi membri a uscire dalla Unione monetaria europea.

Il punto fondamentale da comprendere è che l’attuale instabilità della Unione monetaria non rappresenta il mero frutto di trucchi contabili o di spese facili. Essa in realtà costituisce l’esito di un intreccio ben più profondo tra la crisi economica globale e una serie di squilibri in seno alla zona euro, che derivano principalmente dall’insostenibile profilo liberista del Trattato dell’Unione e dall’orientamento di politica economica restrittiva dei Paesi membri caratterizzati da un sistematico avanzo con l’estero.

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La crisi mondiale esplosa nel 2007-2008 è tuttora in corso. Non essendo intervenuti sulle sue cause strutturali, da essa non siamo di fatto mai usciti. Come è stato riconosciuto da più parti, questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori. Per lungo tempo questo divario è stato compensato da una eccezionale crescita speculativa dei valori finanziari e dell’indebitamento privato che, partendo dagli Stati Uniti, ha agito da stimolo per la domanda globale.

Vi è chi oggi confida in un rilancio della crescita mondiale basato su un nuovo boom della finanza statunitense. Scaricando sui bilanci pubblici un enorme cumulo di debiti privati inesigibili si spera di dare nuovo impulso alla finanza e al connesso meccanismo di accumulazione. Noi riteniamo che su queste basi una credibile ripresa mondiale sia molto difficilmente realizzabile, e in ogni caso essa risulterebbe fragile e di corto respiro. Al tempo stesso consideriamo illusorio auspicare che in assenza di una profonda riforma del sistema monetario internazionale la Cina si disponga a trainare la domanda globale, rinunciando ai suoi attivi commerciali e all’accumulo di riserve valutarie.

Siamo insomma di fronte alla drammatica realtà di un sistema economico mondiale senza una fonte primaria di domanda, senza una “spugna” in grado di assorbire la produzione.

L’irrisolta crisi globale è particolarmente avvertita nella Unione monetaria europea. La manifesta fragilità della zona euro deriva da profondi squilibri strutturali interni, la cui causa principale risiede nell’impianto di politica economica liberista del Trattato di Maastricht, nella pretesa di affidare ai soli meccanismi di mercato i riequilibri tra le varie aree dell’Unione, e nella politica economica restrittiva e deflazionista dei paesi in sistematico avanzo commerciale. Tra questi assume particolare rilievo la Germania, da tempo orientata al contenimento dei salari in rapporto alla produttività, della domanda e delle importazioni, e alla penetrazione nei mercati esteri al fine di accrescere le quote di mercato delle imprese tedesche in Europa. Attraverso tali politiche i paesi in sistematico avanzo non contribuiscono allo sviluppo dell’area euro ma paradossalmente si muovono al traino dei paesi più deboli. La Germania, in particolare, accumula consistenti avanzi commerciali verso l’estero, mentre la Grecia, il Portogallo, la Spagna e la stessa Francia tendono a indebitarsi. Persino l’Italia, nonostante una crescita modestissima del reddito nazionale, si ritrova ad acquistare dalla Germania più di quanto vende, accumulando per questa via debiti crescenti.

La piena mobilità dei capitali nell’area euro ha favorito enormemente il formarsi degli squilibri nei rapporti di credito e debito tra paesi. Per lungo tempo, sulla base della ipotesi di efficienza dei mercati, si è ritenuto che la crescita dei rapporti di indebitamento tra i paesi membri dovesse esser considerata il riflesso positivo di una maggiore integrazione finanziaria dell’area euro. Ma oggi è del tutto evidente che la presunta efficienza dei mercati finanziari non trova riscontro nei fatti e che gli squilibri accumulati risultano insostenibili.

Sono queste le ragioni di fondo per cui gli operatori sui mercati finanziari stanno scommettendo sulla deflagrazione della zona euro. Essi prevedono che per il prolungarsi della crisi le entrate fiscali degli Stati declineranno e i ricavi di moltissime imprese e banche si ridurranno ulteriormente. Per questa via, risulterà sempre più difficile garantire il rimborso dei debiti, sia pubblici che privati. Diversi paesi potrebbero quindi esser progressivamente sospinti al di fuori della zona euro, o potrebbero decidere di sganciarsi da essa per cercare di sottrarsi alla spirale deflazionista. Il rischio di insolvenza generalizzata e di riconversione in valuta nazionale dei debiti rappresenta pertanto la vera scommessa che muove l’azione degli speculatori. L’agitazione dei mercati finanziari verte dunque su una serie di contraddizioni reali. Tuttavia, è altrettanto vero che le aspettative degli speculatori alimentano ulteriormente la sfiducia e tendono quindi ad auto-realizzarsi. Infatti, le operazioni ribassiste sui mercati spingono verso l’alto il differenziale tra i tassi dcinteresse e i tassi di crescita dei redditi, e possono rendere improvvisamente insolventi dei debitori che precedentemente risultavano in grado di rimborsare i prestiti. Gli operatori finanziari, che spesso agiscono in condizioni non concorrenziali e tutt’altro che simmetriche sul piano della informazione e del potere di mercato, riescono quindi non solo a prevedere il futuro ma contribuiscono a determinarlo, secondo uno schema che nulla ha a che vedere con i cosiddetti ‘fondamentali’ della teoria economica ortodossa e i presunti criteri di efficienza descritti dalle sue versioni elementari.

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In un simile scenario riteniamo sia vano sperare di contrastare la speculazione tramite meri accordi di prestito in cambio dell’approvazione di politiche restrittive da parte dei paesi indebitati. I prestiti infatti si limitano a rinviare i problemi senza risolverli. E le politiche di “austerità” abbattono ulteriormente la domanda, deprimono i redditi e quindi deteriorano ulteriormente la capacità di rimborso dei prestiti da parte dei debitori, pubblici e privati. La stessa, pur significativa svolta di politica monetaria della BCE, che si dichiara pronta ad acquistare titoli pubblici sul mercato secondario, appare ridimensionata dall’annuncio di voler “sterilizzare” tali operazioni attraverso manovre di segno contrario sulle valute o all’interno del sistema bancario.

Gli errori commessi sono indubbiamente ascrivibili alle ricette liberiste e recessive suggerite da economisti legati a schemi di analisi in voga in anni passati, ma che non sembrano affatto in grado di cogliere gli aspetti salienti del funzionamento del capitalismo contemporaneo.

E’ bene tuttavia chiarire che l’ostinazione con la quale si perseguono le politiche depressive non è semplicemente il frutto di fraintendimenti generati da modelli economici la cui coerenza logica e rilevanza empirica è stata messa ormai fortemente in discussione nell’ambito della stessa comunità accademica. La preferenza per la cosiddetta “austerità” rappresenta anche e soprattutto l’espressione di interessi sociali consolidati. Vi è infatti chi vede nell’attuale crisi una occasione per accelerare i processi di smantellamento dello stato sociale, di frammentazione del lavoro e di ristrutturazione e centralizzazione dei capitali in Europa. L’idea di fondo è che i capitali che usciranno vincenti dalla crisi potranno rilanciare l’accumulazione sfruttando tra l’altro una minor concorrenza sui mercati e un ulteriore indebolimento del lavoro.

Occorre comprendere che se si insiste nell’assecondare questi interessi non soltanto si agisce contro i lavoratori, ma si creano anche i presupposti per una incontrollata centralizzazione dei capitali, per una desertificazione produttiva del Mezzogiorno e di intere macroregioni europee, per processi migratori sempre più difficili da gestire, e in ultima istanza per una gigantesca deflazione da debiti, paragonabile a quella degli anni Trenta.

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Il Governo italiano ha finora attuato una politica tesa ad agevolare questo pericoloso avvitamento deflazionistico. E le annunciate, ulteriori strette di bilancio, associate alla insistente tendenza alla riduzione delle tutele del lavoro, non potranno che provocare altre cadute del reddito, dopo quella pesantissima già fatta registrare dall’Italia nel 2009. Si tenga ben presente che sono altamente discutibili i presupposti scientifici in base ai quali si ritiene che attraverso simili politiche si migliora la situazione economica e di bilancio e quindi ci si salvaguarda da un attacco speculativo. Piuttosto, per questa via si rischia di alimentare la crisi, le insolvenze e quindi la speculazione.

Nemmeno si può dire che dalle opposizioni sia finora emerso un chiaro programma di politica economica alternativa. Una maggior consapevolezza della gravità della crisi e degli errori del passato va diffondendosi, ma si sono levate voci da alcuni settori dell’opposizione che suggeriscono prese di posizione contraddittorie e persino deteriori, come è il caso delle proposte tese a introdurre ulteriori contratti di lavoro precari o ad attuare massicci programmi di privatizzazione dei servizi pubblici. Gli stessi, frequenti richiami alle cosiddette “riforme strutturali” risultano controproducenti laddove, anzichè caratterizzarsi per misure tese effettivamente a contrastare gli sprechi e i privilegi di pochi, si traducono in ulteriori proposte di ridimensionamento dei diritti sociali e del lavoro.

Quale monito per il futuro, è opportuno ricordare che nel 1992 l’Italia fu sottoposta a un attacco speculativo simile a quelli attualmente in corso in Europa. All’epoca, i lavoratori italiani accettarono un gravoso programma di “austerità”, fondato soprattutto sulla compressione del costo del lavoro e della spesa previdenziale. All’epoca, come oggi, si disse che i sacrifici erano necessari per difendere la lira e l’economia nazionale dalla speculazione. Tuttavia, poco tempo dopo l’accettazione di quel programma, i titoli denominati in valuta nazionale subirono nuovi attacchi. Alla fine l’Italia uscì comunque dal Sistema Monetario Europeo e la lira subì una pesante svalutazione. I lavoratori e gran parte della collettività pagarono così due volte: a causa della politica di “austerità” e a causa dell’aumento del costo delle merci importate.

Va anche ricordato che, con la prevalente giustificazione di abbattere il debito pubblico in rapporto al Pil, negli anni passati è stato attuato nel nostro paese un massiccio programma di privatizzazioni. Ebbene, i peraltro modesti effetti sul debito pubblico di quel programma sono in larghissima misura svaniti a seguito della crisi, e le implicazioni in termini di posizionamento del Paese nella divisione internazionale del lavoro, di sviluppo economico e di benessere sociale sono oggi considerati dalla piu autorevole letteratura scientifica altamente discutibili.

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Noi riteniamo dunque che le linee di indirizzo finora poste in essere debbano essere abbandonate, prima che sia troppo tardi.

Occorre prendere in considerazione l’eventualità che per lungo tempo non sussisterà una locomotiva in grado di assicurare una ripresa forte e stabile del commercio e dello sviluppo mondiale. Per evitare un aggravamento della crisi e per scongiurare la fine del progetto di unificazione europea è allora necessaria una nuova visione e una svolta negli indirizzi generali di politica economica. Occorre cioè che l’Europa intraprenda un autonomo sentiero di sviluppo delle forze produttive, di crescita del benessere, di salvaguardia dell’ambiente e del territorio, di equità sociale.

