sabato 20 settembre 2008

Lo Stato interviene e "salva" il capitalismo

Bush paga 50 miliardi e fa volare le Borse
Capitalismo salvato dallo Stato coi soldi dei contribuenti

Salvatore Cannavò
Mentre in Italia Tremonti dice no alla nazionalizzazione dell'Alitalia - quando si era appena cimentato con un elogio dell'interventismo pubblico - gli Usa decidono di intervenire a sostegno della crisi con il piano più imponente che si ricordi. Sono 50 i miliardi impegnati dal Tesoro americano ma fonti del Congresso parlano di un sostegno complessivo pari a mille miliardi di dollari. Ieri Bush ha parlato alla Nazione assicurando che "nessuno ci rimetterà un dollaro" e che la decisione con cui il suo governo cercherà di tamponare la falla è pari all'entità della crisi stessa. Bush è sembrato scusarsi nel suo breve ma impegnativo discorso quando ha dovuto ammettere che la sua Amministrazione, fautrice convinta del libero mercato, si vede oggi costretta a scegliere l'interventismo. A Washington si parla di qualcosa che potrebbe assomigliare a una sorta di "Iri" americana per il settore bancario e dei mutui, per alleggerire le banche dei crediti inesigibili e consentire al sistema di riprendersi. Un po' sulle orme di quanto fece Ronald Reagan negli anni 80 per risolvere la crisi delle Casse di risparmio.
Il capitalismo Usa, sostenitore ardente del libero mercato, ha risposto a questa manovra con un exploit del mercato borsistico che si è riflettuto nel mondo intero: balzi del 5-6% hanno interessato i mercati azionari europei con Milano che ha chiuso a +7,7 mentre la borsa di Mosca è stata sospesa per eccesso di rialzo. Grande euforia anche a New York che ha segnato un +4%. Ancora una volta, quindi, dal 1929 in poi, il mercato ricorre all'aiuto dello Stato - Bush ha avvertito che l'intervento costerà "molto caro" ai contribuenti statunitensi - per salvarsi dalle sue contraddizioni e ancora una volta il tanto vituperato intervento pubblico viene adottato per salvare un capitalismo con l'acqua alla gola. Il bello è che c'è ancora qualcuno che prova a negare l'evidenza.
Nell'editoriale del «Corriere della Sera» di ieri, ad esempio, Piero Ostellino dispensa un'altra delle sue magistrali lezioni. "A ogni crisi del capitalismo - scrive - i suoi nemici ne hanno attribuito la causa al mercato. Che poi vuol dire all'avidità dei capitalisti". Saremmo tentati di sottoscrivere quest'affermazione, ma il "sommo" maestro precisa con ardore: ma è vero che "la crisi del 1929 e quella attuale (…) siano dovute al mercato e all'avidità dei capitalisti?". A sentire l'alta autorità giornalistica del "Corriere" non è cosi. Sia nel 1929 che oggi a produrre la crisi sarebbe stata la Federal Reserve, cioè la Banca centrale americana, cioè il potere politico, cioè il pubblico che interviene in economia invece della "spontanea dinamica della domanda e dell'offerta di denaro". Sono "fatti", scrive Ostellino, ed è buona regola "attenersi rigorosamente ai fatti". Bene, guardiamo i fatti. E' un fatto o no che la "spontanea dinamica" del mercato che si realizza quotidianamente in Borsa sia euforica perché gli Usa hanno intenzione di salvare pezzi della propria economia? Ed è un fatto o no che lo stesso è avvenuto puntualmente ad ogni occasione. Le borse, cioè la libera dinamica del mercato, fanno poi molto di più: festeggiano a ogni "intervento pubblico" che giudicano favorevole. Quindi, se in epoca di crisi lo Stato acquista e occupa l'economia fanno festa; ma lo stesso fanno quando invece viene varato un piano di privatizzazioni o una politica di precarizzazione del lavoro. Insomma, è un fatto che il libero mercato fa i suoi interessi e che questo non coincide mai, ma proprio mai, con l'interesse collettivo. Addebitare alla Federal Reserve le responsabilità della crisi significa scambiare le cause con gli effetti e far finta di non vedere come questo intervento pubblico sia semplicemente al servizio del mercato e cerchi di mantenere alto il saggio di profitto. Anche qui vediamo i fatti.
