domenica 31 maggio 2009

Campus nel deserto

Donatella Della Ratta
Arabi moderni Nel Qatar le donne studiano all'americana. E iniziano a entrare nel mondo del lavoro. Grazie agli sforzi della moglie dell'emiro

Una sala affollata di studenti in un momento di pausa dallo studio. Qualcuno si rilassa sui cuscini dai disegni etno sistemati ad arte sulle gradinate, altri vanno a mettersi in fila alla mensa, così bianca da ricordare un costoso ristorante hi-tech in piena Manhattan. Ogni dettaglio è curato, dal design ultramoderno ai computer che campeggiano sui tavoli, dove si può navigare su Internet o consultare la biblioteca dell'università. È il campus americano perfetto. Solo che si trova a Doha, capitale del Qatar, nel mare azzurro del Golfo arabico. Se dici Qatar, viene in mente Al Jazeera, la televisione che ha fatto tremare governi e scatenare polemiche. Ma Al Jazeera non è l'unica rivoluzione del nuovo Qatar di Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, l'emiro che dal '95 governa il Paese con intelligenza e scaltrezza. C'è un altro Qatar che emerge accanto a quello televisivo, e sorge proprio nel campus della Qatar Foundation for Education, Science and Community Development. Se Al Jazeera è la creatura dell'emiro, Qatar Foundation è il gioiello di sua moglie, Sheika Mozah bint Nasser Al Misnad. La rivoluzione al femminile in Qatar ha dalla sua una generazione tutta nuova di donne. A cominciare dalla sua first lady, colta, intelligente, che ha voluto per il suo Paese una cosa prima di tutto: l'educazione come arma di sviluppo. Così ha creato Qatar Foundation, di cui è presidentessa, ed è volata negli Stati Uniti. Christina Lindholm, preside della Virginia Commonwealth University (Vcu), il primo campus americano a traslocare a Doha, racconta che nel '97 una delegazione dell'emiro visitò la sede della prestigiosa università di moda e design, in Virginia. L'offerta era allettante, ma anche rischiosa: trapiantare nel deserto del Qatar il know how americano, insegnare alle nuove generazioni qatarensi proprio come se si trovassero nel mezzo degli States. Stessi programmi accademici, stessi professori, stessi riconoscimenti finali per gli studenti di Doha, come se si diplomassero in Virginia. Solo alcune "piccole" differenze: in Qatar non si studia disegno dal nudo e fino ad oggi le classi sono di sole donne - anche se l'apertura delle iscrizioni agli uomini viene data per certa entro il 2008. Scommessa accettata, e si direbbe anche vinta. Nelle aule del campus foto di moda, cartelloni di grafica pubblicitaria, manichini in legno dagli abiti colorati che farebbero un figurone in una boutique londinese. Nella falegnameria ragazze indaffarate costruiscono gioielli che si potrebbero indovinare sul collo della ricca borghesia newyorkese. Ma la vera sorpresa arriva dalla facoltà di moda. È come trovarsi di fronte a un archivio globale dell'immaginario sulla bellezza femminile: abiti lunghi contornati di strass, gonne dalle fantasie etniche, pizzi e merletti e soprattutto disegni, figurine stilizzate dagli abiti succinti e avvolgenti. L'immagine di una donna sexy, audace, femminile. Che però prende forma dalle mani di donne tutte nere, tutte uguali, tutte velate, che gelosamente nascondono come un tesoro le bellezze esaltate sulla carta. "Anch'io all'inizio non ci potevo credere", racconta Sandra Wilkins, professoressa di moda approdata dagli States al campus della Vcu in Qatar. "Le nostre studentesse di qui hanno un'idea molto chiara della femminilità. Sono informate su tutto, leggono le riviste americane, viaggiano per il mondo, comprano nelle boutique haute couture di Milano e Parigi. Spesso basta che alzino il telefono e parlano direttamente con i disegnatori. Spendono per la moda e sanno cos'è la moda. Certo, quando le vedi tutte vestite con il loro abito tradizionale nero - l'abbaya - non diresti mai che possono disegnare vestiti femminili, persino osè. Poi, la prima volta che sono stata invitata a un party di sole donne qui a Doha ho capito: tutti questi abiti neri cadono e lasciano il posto a una festa di colori, di tessuti. Non ho visto mai in vita mia vestiti così seducenti e femminili", conclude Sandra. Se domandi alle studentesse della Vcu come sia possibile disegnare vestiti sexy per poi indossarli soltanto sotto l'abbaya nera o ai party di sole donne, per loro non c'è risposta, perché è del tutto normale. Come è normale che a portare le loro creazioni siano solo modelle occidentali. "Noi donne del Qatar non ci mostriamo in pubblico senza velo", dice Noor Jassim Al Thani, che porta il cognome della famiglia reale del Qatar. Noor si è diplomata alla Vcu e la sua prova d'esame è stata una collezione di abiti mostrati al Fashion Show annuale organizzato dall'università. Vestiti etnici e solari che lei immagina "indossati da una donna appassionata della vita". Ma sulla passerella a indossare le creazioni di Noor sono modelle bionde arrivate dagli Stati Uniti. Noor ha un sogno, costruire un'industria della moda tutta locale, un mix raffinato di tradizione e modernità che renda il Qatar competitivo sulle passerelle del mondo intero. Intanto sta lavorando per aprire il suo negozio, per dare forma a quella donna che vorrebbe "veder danzare in modo seducente e sorridere, inconsapevole del suo passato e del suo futuro". Ma non tutte le studentesse del Vcu hanno i sogni imprenditoriali e la determinazione di Noor. "Alcune ragazze, dopo aver preso il diploma da noi, semplicemente decidono di non lavorare", osserva la preside. "Certo, se lo possono permettere", la retta costa la bellezza di circa 40 mila dollari all'anno, anche se chi ha la nazionalità qatarense studia gratis e ad altri lo Stato fa un prestito da restituire lavorando qualche anno sul posto. "Sono donne colte, curano la loro educazione ma poi decidono di stare a casa e prendersi cura dei figli. Soltanto il 13% delle donne qatarensi lavora", conclude Lindholm. Amal Al Malki è una di queste. Giovane, molto bella, ha un dottorato in letteratura comparata alla School of Oriental and African studies di Londra. L'abbaya le copre il corpo ma non porta il velo, vera rarità in Qatar. Amal è appena stata assunta dalla Carnagie Mellon University, altro prestigioso campus americano specializzato in informatica che ha deciso di aprire una sede a Doha. È la prima donna qatarense a lavorare in un'università americana della capitale, oltretutto come insegnante, il che la mette in diretto contatto con gli studenti: "Non è certo una cosa scontata qui, perché le classi sono miste", osserva Amal, "ma il Qatar è cambiato. Ho lasciato il paese nel 1996 e sono tornata nel 2002, ho trovato una realtà incredibilmente mutata, grazie all'educazione su cui il Paese sta puntando molto. E grazie alle donne". Amal è convinta che la donna sia sempre stata il pilastro silenzioso della società qatarense: "Sheika Mozah ci ha dato visibilità e consapevolezza, ha fatto riconoscere ed accettare pubblicamente la figura della donna in Qatar". Addirittura, ha portato la causa femminile in "parlamento", o almeno in quello tutto televisivo dei Doha debates, una serie di talk show che da un anno Qatar Foundation realizza e manda in onda una volta al mese su Bbc world. Doha debates è un programma che mette a nudo i tabù delle società arabe, dalla separazione fra moschea e Stato alla possibilità di conciliare Islam e democrazia, fino al tema dell'uguaglianza fra i sessi. "Quest'assemblea crede che le donne arabe debbano avere gli stessi diritti degli uomini" è la tesi sulla quale sono stati chiamati a dibattere ospiti e pubblico in una delle ultime puntate trasmesse da Bbc world. E a sorprendere sono state soprattutto loro: le nuove donne del Qatar, in piedi senza timore davanti al microfono e alle telecamere, a esprimere la loro voglia di studiare, di lavorare, di guidare, di votare. Ma non di essere come gli uomini: "Siamo diversi biologicamente e la nostra religione ci vuole diversi", dice una giovane qatarense. "Ci sono cose che noi non possiamo fare, i nostri uomini devono farle per noi, così come noi dobbiamo farne altre per loro", taglia corto. Anche Modawi viene dal Qatar. È giovane e ha un sogno: aprire un negozio di moto, la sua passione. Adora Valentino Rossi, e sulla sua Porsche fiammante campeggiano gli sticker di Loris Capirossi. Ma lei in moto non ci può andare, perché non sta bene che una donna assuma "una posizione sconveniente". Eppure, niente nell'Islam le vieta di appassionarsi ai motori, né di guidare la sua macchina, e nemmeno di fare l'imprenditrice, costruendosi il suo futuro come più le piace. Anche lei al "Doha debates" voterebbe per la non uguaglianza fra uomini e donne. Lo dice convinta, nella sua abbaya nera, ed è bella come se portasse il più seducente degli abiti. (Donatella Della Ratta, autrice di questo articolo, ha scritto Al Jazeera. Media e società arabe nel nuovo millennio, Bruno Mondadori editore).

http://dweb.repubblica.it/dweb/2005/11/12/attualita/attualita/083cam47583.html

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