Affinchè una svolta di tale portata possa concretamente svilupparsi, è necessario in primo luogo dare respiro al processo democratico, è necessario cioè disporre di tempo. Ecco perchè in via preliminare proponiamo di introdurre immediatamente un argine alla speculazione. A questo scopo sono in corso iniziative sia nazionali che coordinate a livello europeo, ma i provvedimenti che si stanno ponendo in essere appaiono ancora deboli e insufficienti. Fermare la speculazione è senz’altro possibile, ma occorre sgombrare il campo dalle incertezze e dalle ambiguità politiche. Bisogna quindi che la BCE si impegni pienamente ad acquistare i titoli sotto attacco, rinunciando a “sterilizzare” i suoi interventi. Occorre anche istituire adeguate imposte finalizzate a disincentivare le transazioni finanziarie e valutarie a breve termine ed efficaci controlli amministrativi sui movimenti di capitale. Se non vi fossero le condizioni per operare in concerto, sarà molto meglio intervenire subito in questa direzione a livello nazionale, con gli strumenti disponibili, piuttosto che muoversi in ritardo o non agire affatto.

L’esperienza storica insegna che per contrastare efficacemente la deflazione bisogna imporre un pavimento al tracollo del monte salari, tramite un rafforzamento dei contratti nazionali, minimi salariali, vincoli ai licenziamenti e nuove norme generali a tutela del lavoro e dei processi di sindacalizzazione. Soprattutto nella fase attuale, pensare di affidare il processo di distruzione e di creazione dei posti di lavoro alle sole forze del mercato è analiticamente privo di senso, oltre che politicamente irresponsabile.

In coordinamento con la politica monetaria, occorre sollecitare i Paesi in avanzo commerciale, in particolare la Germania, ad attuare opportune manovre di espansione della domanda al fine di avviare un processo di riequilibrio virtuoso e non deflazionistico dei conti con l’estero dei Paesi membri dell’Unione monetaria europea. I principali Paesi in avanzo commerciale hanno una enorme responsabilità, al riguardo. Il salvataggio o la distruzione della Unione dipenderà in larga misura dalle loro decisioni.

Bisogna istituire un sistema di fiscalità progressiva coordinato a livello europeo, che contribuisca a invertire la tendenza alla sperequazione sociale e territoriale che ha contribuito a scatenare la crisi. Occorre uno spostamento dei carichi fiscali dal lavoro ai guadagni di capitale e alle rendite, dai redditi ai patrimoni, dai contribuenti con ritenuta alla fonte agli evasori, dalle aree povere alle aree ricche dell’Unione.

Bisogna ampliare significativamente il bilancio federale dell’Unione e rendere possibile la emissione di titoli pubblici europei. Si deve puntare a coordinare la politica fiscale e la politica monetaria europea al fine di predisporre un piano di sviluppo finalizzato alla piena occupazione e al riequilibrio territoriale non solo delle capacità di spesa, ma anche delle capacità produttive in Europa. Il piano deve seguire una logica diversa da quella, spesso inefficiente e assistenziale, che ha governato i fondi europei di sviluppo. Esso deve fondarsi in primo luogo sulla produzione pubblica di beni collettivi, dal finanziamento delle infrastrutture pubbliche di ricerca per contrastare i monopoli della proprietà intellettuale, alla salvaguardia dell’ambiente, alla pianificazione del territorio, alla mobilità sostenibile, alla cura delle persone. Sono beni, questi, che inesorabilmente generano fallimenti del mercato, sfuggono alla logica ristretta della impresa capitalistica privata, ma al contempo risultano indispensabili per lo sviluppo delle forze produttive, per l’equità sociale, per il progresso civile.

Si deve disciplinare e restringere l’accesso del piccolo risparmio e delle risorse previdenziali dei lavoratori al mercato finanziario. Si deve ripristinare il principio di separazione tra banche di credito ordinario, che prestano a breve, e società finanziarie che operano sul medio-lungo termine.

Contro eventuali strategie di dumping e di “esportazione della recessione” da parte di paesi extra-Ume, bisogna contemplare un sistema di apertura condizionata dei mercati, dei capitali e delle merci. L’apertura può essere piena solo se si attuano politiche convergenti di miglioramento degli standard del lavoro e dei salari, e politiche di sviluppo coordinate.

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Siamo ben consapevoli della distanza che sussiste tra le nostre indicazioni e l’attuale, tremenda involuzione del quadro di politica economica europea.

Siamo tuttavia del parere che gli odierni indirizzi di politica economica potrebbero rivelarsi presto insostenibili.

Se non vi saranno le condizioni politiche per l’attuazione di un piano di sviluppo fondato sugli obiettivi delineati, il rischio che si scateni una deflazione da debiti e una conseguente deflagrazione della zona euro sarà altissimo. Il motivo è che diversi Paesi potrebbero cadere in una spirale perversa, fatta di miopi politiche nazionali di ”austerità” e di conseguenti pressioni speculative. A un certo punto tali Paesi potrebbero esser forzatamente sospinti al di fuori della Unione monetaria o potrebbero scegliere deliberatamente di sganciarsi da essa per cercare di realizzare autonome politiche economiche di difesa dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione. Se così davvero andasse, è bene chiarire che non necessariamente su di essi ricadrebbero le colpe principali del tracollo della unità europea.

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Simili eventualità ci fanno ritenere che non vi siano più le condizioni per rivitalizzare lo spirito europeo richiamandosi ai soli valori ideali comuni. La verità è che è in atto il più violento e decisivo attacco all’Europa come soggetto politico e agli ultimi bastioni dello Stato sociale in Europa. Ora più che mai, dunque, l’europeismo per sopravvivere e rilanciarsi dovrebbe caricarsi di senso, di concrete opportunità di sviluppo coordinato, economico, sociale e civile.

Per questo, occorre immediatamente aprire un ampio e franco dibattito sulle motivazioni e sulle responsabilità dei gravissimi errori di politica economica che si stanno compiendo, sui conseguenti rischi di un aggravamento della crisi e di una deflagrazione della zona euro e sulla urgenza di una svolta di politica economica europea.

Qualora le opportune pressioni che il Governo e i rappresentanti italiani delle istituzioni dovranno esercitare in Europa non sortissero effetti, la crisi della zona euro tenderà a intensificarsi e le forze politiche e le autorità del nostro Paese potrebbero esser chiamate a compiere scelte di politica economica tali da restituire all’Italia un’autonoma prospettiva di sostegno dei mercati interni, dei redditi e dell’occupazione.

http://www.letteradeglieconomisti.it/

Liberazione 13/06/2010, pag 4

lunedì 21 giugno 2010

Old rate for new 'flexible' yuan

China has held the yuan at roughly 6.83 to the dollar since July 2008 [Reuters]

The official exchange rate for China's currency has remained unchanged following the central bank's warning that the value of the yuan would not dramatically rise after its two-year peg to the US dollar was lifted.

The central bank left the yuan's parity rate against the dollar unchanged on Monday at 6.8275, the state-run Xinhua news agency said.

The rate is a weighted average of prices given by market makers, excluding the highest and lowest offers.

The People's Bank of China announced on Saturday that it would gradually allow a more flexible exchange rate for its currency, saying "it is desirable to proceed further with reform of the RMB exchange rate regime and increase the RMB exchange rate flexibility".

The move was welcomed by Barack Obama, the US president, as a "constructive step that can help safeguard the recovery and contribute to a more balanced global economy".

'No major change'

But Chinese officials have said all along that any reforming of the yuan, also known as the renminbi (RMB) or "people's money", will be gradual.

And on Sunday the central bank said "there is at present no basis for major fluctuation or change in the renminbi exchange rate" in a lengthy commentary on its announcement a day earlier.

The statement appears to imply that China considers the current exchange rate to be roughly where it ought to be, and economists say they do not anticipate big swings in the rate.
China halted the yuan's rise in 2008 to help exporters weather the economic crisis [AFP]

Song Seng Wun, a regional economist with CIMB Research in Singapore, told Al Jazeera that China's announcement on Saturday was nothing new and it had only said it would allow its currency to appreciate, but did not say when and how - similar to comments it made last month.

If, however, exports continue in the next couple of months "to show resilience and growth despite what's happening in Europe, despite uncertainty about the state of the US economy, then perhaps it will give the Chinese a bit more confidence, especially if Chinese inflation rates continue to climb", he added.

China allowed the yuan to rise by about 20 per cent beginning in 2005, but halted that two years ago to help Chinese manufacturers weather the global economic crisis.

Since then, the yuan's value has been pegged to the dollar at an exchange rate of roughly 6.83 to $1.

The government sets the rate each day before the start of trading and retains powerful tools to control its movement.

Although it mentioned few specific steps and set no targets on Saturday, the central bank's announcement won praise from trading partners and the IMF.

Internal and external criticism

But there was also criticism, with some saying that with China's economy growing at double-digit rates, boosted by $586bn in stimulus spending and record bank lending to finance construction projects, Beijing can afford to move faster.

"Just a day after there was much hoopla about the Chinese finally changing their policy, they are already backing off," Charles Schumer, a US senator from Obama's Democratic party and a leading critic of China's currency policy, said on Sunday.

He said he planned to move forward with a bill that would punish Beijing for its currency policies, saying: "It is only strong legislation that will get the Chinese to change and will stop jobs and wealth from flowing out of America as a result of unfair trade policies."

The announcement on exchange rate flexibility seemed critically timed, coming a week ahead of a G-20 summit at which Hu Jintao, China's president, would likely face critics of his country's currency policy.

But the announcement drew criticism at home, with some Chinese experts saying it was a cave-in to foreign pressure that would ultimately damage China's crucial export sector.

Ye Tan, an economist writing on the website of the National Business Daily, a leading business newspaper, said the move would pile pressure on exporters already contending with a roughly 15 per cent appreciation of the renminbi against the euro, as well as rising labour costs.

"China's exports are unstable and this is having a major impact on the actual economy," Ye wrote. "Appreciation of the renminbi needs to wait until economic readjustment is certain and China's domestic demand has truly expanded."

http://english.aljazeera.net/news/asia-pacific/2010/06/20106214151382640.html

domenica 20 giugno 2010

China announces yuan 'flexibility'

China has held the yuan at roughly 6.83 to the dollar since July 2008 [Reuters]

China has announced that it will - gradually - allow a more flexible exchange rate for its currency, a move welcomed by major trading partners such as the US, as well as the IMF.

China's central bank strongly suggested on Saturday that it was ready to break the yuan's two-year peg to the US dollar peg, saying on its website that "it is desirable to proceed further with reform of the RMB exchange rate regime and increase the RMB exchange rate flexibility".

"The global economy is gradually recovering. The recovery and upturn of the Chinese economy has become more solid with enhanced economic stability," the statement added.

But the People's Bank of China mentioned no specific policy changes, and ruled out any one-off revaluation or large-scale yuan appreciation, saying: "The basis for large-scale appreciation of the RMB exchange rate does not exist."

Chinese officials have said all along that any reforming of the yuan, also known as the renminbi (RMB) or "people's money", will be gradual.

The announcement, timed just before Hu Jintao, China's president, attends the G-20 summit in Toronto, Canada, follows warnings from Beijing earlier this week against making its currency policies a main focus of the meeting.

