venerdì 1 agosto 2008

CGIL

Passo doppio per la Cgil
Radiografia del più grande sindacato italiano. Tra vertici che si compattano e una base scossa dalla crisi di una rappresentanza messa sotto attacco
Loris Campetti

Che scandalo: in Italia ci sono 700 mila delegati, Rsu per chiamarli con il loro vero nome. Recenti inchieste sul sindacato che mirano a dimostrarne la natura di casta - pezzo di ceto politico, assistito, parassitario - denunciano questo presunto scandalo. E inoltre, continuano le intemerate a cui ben si associano i feroci ministri del governo Berlusconi, questi 700 mila «privilegiati» hanno diritto a un certo numero di ore di permesso per svolgere il loro lavoro sindacale. Come gli Rls, i rappresentanti per la sicurezza sul lavoro che con la scusa di garantire il rispetto di normative considerate troppo penalizzanti dagli imprenditori, riducono la loro prestazione e mettono lacci e lacciuoli al flusso produttivo. Per non parlare dei distacchi, garantiti sia dalle imprese private che dai settori pubblici (sui quali, però, un qualche approfondimento sarebbe meritorio). Ebbene, la nostra inchiesta sulla Cgil va nella direzione opposta: i delegati sono il principale, talvolta unico, rapporto tra l'organizzazione sindacale, la confederazione, la categoria e i lavoratori. Insomma, l'ultimo legame tra rappresentanti e rappresentati. Semmai si potrebbe riflettere sui 14 mila funzionari sindacali e sulla qualità del lavoro svolto in rapporto con i lavoratori e la materialità della loro condizione. Potremmo dire che le Rsu, con tutti i limiti di cui ci occuperemo, sono una delle poche resistenze allo snaturamento della rappresentanza sociale del lavoro, se non proprio nella direzione della casta, certamente in quella cara alla Cisl del sindacato dei servizi. Un sindacato, cioè, che non costruisce vertenze e conflitti dal basso, che non trova il suo sostentamento e la sua legittimazione nel rapporto con i lavoratori (garantito economicamente dall'automatismo del rinnovo delle tessere), ma piuttosto con le controparti, con la politica, i governi, le amministrazioni locali. I servizi svolti sono spesso sostitutivi del welfare pubblico e rischiano di trasformare il sindacato in un pezzo dello stato, pagato per questo scopo e così percepito. Più patronato, Caf, assistenza, enti bilaterali e minor conoscenza e rapporto con la condizione di lavoro.
Autonomia limitata
Fatta questa premessa - dovuta nel clima di restaurazione imperante - ne è necessaria una seconda: il passaggio dalla centralità della solidarietà al dominio della competitività mina i valori fondativi del movimento operaio, sempre in un cocktail di antico sfruttamento e antisindacalità e moderno assetto dei poteri; si snatura il conflitto di classe attraverso la produzione di nuovi conflitti, non più tra capitale e lavoro ma tra stati, aziende, stabilimenti, tra gli stessi lavoratori. In questo contesto e di conseguenza, procede a livello mondiale l'indebolimento del ruolo sindacale che si rapporta alla frantumazione del lavoro luogo per luogo, paese per paese e senza un progetto alternativo alla globalizzazione data. In Italia, come in Germania, tentennano i contratti collettivi di lavoro e l'obiettivo del salario minimo si fa strada nel dibattito tra le residue forze di sinistra e all'interno degli stessi sindacati, come risposta alla spinta verso l'individualizzazione dei rapporti di lavoro. Se la prospettiva è il «contratto su misura», la prima conseguenza è che ogni lavoratore si troverebbe solo davanti al potere del padrone, pubblico o privato che sia. E' quel che in molti casi sta già avvenendo. Per questo diventa fondamentale la rottura di quella rete diffusa di democrazia che è costituita dai rappresentanti sindacali nei luoghi di lavoro.
Come si attrezza la Cgil in questo nuovo, pericoloso scenario? Partiamo dal vertice, dunque dal centro nazionale di corso d'Italia, per arrivare alle Camere del lavoro e alle Rsu, passando attraverso le categorie. Il punto di riflessione più diffuso al vertice come alla base è che in presenza di un mutato scenario anche la politica sindacale deve cambiare. Il congresso di Rimini del 2006 non ha messo al centro i nodi strategici della fase che interrogano sulla natura stessa del sindacato, al contrario ha investito tutte le sue azioni sul governo Prodi («Il mio programma è il vostro programma», e viceversa). Con la conseguente perdita di autonomia della Cgil, ribadita nella campagna elettorale di quest'anno, sempre più spesso identificata dai lavoratori con quel ceto politico di centrosinistra che ha deluso ogni aspettativa, abbandonando il mondo del lavoro ai venti liberisti. E' quel che sostiene chi non ha condiviso questa scelta, dalla Fiom alle aree programmatiche Lavoro e società e Rete 28 aprile. Anche chi, come il segretario della Funzione pubblica Carlo Podda, pur negando che la Cgil abbia «perso le elezioni» ammette l'errore congressuale - «un abbaglio collettivo» - giunge con toni e motivazioni diverse alla stessa conclusione del segretario Fiom Gianni Rinaldini e di Nicola Nicolosi (Lavoro e società) e Giorgio Cremaschi (Rete 28 aprile): il governo Prodi ha finito la sua corsa e oggi al governo è tornato Berlusconi con Tremonti, Sacconi e Brunetta. La Cgil deve prendere atto del cambiamento e ripensarsi in grande, e in autonomia.
Come si ripensa la Cgil, come affronta il nodo dell'autonomia? A che punto sono democrazia interna e partecipazione, cioè il rapporto con la propria base sociale? Si ripensa nel modo peggiore secondo molti, collocati alla sinistra come alla destra (è il caso della segretaria dei tessili Valeria Fedeli) del segretario generale Guglielmo Epifani, a cui non risparmiano critiche per il metodo scelto per rinnovare la segreteria confederale - una rottura della tradizione, un vulnus, nella direzione della democrazia maggioritaria in base alla quale chi ha il 51% dei consensi comanda tutto e forma i gruppi dirigenti a sua immagine e somiglianza. Nessuna rappresentanza alle minoranze e neppure alle diverse articolazioni della maggioranza, chi ieri non condivideva il protocollo sul welfare e oggi quello sulla riforma del sistema contrattuale non ha voce, mentre all'interno dell'unico partito «di riferimento» - il liquido Pd - rafforzano la loro influenza i dirigenti di tradizione socialista, così almeno denuncia chi dai tempi del Pci è stato sempre fedele alla linea senza mai recidere il cordone ombelicale e oggi si sente emarginato. Si costringe la vecchia segreteria a rassegnare le proprie dimissioni a costo di trovarsi contro mezzo direttivo nazionale, poi si scelgono i nuovi segretari uno a uno, in base al principio della massima fedeltà al capo che giunge a scegliere come rappresentante di Lavoro e società una segretaria che non rappresenta più quell'area. Anche chi ha sempre praticato una certa autonomia - come il segretario della Flc Enrico Panini - viene scelto per la segreteria confederale come individuo e non come rappresentante di una cultura interna all'organizzazione. Non è escluso che da lui possa arrivare qualche sorpresa a chi paventa il monocolore di Epifani. Forse il segretario generale temeva un'ipotetica alleanza tra un'area già di sinistra come quella guidata da Paolo Nerozzi e finita con lui nel calderone veltroniano e una di destra come quella guidata da Passoni, ben più organicamente interna al Pd. Fatto sta che entrambi le ali sono state tagliate e sia Podda che Fedeli sono fuori dalla segreteria. Ciò fa dire alla destra che si è rotta una tradizione pluralista che aveva sempre visto, dopo lo scioglimento delle componenti di partito deciso da Trentin, il segretario generale affiancato da rappresentanti delle varie culture interne. Oggi siamo alla «segreteria del segretario». Dal lato opposto, il bresciano emarginato ante litteram dal nuovo corso, Dino Greco, denuncia la centralizzazione, il leaderismo e l'autoreferenzialità, l'esclusione del dissenso dentro una pratica di «ossequiente ossessione all'accomodamento alla volontà del capo». Siamo alla democrazia plebiscitaria?
Movimenti al vertice
Ma le destre non mancano in Cgil, cosicché non restava che l'imbarazzo della scelta. Dentro Agostino Megale, proveniente dall'Ires-Cgil in via di fusione con la Di Vittorio, dentro il segretario dei trasporti Fabrizio Solari. La scelta più netta compiuta da Epifani riguarda il delfino, anzi la delfina (socialista) Susanna Camusso, portata a Roma dalla Lombardia per prendere la guida dell'organizzazione quando, forse già tra un anno in occasione delle elezioni europee, il primo segretario generale di marca socialista lascerà il sindacato. Scelta mal digerita da molte anime, dalla Fiom che in passato ha avuto modo di conoscere la Camusso, fino alle principali categorie dell'industria e dei servizi. Solo i potenti pensionati dello Spi, oggi diretti da Carla Cantone, non hanno mai alcuna critica da avanzare al segretario, qualunque esso sia. Epifani è andato avanti senza ripensamenti, fino ad assegnare alla delfina la responsabilità dell'industria che in Cgil vuol ancora dire qualcosa. Nella segreteria non sono rappresentate né la Fiom né la Funzione pubblica.
