venerdì 1 agosto 2008

Edward Said

Giorgio Baratta
Dopo aver riletto (nell'accurata traduzione italiana) lo splendido "Labirinto delle incarnazioni dedicato alla filosofia del vissuto di Merleau-Ponty" - primo dei 46 saggi disposti in ordine cronologico (1967-1998) che compongono Nel segno dell'esilio ( Reflexions on Exile and Other Essays , trad

Giorgio Baratta
Dopo aver riletto (nell'accurata traduzione italiana) lo splendido "Labirinto delle incarnazioni dedicato alla filosofia del vissuto di Merleau-Ponty" - primo dei 46 saggi disposti in ordine cronologico (1967-1998) che compongono Nel segno dell'esilio ( Reflexions on Exile and Other Essays , trad. it. di M. Guareschi e F. Rahola, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 655, 45 euro), pubblicato dallo stesso Edward Said nel giugno 2000 - ho avuto la brillante idea di ripercorrere il testo dall'ultimo saggio (unico non datato) sino a tornare al primo. E' stata così appagata la mia ansia di attualità. Non consiglierei però ai lettori di seguire la medesima procedura, perché così si perde l'essenziale: e cioè il gramsciano "ritmo del pensiero in sviluppo", che costella passo per passo l'andamento di questo libro.
Ritmo di uno sviluppo: sono espressioni calzanti. Nel segno dell'esilio si presenta come una sinfonia, che potremmo immaginare articolata in quattro metaforici movimenti: allegro ma non troppo, andante con moto, scherzo, finale presto, associando ad ognuno dei movimenti una o più "figure" saidiane.
L'allegro ma non troppo copre i primi 14 saggi e si conclude con le "Esplosioni di significato" (1982) dedicato a John Berger, artista-scrittore caro a Said per la carica politica e libertaria che anima la «continua ricerca di verità accessibili alle arti visive». La questione irrisolta di Berger, fotografo non solo del presente ma «della memoria e del passato», e che riguarda anche Merleau-Ponty «visibilista» è: «che fare?», «che dire del futuro?», come passare «dall'estetica all'azione»? Il breve saggio su Berger è preceduto dal lungo e complesso "Opposizione, pubblico, referenti e comunità", uno dei gioielli del libro. Viene messo in rilievo un punto di approdo storicamente negativo, generatore di «un certo numero di imperativi epistemologici e ideologici», che Said chiama l'"Era di Ronald Reagan". L'analisi è impietosa nella denuncia della degenerazione dello spirito critico e secolare o mondano, fautore di "un umanesimo più universale" di quello realmente esistito, circoscritto all'Occidente. Bersaglio concreto di Said è il «comfort dell'atteggiamento specialistico» che si bea delle gabbie e «ghetti disciplinari in cui, come intellettuali, siamo stati confinati», e che cede «la rappresentazione oggettiva del mondo (da sempre un potere) a un ristretto novero di esperti e ai loro clienti». Tutti i processi sociali e culturali vengono subordinati a una logica di mercato mascherata di efficientismo, scientismo e progressismo, sostanzialmente antidemocratica. Said ci "rappresenta" plasticamente il controllo da parte di una «ristretta e potente oligarchia» di circa il 90 per cento della società dell'informazione e dei flussi di comunicazione a livello mondiale.
All'approdo drammatico cui abbiamo accennato corrisponde per contrasto la crescita potenziale degli elementi portanti di uno «spazio orizzontale e secolare» nel cui terreno l'attività rappresentativa e interpretativa non riconosce «nessun centro, nessuna inerzia, nessuna autorità scontata e accettata», nessun dogma, nessuna religione. Si afferma un "lavoro intellettuale secolare" che Said vede proposto nella misura più pregnante dalla coppia ideale Vico-Gramsci, e che riconosce come suoi maestri, in toni e limiti diversi, Kuhn, Foucault e Fish, ma anche i citati Merleau Ponty e Berger, e Lukács e Adorno, e in modo particolarissimo, andando a ritroso nel tempo, Conrad, presentato simpaticamente da Said, rispetto alla sua stessa esperienza di lettura e di studio, come un "cantus firmus" .