Beijing, which kept the yuan frozen against the dollar to help Chinese manufacturers compete amid weak global demand in the wake of the 2008 financial crisis, faces pressure from the US and other trading partners who contend the yuan is undervalued.

US welcomes move

Barack Obama, the US president, who pressed China over the yuan in a letter released on Friday welcomed the move towards removing the dollar peg in an indication of the danger of a market-roiling confrontation at the G20 summit.

"China's decision to increase the flexibility of its exchange rate is a constructive step that can help safeguard the recovery and contribute to a more balanced global economy," he said.

The European Commission also welcomed the decision, as did the International Monetary Fund.

But Beijing's announcement is unlikely to satisfy critics in the US congress, who argue that an undervalued yuan gives China's exporters an unfair advantage and have threatened to penalise China for it.

"This vague and limited statement of intentions is China's typical response to pressure," said Charles Schumer, a US senator from Obama's Democratic party and a leading critic of China's currency policy.

"Until there is more specific information about how quickly it will let its currency appreciate and by how much, we can have no good feeling that the Chinese will start playing by the rules," he said, pledging to press ahead with legal action to raise trade barriers.

Criticism

China, which has held the yuan at roughly 6.83 to the dollar since July 2008 in a move it defended as a source of stability during the recent global financial crisis, has come under intense criticism from abroad as its export juggernaut has roared back to life.
Critics say keeping the yuan artificially cheap gives Chinese exports an unfair edge [Reuters]

Much of the rest of the global economy remains sluggish and beset by unemployment in the wake of the financial crisis, and China's policy is seen as stealing jobs from foreign markets.

In particular, by keeping the yuan artificially cheap against the dollar, China makes its imports more attractive for US consumers while making US exports to China more costly, critics say.

That has contributed to a massive surplus in China's trade account with the US, sparking protests that the policy is at the direct expense of American jobs.

Timothy Geithner, the US treasury secretary who has delayed publication of a potentially embarrassing report that could cite China as a currency manipulator, also stressed that China's actions would speak louder than words.

"This is an important step but the test is how far and how fast they let the currency appreciate," he said.

Echoing that view, Jamie Metzl, the executive vice-president of the Asia Society, told Al Jazeera that China's announcement was "a positive step but a very preliminary step".

He said the international community needs to maintain its pressure on China over its currency and Beijing needs to be tested in the weeks and months to come to see that its actions will match its words.

Geithner's currency report, due on April 15, was put on hold until after the G20, which runs from June 26-27, to give China time to act.

Obama needs China's help on a range of other delicate issues, including sanctions against Iran and North Korea for their nuclear programmes.

But he must balance quiet diplomacy against an urgent domestic political need to be seen fighting China for US jobs before congressional elections in November.

G20 targets 'imbalances'

G20 leaders have promised to tackle so-called global macro imbalances, posed by massive trade surpluses and deficits.

Those are blamed for fostering a bubble in the US housing market in 2008, and contributing to the recent European sovereign debt crisis.

Economists say such "imbalances" are not sustainable in the long term, and warn they may trigger another damaging global financial crisis if investors take fright.

Beijing's recent insistence that the summit was the wrong place to talk about yuan flexibility could have overshadowed the meeting and China's announcement on Saturday appeared aimed at deflecting criticism.

Eswar Prasad, a former head of the International Monetary Fund's China division, called Saturday's move important "as it signals recognition by Chinese officials that a more flexible exchange rate is in China's own interest and also acknowledges its responsibility to the international community".

http://english.aljazeera.net/news/asia-pacific/2010/06/201062022029833798.html

giovedì 17 giugno 2010

Maris Freighter Cruises

MARIS
of Westport, CT
Freighter Travel Club Int'l (Since 1958)
Freighter & Specialty Cruises (Since 1993)
1 800 99-Maris (-62747) & 1 203 222-1500 (-9191 fax)

We represent most of the steamship lines and working merchant ships worldwide, offering cruise, including the following: American Canadian Caribbean Line, America West Steamboat Company, Amerigo Express Line, Andrew Weir Shipping, Bank Line, H Buss, CMA CGM The French Line, Captain Cook Cruises, Cargo Ship Cruises, Clipper Cruise Line, Columbia Ship Management, Columbus Line, Compagnie des Iles du Ponant, Compagnie Polynesienne de Transport Maritime (CPTM), Costa Container Lines, Cruise West, Ocean Cruises, Discovery Cruises, Peter Doehle, Fred Olsen Cruise Lines, French Asia Line, French West Indies Line, GAP Adventures, Great Lakes Cruise Co, Grimaldi Lines Freighter Travel and Cruises, Hamburg-Sud, Hansa Shipmanagement, Hapag-Lloyd Cruises, Horn Line, Reederei F Laeisz, Leonhardt and Blumberg, Lindblad Expeditions, Cruise and Freighter Travel Association, Italian Line Cruises, Mare Schifffahrtsgesellschaft, Mediterranean Shipping Cruises MSC, NSB Freighter Cruises, Niederelbe Schiffahrtssgesellschaft Buxtehude, Norwegian Coastal Voyage (Hurtigruten), Oceanwide Expeditions, Oltmann Shipping, Passenger Freighter Lines, Quark Expeditions, MCC Reederei B Rickmers, Rickmers Linie Pearl String Freighter World Cruises, St Helena Line, St Lawrence Cruise Lines, Reederei Heinrich Schepers, Reederei Karl Schluter, Seetours, Star Clippers, Swan Hellenic, Transeste Shipping, Transocean Tours, Windstar Cruises, Reederei Hermann Wulff, Zeus Cruises.

http://www.freightercruises.com/

Come è dolce vagabondare su un cargo

di Flaminia Festuccia
Andare a spasso per il pianeta. A basso costo senza fretta. Dai network che organizzano l'ospitalità sulle navi merci, agli alberghi mobili, all'autostop organizzato
Clicca sulla foto per ingrandire

Un viaggio diverso, contro tutte le regole del buon senso. Si sceglie la strada più lunga, il mezzo più lento, si accettano passaggi e ospitalità dagli sconosciuti. E, invece di stare in vacanza, magari si lavora anche, come mozzi, skipper, cuochi, babysitter. O si decide di regalare il proprio tempo e le proprie conoscenze a chi ne ha bisogno facendo un pezzo di strada come volontari di associazioni umanitarie. Una filosofia di vita (prima ancora che di viaggio), all'insegna di tempi lunghi e costi bassi, con qualche stravaganza - come un hotel su ruote o una notte in un letto-capsula giapponese - e avventura assicurata, fuori dai sentieri battuti dal turismo tradizionale.

Aereo? No grazie. La prima regola per rimanere in linea con una filosofia di viaggio slow (ed economico) è eliminare l'aereo. A meno di trovare voli a prezzi stracciati con le compagnie no frills, è ovvio. Ma l'aspetto avventuroso del viaggio ci guadagna sicuramente con la ricerca di mezzi alternativi. Un passaggio su una nave merci, ad esempio, è molto vantaggioso - specialmente sulle lunghe tratte - e permette di condividere la vita di bordo con l'equipaggio rallentando i ritmi e godendo della lentezza degli spostamenti per mare. Anche qui è necessaria una precisazione: ormai molte compagnie (come la Grimaldi) offrono viaggi su cargo in cabine extralusso, con tanto di camerieri e personale per le pulizie. Ancora un po' troppo "pacchetto avventura".

Andando a cercare tra le società dell'est europeo o tedesche, invece, si trovano navi che prendono passeggeri a bordo a prezzi minimi (a partire da 50 euro al giorno, tutto compreso) e con poche condizioni: che non pretendano di essere intrattenuti, che rispettino tassativamente orari e zone off limits, che si puliscano la cabina e si facciano il bucato da soli. Oppure ci si rivolge ad
agenzie specializzate che organizzano di tutto punto viaggio e spostamenti. Ma di nuovo i prezzi lievitano. Viaggiare con i cargo, però, non è un'alternativa all'aereo né un modo rapido per spostarsi.

Diventa una filosofia di vita, apprezzando la lentezza, la vita di bordo, visitare porti fuori dalle rotte note. Si possono scegliere le destinazioni più diverse, partendo dal porto da Genova, per arrivare in Sudamerica passando per Francia e Spagna, compreso il ritorno. Oppure si può partire dal Nord Europa (ad esempio da Amburgo, Rotterdam o Southampton) per scoprire l'estremo oriente, con tappa e Shangai e Hong Kong. E magari fare non solo una tratta, ma l'intero giro del mondo a 60 euro al giorno di spesa. Tutto sommato, per arrivare da punto a punto la spesa è maggiore di un viaggio in aereo, dato che la nave impiega circa un giorno per coprire la stessa distanza di un'ora di volo. Se quello che interessa è semplicemente l'economicità della crociera più che l'esperienza di viaggio, allora, può convenire anche guardare i siti delle compagnie che propongono crociere di lusso, che spesso scontano anche del 50% gli ultimi posti rimasti a bordo.

Lavorare a bordo. L'alternativa più radicale, allora, è informarsi su siti come Find a Crew: si sale in barca, privata o commerciale, assunti come equipaggio. È il portale più frequentato, e si trovano impieghi in ogni parte del mondo, certo non un viaggio di riposo o piacere, ma un modo per conoscere il mondo via mare, guadagnando anche. Alcune richieste sono per personale qualificato, come capitani o ingegneri di bordo. Ma ci si può proporre anche come cuochi, per l'intrattenimento durante le crociere o per lavori meno qualificati. Nella panoramica di un viaggio low cost intorno al mondo, l'idea di guadagnarsi un passaggio gratis (anzi, con tanto di stipendio), è decisamente allettante.

Passaggio in auto offresi. Attraverso siti come Road Sharing e Hitchhikers si può organizzare un intero viaggio saltando di passaggio in passaggio. Certo, prendendo accordi prima della partenza diminuisce un po' il romanticismo alla Kerouac, ma si riduce il rischio di imprevisti, brutti i incontri, così come il pericolo di rimanere giornate intere nello stesso punto in attesa di un passaggio. E chi offre ospitalità a bordo del proprio mezzo mette già in chiaro le intenzioni: qualcuno lo fa solo per avere compagnia, altri sperando di alternarsi alla guida, altri ancora chiedono una piccola cifra (di solito inferiore ai 30 euro). Basta registrarsi sui siti, che hanno adepti da ogni parte del mondo, inserire il passaggio che si sta cercando o aderire a un'offerta già presente. Ci si mette in contatto con il guidatore e si concordano appuntamento, condizioni e lunghezza del tragitto da fare insieme.

Barcastop. Per mare, invece, c'è il barcastop. Certo non si può improvvisare, pena rimanere in mare su una boa con il pollice alzato in attesa che passi qualcuno, ma con pochi euro di contributo per carburante e cambusa e un minimo di esperienza velica si trova sempre qualcuno che vuole condividere un tratto di rotta, rimediando aiuto, compagnia e in molti casi solide amicizie. Basta girare sui siti che raccolgono velisti e diportisti per trovare, molto spesso, sezioni apposite in cui si cercano e offrono passaggi in barca.

Alberghi mobili. Si può anche optare per una "crociera" su ruote: grazie ai pullman-hotel tedeschi della Rotel. Alberghi su ruote, con tanto di cabine dove dormire e cucina, che viaggiano in tutto il mondo portando i passeggeri alla scoperta della realtà autentica dei luoghi. Servizi igienici essenziali - per lavarsi si fa un po' come si può, magari approfittando dei servizi dei campeggi - e un prezzo che varia tra i 50 e i 100 euro al giorno che comprendono il viaggio, una buona parte dei pasti, e il pernottamento.

Bisogna essere avventurosi, adattabili e poco schizzinosi. Bisogna amare gli spostamenti lenti e la condivisione. Ma alla fine in questo modo si può anche fare il giro del mondo, in pieno stile Phileas Fogg, a patto - come il gentiluomo inglese uscito dalla penna di Jules Verne - di sperimentare i mezzi più diversi. E di avere a disposizione anche più di 80 giorni, senza tabelle di marcia tassative e scadenze da rispettare, in pieno spirito slow travel e slow life.

http://viaggi.repubblica.it/articolo/come-dolce-vagabondare-su-un-cargo/221482

mercoledì 9 giugno 2010

Obama rilancia sulla Cina

di FEDERICO RAMPINI

Il nuovo Obama, nell'edizione riveduta e corretta, incute più rispetto anche alla Cina. Il suo omologo Hu Jintao ha rotto finalmente gli indugi.

Il presidente cinese verrà alla conferenza sul disarmo nucleare che il presidente americano organizza il 12 e 13 aprile a Washington. È un'iniziativa a cui Obama tiene molto, è la sede in cui disegnare l'orizzonte di un disarmo nucleare globale, che vada oltre la logica della semplice non-proliferazione. Sull'Iran inoltre i cinesi sono più malleabili a discutere di sanzioni nel Consiglio di sicurezza, e questo spiega l'ottimismo di Obama nel vertice con Nicolas Sarkozy. "Sanzioni entro la primavera" aveva detto alla conferenza stampa di martedì. E siamo alla vigilia dell'importante missione di Obama a Praga: l'8 c'è la firma del trattato Start con Medvedev, che riduce del 25% gli arsenali russo e americano. È una sequenza di eventi che in pochi giorni segnalano una ripresa di attivismo di questa Amministrazione sul fronte internazionale. È un attivismo diverso da quello del 2009, quando i viaggi all'estero (dal Cairo a Oslo a Copenaghen) furono di troppa immagine e di poca sostanza. Obama sembra avere appreso la lezione. Ha ingranato una marcia diversa, all'insegna del pragmatismo. In parallelo con il suo metodo di politica interna che spiazza amici e nemici.

L'atteggiamento cinese è significativo. Hu Jintao fino a ieri sembrava orientato a snobbare il vertice di Washington. Gli americani erano nervosi. L'assenza del presidente della Repubblica Popolare sarebbe stata uno smacco: è la terza potenza nucleare, nonché il vero rivale strategico degli Stati Uniti. Ma ieri a Pechino è prevalso un atteggiamento conciliante. La leadership cinese ha preferito non aggiungere altri incidenti all'escalation degli ultimi mesi: scontro sulla censura a Google, armi Usa a Taiwan, accuse per la visita del Dalai Lama. Tanto più che nei tre casi citati Obama ha tenuto duro. Una coincidenza ha fatto riflettere Pechino. Il vertice sul disarmo nucleare a Washington si terrà appena due giorni prima che l'America decida su una questione cruciale: se perseguire la Cina per "manipolazione del cambio". 130 senatori e deputati Usa hanno lanciato un appello alla Casa Bianca perché denunci apertamente la sottovalutazione del renminbi che dà un vantaggio competitivo sleale al made in China. Se il segretario al Tesoro Tim Geithner li asseconda, scatteranno dazi punitivi contro le importazioni cinesi. Obama fin qui ha tenuto le sue carte coperte, non si è sbilanciato su questo terreno. Probabilmente non vuole scatenare una guerra commerciale con il suo partner economico più grande (nonché creditore principale). Del resto non ha mosso un dito per impedire che la Ford vendesse la Volvo ai cinesi. Però sulla questione della moneta il presidente americano non ha fretta di manifestare le sue intenzioni. Messaggio ricevuto: ecco che Hu Jintao verrà al vertice nucleare. E al Consiglio di sicurezza il rappresentante cinese diventa più disponibile sulle sanzioni contro l'Iran.

Il pragmatismo, e ora anche una nuova capacità di manovra sfoderata da Obama, spiazzano i suoi avversari. I repubblicani ne sanno qualcosa, dopo avere pronosticato che la riforma sanitaria sarebbe stata la Waterloo di questo presidente. Ma anche la sinistra democratica a volte resta interdetta. È il caso della decisione di Obama di autorizzare la trivellazione offshore lungo gran parte della East Coast, per la ricerca e lo sfruttamento di nuovi giacimenti di gas e petrolio. La caduta di un divieto ventennale ha indignato molti ambientalisti (non quelli californiani, però: la costa del Pacifico rimane protetta). Obama ha deciso quello che neppure i presidenti-petrolieri Bush padre e figlio osarono fare. Ma nello stesso decreto ha inserito nuovi drastici limiti all'inquinamento delle auto. E visto sotto un'altra angolatura, il via libera alla trivellazione, insieme con gli investimenti nel nucleare, nell'eolico e nel solare, è un messaggio all'Arabia Saudita: l'America vuole liberarsi da una schiavitù energetica che ha ben note conseguenze geostrategiche. Questo è lo stesso presidente che nell'analizzare il movimento anti-tasse e anti-statalista del Tea Party si rifiuta di consegnarlo alla destra, mostra comprensione verso un ceto medio impaurito dal deficit pubblico. Per Obama questo si chiama fare politica. Il resto del mondo comincia a osservarlo con un'attenzione nuova.

(02 aprile 2010)

http://www.repubblica.it/esteri/2010/04/02/news/obama_rilancia_cina-3079400/

Egemonia asiatica, la Cina punta alla leadership totale

L'America scopre di temere la rincorsa cinese. Dall'economia alle tecnologie
dai trasporti all'energia Pechino guadagna sempre più terreno

dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI

WASHINGTON - Quando oggi Barack Obama riceverà qui il Dalai Lama, nella Map Room della Casa Bianca, Washington aspetterà col fiato sospeso la nuova bordata di proteste da Pechino. Gli Stati Uniti si chiederanno quale prezzo la Repubblica Popolare potrebbe far pagare, per punire quell'omaggio al Tibet che considera un'interferenza nella propria sovranità nazionale. È un America nervosa perché si scopre vulnerabile, assediata dalla grande rivale asiatica, su fronti nuovi e insospettati: l'industria e la finanza, certo, ma ora anche la ricerca scientifica, la cultura, il "soft power" su cui si costruisce un'egemonia globale. Lo sconvolgimento dei rapporti di forze parte naturalmente dall'economia. Proprio alla vigilia dell'arrivo del Dalai Lama si è appreso che Pechino ha "liquidato" una parte dei suoi giganteschi investimenti in Buoni del Tesoro degli Stati Uniti.
Commentando la vendita record dei Treasury Bond, per 34 miliardi di dollari (ne restano comunque 755 miliardi nelle casse della banca centrale cinese) il Wall Street Journal si chiede con ansia se sia "un segnale di sfiducia verso l'America". Che umiliazione: il Tesoro degli Stati Uniti trattato come fosse la Grecia, in balìa del giudizio dei cinesi. Più probabilmente il disinvestimento di Pechino è una mossa cautelativa. Il premier cinese Wen Jiabao da mesi denuncia il rischio che l'alto debito americano rilanci l'inflazione, e che Washington rimborsi i cinesi con carta straccia. Perciò Pechino diversifica i suoi investimenti. Anziché Bot, compra direttamente aziende americane. Il fondo sovrano del governo di Pechino (China Investment Corporation) ha divulgato la lista delle grandi imprese di cui è diventato azionista, per ora di minoranza. C'è il meglio del capitalismo americano: Apple, Citigroup, Coca Cola, Bank of America, Visa, Johnson & Johnson.
Un altro segnale enigmatico, alla vigilia dell'incontro tra Obama e il Dalai Lama, è il nulla osta del governo cinese per l'attracco a Hong Kong di una flotta di cinque navi militari americane, guidate dalla portaerei ammiraglia Uss Nimitz. Orville Schell, il direttore dell'Asia Society e l'esperto di Cina più ascoltato da Hillary Clinton, commenta così: "Pechino sta imparando a usare con l'America il bastone e la carota, tiene Washington sulla corda, alterna minacce e blandizie".

Per una singolare coincidenza, proprio in questi giorni di alta tensione s'inaugura al China Institute di New York una grande mostra su Confucio. È il filosofo dell'ottavo secolo avanti Cristo di cui il regime cinese si "appropria" il pensiero rivisitandolo, per farne il teorico di un moderno paternalismo autoritario. La mostra su Confucio, così come tutto il China Institute, è un'iniziativa di Stato finanziata dalla Repubblica Popolare. "Confucius: his Life and Legacy" costa meno di una partecipazione azionaria in Apple, ma segnala il nuovo fronte della penetrazione cinese che si è aperto. L'offensiva culturale, sostenuta dalla potenza economica, sfida l'Occidente anche sul terreno delle idee. Il mandarino ha soppiantato lo spagnolo per la rapidità di diffusione come prima lingua straniera nelle scuole americane. Quando è uscita la notizia che il boom delle iscrizioni ai corsi di cinese alle elementari è sussidiato generosamente da Pechino (con borse di studio, formazione degli insegnanti, regali di materiale didattico e audiovisivo) sul New York Times sono apparse lettere di protesta dei genitori.

"È inaccettabile - ha scritto un padre allarmato - che la politica scolastica degli Stati Uniti venga decisa da un governo straniero". E quale governo. Certo non suscitano lo stesso allarme i sussidi di Nicolas Sarkozy per lo studio del francese all'estero. La promozione della civiltà cinese non viene percepita dall'Occidente come un fenomeno puramente culturale. Minxin Pei, ricercatore della Fondazione Carnegie, ricorda che America e Cina sono divise da "insormontabili differenze in termini di valori, sistemi politici, visione dell'ordine internazionale, e interessi geopolitici". Quasi per un crudele scherzo del destino, i finanziamenti della Repubblica Popolare per lo studio del mandarino dilagano nelle scuole americane proprio quando gli Stati Usa sull'orlo della bancarotta (dalla California alla Florida) devono tagliare gli stipendi agli insegnanti e ridurre gli orari delle lezioni. Martin Jacques, lo studioso britannico autore di un libro-shock che vuole aprire gli occhi all'America ("When China Rules the World": quando la Cina dominerà il mondo) sostiene che questo è proprio uno degli effetti più dirompenti della crisi economica dell'Occidente: "La Cina è un modello di Stato che funziona. D'ora in avanti il dibattito sul ruolo dello Stato nelle società moderne non potrà più prescindere dall'esempio cinese". Ian Buruma, un altro esperto di Estremo Oriente che abbiamo intervistato per questa inchiesta, sottolinea che "di fronte alla crisi delle liberaldemocrazie occidentali, il fascino della Cina avanza anche in aree del mondo vicine a noi".

