domenica 21 settembre 2008

Inchiesta della Fiom

"La voce di 100mila lavoratrici e lavoratori", l'inchiesta della Fiom sulle condizioni del lavoro

Fabio Sebastiani
L'inchiesta della Fiom è il frutto di un lavoro organizzato ma anche una enorme risposta di massa, con quattrocentomila questionari distribuiti e centomila tornati indietro compilati. Se la stessa operazione fosse stata fatta da istituti di ricerca o società demoscopiche più blasonate sarebbe stata al centro di commenti e riprese giornalistiche a non finire. Ma quello che abbiamo in Italia è un sistema informativo che censura la realtà. La nostra è una inchiesta importante e adeguata nei numeri. Eppure, l'eco è stata scarsa. Voglio ricordare che i questionari con circa cento domande non erano proprio una passeggiata per chi li ha compilati, nella stragrande maggioranza dei casi operai tra il terzo e il quinto livello che hanno poco tempo a disposizione. Per rispondere a tutte hanno avuto bisogno almeno di un'ora-un'ora e mezza, tanto che se lo sono dovuto portare a casa. La prima risposta, se così possiamo dire, è stata quindi in termini di bisogno di partecipazione e offerta di disponibilità. Un bisogno evidentemente di questi tempi non coperto da una offerta altrettanto adeguata.

Che cosa emerge con più nettezza dall'inchiesta?
Oltre alla conferma più scontata, come quella sui bassi salari, emerge con forza il definitivo seppellimento del concetto del post-fordismo. In genere i termini con il suffisso "post" risultano ambigui. In questo caso quello che si può dire con estrema sicurezza, però, è che siamo entrati in un nuovo sistema di sfruttamento che in molti punti non recide certo i legami con il sistema tayloristico del passato. Ad intensità e durata aggiunge la richiesta di un ulteriore livello di dedizione e di disponibilità mentale da parte dei lavoratori. Non hanno rinunciato a prendere il corpo e aggiungono la richiesta dell'anima. Ciò, in fondo, rispecchia il passaggio che stiamo vivendo: dall'idea della concertazione, ovvero del lavoro contratto entro certe compatibilità, alla complicità, così come si desume dal Libro Verde del Governo. Il lavoratore deve essere efficiente e complice con l'impresa. Ed identificarsi totalmente con essa. C'è un enorme potenziale autoritario perché c'è la carota da una parte e il bastone per chi non è complice. Dall'inchiesta vengono fuori alte percentuali di lavoratori che denunciano sopraffazioni e autoritarismo. Stupisce il fatto che in qualche caso c'è addirittura violenza fisica. Colpisce il fatto che la grande maggioranza delle tute blu indicano chiaramente come improponibile continuare a svolgere la stessa mansione fino ai sessanta anni. Anche i giovani e diverse fasce di impiegati non hanno problemi a parlare di taylorismo. E pèoi le denunce sui livelli di nocività. Insomma, una condizione di lavoro in cui sfruttamento antico e post-moderno si sommano.

Che scenario stanno disegnando con la complicità?
La complicità è la collaborazione aziendale nell'epoca in cui si punta dritto alla distruzione del contratto nazionale di lavoro. In pratica, c'è il ritorno al cottimo, alla paga che non è certa. E se lavori meno sono guai. Si punta a una nuolva fedeltà del mondo del lavoro e a una modifica strutturale del sindacato. Le compatibilità non vengono definite a livello di sistema ma azienda per azienda. Il progetto, il loro sogno, è quello di avere la totale individualizzazione del contratto di lavoro.

Starei attento a chiamarlo progetto. Non ha dignità di nulla una cosa così.
E' vero. C'è solo l'ideologia del salario legato alla produttività. Dal punto di vista organizzativo è, peraltro, una stupidaggine bella e buona. La stessa inchiesta dice che non ci sono i margini. Quell'idea può andare bene per qualche ganglio arretrato della pubblica amministrazione, che non ha niente a che vedere con tutto il resto della realtà produttiva. Questa in realtà ha basi standardizzate, e c'è un livello di produttività che non è misurabile individualmente. Quindi legare il salario alla produttività è un ritorno al passato. Segno evidente di una incapacità delle imprese ad affrontare senza la realtà della globalizzazione senza ricorrere a regressioni autoritarie.

Come si può definire un quadro di questo genere?
L'unica parola che mi viene in mente è "fascismo", nel senso storico. Le classi dominanti di fronte al nodo dell'innovazione non elaborano alcun avanzamento sociale. Anzi, l'opposto. Per affrontare questa fase occorrerebbero nuove forme di partecipazione. Un sistema progressivo che affronti la fase nuova. Il salario sta alla produttività come la precarietà sta al mercato del lavoro. Puri strumenti di potere che permettono di controllare e ridurre la libertà dei lavoratori.

Questo che riflessi ha sul sindacato?
C'è una crisi totale della Cgil perché ha sempre pensato di conciliare compatibilità e contrattazione collettiva, sistema dei diritti. Questa strategia non è riuscita. Oggi però il bivio è secco: o il sindacato dei servizi e del mercato del lavoro che pretende di fare la Cisl - modello che contempla un preciso e ordinato scambio con le aziende sulla base della complicità - oppure un sindacato che ricostruisce una logica conflittuale e di classe. E quindi si pone l'obiettivo di forzare. La Cgil rischia la crisi più drammatica della sua storia, perfino la sua stessa esistenza.

Cambiamo argomento. O meglio, approfondiamo questa questione della crisi della Cgil, se vuoi per altri percorsi. Come viene inquadrato nell'inchiesta il tema della rappresentanza?
L'inchiesta è stata condotta in luoghi di lavoro sindacalizzati. La metà delle risposte viene dagli iscritti al sindacato. In quelle aziende il sindacato c'è. Siamo nella parte più organizzata del mondo del lavoro. E' la parte del lavoro che sta meglio. Immaginiamoci allora quelli che stanno peggio. Nel questionario non ci sono domande sul sindacato e la politica. Il quadro che emerge è l'idea del pessimismo che, certo, indirettamente si può trasferire al sindacato. Proprio per questo penso che la discussione politica nel sindacato ha un motivo in più per prendere in considerazione i risultati dell'inchiesta. Ci si dovrebbe chiedere cosa fa il sindacato. Perché comunque dall'inchiesta arriva una domanda altissima di sindacato. E' chiaro però che per affrontare questi temi servirebbe una seconda inchiesta.

E nella Fiom che dibattito ha provocato?
Per la Fiom l'uso di questi dati va in due direzioni. La prima, la battaglia più generale per il contratto nazionale; la seconda verso l'articolazione del conflitto nelle vertenze aziendali e il ripensamento della rappresentanza, che tende ad essere una rappresentanza, nelle medie e nelle grandi aziende, slegata dalla condizione di lavoro. Qui si vede il vuoto lasciato dal superamento dei delegati di reparto e il superamento dei consigli.

Avete indagato anche sui migranti. Cosa emerge?
Sui migranti, comunque, l'inchiesta indica elementi che riguardano direttamente il sindacato. Siamo di fronte al fatto che c'è marginalità. Il peso che hanno nella vita del sindacato è infimo rispetto al loro peso reale. Se c'è una realtà che dimostra che la formazione non conta è proprio la condizione dei migranti. Gran parte di loro hanno un alto livello di istruzione, eppure stanno dal terzo livello in giù.


Liberazione 21/09/2008

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