Entriamo nel movimento più lungo, che abbiamo chiamato andante con moto, e che si addentra particolarmente nei percorsi determinati dall'anima palestinese, araba, "orientale" di Said. Prende le mosse dai "Riti egizi" (1983), riferito all'apertura della nuova sezione egiziana del Metropolitan Museum. L'Egitto, scrive Said, che vi ha trascorso buona parte della sua giovinezza, gode ancor oggi (nell'epoca di Sadat che ha frustrato le novità contraddittorie ma "interessanti" di Nasser) di una «integrità millenaria», ove però «l'eredità araba del paese non si adatta al suo presente arabo». «Qual è il vero Egitto? Come possono i moderni egiziani svincolarsi da un sistema mondiale egemonizzato dall'Occidente senza precipitare in in un mondo fossilizzato di traffici aridi e annichilenti?». Il movimento si conclude con il racconto-gioiello "Omaggio a una danzatrice del ventre" (1990): cioè a una divina sovversiva contraddittoria artista del corpo, la sensuale egiziana Tahia Carioca - reincarnazione della figura della almeh (letteralmente, "la donna istruita") vagheggiata «da una schiera di viaggiatori europei come Henry Lane e Flaubert nei resoconti dei loro viaggi in Oriente» - incontrata al Cairo, sul finire del 1989, ormai settantacinquenne, da Said. Compare in questo arco il saggio bellissimo che dà il titolo all'edizione originale del libro, "Riflessioni sull'esilio": che è «qualcosa di singolarmente avvincente a pensarsi, ma di terribile a viversi … la tristezza di fondo che lo definisce è inaggirabile»; e tuttavia Said si sente fratello di Auerbach nel rievocare la «straordinaria bellezza» delle parole di Hugo di Saint-Victor, un monaco sassone del XII secolo: «Perfetto è solo colui al quale il mondo intero appare come una terra straniera».
"Lo scherzo" (1991-1995) si inaugura con una magistrale "Introduzione a Moby Dick" per una nuova edizione del romanzo curata da Said, e si snocciola in una forma-sonata ove si intrecciano (come del resto in tutto il libro) tra esposizione, sviluppo e ripresa - temi e percorsi più vari, dalla filosofia alla letteratura e l'estetica, dalla politica alla musica. Si conclude con un altro gioiello: "Storia, letteratura e geografia" che mette a confronto il senso del tempo di Lukács con il senso dello spazio di Gramsci. Le pagine 516-520 sono a mio avviso tra le più penetranti mai scritte sul filosofo sardo. Il punctum (nel senso di Barthes) è la straordinaria energia immaginativa con la quale Said si proietta sul vissuto carcerario di Gramsci - universale singolare, avrebbe detto Sartre - quale genealogia dell'opera. Credo che Said sia il primo (con un antecedente forse in Luporini) ad aver considerato il pensiero «radicalmente secolarizzato» di Gramsci quale «erede di una cospicua tradizione italiana di pessimismo materialista che va da Lucrezio a Vico a Leopardi».
Il finale è nel segno della musica. Dopo Il genio di Bach, l'eccentricità di Schumann, la crudeltà di Chopin, il talento di Rosen, leggiamo "Dal silenzio al suono e… ritorno" (1997), che è indirettamente un'esemplare, per alcuni aspetti secondo me definitiva risposta al celebre quesito di Gayatri Spivak ("Possono i subalterni parlare?"). Compare in questo saggio un personaggio forse inaspettato per chi è abituato a vedere in Said, oltre che un saggista impegnato, anche un musicista con gusti prevalentemente classici o tradizionali. Mi riferisco a John Cage, del quale Said ricorda il comune sodalizio newyorchese per un anno intero all'epoca del Sessantotto. Il richiamo a Spivak intende sottolineare indirettamente come in questo testo Said - che considera Wagner come un geniale maniaco del suono=vita, ossessionato dalla paura del silenzio=morte - giunga a proclamare il rispetto (se non la necessità) del silenzio, quando rappresenta l'unica forma di opposizione al «sequestro del linguaggio che è leitmotiv del nostro tempo».