Non passa giorno senza che il raffronto con la Cina sia motivo di ansia e frustrazione per la superpotenza leader. La settimana scorsa Barack Obama ha finalmente firmato il via libera ai fondi federali per avviare il progetto dell'alta velocità in California e in Florida. Per il presidente doveva essere un fiore all'occhiello, una di quelle grandi opere infrastrutturali che aveva annunciato fin dal suo insediamento. Ma la Tav di Obama è stata così liquidata l'indomani da un giornale "amico", il New York Times: "Se tutto va bene, il primo treno ad alta velocità comincerà il servizio nel 2014 fra Tampa e Orlando, una tratta di sole 84 miglia. Ma a Capodanno i viaggiatori cinesi hanno inaugurato il nuovo treno ad alta velocità, 664 miglia in tre ore, da Guangzhou a Wuhan. Entro il 2012 le linee ad alta velocità in funzione saranno 42, tutta la Cina sarà collegata". Un raffronto amaro. Tanto più se viene fatto quando Washington è reduce da una "chiusura per neve" di una settimana. La capitale federale della nazione più ricca del pianeta, per penuria di spazzaneve, si è arresa alle intemperie e ha smesso di funzionare per sette giorni consecutivi. Nella gara tra due modelli di Stato, è l'America che si ritrova in serie B.

Forse nessuno più di Obama ne è consapevole. Per questo presidente il confronto con la Cina è diventato una costante, il tema che ricorre più spesso nei suoi discorsi. Obama cerca di spronare il suo paese, come John Kennedy fece per la gara con l'Unione sovietica nella conquista dello spazio dopo il sorpasso dello Sputnik. Usando la Cina come "benchmark", come punto di riferimento, Obama spera di rovesciare le umiliazioni in positivo, di trasformarle in adrenalina, in altrettanti stimoli a riconquistare la leadership. Avverte che "la Cina ci sta dando dei punti anche sul terreno della Green Economy, produce più pannelli solari e pale eoliche di noi". Gli esperti energetici disegnano un quadro inquietante. In un futuro non troppo lontano, l'America potrebbe scoprirsi due volte dipendente: dal petrolio arabo e dalle tecnologie verdi (pannelli fotovoltaici, batterie per auto elettriche) sempre più made in China.

Ma l'establishment e il sistema istituzionale americano sembrano intorpiditi, incapaci di reagire alle frustate del presidente. Dall'energia all'ambiente le riforme languono, bloccate da veti politici e resistenze lobbistiche. Di fronte all'autoritarismo cinese la democrazia americana arranca. Gli Stati Uniti perdono colpi nella ricerca scientifica, penalizzata dai tagli di bilancio, mentre gli investimenti cinesi in questo campo aumentano ogni anno a ritmi vertiginosi, di due cifre percentuali. Dalle università americane comincia un riflusso di talenti, numerosi cervelli asiatici - cinesi e anche indiani - tornano in patria attirati da nuove opportunità.
La gara tra America e Cina non lascia indifferenti gli europei. Non è un caso se l'avvertimento più severo agli americani oggi viene da Martin Jacques, un intellettuale inglese, cittadino di un altro impero decaduto che dovette cedere il suo primato. Noi occidentali, sostiene Jacques, ci siamo illusi che la Cina a furia di modernizzarsi sarebbe diventata sempre più simile a noi. La storia dimostra al contrario che la diversità cinese è profonda, radicata, irriducibile. La mancanza di democrazia non è un handicap nel breve termine: anche la maggior parte delle nazioni europee (e il Giappone) governarono la modernizzazione e lo sviluppo attraverso regimi autoritari. E l'egemonia cinese - espandendosi dal denaro alla politica, dalla tecnica alla cultura - può riproporre in forma moderna quella che fu l'antica relazione tra l'Impero Celeste e i suoi vicini: un "sistema tributario" di Stati vassalli, satelliti ossequiosi.

(18 febbraio 2010)

http://www.repubblica.it/esteri/2010/02/18/news/egemonia_asiatica-2340725/

E la Cina va all'arrembaggio del capitalismo americano

Da Pechino 10 miliardi di investimenti a Wall Street
Il Fondo Cic diversifica gli investimenti in Bond del Tesoro

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - La Cina ha deciso di non nascondere nulla: almeno per quanto riguarda i suoi investimenti a Wall Street. In un'operazione-trasparenza, il fondo sovrano della Repubblica Popolare - China Investment Corporation (Cic) - ha pubblicato la lista di tutte la partecipazioni azionarie che ha comprato nella Borsa Usa. Ne viene fuori una mappa significativa della penetrazione del governo di Pechino nei più bei nomi del capitalismo americano. Al primo posto le banche: Morgan Stanley, Bank of America e Citigroup. Ma anche gruppi che producono beni di largo consumo: dalla Motorola (telefonini) alla Coca Cola, da Johnson&Johnson (prodotti per la casa e cosmesi) alle carte di credito Visa. In tutto sono 9,6 miliardi di dollari di acquisizioni compiute fino al 31 dicembre dell'anno scorso.

Pochi spiccioli, in realtà, rispetto ai mezzi finanziari di cui dispone la Cic. Il fondo sovrano ha una dotazione di 300 miliardi di dollari, una parte dei quali sono investiti nel capitale di aziende cinesi (soprattutto banche), il resto in titoli del debito pubblico americano o altre obbligazioni semi-pubbliche (incluse quelle emesse da Fannie Mae, il gigante dei mutui immobiliari). Ma è proprio l'eccessiva esposizione verso i Treasury Bond ad avere innescato un inizio di diversificazione in favore delle azioni. A più riprese l'anno scorso il premier cinese Wen Jiabao ha espresso il timore che la montagna di debito pubblico americano finisca per essere "deprezzata" in una spirale di inflazione futura. Le partecipazioni nel capitale di società quotate possono rappresentare un'alternativa, se l'andamento della Borsa fa da scudo contro l'inflazione. In passato però erano stati gli americani a elevare barriere contro la penetrazione cinese nelle loro aziende. Il caso più importante fu nel 2006 il veto politico di Washington contro l'ingresso di Pechino nella Cnooc, una compagnia petrolifera californiana. Oggi forse l'Amministrazione Obama non potrebbe permettersi un gesto analogo: la Cina è diventata il suo principale creditore, grazie ai 2.300 miliardi di dollari di riserve valutarie controllate dalla sua banca centrale. Gli stessi dirigenti cinesi però sembrano avere voluto prevenire i sospetti degli Stati Uniti.

L'operazione-trasparenza compiuta con la pubblicazione del portafoglio azionario della Cic forse sarebbe stata evitabile: altri fondi sovrani stranieri riescono a sottrarsi. La Cic invece ha preferito dare prova del massimo rispetto delle regole. I dirigenti del fondo cinese hanno compilato nei dettagli il modulo 13F della Securities and Exchange Commission (Sec), l'autorità di vigilanza sulla Borsa. Morgan Stanley vi figura come la partecipazione più importante (1,7 miliardi di dollari), seguita da Blackrock (650 milioni). Alcuni di questi investimenti risalgono al 2007 e furono decisi poco prima che Wall Street crollasse per il crac della Lehman. All'epoca lo scarso tempismo della Cic provocò dure polemiche in Cina. I dirigenti del fondo sovrano furono accusati di avere sperperato denaro pubblico per venire in aiuto alle grandi banche americane, e di aver fatto degli investimenti dissennati comprando le azioni ai massimi. In seguito però il fondo sovrano ha continuato a comprare, nel corso del 2008 e 2009, approfittando della caduta delle Borse: così oggi molti dei suoi investimenti risultano in attivo.
Non è comunque la grande industria americana il suo bersaglio prioritario. Tra gli investimenti azionari della Cic al primo posto figura (per 3,5 miliardi) il gruppo canadese Teck Resources, un colosso del settore minerario. Energia, materie prime e risorse naturali sono gli obiettivi privilegiati per "riciclare" la ricchezza che la Cina ha accumulato con i suoi attivi commerciali verso il resto del mondo.

(10 febbraio 2010)

http://www.repubblica.it/economia/2010/02/10/news/e_la_cina_va_all_arrembaggio_del_capitalismo_americano-2242337/

Pechino rassicura il mondo "Trascineremo la ripresa"

Davos, la Cina sembra dominare la scena al World Economic Forum che si svolge in Svizzera
Il vicepremier Li Keqiang può vantare un 8,7% di crescita del Pil per l'economia del colosso orientale

Invito all'Occidente: "Ma niente protezionismo"dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI

Il vicepremier cinese Li Keqiang a Davos
DAVOS - La Cina rivendica il ruolo di locomotiva: ha salvato il mondo da una recessione che senza di lei sarebbe stata ancora più pesante. Promette che il suo "consumatore frugale" diventerà sempre più disponibile ad acquistare prodotti occidentali, sarà il mercato di sbocco del futuro. E' pronta a un giro di vite nella sua politica monetaria, se necessario per evitare una bolla speculativa. Ma ammonisce l'Occidente: guai se cederà alla tentazione del protezionismo, rifarebbe gli stessi errori che portarono alla Grande Depressione degli anni Trenta. Sono i messaggi che ha portato al World Economic Forum l'astro nascente della nomenklatura di Pechino, il vicepremier Li Keqiang, destinato entro un biennio a incarichi ancora più elevati (è in corsa per la poltrona di presidente o primo ministro).

L'arrivo della maxidelegazione cinese a Davos quest'anno ha avuto tratti spettacolari, quasi un'Opa lanciata dalla Repubblica Popolare sul summit svizzero. Con duecento tra alti dirigenti governativi, imprenditori e banchieri, la rappresentanza di Pechino ha fatto ombra a quella americana e a tutte le altre nazionalità. Una prestigiosa palazzina a pochi metri dal centro del summit, che negli anni passati ospitava il quartier generale della Cnn, quest'anno è diventata la China House: affittata dalla tv di Stato Cctv e usata dalla delegazione di Pechino per eventi speciali e relazioni pubbliche. Sparpagliati in diversi alberghi, gruppi di cinesi hanno esposto bandiere rosse e improvvisato concerti serali di tamburi per festeggiare anche in trasferta il loro Capodanno.

Al vicepremier gli organizzatori del vertice hanno riservato il secondo posto nella gerarchia dei discorsi ufficiali, subito dopo il presidente francese Nicolas Sarkozy. Ma a differenza del francese, Li Keqiang non ha fatto polemiche dirette. Ha evitato accuratamente temi tabù come la "guerra del cyberspionaggio" contro Google. Ha interpretato il ruolo della superpotenza sicura di sé. Esattamente un anno fa, qui a Davos lo aveva preceduto il premier Wen Jiabao. Che nel momento più acuto della crisi mondiale lanciò dallo stesso palcoscenico una promessa solenne: "La Cina nel 2009 continuerà a crescere, con un aumento del Pil dell'8%". Il suo vice ieri ha potuto assaporare il trionfo: "Abbiamo fatto di più, l'anno scorso la crescita ha raggiunto l'8,7%".


