venerdì 9 ottobre 2009

Benjamin e il futuro

Si è svolto a Roma un incontro promosso da Rifondazione sull'attualità politica del filosofo berlinese
La memoria delle lotte


Guido Caldiron
«Per il materialismo storico l'importante è trattenere un'immagine del passato nel modo in cui s'impone imprevista al soggetto storico nell'attimo del pericolo, che minaccia tanto l'esistenza stessa della tradizione quanto i suoi destinatari (...) In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla».
Con il linguaggio metaforico e a tratti enigmatico, a metà strada tra le intuizioni illuministiche e l'eco dell'eredità religiosa che gli era proprio, Walter Benjamin scriveva così nella VI delle sue "tesi" Sul concetto di storia redatte tra il 1939 e il 1940 (l'ultima edizione è stata pubblicata da Einaudi nel 1997). Si tratta dell'ultima opera del filosofo e critico letterario berlinese, ebreo e militante comunista che, in fuga dalla Germania, avrebbe deciso di suicidarsi il 26 settembre del 1940, a Port Bou in Catalogna, di fronte alla prospettiva di essere consegnato dalle autorità franchiste ai nazisti.
"L'attimo di pericolo" in cui Benjamin scrisse le "tesi" era rappresentato concretamente dalla vittoria di Hitler e dall'affermazione del fascismo in Europa, ma anche dagli esiti del patto Ribbentrop-Molotov del 1939 che lasciavano intravedere tutta l'ampiezza della sanguinosa deriva staliniana dell'Urss. Quanto alla "minaccia" che pesava "sull'esistenza stessa della tradizione", vale a dire sull'idea di una possibile trasformazione radicale delle forme della produzione e dei rapporti sociali, per Benjamin non vi erano dubbi: la responsabilità della sconfitta che si stava consumando in tutta Europa andava ricercata anche nella linea della socialdemocrazia che aveva convinto i lavoratori che diritti e liberazione sarebbero arrivati per così dire naturalmente, coltivando "il mito del progresso" e continuando a "nuotare nella corrente", senza alcuno strappo e senza alcun atto che cercasse di imporre quella trasformazione. Di fronte a questo quadro - vittoria dei fascismi e normalizzazione del movimento operaio - Benjamin proponeva invece di riattivare la memoria della lotta di classe, certo che la storia non segua un processo lineare e sia invece il risultato di quanto è stato conquistato dai lavoratori. Solo sottraendo questa memoria "al conformismo", spiegava il filofoso, si potrà invertire la tendenza e riproporre l'attualità della possibile liberazione.
Basterebbe questa breve e sommaria ricostruzione delle tesi di filosofia della storia proposte poco meno di settant'anni fa dall'intellettuale berlinese, per spiegare le ragioni dell'incontro promosso da Rifondazione mercoledì pomeriggio a Roma, presso la Facoltà Valdese di Teologia, con il titolo di "L'attualità politica di Walter Benjamin". Incontro che apre una nuova fase del dibattito pubblico proposto intorno al tema della "rifondazione comunista": un altro appuntamento è già fissato a Torino nell'anniversario dell'autunno caldo del 1969.
A Roma, Mario Tronti, Paolo Virno, Massimiliano Tomba e Paolo Ferrero hanno costruito, in oltre tre ore di confronto ricco di spunti critici e appassionati, un percorso che dalla lezione di Benjamin è giunto fino all'impasse dell'attuale situazione italiana. Se infatti è alla riflessione dell'autore di Angelus Novus sulla storia che era dedicato l'incontro, è a quelle che si potrebbero definire come le sue caratteristiche di "intellettuale della crisi" che si è guardato richiamando tutta l'attualità della ricerca benjaminiana. «Ci interroghiamo su Benjamin quasi come fossimo suoi contemporanei - spiega infatti Paolo Ferrero - Nel senso che stiamo attraversando una temperie, certo molto meno drammatica di quella che visse lui, ma con più di un punto di similitudine in particolare con gli anni Venti. Credo infatti che ci troviamo in una specie di Weimar al rallentatore. Faccio riferimento a Weimar per indicare la fase in cui è cresciuta la Rivoluzione conservatrice. Ci troviamo in un periodo in cui il capitale si mostra con il suo volto "rivoluzionario", frutto di continue e rapide trasformazioni produttive. E questo si accompagna allo sviluppo di ideologie reazionarie, razziste che evocano il peggio della storia e che stanno progressivamente colonizzando l'intero spazio pubblico. In questo senso la destra rappresenta oggi una sorta di cocktail ultramoderno esattamente come lo fu in quell'epoca. Si assiste inoltre alla dissoluzione di molte cose che erano state fin qui certe e alla liquidità dei passaggi di campo - quanti intellettuali della destra vengono ad esempio dal campo della sinistra? -. Vecchie identità si dissolvono rapidamente mentre se ne formano rapidamente di nuove. In questo contesto anche la sconfitta della sinistra sembra assumere le proporzioni di quella del periodo tra le due guerre mondiali».