La politica del pareggio di bilancio seguita da Clinton nel corso degli anni 90 ha depresso l'economia statunitense, tagliando la spesa pubblica e restringendo la domanda. La Federal Reseve di Alan Greenspan (il banchiere centrale più adorato a suo tempo, oggi disprezzato) si mosse allora per cercare di dare una riposta a questa contraddizione lavorando per gonfiare i prezzi dei valori mobiliari e compensare così con il rialzo dei corsi azionari la depressione dei profitti. Questa politica fu sconfessata dal crollo del 2000-2001 ma, senza ripensamenti o dubbi, fu ripresa subito dopo tramite il rigonfiamento dei valori immobiliari tramite la riduzione drastica dei tassi di interesse (tassi molto bassi, mutui molto vantaggiosi, famiglie con la percezione di un reddito molto più alto, aumento della domanda, sostegno ai profitti). E' evidente che questo intervento pubblico sia stato disastroso e abbia generato il crollo in corso oggi. Ma non era un intervento pubblico fine a se stesso bensì un corposo e concreto tentativo di dare una mano al libero mercato. Lo stesso fa oggi la Federal Reserve quando interviene con 29 miliardi di dollari per Bear Stearns o con gli 85 che consentono di salvare Aig. E in fondo cosa fa Berlusconi con Alitalia se non organizzare un intervento pubblico - leggi modifica alla Legge Marzano - per aiutare la cordata dei "capitani scrocconi" travestiti da libero mercato?
Tutta la storia del capitalismo è una storia di aiuti di Stato, di interventi pubblici e di ruolo dei governi. Anche quando ha teorizzato il liberismo più sfrenato il governo è intervenuto con privatizzazioni e leggi ad hoc, su scala sopranazionale, costruendo gabbie mortali come il Wto o la stessa Unione europea. Lo ha fatto in maniera morbida, come con D'Alema al tempo della "madre di tutte le Opa", quella di Colaninno su Telecom, o in forma feroce come ha fatto oggi Berlusconi con Alitalia (guarda caso, sempre con Colaninno: l'aiuto dei governi a volte è una droga).
Per questo non è credibile il rimbrotto di Tremonti e la sua propaganda sul ritorno alle regole e all'intervento pubblico. Non esiste un intervento pubblico neutro ma una politica economica e/o industriale al servizio di un disegno e di una strategia. Per quanto ci riguarda, ad esempio, non pensiamo affatto che l'economia pubblica possa prendere a modello le vecchie Partecipazioni Statali di democristiana e burocratica memoria (anche se hanno fatto più loro per il paese che le privatizzazioni e le regalìe degli ultimi venti anni: si pensi a Telecom o Autostrade). Un intervento pubblico oggi non potrebbe che essere partecipato, prevedere il protagonismo dei lavoratori, possedere una solida dimensione ambientalista. Quello di Tremonti non ha niente a che vedere con queste coordinate ma sembra soprattutto un "interventismo di complemento", buono per guadagnarsi l'appoggio di un capitalismo in affanno che non ha la forza per reggere all'urto di una crisi acutissima. Un capitalismo da "furbetti dell'aeroplanino": pronto a farsi bello sulla promessa di spazzare via i lavoratori e che se la da a gambe non appena questi dimostrino di essere vivi e pronti a combattere. Tutti, a cominciare dal Tg1, si sono scandalizzati per la gioia di Fiumicino al fallimento della trattativa. Ma sapete come ha reagito la Borsa? Ieri le società che fanno parte della cordata Cai hanno realizzato questi risultati: la Immsi di Colaninno veleggiava intorno a un + 6%, Benetton a +4 e Ligresti a +7 e l'IntesaSanPaolo di Corrado Passera a un bel +10%. Quando Tremonti pensa all'intervento pubblico ha in mente questi attori e i loro interessi. E quando dice che il suo credo è l'orinale motto di "Dio, Patria e famiglia", dimentica sempre di aggiungere "il capitale".

Liberazione 20/09/2008

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