martedì 5 agosto 2008

Prc: svolta a sinistra o trasformismo?

Marco Ferrando*

Il settimo Congresso del Prc, nella sua dinamica e nel suo esito, non può davvero essere ridotto a fatto interno di partito. Esso è parte di un processo più generale di ricomposizione della sinistra italiana, e per questo richiama, anche per il Partito comunista dei lavoratori, la responsabilità di un giudizio politico impegnativo.

Ho e abbiamo un rispetto profondo per i militanti e gli iscritti di Rifondazione comunista, ove ho militato per quindici anni. E ho ragione di credere che questo rispetto sia ricambiato. Proprio per questo voglio onorarlo col dono della sincerità - com'è dovere dei comunisti - fuori da ogni ipocrita diplomatismo.
No, non ho visto nell'esito del settimo congresso quella svolta strategica "a sinistra" che tanti tendono in questi giorni, per interessi opposti, ad esaltare o demonizzare. Ho visto piuttosto un altro fenomeno, sicuramente anch'esso "di svolta", ma di altra natura: un ricambio traumatico degli assetti dirigenti, nel segno di una guerra spietata per la leadership e di uno spregiudicato trasformismo.
Il cuore del vecchio gruppo dirigente "bertinottiano" ha perso non un congresso, ma un partito: più precisamente il "suo" partito, quello che per lungo tempo è stato il partito del segretario, e dei gruppi dirigenti che egli ha raccolto e selezionato attorno a sé sulla base della fedeltà alla linea. Quel gruppo dirigente - è bene riconoscerlo - non è stato travolto da un complotto interno, ma, in ultima analisi, dall'onda d'urto della disfatta di quell'intero corso politico che ha trascinato Rifondazione nel governo del grande capitale, e che per questo l'ha compromessa, contro i lavoratori, nei sacrifici sociali e nelle missioni di guerra.
Ma proprio qui sta, a me pare, il primo paradosso del congresso. La nuova leadership non solo non è stata l'esito di una battaglia interna contro quella lunga politica di compromissione, ma si è improvvisamente incarnata nell'unico "ministro comunista" del governo confindustriale di Prodi: ossia in chi, fino all'ultimo e senza incertezze, ha direttamente cogestito per due anni le politiche della borghesia (col plauso postumo di D'Alema); ha pubblicamente difeso il proprio voto ministeriale a tutte le scelte di fondo del governo (decreto antirumeni incluso); ha avuto persino un ruolo diretto nella repressione di quelle minoranze interne del Prc che, in fasi diverse e con diverse coerenze, contrastavano o disturbavano il governismo del partito. Non è un po' singolare?
Osservo questo, sia ben chiaro, non per contestare il diritto alla conversione politica anche la più repentina, che è un diritto democratico di chiunque, persino di un ex ministro, persino se avviene dopo la caduta del governo e alla vigilia di un congresso. Ma perché questo interroga la credibilità politica della "svolta a sinistra" che il congresso ha annunciato, e quindi la stessa natura del nuovo Prc nella sinistra italiana.
Dov'è il segno della "svolta strategica", nelle stesse pieghe del documento congressuale conclusivo?
Nel testo approvato dalla nuova maggioranza non vi è un solo rigo - uno solo - sulle responsabilità del Prc negli anni di Prodi contro i lavoratori e i movimenti (neppure sulle missioni di guerra). Si dice semplicemente che «è superata la collaborazione organica col Pd nella fallimentare esperienza dell'Unione». Ma questa non è né un'autocritica, né una svolta: è la banale constatazione postuma di un decesso.Nel testo si legge che «è sbagliato» riproporre oggi il centrosinistra «quando il Pd ha una linea neocentrista» e «i rapporti di forza esistenti» sono sfavorevoli. Dunque se un domani il Prc si rafforzasse e il Pd "riaprisse" al Prc, si potrebbe ritornare al governo col Pd di Calearo e Colaninno? Emblematico è il passo sulle giunte locali. Dove non c'è alcuna rettifica di linea generale. Si dice semplicemente che «andranno verificate» sui contenuti. Ma è quello che si ripete ritualmente da tredici anni; è quello che ha ritualmente ribadito persino il recente congresso del Pdci (!); è la frase canonica con cui si rimuove la verifica impietosa dei fatti, quelli che vedono assessori di Prc e Pdci in tutta Italia coinvolti da anni in amministrazioni sempre più impresentabili (inclusa la provincia di Milano, la Toscana, la Liguria, come ieri l'Abruzzo…). In base ad una linea nazionale spregiudicata che ha sempre usato la partecipazione alle giunte come canale di rapporto col centrosinistra nazionale, o come leva negoziale di pressione per ricomporre il centrosinistra. Il fatto che il primo atto del nuovo segretario del Prc sia stato quello di rassicurare il Pd sulla continuità delle giunte chiarisce ogni dubbio al riguardo. E' questa la "svolta a sinistra"?
