martedì 20 maggio 2008

Iran: il movimento delle donne

Il movimento delle donne, nonostante la repressione, negli ultimi due anni più radicato nella società
Iran, femministe ma sempre in chador

Sabina Morandi
Le donne vestite di nero passeggiano fra i gatti che scavano nella spazzatura e i muri fatiscenti pieni di graffiti di una squallida strada della periferia di Tehran. Fra loro c'è Zohreh, avvolta nel suo chador dalla testa ai piedi: l'immagine stessa della donna iraniana oppressa come l'intendiamo in Occidente. Una volta entrati nel suo piccolo appartamento però, appare chiaro che la vita di Zohreh, così come quella della maggior parte delle donne iraniane, è molto più complicata di quanto creda il mondo occidentale, anche perché «lo sanno tutti che in casa siamo noi a comandare» dice ridendo all'intervistatrice britannica - Anna Fifield - spedita dal Financial Times a svolgere un'inchiesta sulla condizione femminile nella Repubblica islamica. Zohreh è categorica: «Credo che ovunque nel mondo, anche in quei paesi dove si parla di libertà e democrazia, ci sono donne oppresse dagli uomini. Viceversa, perfino qui in Iran ci sono donne che hanno il potere decisionale di dieci uomini».
Zohreh si è sposata a 16 anni e, ora che ne sono passati dieci, non è ancora pentita di una decisione presa contro il parere della famiglia che si opponeva a un matrimonio troppo precoce. Ma quando incontrò per la prima volta Mustafa - naturalmente nel corso di un appuntamento accuratamente programmato e molto poco intimo - Zohreh capì che sarebbe stato un ottimo marito «non solo per il suo aspetto, anche se mi sono sempre piaciuti gli uomini alti - confessa - ma soprattutto per il suo carattere». Mustafa ha avuto infatti la gentilezza di informare Zohreh che dopo il matrimonio si sarebbe dovuta prendere cura della madre malata che avrebbe abitato con loro. E poi, in barba ai pregiudizi - che pure condivide - il marito le consente di seguire un corso da parrucchiera e ha promesso che, quando sarà pronta, le darà i soldi per comprare negozio e attrezzatura. Lavorare sì, ma solo fra donne: è questo il tipo di compromesso fra tradizione e voglia di modernità che si può ritrovare anche fra i settori meno abbienti e più tradizionalisti della Repubblica islamica dell'Iran.
Bisogna dire che fa una certa impressione constatare come le donne iraniane accettino di buon grado le regole dei matrimoni vecchio stile. Ancora più impressionante è che, contrariamente a quanto si creda, sono tutte tradizioni relativamente nuove per l'Iran, paese in cui il movimento per i diritti delle donne esiste dalla metà dell'Ottocento. Bibikhatoon Astarabadi fondò una scuola per ragazze ben prima di molti paesi occidentali e nel 1895 pubblicò Failings of Men , la prima dichiarazione dei diritti delle donne in Iran. Le donne iraniane hanno cominciato a frequentare le università negli anni Trenta del Novecento, hanno conquistato il diritto di voto nel 1963 (in Svizzera il suffragio femminile è passato solo nel 1971) e sono state una forza determinante nella rivoluzione che ha spodestato lo Scià nel 1979. Poi, però, le cose sono andate sempre peggio.
Sotto la modernizzazione filo-occidentale dello Scià le donne avevano conquistato libertà e diritti legali che però vennero recepiti come un'imposizione dall'alto. Oltretutto si rivelarono controproducenti perché, spaventate dall'immagine promiscua di una società "all'americana", le famiglie tradizionaliste ritirarono le figlie dalle scuole e, soprattutto nelle zone rurali, l'istruzione femminile diventò una rarità. Con l'arrivo della rivoluzione - ma soprattutto con il predominio degli islamisti a scapito delle altre realtà che vennero in fretta liquidate - i diritti imposti dallo Scià andarono a farsi benedire e la hejab (la copertura totale) diventò obbligatoria. Paradossalmente quest'obbligo è diventato un'opportunità per molte ragazze che, con il velo, sono potute tornare a studiare e a lavorare. Attualmente ben due terzi degli studenti universitari sono donne e il regime è stato costretto a introdurre delle quote "azzurre" per attirare i maschi. Simboli e paradossi che lasciano il tempo che trovano perché la veste nera lunga fino ai piedi è davvero l'ultimo dei problemi per la maggior parte delle donne iraniane. L'oppressione è evidente a tutti i livelli ma, come nota la giornalista britannica, a tutti i livelli le donne sono dinamiche, forti ed estremamente determinate: che si tratti di casalinghe come Zohreh, di attiviste, giornaliste o funzionarie governative, le donne iraniane sembrano avere un'idea abbastanza chiara di cosa vogliono e di come aggirare il sistema per ottenerlo.