E' in questa prospettiva che liberare la Storia dal mito del progresso e "rammemorare", per dirla con Benjamin, come nulla, a partire dai diritti civili e dalla stessa democrazia, sia stato ottenuto in passato se non con la lotta e l'insorgenza sociale, acquista il ruolo di strumento decisivo per invertire la tendenza attuale, per trasformare "l'attimo di pericolo" in una possibilità di ripresa dell'agire politico. Per Benjamin attualità e possibilita "della rivoluzione" si fondano infatti sulla memoria di quanti, sconfitti, hanno cercato di realizzarla in passato. Il nodo della "momoria delle lotte" assume così tutta la sua rilevanza in una stagione dominata nel nostro paese dalla riscrittura della Storia da parte sia delle "classi dominanti" che della "parte maggioritaria della sinistra italiana", nelle sue componenti moderate come anche in parte delle sue componenti radicali: uno sforzo convergente nell'obiettivo di espellere la parte ribelle e di classe della storia italiana, dalla Resistenza al Settantasette.
Il passaggio non è però così facile. Si tratta infatti di comprendere con quali strumenti si possa attuare questa ripresa della memoria e soprattutto quali siano i contorni e i confini, i "materiali" in ultima analisi, da utilizzare in questa prospettiva.
«Benjamin sottolinea come l'adesione del movimento operaio all'idea di progresso ne abbia sancito la sconfitta sul piano teorico prima ancora che nella pratica», spiega Massimiliano Tomba. Questo perché «l'atomizzazione sociale e la negazione dei diritti» non rappresentano un'eccezione, bensì la normalità del capitalismo, cui solo l'assunzione della forza da parte della classe operaia può porre un argine. La prospettiva dell'etica benjaminiana mette però in guardia dal fatto che gli esiti delle lotte siano un processo che si verificherà solo alla fine del percorso: al contrario: «Per l'autore delle "tesi" sulla storia, il Messia ti giudica per quello che stai facendo in quel determinato momento. Tutti i rapporti esistenti all'interno della società - dal lavoro alla famiglia al genere - devono essere compresi nel processo di liberazione, non affrontati solo dopo il suo compimento».
Per Paolo Virno da Benjamin arriva un'indicazione chiara: quella per cui «il repertorio delle nostre possibilità è nel nostro passato», ma in primo luogo non nelle realizzazioni concrete, bensì in «un passato potenziale, un pasato irrealizzato». Così oggi, dopo la crisi degli Stati-nazione, lo stesso riferimento al messianesimo che torna sovente nei testi del filosofo berlinese, può essere letto principalmente in una «prospettiva di autogoverno, lontano da ipotesi statuali» e nello sviluppo di «una sfera pubblica post-statale».
«Dagli anni Ottanta stiamo assistendo a una sorta di racconto "ideologico" della fine delle grandi narrazioni ideologiche collettive», osserva ironico Mario Tronti, sottolineando come ci sia bisogno in questa situazione di utilizzare gli strumenti proposti da Benjamin non solo rispetto alla memoria ma anche all'analisi dell'oggi: «Illuminando ad esempio il XX secolo attraverso il presente». Ci si renderà così conto, sostiene ancora il filosofo dell'operaismo, che «non solo la socialdemocrazia ma anche parti importanti del movimento comunista hanno creduto a un processo lineare della storia e si sono identificati con una visione del moderno che prevedeva ad esempio la prospettiva "occidentale" di portare lo sviluppo nelle società e nei paesi "arretrati"». Quanto alla necessità di utilizzare la memoria per l'agire odierno, Tronti è netto e spiega: «Dobbiamo ricordarci che non siamo solo un esercito di sconfitti: dobbiamo ricordare anche le nostre vittorie».
«Credo che il nostro maggiore problema sia proprio questo - gli fa eco Paolo Ferrero concludendo l'incontro - Le nostre vittorie sono un problema per la nostra memoria. Perché sulle nostre sconfitte - che so la Comune di Parigi - problemi non ce ne sono. Mentre invece è evidente come ci siano molti problemi sulle purghe staliniane. Dove abbiamo vinto, siamo stati vittime e carnefici. Su questo nodo dobbiamo fare un passo in avanti perché abitualmente si arriva a un bivio: da un lato chi dice "quelle cose lì non hanno nulla a che fare con noi e quindi non mi dichiaro più comunista", dall'altro chi afferma "sono comunista, quella è la nostra storia e come tale va difesa". Per uscire da questo impasse propongo di modificare radicalmente lo schema di ragionamento assumendo a pieno due affermazioni: che tutta la storia del movimento comunista è nella sua contraddittorietà "la nostra storia" e che nella nostra storia ci sono stati errori ed orrori che sono la negazione totale del comunismo. A partire dalla consapevolezza di questa contraddizione proponiamo la rifondazione comunista, cioè l'impietosa individuazione nella nostra storia dei nostri errori al fine di non ripeterli. Padroneggiare il carattere contraddittorio della storia del comunismo è necessario, oppure non saremo più in grado di pensare la nostra storia e di capire quali elementi del passato possiamo utilizzare oggi per dare forza al nostro agire politico, come ci invitava a fare Walter Benjamin».

Liberazione 02/10/2009, pag 9

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