venerdì 24 ottobre 2008

Le banche a Berlusconi: non ricapitalizziamo

Gli istituti hanno paura di rivelare l'entità della crisi. Le borse li puniscono

Salvatore Cannavò
Le banche italiane respingono gli inviti di Berlusconi e dicono no agli aumenti di capitale: «Credo che due o tre banche dovrebbero adottare l'esempio di Unicredit e mettere mano alla propria capitalizzazione » aveva detto il presidente del Consiglio parlando all'Unione industriali di Napoli. Ieri a rispondergli è stato l'amministratore delegato dell'altra grande banca italiana osservata attentamente da analisti e risparmiatori, Corrado Passera di BancaIntesa: «Pensiamo di avere una struttura patrimoniale adeguata e il piano di impresa che stiamo realizzando la rafforzerà ulteriormente» ha detto l'artefice del piano di svendita dell'Alitalia mentre il presidente di Ubi Banca, Emilio Zanetti, ricordava che la sua banca è «tra le più capitalizzate d'Italia». Anche il presidente della Banca popolare di Milano ha parlato di conti «a postissimo» mentre Luigi Abete, presidente Bnl ostentava sicurezza: «La notte dormo tranquillo, e a maggior ragione adesso».
Ma la Borsa ieri ha continuato a punire impietosamente i titoli bancari - Unicredit a -7,3, BancaIntesa a -3,5, etc. - che hanno contribuito a trascinare al ribasso gli interi listini azionari. Milano ha perso il 3,47, Londra il 4,47 e così Francoforte, mentre Parigi ha superato il -5% e Madrid ha pagato duramente la decisione argentina di nazionalizzare i fondi pensioni lasciando sul terreno oltre l'8%. Un altro massacro, insomma.
Come si spiega? Colpa della recessione globale, dicono gli analisti, che viene scontata dal mercato: basti pensare alla discesa di tutti i titoli, a partire da quelli industriali (vedi il continuo scivolone della Fiat o la misera quotazione di Telecom Italia). E non c'è dubbio che la recessione è in arrivo, forse è già arrivata come dimostra in particolare la frenata, relativa ma evidente, delle economie asiatiche.
In Giappone la Borsa va a picco e la crisi si trasferisce già da tempo sul piano politico. Altre economie emergenti continuano a crescere ma con forti riduzioni rispetto agli ultimi due anni, si pensi al Brasile o alla stessa India. E per quanto riguarda l'economia regionale ormai più rilevante, quella cinese, va detto che sia pure in una prospettiva di crescita dell'8-9% la frenata rispetto agli scorsi anni è di circa 2-3 punti percentuali.
Segno della recessione che avanza è del resto anche la quotazione del petrolio, sceso sotto i 70 dollari al barile - ma la diminuzione consistente non si riflette ancora nel prezzo alla pompa: avete visto quanto cosa la benzina al distributore? Quindi, i dati confermano questa tesi e, anzi, ci sentiamo di dire che il peggio deve ancora venire, perché la bolla non si riflette sull'economia reale solo per effetto indotto ma anche perché i profitti delle grandi imprese internazionali sono stati condizionati pesantemente dall'esposizione finanziaria e quindi la commistione è più rilevante di quanto si creda (quando i bilanci segneranno il rosso i licenziamenti si faranno più dolorosi).
Ma c'è di più, e quel di più riguarda proprio le banche. Se esiste una penalizzazione per alcune di esse, si pensi a Unicredit, non è solo per un'azione speculativa - che pure esiste e spesso è alimentata da settori interni allo stesso mondo bancario - ma anche perché la reale consistenza della crisi non è mai stata denunciata e confessata apertamente. I banchieri fanno la voce grossa rispetto al governo perché ne temono l'influenza al proprio interno e si cautelano da possibili azioni di disturbo e di rimaneggiamento dei propri vertici. Ma in realtà nessuno sa veramente quanti siano i cosiddetti titoli tossici contenuti nei loro forzieri. Anche il governatore Draghi, nella sua audizione al Senato, si è mantenuto sulle generiche, quando invece il problema concreto è proprio quello. Guardiamo, ad esempio, alcuni dati pubblicati domenica da Il Sole 24 Ore e riguardanti il rapporto tra titoli "tossici" e capitalizzazione (cioè il valore complessivo quotato in borsa) dei primi venti istituti finanziari mondiali. Deutsche Bank, ad esempio, ha una capitalizzazione di 26 miliardi e un totale di titoli "illiquidi" (cioè che nessuno è disposto a comprare) pari a 115,6 miliardi; Ubs poggia 63,9 miliardi di "spazzatura" su una capitalizzazione di 51 miliardi e Credit Suisse 100,7 su 45. Chi sta messa meglio è Bank of America che ha "solo" un terzo della sua capitalizzazione esposta in titoli inconsistenti. I dati delle banche italiane non sono disponibili e quindi nessuno si fida veramente. Lo stesso governo italiano, tra l'altro, non ha mai voluto quantificare il grado di copertura pubblica che intende garantire.
La caduta è dunque logica anche perché nel corso degli ultimi dieci anni i profitti delle banche italiane sono cresciuti in misura esponenziale: calcolato dal 1996 a giugno 2008 il rendimento medio annuo delle banche italiane è ancora del 12% contro l'11% dei titoli industriali e solo il 6,5% di quelli assicurativi. C'è ancora spazio dunque per ribassi. Anche perché, scendendo le quotazioni i dirigenti aziendali sono sempre più deboli ed esposti a quei rimaneggiamenti di cui sopra. L'unica via di uscita sarebbe quella delle fusioni e delle alleanze, magari internazionali e non è da escludere che qualche sorpresa possa arrivare a breve. Anche se recentemente un dirigente di un'importante banca italiana commentava ridendo: «Noi ci vorremmo fondere, ma in queste condizioni chi ci si piglia?».

Liberazione 23/10/2008

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