mercoledì 13 aprile 2011

Guerra in Libia, l'alba di un'odissea?

Un conflitto che minaccia la Primavera Araba e che ha distolto lo sguardo dai reali cambiamenti

Toni Maraini
Nel suo libro sulla storia del Maghreb, lo storico Abdallah Laroui nel 1970 scriveva: «il clichè di una società in balia di "una moltitudine di tribù che si dilaniano", e di uno stato di cose inorganico», avanzato per legittimare gli interventi militari coloniali in Nord Africa (XIX/XX sec.) era stato l'obiettivo del colonialismo europeo - volto al controllo di risorse, aree strategiche e genti, ma anche a "decongestionare" le proprie tensioni interne e crisi socio-economiche - e non, come proclamato in nome di un "progetto civilizzatore", la causa degli interventi. Lunghe manovre per minare l'assetto dell'intera area, neutralizzare personaggi e forze vitali, appoggiare infauste figure di comodo e favorire arcaismi e rivalità, avevano preparato il terreno per legittimare l'occupazione. Più di mezzo secolo è passato dalla decolonizzazione, e un giro di boa ha riportato a galla discorsi e strategie che ricordano quelli dell'epoca coloniale. In loro nome, una sequela di guerre ha da tempo provocato - dal Corno d'Africa sin nel cuore dell'Asia (ma non solo) - milioni tra morti, esuli e fuggiaschi, devastato economie, ecosistemi, culture e aree di antica civiltà, provocando regressioni e scardinamenti poi additati come prova d'inciviltà. Da questo desolante panorama restava immune, alle nostre porte, la regione a sud-ovest del Mediterraneo, il Maghreb, che include cinque nazioni (Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia) con assetti storici, politici e culturali molto diversi ma accomunati da molteplici coordinate e inestricabilmente legati alla storia di noi tutti mediterranei. Mezzo secolo o piu d'indipendenza è poco per ricostruire quanto il colonialismo aveva de-costruito e affrontare volta a volta Guerra Fredda, regimi autoritari, problemi sociali, globalizzazione e geo-strategie, ma le società civili - in particolare in Tunisia, Marocco e Algeria - hanno fatto grandi passi in avanti. Lo hanno fatto con sforzi tenaci e sudate conquiste. Sforzi e conquiste poco recepiti dall'Occidente, e poco sostenuti da fallimentari politiche euro-mediterranee. Nonostante l'impegno di tante persone e associazioni, quelle italiane da tempo annaspano, per dirla con Armando Gnisci, «in un mare di chiacchiere». Che il mare di chiacchiere si trasformi in mare di guerra, è una pericolosa deriva. Tanto più che il politologo Gilbert Achcar, intervistato da Stephen Shalom per la rivista Z Magazine di Michael Albert e Noam Chomsky, giudica la risoluzione Onu sulla Libia «straordinariamente confusa» (amazingly confused). Gli analisti spiegheranno in che misura pesano su questo scenario la questione energetica, la "strategia della sicurezza", il mercato delle armi, le rivalità geo-politiche ed economiche mondiali e le contraddizioni dell'Onu. L'eventuale spartizione della Libia e il protrarsi della belligeranza, tra colpi di scena, tregue e battaglie sul terreno, riveleranno forse alcune verità. Ma l'intervento umanitario è il più difficile da spiegare, anche allorquando auspicato e necessario, se si ricorre al buon senso di ciò che poteva e doveva (secondo la Carta statutaria dell'Onu) essere messo preventivamente in opera. O si avanzano altre non irrilevanti obiezioni su tanto sollecito intervento umanitario, che prevede bombe in Libia ma non pane e strutture d'emergenza - umanitarie, appunto - a Lampedusa per parare gli effetti dell'operazione bellica stessa e dei conseguenti scardinamenti regionali. Un altro giro di boa della storia sta portando ad ammettere soluzioni e metodi da "campi di concentramento".
Tutto questo assume un aspetto drammatico se si considera lo sfasamento tra la realtà dei recenti eventi come percepita da gran parte delle donne e degli uomini del Maghreb che si rivolgono speranzosi all'Occidente e la visione che prevale in Occidente. Nonostante una trasversale empatia e spicciola comprensione di quanto iniziato in Tunisia, la copertura mediatica occidentale, con un miscuglio di notizie vere, false, incerte, confuse o teleguidate, con l'immagine di un "Maghreb in fiamme" e "sull'orlo del baratro", con l'irruzione della questione libica e quella dei migranti - questioni sature di rimandi che offuscano ogni percezione razionale del Maghreb - ha creato un clima che ammanta di silenzio i presupposti della "primavera araba" da cui tutto sembrava scaturire.
«Gli straordinari eventi in Tunisia, Egitto e altrove - scrive l'amico giornalista del Marocco, Mohamed Jibril - pongono in modo chiaro questioni, fondamentali per l'insieme dei popoli e paesi del Mediterraneo, e aprono prospettive nuove su cui riflettere per fare avanzare le nostre società». Altre parole potrebbero essere citate, ma basta riassumerle con quelle di Laila Tazi, pediatra e fondatrice nel 1988 di Amrash, Associazione onlus indipendente marocchina pour le développement social et humain durable - una delle tante o.n.g. d'impegno civile nate da uno straordinario movimento associazionista "dal basso" - che scrive : «La nostra "primavera araba" ci ridà giovinezza e gioia. Spero che tutte le persone democratiche d'Italia sapranno trovare modo di sostenerci!». Cosa rispondere loro? Che il concetto di "insieme dei popoli e paesi del Mediterraneo" e i programmi di sviluppo pacifico e condiviso imprescindibile per il bene comune dell'area mediterranea sono stati affossati da questa parte del Mediterraneo? Che gli opinionisti fanno astrazione delle parole "riflessione" e "avanzamento", e ancor più dell'aggettivo "democratico", quando dissertano sul mondo arabo/musulmano sempre presentato come monolitica e minacciosa caricatura? Che i commentatori ignorano le dinamiche di fondo dell‘islam laico moderno nel pensiero, anche giuridico, e vissuto secolare maghrebino e amano unicamente parlare di "incompatibilita dell'islam con la democrazia" dimenticando così i processi e le battaglie storiche dell'Occidente nel suo cammino da leggi canoniche e clericalismo di Stato a libertà civili ? Sostenendo, per spiegare la "primavera araba", che sprazzi di democrazia sono arrivati dall'Occidente tramite internet, molti osservatori hanno minimizzato, con consolidato paternalismo, quel secolo di storia, battaglie politiche e culturali, creazioni, scritti e dibattiti su modernità, laicità e sviluppo - iniziato sulla scia del Risveglio o nahdha della fine del sec. XIX e maturato con le lotte per l'indipendenza - che ha segnato più di tre generazioni maghrebine riverberando sulle istanze sociali partecipative manifestatesi, appunto, nella "primavera araba". Internet ha di certo svolto un ruolo per molti giovani (eppure nell'indice N.R.I la Libia occupa il 103° posto, seguita dall'Algeria), ma a monte c'è altro, e molto di più. Commentando la straripante manifestazione di Casablanca del 20 marzo scorso, un giornalista del Marocco ha scritto: «i cosiddetti facinorosi, vandali, nemici dello Stato, isterici islamisti? Io non li ho visti. Ho visto una marea di gente felice di potersi esprimere, donne e uomini uniti, quali che fossero le loro opinioni politiche, per un Marocco migliore. E i giovani del "Movimento 16 Febbraio" erano lì ad aiutare il buon esito della manifestazione e sfilare tranquillamente». Non possiamo ridurre tutto questo, la sua reale dinamica storica, e la sua "gioia democratica", ad un'occidentalizzazione diffusa via Internet. Ma capirne la dinamica storica presuppone un processo di dialogo, analisi e conoscenza che poco s'addice alla maniera odierna di volgersi verso il sud del Mediterraneo. In molti, nei media, accomunano tutto e tutti, e situazioni molto diverse, nell'espressione "quei paesi li". Così, associazioni di donne, insegnanti, giornalisti, studenti, sindacati, partiti politici, artisti, intellettuali, lavoratori di ogni settore, esponenti delle diverse comunità e diverse generazioni che si solidarizzano per portare avanti le loro società, rimangono invisibili e scomodi - perché estranei alle strategie di "conflitti religiosi, etnici o tribali" sempre tese loro come trappole - e non fanno notizia. Non pesano sulla bilancia quanto le immagini che dalla Libia e da Lampedusa fomentano paure e alimentano contrasti nell'animo del cittadino medio europeo. La guerra ha distolto lo sguardo dalle società civili nordafricane e dai cambiamenti ottenuti con sacrifici e proteste ma senza bombe. Con le sue dispute tra potenze, ha deviato l'attenzione dalle "prospettive su cui riflettere" per il bene comune intermediterraneo e la "primavera araba" è stata occultata. Potrebbe rivelarsi, per gli arcani della politica mondiale, la cosa la meno auspicata. Un articolo della politologa Phyllis Bennis incluso nel dossier sulla Libia di Z Magazine ha come titolo, "L'intervento in Libia minaccia la Primavera Araba", (Lybian intervention threatens Arab Spring). Da canto suo, Marjorie Cohn, Segretario Generale della International Association of Democratic Lawyers, criticando la risoluzione Onu e il vuoto diplomatico che l'accompagna, intitola il suo articolo "Fermate i bombardamenti sulla Libia" e chiede «cosa impedirà adesso di inscenare proteste, magnificandole come azioni di massa tramite i canali dei Corporate Media e poi bombardare o attaccare?». In questo clima, un incidente o evento - casuale o voluto - rischia di scoperchiare il vaso di Pandora e dare ragione a Phyllis Bennis quando, dalla sua postazione al Transnational Institute di Washington D.C. scrive «la guerra in Libia potrebbe provocare una Lunga Guerra». Molti indizi lasciano temere questa disastrosa eventualità. E' questa la risposta alle speranze e aspettative delle cittadine e dei cittadini del Maghreb e all'urgenza di una pacifica interrelazione mediterranea? Difficile dirlo con una guerra in corso. Sarà brevissima, è stato detto. E se non lo fosse? Se, si rivelasse davvero, come il suo suggestivo nome in codice suggerisce, una Odyssey Dawn, ovvero, "l'alba di una odissea"?


Liberazione 01/04/2011, pag 8

Nessun commento: