mercoledì 3 settembre 2008

Qatar, ecco gli schiavi del ventunesimo secolo

Nello Stato che ha il reddito pro capite più alto al mondo i lavoratori stranieri sono prigionieri
Qatar, ecco gli schiavi del ventunesimo secolo
Quando gli immigrati diventano ostaggi

DAL NOSTRO INVIATO
DOHA — Vanno cercati in una periferia vuota e affogata nella sabbia petrolifera, dietro uno stadio in disuso dopo i Giochi asiatici di due anni fa. A mezzo chilometro da lì ci siamo quasi, perché due ragazzi stanno riempiendo certe minuscole taniche all'unica fonte d'acqua potabile della zona. Uno ha una faccia mongola da bambino; l'altro, più adulto, si guarda intorno al modo tagliente degli indù. Sono i nepalesi della strada 156, Doha, Qatar, colosso globale degli idrocarburi nello spazio di una provincia d'Italia. Di giorno questo è uno dei tanti cantieri della città, 240 ville, due piscine, un progetto quasi tutto da realizzare: mancano le fogne e le finestre, calce e detriti ovunque, fili elettrici che pendono allo scoperto. Ma dopo il lavoro, qui vivono i cinquecento manovali nepalesi della ditta quataro-egiziana Al Atar Trading & Contracting Company.

È per gente così che il primo ministro del Qatar, sceicco Hamad bin Jassim bin Jabr Al Thani, parla di «schiavismo del ventunesimo secolo». Non l'ha detto in pubblico, sono vari diplomatici che lo riportano ed è persino ovvio. Lo sceicco vuol dire che si può, perché lo permette la legge sulle «sponsorizzazioni»: in Qatar, come in tutti i Paesi arabi del Golfo dall'Arabia Saudita al Kuwait (a parziale eccezione del Bahrein) senza il permesso del datore di lavoro non si guida l'auto, non ci si licenzia, soprattutto non si esce più dal Paese. Un immigrato, è un ostaggio. E il cantiere-dormitorio dietro il Garafa Stadion è il risultato della legge. Qui un'unica doccia comune sporge per strada, una latrina basta per cento, si dorme fino a sedici uno sull'altro in stanze di nove metri quadri, senza finestre. La via principale è presidiata da una gora stagnante, di un blu indefinibile per un qualche prodotto pudicamente versato a smorzare l'aria infetta. Alle sei di sera fanno ancora 45 gradi, umidità all'80%. A gente normale dopo dieci minuti si gonfiano le vene negli occhi, la vista trema. Ma qui un uomo in piedi in un vicolo si insapona il capo con pazienza e poi ci versa su mezza bottiglia, dietro l'angolo una folla si accalca intorno a un gioco da tavolo. Pochi hanno le scarpe. «Le abbiamo chieste all'impresa — spiega Nirmel, 25 anni —. Ci è stato detto di farcele dare dalla nostra ambasciata». I pasti sono due porzioni di riso al giorno, i turni 55 ore alla settimana, il mensile 550 riyal (102 euro) a far media, sul milione e mezzo di abitanti del Qatar, per circa 65 mila euro l'anno l'uno: grazie a entrate record da gas e petrolio per 70 miliardi di dollari, da quest'anno sarà il reddito medio per abitante più alto al mondo. Concentrato però fra i meno di 250 mila cittadini del Qatar, eredi di poche decine di famiglie nomadi della penisola araba sotto il regno feudale degli Al Thani, ai quali Londra consegnò le chiavi del protettorato nel 1971. Resta fuori il milione e passa di stranieri: oltre 400 mila indiani, 250 mila nepalesi, 150 mila filippini, 70 mila pachistani, poi Bangladesh, Indonesia, Sri Lanka, Vietnam, Sudan, Etiopia, Thailandia, Libano, Egitto, Siria, Giordania, Iran, Iraq. Dato che i locali qui come quasi ovunque nel Golfo sono minoranza in casa loro, i numeri esatti restano un segreto di Stato. Con una scusa o spesso con la forza, gli immigrati in arrivo vengono ammassati in fondo agli aerei, poi tenuti fuori dai suk o dalle gallerie commerciali, di fatto confinati nei campi. Non tutti sono immondi come la strada 156, ma molti sì e qualcuno peggio. Eppure a Doha nessuno può più far sparire le moltitudini che alzano le nuove piramidi, il miraggio di centinaia di grattacieli immaginifici ma, per ora, spesso vuoti o monchi sul deserto di idrocarburi. La richiesta di un aumento da parte dei 500 nepalesi della Al Atar, mesi fa, si è chiusa con sei uomini spariti nel Centro deportazioni di Doha: una fortezza adagiata vicino al mare, centinaia di metri di lato, civettuola con le merlature di tipo medievale e mosaici a richiamare la bandiera del Qatar. Da lì non esce una sola voce, ma intanto il problema si è complicato. Gokarn, 23 anni, calcola che con il riyal agganciato al dollaro così come tutte le monete del Golfo (salvo quella del Kuwait), la svalutazione del biglietto verde sulla rupia nepalese riduce i risparmi che lui manda a casa. «Quando sono arrivato un ryal valeva 19 rupie — dice — ora 17». Lo sceicco-premier Al Thani stima che il riyal sia sottovalutato del 30%, ma il segretario al Tesoro americano Henry Paulson a maggio è venuto qui per raccomandare a Doha, Riad, Abu Dhabi e agli altri di restare fissi sul dollaro: una rivalutazione ora, benché naturale, farebbe esplodere la bolletta petrolifera Usa, affonderebbe il biglietto verde.

E fra Paulson e un popolo di ostaggi, l'esito era scontato. Le basi in Arabia Saudita e quella della Us Air Force a Usaid in Qatar, rampa di lancio sull'Afghanistan, l'Iraq e forse domani l'Iran, pesano fin qui più delle proteste di Gokarn e milioni come lui. Non che la partita sia da poco. Nel Golfo solo gli indiani sono cinque milioni e hanno visto i loro risparmi scemare fino al 20% circa con la svalutazione. Le rimesse degli immigrati verso India, Filippine e Pakistan valgono da sole più di tutto l'aiuto allo sviluppo dell'Occidente. A Doha o a Dubai, muratori o camerieri conoscono il tasso di cambio al secondo decimale, sanno che il riso è aumentato del 30% in sei mesi. E lo fanno capire: a marzo centinaia di immigrati hanno appiccato il fuoco a auto e case a Sharja, uno dei sette Emirati arabi uniti. A giugno i tassisti pachistani di Dubai sono stati deportati a decine per uno sciopero, scatenando le proteste di Islamabad. A febbraio un gruppo di muratori indiani aveva subito la stessa sorte. Non sono abusi. Gokarn da mesi chiede di rimpatriare ma sarebbe illegale, senza il nulla osta del padrone. Nel 2007 un tassista pachistano a Dubai si è dato fuoco davanti all'ufficio che non lo autorizzava a rientrare per il funerale della madre. E quando gli Emirati arabi hanno lanciato una «sanatoria», mesi fa, ottocentomila indiani sono fuggiti in pochi giorni. Perché con gli ostaggi la paga si può tagliare, o versare sei mesi in ritardo, o lasciare che connazionali spie della Cid (Commissione per l'investigazione e la deportazione) si infiltrino nei campi. Per il Qatar e gli altri nel Golfo, dove il boom del petrolio alimenta investimenti da duemila miliardi di dollari e aziona il 60% delle gru da costruzione del mondo (stime di Middle East Business Intelligence e Oxford Business Group) gli immigrati servono come l'aria. Ma opprimerli è altrettanto inevitabile, e non solo per il profitto. «I paesi del Golfo sono ossessionati dal timore di essere travolti dagli stranieri», nota Mohamed Ramady della Fahd University di Riad. «L'idea che balie di altri Paesi crescano i nostri figli crea angoscia», dice Fetooh Al Zayani del Bahrein, direttrice generale al Qatar Financial Centre. Negli ultimi mesi l'Indonesia, l'India, il Pakistan e il Nepal hanno vietato l'emigrazione delle donne in Qatar, per evitare gli abusi di ogni tipo di cui le domestiche sono vittime nelle case arabe. L'ambasciatore di Manila ha creato un rifugio per centinaia di fuggiasche. Lì come in altre ambasciate d'Asia stazionano i rifugiati e i licenziati senza visto di rimpatrio, un'umanità arenata che non può né restare né partire, buttata sulla moquette in sale da casa di carità più che di diplomazia. Non lontano, ragazze locali coperte dai lenzuoli neri anche sugli occhi comprano biancheria audace al Soleil Sucré, lungo una copia esatta di un canale di Venezia, inclusi ponti, gondole, cielo sul soffitto del centro commerciale. Discrete, con il bluetooth del cellulare, fino a sera cercano cuori solitari in galleria. Poi la notte, sul lungomare, resta poco: la sola presenza si avverte dalle fiamme ossidriche che pulsano nel caldo dai quarantesimi piani. Quasi che tutto andasse fatto entro un certo giorno, e l'urgenza di Doha non fosse dare un senso alla sua rendita esorbitante.

Federico Fubini
31 agosto 2008
Corriere della sera

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