sabato 27 giugno 2009

Le elezioni presidenziali in Iràn: rassegna delle analisi critiche

di Daniele Scalea *

I fatti

Il 12 giugno 2009 si sono tenute le decime elezioni presidenziali della Repubblica Islamica dell'Iràn. Nel paese persiano il presidente ha funzioni esecutive, è controllato dal Parlamento e subordinato alla Guida Suprema; si tratta del funzionario di più alto grado eletto direttamente dal popolo. Principali candidati in lizza erano Mahmūd Ahmadinežād (o Ahmadinejad, secondo la traslitterazione più in voga), presidente uscente (dal 2005), ex sindaco di Tehrān (2003-2005), ingegnere e professore universitario; Mir Hossein Musavì, ultimo primo ministro prima dell'abolizione della carica (1981-1989), architetto; Mosen Rezai, economista ed ex militare; Mehdi Karrubi, chierico ed ex presidente del Parlamento (1989-1992, 2000-2004).
La campagna elettorale è stata molto accesa (tra l'altro, per la prima volta nella storia dell'Iràn si sono tenuti faccia a faccia televisivi tra i candidati, non solo i due principali come avviene solitamente nei paesi occidentali, ma coinvolgendo tutti e quattro in tre “duelli” a testa), i sondaggi pre-elettorali – poco affidabili in Iràn – hanno mostrato una grande varietà di previsione: alcuni davano Ahmadinejad riconfermato con oltre il 60% dei voti, altri Musavì vincitore con una percentuale simile, altri ancora distacchi inferiori a vantaggio dell'uno o dell'altro. I risultati ufficiali, con un'affluenza di circa l'85% degli aventi diritto (nelle precedenti elezioni presidenziali s'era aggirata intorno al 60%), sono stati i seguenti:

Mahmud Ahmadinejad 24.527.516 voti 62,63% delle preferenze
Mir-Hossein Musavì 13.216.411 voti 33,75% delle preferenze
Mohsen Rezai 678.240 voti 1,73% delle preferenze
Mehdi Karrubi 333.635 voti 0,85% delle preferenze

Mahmud Ahmadinejad è stato dunque riconfermato alla presidenza senza bisogno di ballottaggio. Rispetto al secondo turno delle elezioni precedenti, ha incrementato i propri voti di circa 7 milioni d'unità; Musavì ha raccolto oltre 3 milioni di voti in più di quelli ottenuti dal suo sostenitore Akbar Hashemi Rafsanjani nel 2005. Nel 2005, al primo turno, i candidati minori avevano ottenuto circa 17 milioni di voti, quest'anno poco più di un milione pur col netto aumento dell'affluenza: la polarizzazione politica in Iràn attorno ai due candidati principali è stata evidente.
Musavì (assieme agli altri due candidati sconfitti) ha immediatamente denunciato brogli elettorali, affermando che, malgrado il divario enorme, lui sarebbe stato il vero vincitore del voto. I suoi sostenitori sono scesi in strada a Tehrān per protestare, dapprima in maniera pacifica e poi con crescente violenza, scontrandosi anche con sostenitori di Ahmadinejad a loro volta mobilitatisi e con le autorità intervenute per riportare l'ordine. Nel corso degli scontri vi sono state vittime; le autorità hanno quantificato i danni materiali cagionati dai disordini in diversi milioni di euro. Il 19 giugno la guida suprema ayatollah Alì Khamenei ha riconosciuto la validità dei risultati elettorali, invitando i manifestanti alla calma ed accusando l'Inghilterra d'aver segretamente favorito i disordini degli ultimi giorni.

Le reazioni internazionali

Il mondo si è diviso di fronte alla contestata rielezione alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad. Hanno espresso preoccupazione per le accuse di brogli elettorali e condannato l'eccessivo uso della forza da parte delle autorità l'Unione Europea, i paesi anglosassoni, il Giappone e Israele. Si sono invece congratulati con Ahmadinejad la Lega Araba (ma direttamente solo alcuni capi degli Stati membri), la Russia e numerosi Stati ex sovietici, e poi Cina, India, Pakistan, Afghanistan, Corea del Nord, Turchia, Brasile e Venezuela.

Alcune analisi critiche

Riassumiamo alcune delle analisi critiche pubblicate nei giorni scorsi. Abbiamo selezionato solo articoli comparsi in Italia o che hanno avuto particolare rilievo nei paesi occidentali, esprimendo un'opinione argomentata sulle elezioni iraniane e le loro conseguenze.