Le scelte del gruppo dirigente procedono di pari passo con la formazione della volontà politica. La lente attraverso cui vengono selezionati gli orientamenti è l'unità con Cisl e Uil. Sognando un Pd vincente si era andati oltre l'unità strategica: il fantasma del sindacato unico si agitava sui cieli sopra corso d'Italia. Infranto il sogno del partitone, resta l'obiettivo se non dell'unificazione, dell'unità a ogni costo con Cisl e Uil, accompagnato da un tentativo di normalizzazione moderata delle Camere del lavoro e delle categorie. Ciò comporta una modifica delle scelte politiche della Cgil e una riduzione del tasso di democrazia interna e nel rapporto con i lavoratori.
Il nodo contratti
Prendiamo il caso del protocollo confederale sulla riforma del sistema contrattuale con cui Cgil, Cisl e Uil si sono presentate al confronto con Confindustria. Il documento è stato redatto da Epifani, Bonanni e Angeletti, quindi presentato agli organismi dirigenti: prendere o lasciare, con una sorta di voto di fiducia sul segretario. Una volta approvato dal direttivo, il documento è legge nell'organizzazione in cui vige un ferreo centralismo democratico, con la differenza che ai tempine della Terza internazionale tale regola non era che il punto di arrivo di un percorso che coinvolgeva l'intera rete degli iscritti, dei dirigenti locali e delle categorie. Ora non resta che l'ordine finale a cui tutti devono adeguarsi. E del referendum sull'eventuale accordo che modificasse il sistema contrattuale, sterilizzando il contratto nazionale e vincolando gli aumenti salariali di secondo livello alla dilatazione dell'orario di lavoro e agli utili d'impresa, neanche si parla. Un vulnus, la messa in mora della partecipazione dei lavoratori nella formazione delle scelte strategiche, come ci raccontano i metalmeccanici torinesi. E dire che il protocollo sul welfare aveva lanciato segnali chiari di critica e di rabbia, ma i fischi di Mirafiori sono stati rapidamente archiviati, come la promessa dei tre segretari generali di tornare presto nella fabbrica più difficile. Poi ci si interroga sul «riflusso» dei lavoratori, sul loro allontanamento dal sindacato, sui voti che se ne vanno a destra.
C'è chi la racconta così: «all'evanescenza della rappresentanza politica si sta affiancando l'evanescenza della rappresentanza sociale». La motivazione che spinge Epifani a rinsaldare il rapporto con Cisl e Uil è ragionevole e per molti aspetti condivisibile: siamo sotto l'attacco più sfrontato ai diritti dei lavoratori e ai sindacati, da cui ci si può difendere solo con l'unità. Effettivamente l'attacco è inedito ed è condotto contemporaneamente dal governo e dai padroni (anche, va detto, gli strali di Epifani si sono concentrati solo sul governo, e questo è stato notato nell'organizzazione, al di là delle rituali alzate di mano nelle votazioni degli organismi dirigenti). Persino l'articolo 18 torna a sollecitare molti palati, in modo trasversale nei banchi di Montecitorio. Sotto botta sono finite le poche norme non regressive varate da Prodi e quelle regressive vengono ulteriormente peggiorate. Il lavoro straordinario costa il 20-30% in meno del lavoro ordinario, si ripristina il job on call, si mette sotto accusa la nuova normativa per la sicurezza del lavoro. Al punto che la legge 30, contro cui la Cgil aveva mobilitato da sola milioni di lavoratori, appare rose e fiori. Dall'altro lato, la Confindustria vuole stravincere sui contratti, sulla flessibilità, sulla messa in mora del primo livello e, nel secondo livello, vuole cancellare la trattativa con le Rsu. Unità, dunque. Peccato che Cisl e Uil, cofirmatarie della legge 30, siano molto più possibiliste verso le politiche econonomiche e sociali del governo e con l'idea padronale di controriforma contrattuale.

Il Manifesto 23 Luglio 2008
(1-continua)

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