martedì 1 giugno 2010

Libertà e potere, la profezia di Dostoevskij

Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky inaugura "Dialoghi sull'uomo", il festival di antropologia di Pistoia

Tonino Bucci
Pistoia - nostro inviato
Che cosa è la libertà individuale? Fino a che punto il governo degli esseri umani può spingersi nei suoi confronti? Il più grande assillo del pensiero politico moderno, perlomeno dai contrattualisti e da Spinoza in poi, è quello di far coesistere questi due principi contrapposti: da un lato, la rivendicazione dell'individuo della propria autonomia, dall'altro, la necessità di un ordine istituzionale della società. Non che oggi la questione sia passata di moda, visto i rischi concreti di derive plebiscitarie o populistiche. Se n'è occupato, non a caso, un costituzionalista come Gustavo Zagrebelsky, chiamato a inaugurare con un intervento su democrazia e identità dell'individuo la prima edizione dei "Dialoghi sull'uomo", il festival di antropologia che si chiuderà oggi a Pistoia (attesi, tra gli altri, l'antropologo francese Jean-Loup Amselle e il suo connazionale Olivier Roy, docente di teorie politiche e sociali).
Zagrebelsky si è cimentato nel ruolo di lettore e interprete di uno più potenti testi della letteratura di tutti i tempi, a firma di Dostoevskij, il "Dialogo tra il Grande Inquisitore e il Cristo", un vero e proprio poema a sé stante collocato nel capitolo centrale dei "Fratelli Karamazov" - e al quale Zagrebelsky ha già dedicato un breve saggio, "Il Grande Inquisitore. Il segreto del potere" (Editoriale Scientifica, pp. 52, euro 8). Tutt'altro che un semplice testo letterario, questo piccolo capolavoro dostoevskijano è in realtà un trattatello di teologia politica, un sottile dispositivo narrativo che al di sotto della caratterizzazione religiosa dei personaggi, allude in effetti «alle grandi questioni politiche delle società moderne». Anzi, a dirla meglio, il "Grande Inquisitore" merita d'esser letto come un poema di antropologia politica, come una variazione letteraria sul tema del potere e del suo rapporto con la natura umana. Non nel senso di una discussione metafisica se esista o meno un'essenza immutabile dell'uomo e se a questa debba corrispondere una determinata forma di governo politico, di carattere dittatoriale o democratico. Le argomentazioni del testo dostoevskijano si avvicinano semmai di più alla teoria di Foucault sulla «produttività del potere» e sul fatto che gli individui sono "costituiti" all'interno delle relazioni di potere in cui sono coinvolti. Da queste dipendono «l'atteggiamento dell'essere umano di fronte alle responsabilità del vivere insieme».
Quello di Dostoevskij è, nella fattispecie, il dialogo tra un inquisitore che difende le ragioni degli individui eletti a dominare la massa docile, da un lato, e un Cristo «anti-istituzionale», dall'altro, «quasi anarchico potremmo dire». Nel racconto, l'incontro tra i due è introdotto da «una scena di potenza mondana». Nella piazza antistante la cattedrale di Siviglia si è svolto un grande autodafé nel quale è appena stato bruciato un buon centinaio di eretici, "ad maiorem gloriam Dei". Proprio lì, in mezzo alla folla, in sordina, appare Gesù. Ma ecco passare il cardinale in persona, il grande Inquisitore. Ha già visto e capito tutto. Con un cenno ordina alle guardie di prendere Gesù e portarlo nella prigione sotterranea del Tribunale. Il vero incontro avviene però nella notte successiva agli eventi. È il cardinale a scendere nei sotterranei e ad affrontare, a tu per tu, il Cristo, esibendosi in una lunga requisitoria. Parte da lontano, dalle famose tre tentazioni nel deserto descritte nei Vangeli. In un profluvio di parole l'Inquisitore accusa Gesù dell'errore più madornale che potesse fare, quello di rifiutare le seduzioni del potere, di rinunciare al governo degli uomini e del mondo, per abbracciare una dimensione solo spirituale. Non potrebbero essere più distanti i due personaggi. «Si riconoscono l'uno come il contrario dell'altro».
Eppure il Grande Inquisitore non è un semplice despota. In qualche modo, è convinto che per agire per il bene degli uomini occorra farsi carico della loro inclinazione a privarsi della libertà, a trasformarsi in un gregge docile e obbediente al potere pur di ottenere in cambio il soddisfacimento dei piaceri materiali. Non la libertà, ma un dominio irremovibile è l'unica forza in grado di assicurare a uomini ammansiti una condizione di fanciullesca spensieratezza. «Sì, noi li obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere faremo della loro vita un gioco innocente, di bambini stupiti. Permetteremo loro anche di peccare, ma non troppo, e loro ci vorranno bene per questo». E' Cristo - si capisce - il maggior nemico che l'Inquisitore possa immaginare, poiché Gesù è colui che ha rifiutato il potere. «Solo una cosa temiamo: che tu ritorni tra loro e sveli l'inganno. Ma te lo impediremo. Non hai il diritto di ritornare né di aggiungere una parola a quelle che hai già detto e hai consegnato a noi, ai tuoi sacerdoti, alla tua chiesa».
Si riconosce in queste parole la rappresentazione di un dominio che Dostoevskij attribuiva anche al socialismo del suo tempo, per il quale - non è un mistero - nutriva una fortissima avversione. Ai socialisti - come agli atei e ai nichilisti - rinfacciava il progetto di voler trasformare l'umanità in un gregge docile e dedito solo alla cura degli interessi materiali - accomunato, ai suoi occhi, all'ingordigia immorale della Chiesa romana. C'è persino qualche affinità con l'aristocraticismo di Nietzsche, altro nemico giurato del socialismo, che nell'idea di uguaglianza tra gli uomini vede solo l'immagine di una società conformista e abbrutita. «Una gigantesca e inarrestabile massificazione e disumanizzazione», «la Leggenda del Grande Inquisitore può considerarsi una proiezione di questo grande disgusto».
Eppure - dice Zagrebelsky - «ci si può chiedere: da che parte sta Dostoevskij, con l'inquisitore o con Gesù? La figura dell'inquisitore è presentata non come quella del vuoto despota il cui potere è fine a se stesso, ma come quella del dolente uomo di stato, la cui vocazione è il servizio a favore dell'umanità». Dostoevskij ammira l'ideale cristiano ma forse lo ritiene inefficace per governare il mondo. Quello che però interessa, al di là delle metafore religiose, è che Dostoevskij abbia messo in scena l'enigma della politica o, per dirla ancora con Zagrebelsky, l'enigma degli individui che «nella società moderna vivono sospesi tra la condizione del gregge», della massa conformista, e «la tensione verso i grandi ideali come la giustizia, la libertà e l'uguaglianza che non possono mai essere, del tutto, soppressi». Anche questo tempo ha il suo grande inquisitore.

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Marco Aime: ecco perché ha ancora un senso lo studio delle culture
«Meglio Gulliver di Crusoe» contro leghismi e piccole patrie

Pistoia - nostro inviato
Ai ricercatori in procinto di partire per studiare qualche tribù in zone remote del pianeta, Malinowskij dava un solo consiglio: non fare gli idioti. Malinowskij, per intenderci, è l'artefice della svolta novecentesca dell'antropologia. Fu lui a sfilare questa disciplina dalle pastoie della cultura colonialista. E fu sempre lui a inaugurare il metodo dell'osservazione partecipante. Il che significava che gli antropologi non potevano pretendere - come avevano fatto sino ad allora - di recitare la parte degli scienziati neutrali. La natura dell'oggetto dei loro studi - società, tribù, uomini come loro - era tale che non potevano più fingersi osservatori distaccati. Era giocoforza che il lavoro dell'antropologo dovesse invece dipendere dalla capacità di entrare in relazione con altri esseri umani in situazioni sempre casuali. Ma per fare questo non esiste metodo.
Che razza di disciplina è l'antropologia oggi? «Se lo chiedeste a un antropologo dovreste sorbirvi una tirata di almeno mezz'ora per uscirne alla fine con le idee più confuse di prima». Marco Aime - ospite del festival di Pistoia - ha provato a spiegare che senso abbia ancora oggi una disciplina nata nell'Ottocento in piena epoca coloniale, intrisa di etnocentrismo e pregiudizi razzisti. Fingendo di costruire un discorso scientifico gli antropologi ottocenteschi si misero mano a classificare l'umanità in razze. Con loro nella parte degli scienziati che raccontano gli altri e detengono il potere sulle comunità umane studiate.
Acqua passata, certo, ma a cosa serve oggi l'antropologia? A nulla, se non fosse per quella curiosità nei confronti dell'altro. Se c'è qualcosa che rende l'antropologia una disciplina preziosa in questi tempi di leghismo e piccole patrie, di ritorno alla tribalizzazione, di comunità ristrette e di legami col suolo, è la capacità di dubitare, di uscire dai propri costumi osservando gli altri e, forse, di capire meglio noi stessi. In fondo, come diceva Malinowskij, che differenza c'è tra il credere alla stregoneria e il credere alla finanza? Poco dopo scoppiò la crisi del 1929.
Ma l'antropologia è anche la smentita a chi - in nome del differenzialismo - vede nella globalizzazione l'appiattimento delle culture. Errore, c'è la deterritorializzazione, «le culture si ricostruiscono anche al di fuori dei loro territori. Appadurai studia come i turchi ricostruiscono in Germania reti tra loro scambiandosi videocassette di soap opera indiane». Ma l'antropologia è anche una sfida ai pregiudizi contemporanei, l'antidoto al mito della purezza delle culture, oggi che assistiamo all'interno delle società occidentali al ritorno delle Padanie e delle tribù etniche, alla moda delle identità e al chiudersi in comunità ristrette. A chi vorrebbe patrie incontaminate - e magari maestri, politici, vigili, tutti rigorosamente padani doc - «ricordiamo che le culture sono eterni cantieri in perenne aggiustamento», un po' come «un motore scassato che per funzionare deve sempre assemblare pezzi di ricambio presi in prestito da altre macchine».
L'antropologo - come dice Aime - è colui che sta dalla parte di Gulliver, del viaggiatore con la sacrosanta curiosità di conoscere gli altri, e non da quella di Robinson Crusoe, che quando incontra un indigeno gli mette il nome e ne fa un servo.
T.B.

Liberazione 30/05/2010, pag 8

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