sabato 14 giugno 2008

Gianni Minà

«La marmellata televisiva ci ha soffocato
Ripartiamo da una legge sulla comunicazione»
Genni/Sintesi

Davide Turrini
La famosa agenda di Gianni Minà esiste. E' un tomo alto almeno due centimetri che il suo proprietario porta sempre con sé sottobraccio. Lo scrigno di un grande giornalista italiano che ha viaggiato il mondo più di un pilota d'aereo, che sa un sacco di lingue («ma male», dice lui) e che quest'anno compie settant'anni all'anagrafe e cinquanta di professione. Minà ci viene incontro, attraversando la hall di un vetusto albergo di Bologna, carico di elenchi di amici carissimi (tutti veri) come imitazione di Fiorello vuole. Lo incontriamo a margine di uno dei tanti riconoscimenti ricevuti per la sua attività di documentarista. Sugli schermi del festival Human Rights Nights scorrono le immagini di Fidel racconta il Che (1989) e Un giorno con Fidel (1987). La curiosità per documenti storici come le celeberrime interviste di Minà pare non esaurirsi mai. Perché nel giornalista torinese si condensano tanti aspetti della storia dell'informazione dal dopoguerra ad oggi: lo sport; l'inchiesta giornalistica; la televisione di intrattenimento preberlusconiana; la lottizzazione della Rai; la controinformazione. Il tutto sempre con un occhio, e il cuore per intero, rivolto all'America latina. Come capita in questi giorni, la conversazione inizia col tono di chi si ritrova vivo dopo uno tsunami.

Minà, la sinistra italiana pare morta, come ci si sente?
E' morta la sinistra parlamentare, non quella della società civile. Il tre e qualcosa per cento non è andato a votare. Mancano all'appello almeno un milione e mezzo di voti: da qui a sparire ce ne vuole. Una buona parte di elettori di sinistra si è rivolta al Pd e un'altra parte si è astenuta. La rappresentanza politica della sinistra si è suicidata da almeno cinque anni: se ti fai scavalcare dalla Fiom vuol dire che non stai più rispondendo a quella parte di italiani che chiede soltanto di essere tutelata sul lavoro. Quando in Lombardia muoiono più di 50 persone in quattro mesi per incidenti sul lavoro, vuol dire che questo è il paese europeo dove c'è il più grande disprezzo per i lavoratori. La sinistra cosiddetta radicale doveva farne una battaglia incessante: altrimenti che ci sta a fare?

Non è bastato andare in televisione e parlare delle morti sul lavoro nei confronti elettorali?
Andare ad occupare uno strumento di cui già il tuo simpatizzante diffida è stato deleterio. A vedere continuamente l'amabile amico Fausto Bertinotti in tv sembrava di confonderlo con Casini e Schifani. Dentro alla marmellata televisiva il messaggio non ti differenzia. O almeno questo è quello che accade nel salotto di Vespa, che è una specie di camera di decantazione di tutti i problemi del nostro paese. D'altro canto la sinistra radicale non si è accorta che una serie di comunicatori sono stati fatti fuori dalla tv, lasciando spazio a Vespa. Santoro è ritornato da poco, ma Italo Moretti, Enrico Deaglio, Gianni Minà, Tito Cortese perché nel corso degli anni sono stati cacciati? L'editto bulgaro è la punta dell'iceberg. Sono dieci anni quest'anno che io non faccio più tv: mi volete dire cos'ho fatto di male? Nel '94 mi tagliò Letizia Moratti, non avevo più contratti annuali, ma collaboravo in qualche trasmissione, precario come quando ero ragazzo. Poi dal ‘98, con l'ultima serie di Storie Freccero mi disse: trovo delle «resistenze fortissime» sul tuo nome. Mi disse anche di intervistare le persone che volevo, di togliermi ogni soddisfazione. Ospitai tra gli altri i coniugi Alpi, Sepulveda, il Dalai Lama, Nino Caponnetto. Credevo che fosse stata la destra a fare resistenza in consiglio d'amministrazione ma sbagliavo. Ero, dissero, «ingovernabile». Ricevere il benservito dalla parte politicamente più vicina alle tue idee, dai compagni di gioventù è stato davvero squallido.

Sei stato uno dei pionieri dell'informazione giornalistica e televisiva italiana. Nel '60 eri già inviato alle Olimpiadi. Quando hai iniziato a girare documentari?
Innanzitutto non mi raccomandò alcun partito. Fin da allora fu un marchio d'infamia non essere lottizzato, e così rimasi precario diciassette anni. Iniziai dallo sport, quando ancora veniva seguito da intellettuali come Barendson e Ghirelli. Il mio primo minidocumentario lo feci nel '65 per il rotocalco Sprint . Era l'incontro con l'arbitro Concetto LoBello che stava costruendo a Siracusa la cittadella dello sport. Poi ne ho girati a decine e il loro valore è stato riconosciuto in mezzo mondo: ho ricevuto il premio Berlinale Camera al festival di Berlino del 2007 in mezzo all'indifferenza generale della stampa italiana. A breve la Casa del cinema di Roma dedicherà una settimana intera ai miei lavori, collegati a seminari tematici.

Gli anni duemila sono stati quelli del boom del documentario: tu come li giravi? Cosa significa per te il documentario?
Lavoravamo in tre: io facevo l'organizzatore, l'intervistatore, il facchino. Poi c'era il fonico e il direttore fotografia (da quando lavoro in proprio sempre lo stesso, Roberto Girometti). Per me il documentario è un film povero, è cronaca del vissuto. Stilisticamente credo che non ci sia bisogno del montaggio frenetico che scelgono molti giovani oggi. Io poi preferisco l'improvvisazione alla sceneggiatura scritta.