Sebbene le cose siano un po' migliorate sotto la presidenza riformista di Mohammad Khatami, con l'elezione del suo successore, nel 2005, per le donne c'è stato un netto peggioramento. Mahmoud Ahmadinejad aveva infatti condotto una campagna elettorale tutta incentrata sul recupero dei valori rivoluzionari e quando è entrato in carica ha subito impresso una stretta sui costumi (i "valori rivoluzionari" relativi all'economia sono stati rimandati a tempi migliori). Risultato: il dibattito sui diritti delle donne è sparito dall'agenda governativa mentre le manifestazioni di protesta venivano disperse con la forza. Dopo le elezioni parlamentari di questa primavera gli equilibri sono cambiati sensibilmente: Ahmadinejad dovrà lavorare con una rappresentanza più vasta di riformisti anche se i conservatori hanno la maggioranza e sono state elette ancora meno donne rispetto alla precedente tornata.
Per fronteggiare la scarsa rappresentanza e la repressione violenta, le attiviste per i diritti delle donne adottano nuove tattiche. Un esempio è la petizione che si è data l'obiettivo di raccogliere almeno un milione di firme per chiedere maggiori diritti legali. Nahid Keshavarz, una delle organizzatrici dell'iniziativa, accoglie la giornalista britannica nel suo appartamento di Tehran dove, fra un espresso e un cioccolatino, le fornisce i primi rudimenti di femminismo interclassista «che non può ridursi alla protezione dell'élite colta iraniana com'è stato finora» dice in un misto di farsi e francese. Nahid viene da una famiglia medio-bassa (padre agricoltore e madre casalinga) della città di Bushehr dove ha potuto "approfittare" del ritorno del velo per frequentare l'università, «ed è stato proprio lo studio ad aprirmi gli occhi sulla questione dei diritti delle donne». Ora Nahid sta studiando per un dottorato sugli studi di genere in Francia ed è convinta che il movimento delle donne stia registrando un vero e proprio boom in Iran: «quando Ahmadinejad è stato eletto tutti erano sicuri che il movimento delle donne sarebbe scomparso. Negli ultimi due anni, al contrario, il movimento è cresciuto».
Nahid Keshavarz è stata arrestata l'anno scorso per avere raccolto firme per la petizione al Laleh Park di Tehran, segno che il regime teme l'iniziativa. Ma gli arresti sono controproducenti perché «ogni volta che qualcuna di noi finisce in galera - spiega Nahid - la questione dei diritti legali delle donne si radica più profondamente nella società. In prigione il secondino mi chiamava "femminista", e se perfino un poliziotto sa di cosa si tratta, significa che il concetto di femminismo è ormai diffuso». Oltretutto, assicura l'attivista, una cella con 25 donne è un ottimo punto d'osservazione sulla società: più della metà, infatti, sono in prigione per avere ucciso il marito «una prova evidente del fatto che abbiamo ragione - continua Nahid - perché molte di queste donne sono state date in spose giovanissime a mariti violenti e, visto che né la società né la legge le hanno protette, alla fine sono state costrette a prendere in mano la situazione. Per tutte l'assassinio del marito era il primo crimine».
Dopo due settimane Nahid Keshavarz è stata rilasciata ma il processo - è accusata di avere messo in pericolo la sicurezza nazionale distribuendo propaganda contro il sistema - va avanti senza fretta perchè le autorità preferiscono farlo pendere come una spada di Damocle sulla testa della femminista che intanto continua a raccogliere firme, anche se in modo un po' più discreto: in taxi, nei negozi, dal parrucchiere. Grazie a questo lavoro capillare, e malgrado la repressione, la campagna è uscita dalla ristretta cerchia della capitale, dove le donne sono più ricche e quindi relativamente più libere. La petizione è circolata in 20 città, dal settentrionale Kurdistan alle più remote province del Sud, dove l'interpretazione fondamentalista dei valori islamici è più forte e la popolazione più povera. E, come dice Nahid «se una donna di classe medio-alta come me può sempre trovare una scappatoia alle leggi, per le donne delle classi basse non c'è alcuna pietà». Un esempio per tutti è quello della poligamia, rarissima in città ma estremamente diffusa nelle zone rurali: «sono stata in un villaggio nel sud dell'Iran - racconta Nahid - e ho incontrato queste ragazze belle e coraggiose che sono accorse a firmare la petizione. Per loro la poligamia è in assoluto la priorità».
Nel diritto iraniano ci sono parecchie mostruosità che il movimento delle donne vuole abolire. Per la legge, ad esempio, le ragazze sono considerate adulte a 9 anni e possono essere processate e condannate a morte per omicidio come un adulto, mentre i ragazzi non sono legalmente adulti fino a 15 anni. In Iran la testimonianza in tribunale di una donna vale la metà di quella di un uomo, e se un uomo e una donna vengono feriti in un incidente, la donna riceve la metà di quanto spetta all'uomo.
Dimezzata è anche l'eredità, ma se un uomo muore senza figli alla moglie non va niente perché torna tutto ai parenti. Va detto che, per quanto altri paesi a maggioranza islamica come il Marocco, l'Egitto o la Turchia forniscano una migliore protezione per i loro cittadini di sesso femminile, le donne iraniane stanno meglio di quelle di molti paesi del Golfo. Se non altro possono votare, guidare e diventare membri del parlamento, cosa che le saudite non possono nemmeno sognare. Negli ultimi anni la pressione popolare ha costretto il regime a fare qualche concessione: ora le donne hanno diritto di custodia sui figli fino ai sette anni mentre prima erano un'esclusiva del padre in tutte le circostanze. Il divorzio resta una prerogativa maschile, a meno che non venga esplicitamente messo nero su bianco in un accordo prematrimoniale - anche in questo caso la differenza di classe è evidente.
Certamente provengono da famiglie abbienti le ragazze che affollano la palestra Zeitoon di Tehran: fasciate nella loro tenuta d'ordinanza bianca da karate, con i capelli raccolti nel classico foulard nero, le ragazze eseguono la sequenza di riscaldamento con estrema serietà. Il boom del karate fra le ragazze è un altro dei paradossi della società iraniana: l'esigenza di praticare l'autodifesa (visto che la legge latita) e il fatto che gli incontri possono essere mostrati in tv (perché l'abbigliamento casto non offende la morale) hanno fatto del karate lo sport più praticato dalle ragazze. Che si allenano con i loro iPods infilati nelle orecchie mentre le mamme coperte fino ai piedi nei loro chador aspettano pazientemente che abbiano finito di menare calci in aria. Molte delle ragazze sono delle campionesse - hanno disputato incontri in Qatar, Malesia, Slovenia e Italia - abituate a viaggiare e ad allenarsi duramente per vincere. Indossano il velo sulla tenuta da karate (anche se in palestra non è obbligatorio) ma, come le loro coetanee nel resto del mondo, hanno sogni che vanno ben al di là del matrimonio. Tutte amano gli studi e molte adorano le materie scientifiche: «Voglio diventare come Muhammad ibn Zakariya al-Razi» dice una, riferendosi al padre medievale della chimica e della matematica iraniane. «A me invece piace Marie Curie» dice un'altra. E se si fa qualche domanda sul matrimonio rispondono quasi in coro: «Siamo troppo giovani!».
Queste ragazze sono la speranza delle attiviste perché i cambiamenti politici possono essere difficili da conquistare ma il cambiamento demografico è inarrestabile e il 70% della popolazione iraniana (70 milioni) è ormai sotto i 30 anni. Il potenziale collettivo delle giovani generazioni nello sfidare i regolamenti ufficiali è enorme: i ragazzi guardano gli ultimi film hollywoodiani in Dvd, descrivono la loro vita sociale su internet e si scambiano i numeri di telefono attraverso i finestrini durante gli interminabili ingorghi di Tehran. Nei quartieri ricchi della capitale le donne portano minigonne sotto agli impermeabili e indossano canottiere minimali quando vanno agli scatenati rave che si svolgono quasi ogni notte. Secondo Mona Zandj Haghighi, una regista il cui primo film ( On a Friday Afternoon ) ha vinto premi in Germania, Francia, Grecia e Stati Uniti, oltre che al film-festival iraniano di Fajr, c'è un momento di forte risveglio: «E' un po' come essere tornati ai tempi di Khatami, solo che ora la gente è meno spaventata e non riusciranno a farla tacere». Fra il lavoro in produzione, i corsi di pilates e le feste nel weekend, Mona conduce un'esistenza non molto diversa da quelle delle sue coetanee in Occidente. E' convinta che il cambiamento sia ormai inarrestabile perché la gente «si lamenta di più e resiste di più», confida. Però, per quanto sia estremamente critica nei confronti del regime, la regista non dipinge Ahmadinejad come un mostro: «da quando è stato eletto c'è stata una stretta sulle arti, i libri e i film, ma non è tutto negativo: solo uno come Ahmadinejad poteva tenere testa a Bush». Dimostrazione perfetta di quanto la propaganda anti-iraniana sia funzionale agli interessi del regime.