Una perfomance inaudita, viste le circostanze, che mette la Repubblica Popolare in una posizione di forza. Li ne ha rivendicato il merito alla decisa azione del governo, che nel gennaio 2009 varò una manovra di spesa pubblica da 400 miliardi di euro, quasi dell'entità di quella americana ma partendo da una situazione ben più florida dei conti pubblici. "Abbiamo agito con tempestività e determinazione - ha detto - e la spesa pubblica ha contribuito per sei punti di crescita del Pil. Abbiamo dato un contributo positivo alla crescita degli altri paesi: le nostre importazioni sono cresciute fino al secondo posto nella classifica mondiale". Conoscendo le critiche verso i veti di Pechino che hanno contribuito al fiasco di Copenaghen, il vicepremier ha sottolineato che nella manovra di investimenti pubblici hanno avuto un peso rilevante le energie rinnovabili: "Dovranno soddisfare il 15% del fabbisogno nazionale entro il 2020". Ha illustrato la strategia di sviluppo della nazione più popolosa del pianeta: "Vogliamo abbandonare i settori manifatturieri arretrati, puntando invece sull'innovazione e le attività produttive più avanzate".

Ma l'Occidente non deve avere paura, ha spiegato Li, perché il mercato cinese sarà ricco di opportunità. "Siamo ancora una nazione in via di sviluppo, per il reddito pro capite ci collochiamo solo al centesimo posto mondiale. Ogni anno dieci milioni di contadini emigrano dalle campagne nelle città. In passato il nostro popolo era famoso per la sua frugalità nei consumi, ma ora le aspettative di un tenore di vita migliore si diffondono, lo abbiamo visto con il successo ottenuto dai nostri incentivi per le vendite di elettrodomestici nelle regioni rurali". Dunque è interesse dell'Occidente riprendere la via della liberalizzazione degli scambi mondiali. "Il protezionismo - ha ammonito Li - avrebbe come conseguenza quella di esasperare la crisi. A causa delle guerre commerciali dopo il 1929 il mondo sprofondò nella Grande Depressione". Nessun cenno alle accuse di Sarkozy, che il giorno prima aveva parlato di "manipolazione della moneta" e "concorrenza sleale". Il vicepremier invece ha rivendicato una riforma delle istituzioni di governance globale, a cominciare dall'Fmi, per renderle più rappresentative delle nuove gerarchie tra le nazioni.

(29 gennaio 2010)

http://www.repubblica.it/economia/2010/01/29/news/pechino_rassicura_il_mondo_trascineremo_la_ripresa-2114988/

Il Dragone all’assalto di Wall Street

FEDERICO RAMPINI - 07 Giugno 2010

«Il dragone accovacciato ascolta le onde». È la frase in ideogrammi illustrata su un antico rotolo di calligrafia cinese, appeso nell'ufficio di Wu Bin al numero 725 della Quinta Strada, Manhattan. Non è un indirizzo qualsiasi: si trova al ventesimo piano della Trump Tower, il grattacielo che sta giusto a fianco del celebre gioielliere Tiffany. Wu Bin è il direttore generale della Industrial and Commercial Bank of China (Icbc), attualmente la banca più redditizia del mondo. I suoi utili dell'anno scorso, 19 miliardi di dollari, sono stati il triplo di quelli della Bank of America. Nonostante la sede prestigiosa sulla Fifht Avenue, la sigla Icbc resta sconosciuta agli americani. La sua "name recognition", come si usa dire, cioè la notorietà del marchio, è pressoché nulla. Proprio come un dragone "accovacciato" in attesa di mostrarsi, il colosso del credito cinese riesce a passare quasi inosservato e a nascondere la propria forza. Eppure è in atto una vera e propria invasione delle banche cinesi in America. Le date sono significative. La Icbc ha inaugurato la sua succursale newyorchese nell'ottobre 2008, esattamente quando sembrava che il sistema finanziario mondiale fosse entrato in un coma profondo. Segno dei tempi: mentre l'analoga espansione delle banche nipponiche negli anni Ottanta provocò clamore, controversie, allarmi nella classe dirigente americana, l'avanzata cinese nel cuore di Wall Street viene subìta quasi con rassegnazione.
Qualcuno spera che sia un fuoco di paglia, c'è chi scommette che i giganti della finanza venuti dalla Repubblica Popolare entro qualche anno se ne torneranno a casa con le ossa rotte proprio come accadde ai loro predecessori nipponici. Magari per effetto dello scoppio di una bolla speculativa, alla Borsa di Shanghai o sul mercato immobiliare di Pechino. Ma per ora questo è wishful thinking, un auspicio poco giustificato dai fatti. Comunque sia, gli americani assistono alla penetrazione cinese nel loro settore finanziario perché non hanno alternative. A pochi metri dall'ufficio di Wu Bin, la sala trading della Icbc tratta freneticamente ogni giorno grosse partite di Treasury Bonds, i titoli del debito pubblico americano che hanno un disperato bisogno di acquirenti stranieri. E non è solo per il loro ruolo come finanziatori del Tesoro di Washington, che i cinesi sanno rendersi indispensabili. Una delle operazioni più importanti da quando si è insediata a Manhattan, la Icbc l'ha realizzata a vantaggio di un gruppo privato. La Ge Capital, filiale finanziaria della General Electric, nella crisi aveva dovuto ricorrere agli aiuti di Stato, come gran parte delle banche americane. Ge Capital ha potuto restituire gli aiuti pubblici e riconquistare la propria indipendenza dall'Amministrazione Obama, grazie a un ricco prestito di 400 milioni di dollari concesso dalla Icbc. "Siamo sbarcati a New York nel momento più buio", ha dichiarato Wu Bin al Wall Street Journal. La Icbc è la punta avanzata di un piccolo esercito. Tra le bandierine rosse stellate che sono appuntate sulla mappa di Manhattan c'è anche la Bank of China con due sedi, una sulla Madison Avenue e l'altra a Wall Street. C'è la Bank of Communications, quinto gruppo per dimensioni in Cina, nel grattacielo Exchange Plaza che sta a pochi passi da Ground Zero. E c'è la China Construction Bank con sede Usa sulla Avenue of the Americas. Tutte hanno come azionista di controllo il governo di Pechino. Tutte sono banche quotate in Borsa ma a partecipazione statale. La loro strategia di espansione internazionale è frutto di una regìa centralizzata. Nel caso della Icbc, per esempio, la Repubblica Popolare è azionista per il 70%. L'appetito degli istituti di credito cinesi è cresciuto proprio mentre i concorrenti occidentali s'indebolivano, diventavano più cauti, in certi casi si ritiravano dai mercati stranieri. L'ascesa cinese è simmetrica e speculare, rispetto all'indebolimento del sistema bancario americano. Sulla finanza di Wall Street gravano incognite serie: l'Amministrazione Obama e il Congresso elaborano nuove regole per limitare la presa di rischio delle grandi banche commerciali. I requisiti di capitalizzazione si fanno più stringenti. Gli ex "padroni dell'universo" di Goldman Sachs e J.P.Morgan sentono sul collo il fiato delle autorità di vigilanza, hanno l'opinione pubblica contro.
Nessuno di questi vincoli impaccia le banche cinesi. Al contrario, i loro bilanci sono usciti relativamente indenni dal biennio della recessione. E' possibile, forse probabile, che quei bilanci siano opachi. Sulla qualità della corporate governance cinese ci sono seri dubbi. La collusione tra i banchieri di Pechino e di Shanghai e le loro autorità di governo non garantisce che i conti siano affidabili. E tuttavia il fatto che l'economia cinese abbia mantenuto una crescita vigorosa durante il terribile biennio 200809 aiuta il sistema bancario: non c'è stata nella Repubblica Popolare un'epidemìa di bancarotte come quella che ha colpito imprese e famiglie negli Stati Uniti. Forti del sostegno pubblico, gli istituti di credito cinesi esibiscono spalle robuste, possono permettersi operazioni ambiziose.
La Bank of Communications nel solo 2009 ha aumentato del 55% i suoi attivi americani, con 1,4 miliardi di dollari di impieghi. Bank of China, terzo istituto in Cina, vanta la più antica presenza negli Stati Uniti: è insediata dal lontano 1981 ed è l'unica finora ad avere ottenuto dalla Federal Reserve l'autorizzazione a raccogliere depositi presso i risparmiatori negli Stati Uniti. La China Construction bank, che ha aperto la sua prima filiale operativa a New York solo nel giugno 2009, da allora ha già compiuto investimenti per 370 milioni di dollari. China Merchant Bank si è insediata a Manhattan proprio come la Icbc, nell'ottobre 2008, in coincidenza con il fallimento di Lehman Brothers e il quasicrac di Aig: da allora ha compiuto investimenti per 200 milioni. Per il momento la natura delle loro attività non è particolarmente sofisticata. Nessuno di questi istituti si sogna di sfidare la Goldman Sachs sul trading dei derivati o nei più complessi montaggi finanziari. "Quelli sono mestieri troppo complicati per noi dichiara con confuciana modestia Wu Bin non saremmo capaci di controllarne i rischi".
Però la ricchezza di mezzi consente alle banche cinesi di offrire fidi all'industria americana proprio mentre i banchieri Usa sono diventati più prudenti nell'erogare credito. Per gli imprenditori del Midwest a caccia di nuove fonti di finanziamento, gli uffici delle filiali bancarie cinesi sono sempre aperti. Il caso della Icbc è il più interessante. Oltre alla General Electric, la principale banca cinese vanta già tra i suoi clienti americani il gruppo informatico texano Dell, il gigante della logistica Ups, la compagnia aerea Southwest Airlines, e la Harvard University.
L'università col più alto numero di Premi Nobel dell'Economia al mondo, si appoggia allo sportello unico di una banca i cui azionisti sono i leader del partito comunista cinese.
Sistematicamente, i banchieri venuti da Pechino setacciano la lista Fortune 500, l'elenco delle maggiori società americane quotate in Borsa. L'altra faccia della loro penetrazione, è l'attività al servizio degli investimenti cinesi in America. Le banche sono il sostegno naturale per le aziende della Repubblica Popolare a caccia di acquisizioni. Nel dicembre 2008, per esempio, la Icbc ha finanziato per 307 milioni di dollari il gruppo Shanghai Jinjiang International Hotels, nell'acquisizione della catena alberghiera americana Interstate Hotels and Resorts. Nel marzo 2010 la China Merchants Bank ha aiutato l'ente petrolifero di Stato China National Petroleum ad acquisire la Ion Geophysical Corporation di Houston. Industria e finanza procedono appaiate e sostenendosi a vicenda. Anche questo ricorda da vicino la parabola del Sol Levante. Non è detto che la conclusione debba essere la stessa.

http://www.repubblica.it/supplementi/af/2010/06/07/copertina/001danaos.html

"Palazzi più alti del Cupolone" A Roma cade l'ultimo tabù

L'idea del sindaco Gianni Alemanno: nelle periferie bisogna rompere il veto della crescita in altezza. Addio al "vincolo San Pietro" e pronti a costruire grattacieli. Con polemiche e un referendum di FRANCESCA GIULIANI

"Palazzi più alti del Cupolone" A Roma cade l'ultimo tabù

ROMA - Grattacieli in periferia, che superino in altezza persino la cupola di San Pietro e siano perciò in grado di riqualificare e ridisegnare porzioni di città lontane dal centro storico, troppo spesso trascurate. Parla della Roma del futuro il sindaco Gianni Alemanno, a Milano in occasione dell'apertura dell'Eire, l'Expo Italia Real Estate: "La città storica - sottolinea - deve mantenere l'antico vincolo di non superare il Cupolone, ma nella periferia dobbiamo poter costruire in altezza, perché è necessario trasformare le periferie, demolirle e ricostruirle". A volerne fare una questione teorica, si può dire che si mira a infrangere il tabù per realizzare il totem, abbandonare la morbida orizzontalità del paesaggio (i sette colli) per cedere alla più topica delle sfide umane, dalla torre di Babele allo skyline di Hong Kong, il migliore del mondo. È la tendenza, insomma, a toccare il cielo con un dito, ora anche nella città del Papa.

E date le polemiche intorno agli interventi di architettura dell'ultimo decennio, dall'Ara Pacis di Richard Meier all'Auditorium di Renzo Piano al più recente Maxxi di Zaha Hadid, Alemanno (ri)annuncia di voler consultare i romani con un referendum che ponga un quesito come "volete voi palazzi più alti della cupola di San Pietro?". Intanto la Città Eterna il "tabù" sta provando ad infrangerlo da un po', e qualcosa sta nascendo. "La tua casa, nel punto più alto da cui guardare il mondo" è lo slogan con cui si presenta Eurosky, progettato dall'architetto Franco Purini "ispirata alle torri medievali che troneggiano al centro della città", in lavorazione. Mentre l'architetto spagnolo Santiago Calatrava ha di recente (in occasione di un summit di urbanistica organizzato dal Campidoglio in aprile) fatto il suo ultimo sopralluogo alla Città dello Sport che sta sorgendo a Tor Vergata: non è una torre degna di Chicago, lo skyline più griffato del pianeta, ma i suoi 90 metri li raggiunge. Cresce in altezza, e fino a 80 metri, anche la cosiddetta Lama di Fuksas, l'albergo annesso al centro congressi, noto come Nuvola anch'esso in costruzione nella zona dell'Eur piacentiniano e mussoliniano.

La crescita verticale della città trova in netto disaccordo l'urbanista che forse, fra tanti, ha più ragionato e scritto su Roma e sul suo sviluppo architettonico, Italo Insolera. Che ragiona così: "In tutto il mondo i grattacieli sono nati per accogliere servizi. A Roma dovrebbero servire come abitazioni. Mi sembra una scelta infelice. Difendo al contrario un modello di palazzine più contenute, come è la Garbatella. Al tempo stesso credo che luoghi come Corviale, il palazzone di periferia costruito negli anni Settanta e ribattezzato "il chilometro", andrebbero conservati, e fatti funzionare meglio dal punto di vista sociale. Perché bisogna ragionare sempre sui contesti: alle città non servono le "archistar" che arrivano e piantano astronavi firmate in mezzo al nulla". Francesco Garofalo, curatore del padiglione italiano alla Biennale di Venezia e della Festa dell'Architettura che apre oggi a Roma con la lectio magistralis di Alvaro Siza, sottolinea: "La questione dei grattacieli mi sembra astratta. Credo che serva una buona committenza. Se ci accapigliamo su certi simboli, è finita e, d'altra parte, dire a priori che le torri sono sbagliate è pura petizione ideologica".

Stando ai fatti, il piano regolatore della città di Roma, varato dalla giunta Veltroni, definisce limiti e proporzioni della crescita delle cosiddette "centralità metropolitane" (leggi: periferie). Ma non si spinge fino a chiarire se ciò debba verificarsi, per esempio, in dieci palazzine da tre piani o in una da trenta. Carta bianca, dunque, a contrastare quella consuetudine a non superare in direzione del cielo la "santità del Cupolone" (e nemmeno la "maestà del Colosseo") sancita all'epoca dei Patti Lateranensi. Una sfida che nessuno ha finora osato intraprendere.

(09 giugno 2010)

http://www.repubblica.it/cronaca/2010/06/09/news/grattacieli_roma-4683212/

"I massoni di sinistra? Nelle logge sono 4mila"

Il Gran Maestro e il caso Pd: "Scoprono ora che la sinistra è figlia anche della massoneria". "E' ora di finirla con la leggenda della segretezza, frutto avvelenato di Gelli" di ALBERTO STATERA

"I massoni di sinistra? Nelle logge sono 4mila"

"Quando nel mondo la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera", recita ironico il Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Gustavo Raffi, avvocato ravennate dal profilo un po' risorgimentale, ex segretario locale del defunto Partito repubblicano di Ugo La Malfa, quando gli si chiede di commentare l'improvvisa fiammata antimassonica di parte del Partito Democratico. E l'Opus Dei? E Comunione e Liberazione? E tutti i mariuoli, clericali o non, ormai in circolazione per ogni dove? E tutti i seri problemi del paese che il Pd tende spesso a rimuovere imboccando improbabili vie di fuga? Il Gran Maestro se lo chiede, ma la delibera assunta lunedì dalla Commissione di Garanzia presieduta da Luigi Berlinguer, proveniente da una vecchia famiglia massonica il cui capostipite Mario, padre di Enrico e Giovanni, era Gran Maestro della Loggia di Sassari, in fondo non gli dispiace: "Al di là della temporanea sospensione dei fratelli pd iscritti - dice - c'è un percorso serio per capire la questione e non infliggere una censura dogmatica; è un percorso laborioso, ma simile a quello già tracciato saggiamente dal lodo di Valerio Zanone e Giovanni Bachelet". Ma non gli va giù che i problemi interni di un partito in cui si è rivelata difficile la convivenza tra l'anima cattolica ex democristiana con quella laica ex repubblicana, ex socialista ed ex comunista, tirino inopinatamente in ballo "una delle più importanti agenzie produttrici di etica che abbia creato dal suo seno la storia dell'occidente, come il professor Paolo Prodi ha efficacemente definito la massoneria".

Un fatto è certo, i massoni del Partito democratico, che dovranno ora rivelarsi, sono a bizzeffe, come garantisce l'ex sindaco comunista di Pistoia Renzo Baldelli. Col Gran Maestro recalcitrante, che giura di non aver mai chiesto di mostrare la tessera di partito ai suoi fratelli ("Se no verrei messo fuori dal consesso della massoneria mondiale") tentiamo un computo, che ci porta a un totale di oltre 4 mila su quasi 21 mila iscritti in 744 logge, il 50 per cento dei quali concentrati in Toscana, Calabria, Piemonte, Sicilia, Lazio e Lombardia, con la maggiore densità assoluta a Firenze e Livorno. Di questi almeno 4 mila diessini, molte centinaia ricoprono cariche politiche, amministrative o dirigenziali, come in passato il Gran Maestro aggiunto Massimo Bianchi, che è stato vicesindaco socialista di Livorno. Adesso dovranno rivelarsi ed è facile prevedere che non sarà un'operazione indolore.

Ma Gustavo Raffi pensa che potrebbe venirne persino un bene, cioè "la fine di questa leggenda della segretezza, frutto avvelenato delle gesta del materassaio di Arezzo, che non ha ragione di persistere. Ma come si fa - si accalora - a confondere il Grande Oriente, scuola di etica e di classe dirigente, con i mariuoli che infestano il paese anche in false massonerie? Il fascismo, perseguitandola, costrinse la massoneria al segreto, ma oggi siamo un'istituzione trasparente tornata nella storia. Lo dimostrano le decine di nostri convegni culturali con partecipanti del calibro di Margherita Hack, Rita Levi Montalcini, Umberto Galimberti, Giuseppe Mussari, Ignazio Marino, Paolo Prodi, Gian Mario Cazzaniga e tanti, filosofi, storici, accademici di reputazione e scienza preclare. Il Pd si accorge adesso che la sinistra è figlia anche della massoneria? Fanno fede i nomi dei fuorusciti a Parigi durante il fascismo, le Brigate partigiane in Spagna e la Costituente, dove su 75 membri 8 erano massoni, da Cipriano Facchinetti ad Arturo Labriola, Meuccio Ruini... ".

Gran Maestro - lo interrompiamo - per favore, non torniamo a Garibaldi e Bakunin e ai generi massoni di Marx, il fatto è che in un passato più recente le vicende della massoneria ufficiale non sempre sono apparse commendevoli. Tra l'altro, nel governo e nella attuale maggioranza di destra si dice ci sia la più alta concentrazione di massoni (e di Opus Dei) mai vista, come ha rilevato l'ex presidente Francesco Cossiga, che se ne intende. A parte Berlusconi, Cicchitto, che erano nella P2, e al consulente di Gianni Letta, quel Luigi Bisignani che ne era il reclutatore, ce ne sarebbero molti altri, a cominciare da Denis Verdini, che però ha smentito. Per non dire dei Lavori Pubblici, culla della Cricca degli appalti, considerato il ministero col maggior numero di dirigenti massoni. Il Gran Maestro non sfugge: "Io le posso dire in tutta coscienza che, tolti quelli che giocavano a nascondino col materassaio di Arezzo e che con noi non hanno nulla a che fare, abbiamo fatto un'attenta analisi dei nomi emersi come appartenenti alla Cricca e delle intercettazioni telefoniche pubblicate sui giornali. Abbiamo trovato solo un nome nelle nostre liste e l'abbiamo sospeso immediatamente. Se ne emergeranno altri, stia certo subiranno la stessa sorte". Inutile insistere per ottenere il nome, il Gran Maestro garantisce di non ricordarlo, ma promette di ricercarlo, perché dice di sognare una massoneria supertrasparente come quella americana, cui i fratelli sono fieri di appartenere, dove le logge sono indicate al centro delle città con grandi cartelli stradali, "come già abbiamo fatto a Ravenna mettendo la targa sulla nostra sede, perché se ti nascondi finisci alla gogna". Ma nulla autorizza la componente cattolica del Pd a confondere la massoneria storica con pseudomassonerie affaristiche, "se no è come se io dicessi non che un partito è degenerato, ma che tutti i partiti sono degenerati, mentre, pur se disastrati, continuano ad essere il cardine della democrazia. Mai dirò che i partiti inquinano la massoneria, ribaltando l'affermazione di quel parlamentare del Pd, il quale ha osato dire che la massoneria inquina il suo partito". Se la teoria del senatore di Magliano Sabina Lucio D'Ubaldo prendesse piede nel Pd, il Gran Maestro vi scorgerebbe un arretramento clericale e culturale quasi a due secoli fa, all'enciclica "Mirari Vos" di Gregorio XVI che condannò la separazione tra Stato e Chiesa e qualunque libertà di coscienza.