Alì Ansari, direttore del Institute of Iranian Studies dell'Università di St. Andrews ed associato alla londinese Chatham House, esaminando i dati delle elezioni 2009 e 2005 aderisce alla tesi dei brogli. In particolare, Ansari sottolinea che: in due province i voti sono stati superiori ai residenti aventi diritto (in Iràn molti cittadini hanno la facoltà di votare al di fuori della propria provincia, se ad esempio si trovano spesso in un'altra per ragioni di lavoro, ma Ansari ritiene che questa non sia una spiegazione valida perché le province iraniane sarebbero troppo ampie per un massiccio pendolarismo); non ha riscontrato una correlazione tra aumento dell'affluenza e voto favorevole a Ahmadinejad; in un terzo delle province Ahmadinejad avrebbe conquistato voti che quattro anni prima erano ricaduti in area “riformista”; le tre precedenti elezioni presidenziali non hanno mostrato la predilezione delle aree rurali per i candidati “conservatori”, mentre in queste ultime Ahmadinejad vi ha ottenuto numerosi consensi.
Le manifestazioni ed i disordini dei giorni seguenti alle elezioni, secondo Ansari, rappresentano l'esplodere dopo lunga gestazione d'una crisi maturata nel dibattito intellettuale sulla natura della Repubblica Islamica, il rapporto tra repubblicanesimo ed islamismo, la legittimità del nuovo regime. Durante la presidenza di Khatamì questo dibattito è divenuto di pubblico dominio, suscitando una reazione islamista e conservatrice al riformismo repubblicano. Con Ahmadinejad i conservatori oltranzisti sono andati al potere, ma la sua vittoria su Rafsanjani era stata di misura. Perciò nelle ultime elezioni hanno cercato una grande affermazione, con tutti i mezzi leciti ed illeciti. La sensazione d'essere stati ingannati, a giudizio di Ansari, avrebbe spinto un numero senza precedenti di persone a scendere in piazza.
http://www.chathamhouse.org.uk/files/14234_iranelection0609.pdf
http://www.chathamhouse.org.uk/files/14242_wt070904.pdf

Robert Baer, ex funzionario decorato della CIA ed oggi editorialista di “Time.com”, nota che le immagini delle manifestazioni di protesta trasmesse dai media occidentali sono tutte ambientate nella parte settentrionale di Tehrān, dove si trovano i quartieri dell'alta borghesia in maggioranza favorevole a Musavì: mancano invece testimonianze dai quartieri popolari e dalla periferia. Da troppi anni gli occidentali guardano all'Iràn solo attraverso il prisma della locale classe media, liberale ed occidentalizzante, ma non rappresentativa dell'intera società iraniana. L'unico sondaggio condotto prima delle elezioni in Iràn da statunitensi tenendo conto d'un campione realmente rappresentativo, ha dato risultati in linea con quelli poi usciti dall'urna elettorale. La cosa peggiore sarebbe disconoscere ufficialmente i risultati delle elezioni iraniane, poiché ciò rafforzerebbe ulteriormente gli oltranzisti: è probabile che Ahmadinejad abbia realmente vinto le elezioni, e comunque Musavì non è un liberal-democratico come lo descrivono i media occidentali. In qualità di primo ministro negli anni '80, Musavì presiedette alla nascita di Hezbollah in Libano ed ai suoi attentati contro le forze statunitensi nel paese.
http://www.time.com/time/world/article/0,8599,1904953,00.html?loomia_si=t0:a16:g2:r1:c0.0630728:b25855756&xid=Loomia
http://www.time.com/time/world/article/0,8599,1905477,00.html?loomia_si=t0:a16:g2:r1:c0.0642661:b25468964&xid=Loomia

Ken Ballen e Patrick Doherty, l'uno presidente di Terror Free Tomorrow: The Center for Public Opinion e l'altro ricercatore della New American Foundation, nelle settimane precedenti le elezioni hanno condotto in Iràn un sondaggio d'opinione seguendo le metodologie consuete in Occidente, di modo da creare un campione rappresentativo e fornire risultati con margine d'errore di poco superiore al 3%. Tale sondaggio mostrava Ahmadinejad con un consenso doppio rispetto a quello di Musavì, ossia un margine di vantaggio anche maggiore a quello rivelato poi dal voto. Esso prevedeva anche la vittoria di Ahmadinejad tra gli azeri, e smentiva la teoria secondo cui i giovani appoggerebbero Musavì: la fascia d'età tra i 18 ed i 24 anni è quella in cui più forte è il sostegno per il Presidente uscente rieletto. Le uniche classi in cui, nel sondaggio, Musavì risultava popolare quanto o più di Ahmadinejad erano gli studenti universitari, i laureati ed i cittadini ad alto reddito.
http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2009/06/14/AR2009061401757.html

Abbas Barzegar, corrispondente de “The Guardian”, non riscontra prove che suffraghino l'accusa di brogli diffusi: Ahmadinejad era già ampiamente favorito alla vigilia. I media occidentali hanno dato ampio spazio alle dimostrazioni pro-Musavì tenutesi nei quartieri-bene di Tehrān, che hanno radunato fino a 100.000 persone, ma passato sotto silenzio la manifestazione d'appoggio al Presidente rieletto cui hanno preso parte almeno 600.000 cittadini. Barzegar è stato testimone oculare di questi eventi. Gli esperti fin dal 1979 denunciano come imminente la caduta del regime islamico, ma costoro non comprendono la realtà iraniana. La vittoria elettorale di Khatamì su Nuri nel 1997 non rappresentò, come la si descrive solitamente, la mobilitazione dei giovani di sentimenti liberali contro la vecchia classe dirigente, ma il sostegno ad un candidato percepito come più religioso ed onesto del suo sfidante. Non a caso, molti degli allora elettori di Khatamì oggi hanno votato per Ahmadinejad, che si è fatto paladino della lotta anticorruzione e della devozione religiosa. Musavì era sconfitto in partenza, avendo puntato sull'alleanza tra alta borghesia liberale e mercanti dei bazar, e sui nuovi media – da Facebook a Twitter – che sono assolutamente ininfluenti nelle campagne e tra i lavoratori. In futuro, gli osservatori dovranno sforzarsi maggiormente di capire il vero spirito iraniano, quello che ieri ha portato un vecchio asceta esule a rovesciare lo Scià, ed oggi il figlio d'un maniscalco alla presidenza della Repubblica.
http://www.guardian.co.uk/commentisfree/2009/jun/13/iranian-election

Franco Cardini, storico italiano, ritiene troppo semplicistico e non rispondente alla realtà lo schema proposto dai media occidentali. L'Iràn non è una dittatura, ma una società complessa animata da una società civile fluida e variegata, con molti giovani istruiti, ed un “senato” religioso. Lo scontro in corso è tra il partito dei religiosi, incline ad una distensione con l'Occidente ed appoggiato dai ceti benestanti, ed un partito di radicali laici fautori d'una politica estera e sociale più decisa. L'obiettivo di quest'ultima fazione, che si riconosce nel presidente Ahmadinejad ed è appoggiata anche dalla guida suprema Khamenei, è di trasformare la Repubblica Islamica in un regime autocratico. Il punto debole degli avversari, capeggiati da Akbar Hashemi Rafsanjani, è la loro corruzione. Cardini ritiene possibili dei brogli, anche perché l'attivismo dei sostenitori di Musavì li fa sembrare più numerosi dei voti ottenuti, ma la crisi è interna al sistema, non è una crisi del sistema: tutte le parti in causa sono nazionaliste ed ostili agli USA. I media occidentali non sono stati impeccabili, schierandosi in maniera faziosa: sono state trasmesse le immagini e le interviste dei manifestanti d'una sola parte, ed è stata subito presa per buona la tesi dei brogli, per quanto non sia provata oltre ogni ragionevole dubbio. La repressione delle manifestazioni di protesta è stata dura, ma assomiglia più agli eventi del G8 di Genova nel 2001 che a piazza Tienanmen. Gli appelli ideologici e partigiani, come quello scritto da Bernard Henry Levy e rilanciato dal “Corriere della Sera”, sono controproducenti oltre che scorretti (dove denunciano un'improponibile minaccia nucleare di Ahmadinejad a Israele); le possibilità che il partito “moderato” prevalga a Tehrān dipendono dalle azioni dell'Occidente, in particolare del presidente statunitense Obama che dovrà tenere a bada le richieste estremiste d'Israele.
http://www.francocardini.net/