La Repubblica del Blogstan:
circa 60mila blog inseriti e aggiornati in varie reti

Che in Iran la censura sia particolarmente rigida è cosa nota. Meno nota è la passione degli iraniani per i blog, quei diari elettronici più o meno personali nei quali riversano i propri sfoghi o critiche e riflessioni censurabili altrove: un vero e proprio fenomeno planetario che ha attirato l'attenzione dei ricercatori di Harvard. In "Mapping Iran's Online Public: Politics and Culture in the Persian Blogosphere" (Mappando l'ordine pubblico in Iran: politica e cultura nella blogosfera persiana) John Kelly e Bruce Etling hanno cercato di analizzare un fenomeno totalmente spiazzante per chi ha dimenticato il grande amore dei persiani per la parola scritta. Dallo studio viene fuori infatti che la blogosfera iraniana è un enorme spazio di discussione costituito da circa 60 mila blog costantemente aggiornati e inseriti in varie reti.
Contrariamente a quanto si pensava non tutti i blog sono critici nei confronti del regime e non tutti i tentativi governativi di bloccarli hanno successo - anzi, dalla ricerca viene fuori che quasi tutti i blog continuano a essere visibili in Iran malgrado i tentativi di censura. Kelly ed Eltin hanno suddiviso in quattro grandi aree d'interesse e di schieramento politico queste migliaia di siti. La prima, definita secolare-riformista, raccoglie gli scritti più critici di quelli - espatriati o residenti nel paese - che premono per un cambiamento consistente. Poi ci sono i blog dei conservatori-religiosi, dove si moltiplicano gli scritti in difesa del regime ma dove talvolta si svolgono anche dibattiti molto duri e approfonditi su questioni religiose e sociali. Ci sono poi i siti dedicati alla poesia e alla letteratura - davvero molti - e quelli definiti "misti" dove c'è un po' di tutto, dai fan dei gruppi musicali occidentali ai semplici diari. La ricerca fa parte di "Internet and Democracy Project", un'iniziativa per lo sviluppo della democrazia attraverso internet portata avanti dal Berkman Center for Internet & Society della Harvard Law School.

http://cyber.law.harvard.edu/research/internetdemocracy.


Liberazione 18/05/2008

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