venerdì 12 settembre 2008

Sceicchi i compratori dei nostri sogni

Repubblica — 04 settembre 2008 pagina 33 sezione: R2
Quando tre anni fa un tabloid londinese attirò in una trappola Sven Goran Eriksson, lo svedese allora allenatore dell' Inghilterra, facendogli incontrare ad Abu Dhabi un finto sceicco che prometteva di comprare una squadra della Premier League e assumere lui come coach pagandolo a peso d' oro, l' idea che i petrolieri degli Emirati Arabi sbarcassero nel grande mondo del football europeo sembrava una barzelletta. Quando Sulamain al Fahim, sedicesimo uomo più ricco del Medio Oriente e presidente della maggiore società di investimenti di Abu Dhabi, diede un megaparty a Hollywood l' estate scorsa, apparendovi a fianco di una bionda statuaria e in compagnia di attori come Demi Moore e Charlie Sheen, i vecchi magnati del cinema americano pensarono che fosse l' ennesimo riccastro arabo intenzionato, al massimo, a portarsi a letto una starletta. E quando uno sceicco vero, Khalifa bin Zayed al-Nahyan, re dell' emirato di Abu Dhabi, ha avvicinato i responsabili del Louvre per chiedere di usare il nome dell' insigne museo parigino per aprirne uno simile a casa propria, gli intellettuali della Rive Gauche commentarono che aveva una bella faccia tosta. Adesso non ride e non dice niente più nessuno. Dovunque oggi sulla terra ci sono sogni in vendita, dal calcio al cinema alla cultura più alta, c' è uno sceicco di Abu Dhabi pronto a spalancare il portafoglio e a comperarlo, senza nemmeno tirare sul prezzo. L' acquisto del Manchester City per 210 milioni di sterline da parte dell' uomo d' affari col turbante al-Fahim, dietro di cui si cela l' ombra della famiglia reale di Abu Dhabi, è stato abbastanza spettacolare di per sé da finire in prima pagina sui giornali di mezzo mondo. Ma ieri gli sceicchi hanno fatto il bis, annunciando l' ingresso nel mercato cinematografico americano di Hollywood, dove intendono produrre almeno otto pellicole l' anno. E a Parigi i responsabili del Louvre non hanno ancora smesso di fregarsi le mani per la fortuna che è loro capitata, dopo aver «noleggiato» il nome del museo della Mona Lisa per trent' anni ad Abu Dhabi, dove nel 2013 ne sorgerà uno analogo su Saadiyat Island, l' Isola della Felicità: per quella data, accanto al Louvre arabo, ci saranno anche il Guggenheim degli Emirati e un paio di altri musei, firmati da alcuni degli architetti più famosi del pianeta, da Frank Gerhy a Lord Foster. Aggiungeteci l' acquisto lo scorso anno del grattacielo della Chrysler a New York, l' apertura di una filiale della Sorbona negli Emirati, l' investimento nella Ferrari con l' obiettivo di portare un Gran Premio di Formula Uno ad Abu Dhabi, le joint venture con la General Electric, la Shell e la Exxon Mobil, senza tralasciare l' accademia di calcio in via di sviluppo in collaborazione con l' Inter, e si comincia ad avere un' idea di quanto stia accadendo. Per chi non l' avesse ancora capito, lo spiega sulle colonne del Guardian il professor Gerd Nonneman, direttore dell' Istituto di Studi Arabi ed Islamici alla Exeter University: «Gli sceicchi di Abu Dhabi hanno deciso di trasformare il loro emirato nella più sofisticata oasi culturale del globo. Hanno capito che, specie in prospettiva futura, non basterà più avere il petrolio. Il loro stato fratello, Dubai, ha già da tempo puntato su shopping e turismo. Abu Dhabi punta sulla cultura di massa». Perciò su football, cinema, arte e via acquistando. Poiché lo sceicco Khalifa, in quanto sovrano di Abu Dhabi, non ama la pubblicità, e i suoi 18 figli devono adeguarsi all' atteggiamento paterno, la famiglia reale aveva bisogno di un portavoce, un prestanome, un rappresentante, qualcuno che partisse per loro conto alla conquista del mondo culturale. Ci voleva un uomo in grado di sfidare (e battere) il miliardario russo Roman Abramovich nel mercato del calcio europeo, di frequentare con disinvoltura le stelle di Hollywood, spesso troppo disinvolte per i gusti dell' Islam, di muoversi a suo agio tra le elite culturali del Louvre e del Guggenheim così come tra gli squali della finanza di Wall Street e della City. Lo hanno trovato in Sulamain al Fahri, che ora, ad appena 31 anni, grazie al colpo più sensazionale dal punto di vista mediatico, ovvero l' acquisto del Manchester City, riceverà un' istantanea fama globale. Alla fama, bisogna dire, il giovane sceicco ci è abituato: non per nulla ha il nomignolo di «Donald Trump del Medio Oriente». Del controverso costruttore immobiliare americano non ha la capigliatura, ma il carattere probabilmente sì. Come Trump, ha fatto i primi soldi nell' immobiliare. Come Trump, si dice che abbia una predilezione per le belle - anzi bellissime - donne. Come Trump, ha voluto condurre un reality show nel suo paese, in cui giovani imprenditori si sfidano l' un l' altro per essere selezionati da lui come soci ed allievi. Dietro il suo sorriso pacifico dev' esserci inoltre una tempra di ferro, perché ha conosciuto la tragedia e l' ha superata: appena finita l' università, ha perso i genitori e un fratello, uccisi in un incidente automobilistico. Si è ritrovato nel ruolo di capofamiglia e lo ha saputo interpretare, prendendo un master in business e poi un dottorato negli Stati Uniti, sposandosi e lanciandosi negli affari, che ne hanno fatto rapidamente uno degli investitori più ricchi del Medio Oriente. E' lui che ha avuto l' idea di fare dell' Isola della Felicità un quartier generale della cultura mondiale. E' lui che ha negoziato l' acquisto del Manchester City e l' ingresso nelle produzioni di Hollywood. E' lui che passa da un tè nel deserto sotto la tenda con il re di Abu Dhabi a party scintillanti in Costa Azzurra, a Londra, a New York. A sentirlo parlare, viene il dubbio che le spari un po' grosse: «Cristiano Ronaldo dice che vuole andarsene dal Manchester United per giocare nel club più forte del mondo. Ebbene, vedremo se è serio, perché noi costruiremo una squadra più forte del Manchester United e del Real Madrid. Il Real era pronto a offrire 70 milioni di sterline? Mi sembra un prezzo inadeguato al suo valore, noi offriremo il doppio. E poi vorremmo portare al City anche Kakà, Torres, Fabregas, Berbatov e Messi». Ma quando uno ha alle spalle il trillione di petrodollari della famiglia reale di Abu Dhabi, perfino i miliardi di «Paperone» Abramovich sembrano bruscolini. La rivoluzione culturale degli sceicchi, tuttavia, non convince tutti. Quando al-Fahim ha completato l' acquisto del Manchester City, ha ammesso di non avere mai avuto un particolare interesse o attaccamento per quel club specifico: «Volevamo una squadra della Premier League, perché la giudichiamo il veicolo giusto per i nostri piani e i nostri interessi», ha detto, ma una vale l' altra, avrebbe preso il Liverpool o il Newcastle, invece del City, se ci fosse stata l' opportunità giusta. A Londra gli esperti in branding, ossia in marche e marketing, si domandano se sia possibile fare centro con una montagna di soldi ma senza amore, senza quella passione che in fondo Abramovich nutre per il Chelsea e l' americano Malcom Glazer per il Manchster United. «La tattica di Abu Dhabi, acquistare marchi culturali alla cieca, qui e là, purchè abbiano un nome riconoscibile, è come voler ricostruire Venezia a Las Vegas», commenta Peter York, un esperto del settore. Ma chissà che con le sue parole non dia agli sceicchi un' altra idea: impacchettarla e ricostruirla nel deserto, ecco come si potrebbe salvare Venezia. Pagando, s' intende. - ENRICO FRANCESCHINI

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