Peraltro da quando è nato, il Prc celebra in ogni congresso una "svolta a sinistra". Fu chiamata "svolta a sinistra" l'opposizione al governo Dini nel '95: ma servì a preparare contrattualmente il primo accordo di governo con Romano Prodi ('96). Quello del voto al pacchetto Treu e ai Cpt. Fu chiamata "svolta a sinistra" quella del '98, poi ricelebrata nel 2002, sullo sfondo della stagione dei movimenti: ma servì a ricostruire la massa critica negoziale per ricomporre il secondo governo Prodi (2006), con tanto di sottosegretari, ministri, presidenze. L'attuale "svolta a sinistra" del Prc si muove in un contesto politico certo più problematico e con un partito notevolmente più debole: ma la sua immutata ambizione è quella di favorire il ritorno, in prospettiva, nel grande gioco del governo.
Del resto, se il "comunismo" rimane - per citare Ferrero - un puro "universo simbolico"; se dunque, al di là delle parole, tutto si riduce all'esistente (cioè al capitalismo reale), per quale ragione di principio si dovrebbe rinunciare ad un assessore oggi e a un ministro domani? Se tutto si riduce all'esistente, il governo dell'esistente diventa il tutto: cioè la meta della politica. E l'opposizione, anche la più gridata, diventa ogni volta l'anticamera del governo o della sua ricerca. Questa è stata la storia della socialdemocrazia e dello stalinismo nella lunga pagina del Novecento. Quella Rifondazione che avrebbe dovuto ripudiarla, l'ha invece riproposta, seppur in miniatura.
E qui osservo un secondo paradosso del settimo congresso. Meno appariscente del primo, ma forse ancora più clamoroso. Quello che ha visto la confluenza attorno a Ferrero, in una comune maggioranza politica, di quei gruppi dirigenti del terzo e quarto documento che avevano formalmente evocato, anche contro Ferrero, la necessità di una autentica Rifondazione. E' troppo vedere anche qui il segno triste del trasformismo? Il terzo e quarto documento avevano denunciato pubblicamente per mesi la "falsa alternativa" tra Ferrero e Vendola. Avevano raccolto il voto di migliaia di militanti comunisti del Prc attorno al rifiuto del bipolarismo interno. Avevano raccolto più in generale, su basi politiche diverse, una domanda reale di svolta strategica, comunista e classista, del partito.
Ma tutto questo patrimonio di quadri e militanti è stato portato in dote alla nuova leadership in sole 48 ore. La "svolta operaia" di Falce e Martello si è improvvisamente inchinata alla continuità degli assessori. La celebrazione retorica della Rivoluzione d'Ottobre si è sposata con "la ricerca della non violenza". Il comunismo più ideologico o formalmente "rivoluzionario" ha scoperto "la Sinistra europea". Il tutto in cambio di qualche pallidissima concessione letteraria (e della pubblica promessa di nuovi ruoli di gestione).
Questa è la vera vittoria di Paolo Ferrero. E la misura, se posso complimentarmi, della sua indubbia capacità. Non quella di aver sconfitto Vendola, con cui ha condiviso il corso politico governativo. Non quella di aver conquistato la leadership di quel campo di rovine che lui stesso ha concorso a produrre. Ma quella di aver assimilato e arruolato le sinistre interne. Come aveva fatto Bertinotti, proprio con Paolo Ferrero e la sua area, nel '95. Come Bertinotti e Ferrero avevano fatto con l'area di Bandiera Rossa (futura Sinistra Critica) nel '98-2003. Ogni volta le cosiddette "svolte a sinistra" hanno assimilato le sinistre interne claudicanti e disponibili, sgombrando la via alle successive svolte governiste. La storia si ripete, come si vede, immemore delle lezioni. Lasciando ogni volta sulla strada, purtroppo, migliaia di compagni disorientati, delusi, traditi.
Il Partito comunista dei lavoratori è nato da una lunga battaglia politica e morale, controcorrente, contro il trasformismo della sinistra italiana. Anche di quello che ha attraversato il Prc. Il bilancio del settimo congresso di Rifondazione ci consolida nelle nostre ragioni e nelle nostre scelte.
Naturalmente ci rapporteremo con attenzione al nuovo Prc di Paolo Ferrero. Ricercheremo ovunque possibile la più ampia unità d'azione nella lotta contro il padronato e Berlusconi: a partire da quella grande manifestazione unitaria d'autunno che proponiamo per l'11 Ottobre e che sarebbe ora di iniziare a preparare. Saremo disponibili a costruire col Prc e con tutti i suoi compagni e compagne, esperienze comuni di confronto e di iniziativa nelle quotidiane battaglie di classe, ambientaliste, antimperialiste, femministe. E speriamo anche, finalmente, anticlericali.
Ma lo faremo orgogliosi della nostra costruzione indipendente e della nostra identità: quella dell'unico partito della sinistra italiana che non si è inginocchiato di fronte alla borghesia; che non si è compromesso, né in tutto, né "criticamente", nella disfatta di questi anni; che ha fatto e fa dell'indipendenza di classe del movimento operaio, e quindi della rottura col Pd confindustriale (ieri, oggi e domani), l'asse strategico della propria proposta politica nella prospettiva di un'alternativa anticapitalista. L'unico partito, insomma, che considera il comunismo non un simbolo da riverire, ma un programma da realizzare: quello della rivoluzione sociale e del governo dei lavoratori.
*Portavoce nazionale del Pcl

Liberazione 05/08/2008

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