Juan Cole, storico statunitense, elenca gl'indizi che secondo lui avvalorano la tesi dei brogli: Musavì ha perduto a Tabriz, capitale della provincia di cui è originario; Ahmadinejad ha vinto a Tehrān pur essendo meno popolare nelle città; Karrubi ha visto i propri voti nettamente diminuiti rispetto al 2005, ed ha perso anche nel nativo Luristan; Rezai è andato sorprendentemente meglio di Karrubi; il sostegno a Ahmadinejad è troppo omogeneo tra le varie province; la Commissione Elettorale e Khamenei hanno annunciato con notevole anticipo i risultati finali. Secondo Cole, Musavì avrebbe vinto le elezioni; informatone, la Guida Suprema avrebbe dato mandato alla Commissione Elettorale di falsificare i dati.
http://www.juancole.com/2009/06/stealing-iranian-election.html

George Friedman, politologo statunitense d'origini ebraico-ungheresi con alle spalle vent'anni d'insegnamento nelle università ed oggi direttore della Strategic Forecasting Inc., ritiene che dal 1979 i paesi occidentali continuino a travisare la realtà iraniana. Alla base di questi errori d'interpretazione ci sarebbe la scarsa dimestichezza col farsi di molti studiosi, anche iranisti, che porterebbe a comunicare soprattutto se non esclusivamente con gl'iraniani che parlano inglese (o altre lingue occidentali), i quali però non rispecchiano la società persiana ma rappresentano in genere solo il ceto borghese e benestante. Friedman ritiene poco affidabili i sondaggi realizzati in un paese come l'Iràn, in cui la telefonia non è universalmente diffusa. Secondo Friedman, benché Musavì fosse il candidato prediletto dalla borghesia urbana benestante, più attenta alla liberalizzazione ed alle questioni economiche, Ahmadinejad gode di grande popolarità tra i ceti più bassi e nelle campagne. Tale popolarità deriva dai suoi tre cavalli di battaglia: la devozione religiosa, la lotta alla corruzione ed il nazionalismo. La religione è, per molti iraniani, più importante del miglioramento della condizione economica. La corruzione dilagante nel clero è un tema assai sentito tra la popolazione rurale. Infine, il conflitto con l'Iràq ha ingenerato in ampi strati della società la speranza che i sacrifici patiti possano un giorno essere ripagati dal rafforzamento internazionale del proprio paese.
Le rivoluzioni, per avere successo, necessitano che diversi segmenti della società s'uniscano a quello che avvia il processo rivoluzionario. Nel caso iraniano, i sostenitori di Musavì sono rimasti isolati: i manifestanti sono stati gli stessi fin dai primi giorni, e le proteste non si sono allargate ad altre città. I media occidentali che hanno creduto nella possibilità d'un successo della rivolta non hanno saputo analizzare correttamente la situazione e le fratture sociali in Iràn. Alcuni hanno negato la dicotomia città-campagna ritenendola superata ed appellandosi al dato delle Nazioni Unite, secondo cui il 68% della popolazione iraniana è urbanizzata. Friedman nota però che la maggior parte abita in piccoli centri, in cui la mentalità è molto distante da quella degli abitanti delle metropoli, esattamente come avviene nei paesi occidentali. Anche all'interno delle città, poi, non vanno trascurate le differenze tra i vari ceti sociali. Alcuni segnali suggeriscono la possibilità di brogli elettorali (la rapidità del conteggio, anche se pari all'incirca a quella del 2005, oppure gli eccezionali livelli d'affluenza in talune province), benché non tutti i sospetti sollevati in questi giorni sembrino fondati (ad esempio, nota Friedman, il fatto che Musavì non abbia vinto nelle regioni azere di cui è originario non è così sorprendente: anche Khamenei è azero, e Ahmadinejad parla la lingua locale; inoltre, anche negli USA è successo che candidati presidenziali non vincessero negli Stati d'origine). In ogni caso, essi sarebbero stati complessivamente ininfluenti sul risultato finale, che rispecchia quello di quattro anni fa, a seguito d'una campagna elettorale condotta, secondo gli osservatori, con maggiore incisività dal Presidente uscente. Ma la principale dimostrazione della genuinità di fondo della vittoria elettorale di Ahmadinejad è che, a dispetto d'ogni intimidazione, se Musavì avesse davvero goduto di milioni di sostenitori in più di quelli suggeriti dal voto, le proteste di piazza si sarebbero rapidamente allargate dopo i primi giorni. Durante i disordini, molti chierici capeggiati da Rafsanjani hanno fatto pressione su Khamenei perché favorisse il ribaltamento dei risultati elettorali: secondo Friedman la Guida Suprema avrebbe rifiutato per salvaguardare la stabilità della Repubblica Islamica, che in quel caso sarebbe stata minacciata dalla violenta reazione dei sostenitori di Ahmadinejad, sia civili sia militari. I media occidentali sbagliano a considerare i chierici e Ahmadinejad come un unico partito: in realtà, il Presidente gode di vasto sostegno popolare anche perché sfida l'élite dominante dei chierici. Il futuro prossimo probabilmente riserverà una resa dei conti tra le due frazioni della classe dirigente iraniana, ma ciò non si tradurrà in una liberalizzazione della Repubblica Islamica. I rapporti con gli USA non muteranno, perché nessuna delle due parti ha finora mostrato la disponibilità a scendere a patti, ma d'altro canto Washington non pare pronta a ricorrere all'opzione militare.
http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkuVFEEFAZOdMFGjTt.shtml
http://www.stratfor.com/weekly/20090622_iranian_election_and_revolution_test

Eva Golinger, avvocatessa e scrittrice statunitense d'origini venezuelane, inserisce la “rivoluzione verde” tentata da Musavì nel novero delle “rivoluzioni colorate” orchestrate in giro per il mondo dagli USA. Già nel 2003 Peter Ackerman (presidente di Freedom House, ex direttore dell'Istituto Albert Einstein e fondatore dell'ICNR), Jack DuVall (direttore dell'ICNR) e James Woolsey (ex direttore della CIA) scrissero Una guida non violenta per l'Iran, in cui preconizzavano manifestazioni a Tehrān guidate dagli studenti che, per mezzo di scioperi e boicottaggi, minassero dall'interno la solidità del regime. Da pochi mesi l'organizzazione CANVAS (ex Otpor serbo) ha cominciato a pubblicare i suoi materiali anche in farsi e arabo, spiegando come condurre azioni destabilizzanti dall'interno. Dopo le elezioni del 2005, l'allora segretaria di Stato degli USA Condoleezza Rice creò un nuovo Ufficio per gli Affari Iraniani, con bilancio iniziale di 85 milioni di dollari finiti in gran parte a National Endowment for Democracy e Freedom House, che da parecchi anni finanziano ONG in Iràn.
http://www.lernesto.it/index.aspx?m=77&f=2&IDArticolo=18334

Flynt e Hillary Mann Leverett, l'uno docente di Affari internazionali (Università della Pennsylvania) e l'altra direttrice di STRATEGA, ex funzionari del governo statunitense addetti alle questioni mediorientali, ritengono che la tesi dei brogli non sia sorretta da nessuna prova. Ahmadinejad ha ricevuto più o meno la stessa percentuale di preferenze del 2005: gli “esperti” hanno nuovamente sottovalutato la sua capacità d'attrarre voti, soprattutto dopo aver ben figurato nei duelli televisivi coi suoi avversari. I sondaggi in Iràn sono poco accurati, ma l'unico condotto con valida metodologia e da occidentali dava Ahmadinejad con 20 punti percentuali di vantaggio su Musavì, scarto che si sarà prevedibilmente allargato dopo il dibattito televisivo in cui il Presidente uscente ha rinfacciato al rivale l'appoggio di Rafsanjani e Khatamì, percepiti dalla popolazione l'uno come corrotto e l'altro come troppo cedevole nei confronti degli USA. Secondo gli “esperti”, Ahmadinejad avrebbe dovuto pagare la cattiva situazione economica, ma i dati ufficiali indicano un Iràn il cui prodotto interno lordo quest'anno cresce, mentre quello dei vicini cala, ed i ceti bassi hanno percepito la politica economica del Presidente come a loro favorevole. È vero che l'inflazione è percepita come un problema da molti iraniani, ma il medesimo sondaggio rivela che solo una minoranza la imputa a Ahmadinejad. Infine, l'assunto che l'alta affluenza avrebbe favorito Musavì non poggia su alcuna base concreta. Lo stesso si può dire dell'attesa che Musavì vincesse nelle province azere: Ahmadinejad vi ha servito per otto anni, parla un azero fluente e l'ha ampiamente utilizzato in campagna elettorale; è stato inoltre sostenuto dall'azero più illustre della Repubblica Islamica, ossia la guida suprema Khamenei. I difetti procedurali denunciati da Musavì (come la chiusura dei seggi giudicata troppo frettolosa, per quanto siano rimasti aperti tre ore oltre lo stabilito) non possono aver influito sensibilmente sui risultati, e comunque non si configurano come brogli. Gli “esperti”, scottati dal fallimento delle loro previsioni, hanno allora denunciato un “colpo di Stato conservatore” in Iràn: ma l'unico tentativo di colpo di Stato è semmai quello di Musavì. Obama deve resistere alla pressioni che vorrebbero indurlo ad abbandonare il tavolo delle trattative con l'Iràn; anzi deve liberarsi dell'illusione che il problema iraniano sia solo Ahmadinejad, in quanto nel paese è amplissimo il consenso sul programma nucleare ed altre questioni di politica estera. È interesse degli USA venire incontro alle legittime richieste dell'Iràn.
http://www.politico.com/news/stories/0609/23745.html

Thierry Meyssan, giornalista e scrittore francese presidente di Réseau Voltaire, individua un ruolo della CIA dietro ai disordini di Tehrān. I servizi statunitensi, com'è stato ammesso anche da Madeleine Albright nel 2000, organizzarono il colpo di Stato che abbatté il primo ministro iraniano Mossadeq, avvalendosi anche di 8.000 comparse prezzolate per inscenare manifestazioni di piazza. Oggi, dopo aver rinunciato ad attaccare militarmente l'Iràn, gli USA hanno tentato di provocare un cambio di regime giocando sull'opposizione tra proletariato nazionalista e borghesia. Strumento privilegiato della CIA è oggi il controllo delle reti di telefonia mobile, più facilmente intercettabili rispetto a quelle fisse che richiedono cavi di derivazione. In Iràn migliaia di s.m.s. sono stati inviati automaticamente ai cittadini annunciando nella notte la vittoria elettorale di Musavì, poi smentita dalla proclamazione ufficiale del vincitore l'indomani. Inoltre, sono stati scelti alcuni blogger, cui sono state inviate periodiche false notizie di uccisioni di manifestanti perché le diffondessero nel paese. Militanti sono stati reclutati negli USA ed in Inghilterra tra le locali comunità iraniane ed istruiti all'utilizzo di Twitter per creare confusione nel paese persiano diffondendo false notizie da fonti solo apparentemente interne all'Iràn.
http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkuVyykpuZMbhNYWok.shtml

Michelguglielo Torri, professore di Storia moderna e contemporanea dell'Asia (Università di Torino), nota l'unanimità con cui in Occidente si considerano truccate le elezioni iraniane. Tale interpretazione non è solo egemone sui grandi media, ma è preponderante anche nella cosiddetta blogosfera, solo in minima parte contrastata dalla tesi opposta dell'artificiosità delle proteste pro-Musavì, che sarebbero manovrate dagli USA per destabilizzare l'Iràn. In effetti, le dimostrazioni dell'opposizione a Tehrān coinvolgono soprattutto i ceti benestanti e mirano ad una maggiore apertura dell'Iràn ai capitali esteri, alla privatizzazione dell'industria statale ed alla fine dei programmi sociali avviati da Ahmadinejad. La tesi dei brogli è nata dall'annuncio di Musavì della propria vittoria, fatta però ad urne ancora aperte: ciò ha spinto la Commissione Elettorale, poco dopo la chiusura delle urne ma appena avuti a disposizione dati sufficienti, a proclamare anzitempo vincitore Ahmadinejad. Ciò ha offerto il destro alla campagna d'accuse dei media internazionali. Essi dimenticano però che, negli oltre trenta sondaggi condotti in Iràn dal marzo 2009, Ahmadinejad risultava complessivamente in vantaggio, anche d'oltre 20 punti percentuali se si escludono i sondaggi palesemente filo-Musavì. Il sondaggio occidentale del CPO, commissionato da BBC e ABC, aveva previsto quasi esattamente sia l'affluenza sia i risultati finali. Nel 2007, “Telegraph” e “ABC News” avevano informato dell'avvio d'un nuovo programma della CIA volto a destabilizzare l'Iràn dall'interno; di tale programma ha parlato l'anno seguente anche il noto giornalista Seymour Hersh. La repressione delle autorità è stata senz'altro troppo brutale, ma i dimostranti probabilmente non rappresentano la maggioranza dei cittadini iraniani: in tal caso la loro insurrezione sarebbe illegittima e giustificato l'intervento delle autorità per ristabilire l'ordine.
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=26843

* Daniele Scalea, laureato in storia moderna-contemporanea, è redattore di "Eurasia"

http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkuyEpFVkkfFOPzXJU.shtml

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