Come dicevi sempre conducendo "Blitz" nei primi anni 80, «questo è il bello della diretta». Era una televisione spettacolare e colta, divertente da fare e che oggi non vediamo quasi più...
Non c'è più il coraggio di osare in televisione. A Blitz rischiavamo ogni settimana, ci collegavamo col mondo: ogni tanto il satellite ci negava la linea o l'audio era cattivo. Gli ospiti venivano senza compenso, a differenza di oggi. Una domenica con Blitz ci spostammo a Cinecittà per spiegare il grande cinema. Negli studi accanto Fellini girava E la nave va e Leone C'era una volta in America . In una puntata sola ebbi in trasmissione Fellini, Masina, Leone, De Niro, Cardinale e Morricone. Invece della festa paesana che si fa oggi in tv, il tentativo di divulgare il grande cinema con le parole dei maestri.

Oggi guardi la televisione?
Mia moglie dice: «Non ti siedi più a vedere la tv come facevamo una volta?». Purtroppo di fronte al piccolo schermo più che noia, provo sdegno. Per non farmi il sangue acido la sera leggo i giornali. La mattina sono impegnatissimo con la mia rivista Latinoamerica che mi rende molto orgoglioso. L'ho salvata sette anni fa dalla chiusura: ora tiriamo quattromila copie e arriviamo a mille abbonati. Abbiamo ampiamente superato Limes e sfidiamo Micromega . Per farlo ho chiamato tutti gli intellettuali latinoamericani che ho conosciuto in trent'anni. Come disse Vinicius De Moraes, «la vita è l'arte dell'incontro».

Sia con "Latinoamerica" che con l'ultimo libro, "Politicamente scorretto", dici di fare controinformazione, cioè raccontare fatti spariti dalle testate giornalistiche ufficiali.
Fra gli errori della sinistra c'è stato quello di non saper difendere certe battaglie dell'universo progressista internazionale. Pensa: in Bolivia ed Ecuador si stanno riscrivendo le costituzioni per garantire i diritti di chi non ha mai contato, gli indigeni, cioè la maggioranza della popolazione, mai stata al governo prima dell'avvento di presidenti come Morales e Correa. Un operaio metallurgico governa il Brasile; due donne governano Argentina e Cile, anche se il loro cambiamento è più graduale. Una volta le chiamavamo repubbliche delle banane. Adesso l'America latina ci sta insegnando la democrazia partecipativa. Ed è patetico che per apparire alla moda si rompano ancora le scatole a Chavez che ha vinto dieci consultazioni elettorali in dieci anni. Se votare è la base della democrazia, lui è il leader più democratico che ci sia! E' solo una questione di sudditanza psicologica verso gli Stati Uniti. L'anno scorso a Washington sono state approvate la legge che autorizza la tortura e quella che abolisce l'habeas corpus. Come mi chiedo se questo paese ha ancora l'autorità morale per parlare di diritti umani.

Perché c'è così poca indignazione popolare contro l'America di Bush, o anche, per esempio, contro l'autoritarismo di Putin?
Perché un monaco birmano fa più notizia di un maestro messicano? L'anno scorso ad Oaxaca l'esercito messicano ha sterminato decine di maestri di scuola che protestavano. Alcuni sono addirittura desaparecidos: è una delle storie più nefaste dal tempo delle olimpiadi di Città del Messico del '68. Ma nessuna prima pagina dei nostri giornali lo ha sottolineato. Ti commuove giustamente il monaco birmano, ma non il maestro messicano perché in Messico il presidente è sotto il cappello di Bush. Stesso discorso per il presidente colombiano Uribe che con la sua doppiezza diplomatica sta facendo correre a Ingrid Betancourt il serio rischio di non tornare a casa. Le strategie le detta Washington. E noi italiani sappiamo che per aver trattato in Iraq con i sequestratori senza l'assenso Usa ci ha rimesso la vita il povero Calipari e per poco pure Giuliana Sgrena.

Esistono anticorpi nel sistema culturale e politico americano?
L'antibushismo che sta montando nelle piazze e tra i cittadini negli Stati Uniti non ce lo raccontano. Qualcosa può succedere solo se Barack Obama vince le elezioni. Hillary Clinton è una vecchia trattativista e non cambierebbe molto. Anche se ho il dubbio che la maggioranza degli americani consideri Barack un presidente troppo poco esperto per dirigere gli Usa in un momento di recessione economica che si profila drammatico.

E in Italia da dove iniziare una nuova battaglia contro il conformismo imperante?
Rivedendo la legge sulla comunicazione. Ridimensionare il potere mediatico di Berlusconi, che gli ha permesso in quindici anni di inquinare il cervello degli italiani. Basta copiare una qualsiasi legge sull'emittenza di qualunque altro paese europeo. Diranno che è un atteggiamento "vetero", ma la gente ha subito un martellamento di modelli di società, imposti non nei tg, ma nelle trasmissioni di intrattenimento, le presunte trasmissioni innocue (quiz, varietà, certi sceneggiati). Da lì sono nati un cittadino incapace di negarsi alle prepotenze delle lobbies, delle caste, una società egoista e aggressiva, tendente all'inciucio, dove tutti hanno sempre qualcuno chi li aiuta a scavalcare le leggi. Questo è avvenuto, e la sinistra non ha saputo reagire.


24/04/2008

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