Chissà se la delibera dei garanti pd guidati da un Berlinguer frenerà ora le iscrizioni al partito, notoriamente non in splendida salute, o al Grande Oriente d'Italia, che conta 1600 "bussanti" all'anno, più di un terzo dei quali respinti in attesa di "passaggi all'Oriente Eterno" di anziani fratelli.
a.statera@repubblica. it

(09 giugno 2010)

http://www.repubblica.it/politica/2010/06/09/news/massoneria_pd-4683769/

mercoledì 2 giugno 2010

Marco Del Corona (Corriere della Sera)

http://leviedellasia.corriere.it

Mario Appelius

http://it.wikipedia.org/wiki/Mario_Appelius

Jan Myrdal

http://en.wikipedia.org/wiki/Jan_Myrdal

martedì 1 giugno 2010

Vittorio Arrigoni

http://guerrillaradio.iobloggo.com/

Libertà e potere, la profezia di Dostoevskij

Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky inaugura "Dialoghi sull'uomo", il festival di antropologia di Pistoia

Tonino Bucci
Pistoia - nostro inviato
Che cosa è la libertà individuale? Fino a che punto il governo degli esseri umani può spingersi nei suoi confronti? Il più grande assillo del pensiero politico moderno, perlomeno dai contrattualisti e da Spinoza in poi, è quello di far coesistere questi due principi contrapposti: da un lato, la rivendicazione dell'individuo della propria autonomia, dall'altro, la necessità di un ordine istituzionale della società. Non che oggi la questione sia passata di moda, visto i rischi concreti di derive plebiscitarie o populistiche. Se n'è occupato, non a caso, un costituzionalista come Gustavo Zagrebelsky, chiamato a inaugurare con un intervento su democrazia e identità dell'individuo la prima edizione dei "Dialoghi sull'uomo", il festival di antropologia che si chiuderà oggi a Pistoia (attesi, tra gli altri, l'antropologo francese Jean-Loup Amselle e il suo connazionale Olivier Roy, docente di teorie politiche e sociali).
Zagrebelsky si è cimentato nel ruolo di lettore e interprete di uno più potenti testi della letteratura di tutti i tempi, a firma di Dostoevskij, il "Dialogo tra il Grande Inquisitore e il Cristo", un vero e proprio poema a sé stante collocato nel capitolo centrale dei "Fratelli Karamazov" - e al quale Zagrebelsky ha già dedicato un breve saggio, "Il Grande Inquisitore. Il segreto del potere" (Editoriale Scientifica, pp. 52, euro 8). Tutt'altro che un semplice testo letterario, questo piccolo capolavoro dostoevskijano è in realtà un trattatello di teologia politica, un sottile dispositivo narrativo che al di sotto della caratterizzazione religiosa dei personaggi, allude in effetti «alle grandi questioni politiche delle società moderne». Anzi, a dirla meglio, il "Grande Inquisitore" merita d'esser letto come un poema di antropologia politica, come una variazione letteraria sul tema del potere e del suo rapporto con la natura umana. Non nel senso di una discussione metafisica se esista o meno un'essenza immutabile dell'uomo e se a questa debba corrispondere una determinata forma di governo politico, di carattere dittatoriale o democratico. Le argomentazioni del testo dostoevskijano si avvicinano semmai di più alla teoria di Foucault sulla «produttività del potere» e sul fatto che gli individui sono "costituiti" all'interno delle relazioni di potere in cui sono coinvolti. Da queste dipendono «l'atteggiamento dell'essere umano di fronte alle responsabilità del vivere insieme».
Quello di Dostoevskij è, nella fattispecie, il dialogo tra un inquisitore che difende le ragioni degli individui eletti a dominare la massa docile, da un lato, e un Cristo «anti-istituzionale», dall'altro, «quasi anarchico potremmo dire». Nel racconto, l'incontro tra i due è introdotto da «una scena di potenza mondana». Nella piazza antistante la cattedrale di Siviglia si è svolto un grande autodafé nel quale è appena stato bruciato un buon centinaio di eretici, "ad maiorem gloriam Dei". Proprio lì, in mezzo alla folla, in sordina, appare Gesù. Ma ecco passare il cardinale in persona, il grande Inquisitore. Ha già visto e capito tutto. Con un cenno ordina alle guardie di prendere Gesù e portarlo nella prigione sotterranea del Tribunale. Il vero incontro avviene però nella notte successiva agli eventi. È il cardinale a scendere nei sotterranei e ad affrontare, a tu per tu, il Cristo, esibendosi in una lunga requisitoria. Parte da lontano, dalle famose tre tentazioni nel deserto descritte nei Vangeli. In un profluvio di parole l'Inquisitore accusa Gesù dell'errore più madornale che potesse fare, quello di rifiutare le seduzioni del potere, di rinunciare al governo degli uomini e del mondo, per abbracciare una dimensione solo spirituale. Non potrebbero essere più distanti i due personaggi. «Si riconoscono l'uno come il contrario dell'altro».
Eppure il Grande Inquisitore non è un semplice despota. In qualche modo, è convinto che per agire per il bene degli uomini occorra farsi carico della loro inclinazione a privarsi della libertà, a trasformarsi in un gregge docile e obbediente al potere pur di ottenere in cambio il soddisfacimento dei piaceri materiali. Non la libertà, ma un dominio irremovibile è l'unica forza in grado di assicurare a uomini ammansiti una condizione di fanciullesca spensieratezza. «Sì, noi li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere faremo della loro vita un gioco innocente, di bambini stupiti. Permetteremo loro anche di peccare, ma non troppo, e loro ci vorranno bene per questo». E' Cristo - si capisce - il maggior nemico che l'Inquisitore possa immaginare, poiché Gesù è colui che ha rifiutato il potere. «Solo una cosa temiamo: che tu ritorni tra loro e sveli l'inganno. Ma te lo impediremo. Non hai il diritto di ritornare né di aggiungere una parola a quelle che hai già detto e hai consegnato a noi, ai tuoi sacerdoti, alla tua chiesa».
Si riconosce in queste parole la rappresentazione di un dominio che Dostoevskij attribuiva anche al socialismo del suo tempo, per il quale - non è un mistero - nutriva una fortissima avversione. Ai socialisti - come agli atei e ai nichilisti - rinfacciava il progetto di voler trasformare l'umanità in un gregge docile e dedito solo alla cura degli interessi materiali - accomunato, ai suoi occhi, all'ingordigia immorale della Chiesa romana. C'è persino qualche affinità con l'aristocraticismo di Nietzsche, altro nemico giurato del socialismo, che nell'idea di uguaglianza tra gli uomini vede solo l'immagine di una società conformista e abbrutita. «Una gigantesca e inarrestabile massificazione e disumanizzazione», «la Leggenda del Grande Inquisitore può considerarsi una proiezione di questo grande disgusto».
Eppure - dice Zagrebelsky - «ci si può chiedere: da che parte sta Dostoevskij, con l'inquisitore o con Gesù? La figura dell'inquisitore è presentata non come quella del vuoto despota il cui potere è fine a se stesso, ma come quella del dolente uomo di stato, la cui vocazione è il servizio a favore dell'umanità». Dostoevskij ammira l'ideale cristiano ma forse lo ritiene inefficace per governare il mondo. Quello che però interessa, al di là delle metafore religiose, è che Dostoevskij abbia messo in scena l'enigma della politica o, per dirla ancora con Zagrebelsky, l'enigma degli individui che «nella società moderna vivono sospesi tra la condizione del gregge», della massa conformista, e «la tensione verso i grandi ideali come la giustizia, la libertà e l'uguaglianza che non possono mai essere, del tutto, soppressi». Anche questo tempo ha il suo grande inquisitore.

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Marco Aime: ecco perché ha ancora un senso lo studio delle culture
«Meglio Gulliver di Crusoe» contro leghismi e piccole patrie

Pistoia - nostro inviato
Ai ricercatori in procinto di partire per studiare qualche tribù in zone remote del pianeta, Malinowskij dava un solo consiglio: non fare gli idioti. Malinowskij, per intenderci, è l'artefice della svolta novecentesca dell'antropologia. Fu lui a sfilare questa disciplina dalle pastoie della cultura colonialista. E fu sempre lui a inaugurare il metodo dell'osservazione partecipante. Il che significava che gli antropologi non potevano pretendere - come avevano fatto sino ad allora - di recitare la parte degli scienziati neutrali. La natura dell'oggetto dei loro studi - società, tribù, uomini come loro - era tale che non potevano più fingersi osservatori distaccati. Era giocoforza che il lavoro dell'antropologo dovesse invece dipendere dalla capacità di entrare in relazione con altri esseri umani in situazioni sempre casuali. Ma per fare questo non esiste metodo.
Che razza di disciplina è l'antropologia oggi? «Se lo chiedeste a un antropologo dovreste sorbirvi una tirata di almeno mezz'ora per uscirne alla fine con le idee più confuse di prima». Marco Aime - ospite del festival di Pistoia - ha provato a spiegare che senso abbia ancora oggi una disciplina nata nell'Ottocento in piena epoca coloniale, intrisa di etnocentrismo e pregiudizi razzisti. Fingendo di costruire un discorso scientifico gli antropologi ottocenteschi si misero mano a classificare l'umanità in razze. Con loro nella parte degli scienziati che raccontano gli altri e detengono il potere sulle comunità umane studiate.
Acqua passata, certo, ma a cosa serve oggi l'antropologia? A nulla, se non fosse per quella curiosità nei confronti dell'altro. Se c'è qualcosa che rende l'antropologia una disciplina preziosa in questi tempi di leghismo e piccole patrie, di ritorno alla tribalizzazione, di comunità ristrette e di legami col suolo, è la capacità di dubitare, di uscire dai propri costumi osservando gli altri e, forse, di capire meglio noi stessi. In fondo, come diceva Malinowskij, che differenza c'è tra il credere alla stregoneria e il credere alla finanza? Poco dopo scoppiò la crisi del 1929.
Ma l'antropologia è anche la smentita a chi - in nome del differenzialismo - vede nella globalizzazione l'appiattimento delle culture. Errore, c'è la deterritorializzazione, «le culture si ricostruiscono anche al di fuori dei loro territori. Appadurai studia come i turchi ricostruiscono in Germania reti tra loro scambiandosi videocassette di soap opera indiane». Ma l'antropologia è anche una sfida ai pregiudizi contemporanei, l'antidoto al mito della purezza delle culture, oggi che assistiamo all'interno delle società occidentali al ritorno delle Padanie e delle tribù etniche, alla moda delle identità e al chiudersi in comunità ristrette. A chi vorrebbe patrie incontaminate - e magari maestri, politici, vigili, tutti rigorosamente padani doc - «ricordiamo che le culture sono eterni cantieri in perenne aggiustamento», un po' come «un motore scassato che per funzionare deve sempre assemblare pezzi di ricambio presi in prestito da altre macchine».
L'antropologo - come dice Aime - è colui che sta dalla parte di Gulliver, del viaggiatore con la sacrosanta curiosità di conoscere gli altri, e non da quella di Robinson Crusoe, che quando incontra un indigeno gli mette il nome e ne fa un servo.
T.B.

Liberazione 30/05/2010, pag 8