Finito il libro, pardon la sinfonia, al silenzio subentra il brusio della memoria che ci riporta ad altri testi e ad altri motivi, in primo luogo a The World, the Text and the Critic , pubblicato anch'esso, nel 1983, dalla Harvard University Press (mai tradotto in italiano), e anch'esso espressione diretta di 12 anni di "lavoro di insegnamento e di studio". C'è una sovrapposizione perché Nel segno dell'esilio raccoglie saggi scritti dal 1967. «Gran parte del materiale qui raccolto - sottolinea Said - è in contrasto con la politica, e si colloca nell'ambito dell'estetica, sebbene le relazioni tra politica ed estetica, oltre che molto produttive, siano continuamente ricorrenti». Per venir compreso e ripercorso nelle correnti profonde che lo alimentano, il libro va letto insieme al più breve Umanesimo e critica democratica , pubblicato postumo nel 2004 dalla Columbia University Press, tradotto recentemente in Italia da Il Saggiatore.
Due libri di Said possono venir considerati come il suo opus magnum: Orientalismo (1978, trad. ital. 1991), la sua opera più famosa, alla cui rilettura è dedicato qui un saggio (del 1985), che prende posizione sulla grande costellazione di critiche che gli sono state rivolte con motivazioni, dice Said, prevalentemente politiche, sia nel senso dell'odio contro la Palestina, sia nel senso dell'avversione a ciò che Said chiama «politica del sapere», inteso come un «diffuso e generalizzato attraversamento di confini», che contraddice la cultura canonizzata e disciplinare (disciplinata) sostenuta dagli orientalisti. L'altro candidato, per così dire, a presentarsi come opus magnum di Said è Cultura e imperialismo (1993, trad. it. 1998): un libro sfortunato, curato benissimo dal compianto Stefano Chiarini (assieme a Patrizio Esposito), per le edizioni Gamberetti, da lui dirette. Sfortunato in senso letterale, per la scarsa… fortuna e attenzione che è stata riservata a quest'opera (tutta da studiare), che espone ed esprime a tutto tondo la necessità di una lettura contrappuntistica della storia e della (delle) civiltà.
Nel senso dell'esilio è a sua volta un opus magnum. Come il più breve, saporito piccante pamphlet sull' Umanesimo , questo libro è una lunga meditazione-conversazione civile nata interamente all'interno del lavoro di Said alla Columbia University. Il saggio in esso contenuto "Identità e libertà. Il sovrano e il viaggiatore" (1991), scritto da Said ospite dell'Università di Citta del Capo (in una Sud-Africa ancora afflitta dall'apartheid) è un inno alla libertà accademica e di pensiero, alla vena utopica nonostante tutto ancora possibile nel mondo universitario. Qui il leitmotiv, dominante in tutta l'opera di Said, il contrappunto e le sue variazioni, aderisce al vissuto del critico palestinese-americano: al suo zigzagare efficace rigoroso produttivo tra studio e vita, tra pensiero e azione, tra mondo e Palestina (la sua Palestina, per la quale, in punta di morte, egli si è drammaticamente chiesto se le avesse rivolto tutte le attenzioni possibili). Con la terminologia di uno degli ultimi saggi del libro, "Sulle cause perse" (1997), le sorti della sua patria (una delle sue tante patrie, la più tormentata) gli apparivano funeste. Ma il saggio si conclude con una domanda, che amiamo fare nostra, proponendoci di continuare con Said: "Davvero una causa persa è persa per sempre?"


Liberazione 24/07/2008

Nessun commento: