domenica 31 maggio 2009

Tutti contro Al Jazeera

Donatella Della Ratta
Al summit di Dubai sull'informazione gli islamici, confrontandosi con gli occidentali e tra loro, scoprono di avere soprattutto un avversario comune: la tv che dal Qatar detta le nuove regole del gioco

Il colpo d'occhio è notevole, dalle scale che portano alla sala conferenze del Madinat Jumeirah Hotel di Dubai. Donne velate, uomini nel tradizionale abito lungo bianco del Golfo, europei e indiani in doppiopetto e cellulare, tutti assiepati nel salone in attesa dell'apertura dell'Arab Media Summit, due giorni fitti di incontri e conferenze. Questo mondo colorato e multiculturale è la miniatura di Dubai, città ultratecnologica degli Emirati Arabi Uniti, un milione di abitanti di cui l'80% immigrati di oltre 100 nazionalità. Un dialogo tra culture che sembra essere il leit motiv anche per questa terza edizione del Summit. "L'idea da cui siamo partiti due anni fa", spiega Mohammed Al Mansoori, organizzatore dell'incontro per conto del Dubai Press Club, "era mettere insieme le personalità del mondo dei media arabi. Ma già dall'anno scorso abbiamo deciso di allargare il tavolo del dibattito ai rappresentanti dei media occidentali, che avevano mostrato interesse ed entusiasmo per l'evento". Quest'anno il Summit ospita oltre 500 giornalisti e personalità del settore. In prima fila Cnn International, The Guardian, The Times, e naturalmente Bbc World, che trasmette un programma live da Dubai in occasione del Summit e compare come sponsor dell'evento, unico brand non arabo. "Il tema di quest'anno - "La guerra e i media" - è stato scelto per la sua rilevanza nel contesto mondiale. Durante la guerra si presentano all'attenzione del pubblico domande fondamentali: i giornalisti riportano liberamente i fatti o sono i primi strumenti nelle mani della propaganda di guerra?", dice convinta Mona Al Marri, giovanissima executive manager del Dubai Press Club, anche lei tra le fila della nuova generazione di arabe in carriera e col velo firmato. In effetti questo Arab Media Summit - lo slogan è "a meeting of minds" - batte su una serie di questioni bollenti, nel mondo arabo e non solo: a parte il case study dedicato all'analisi della copertura informativa in Iraq, a Dubai si discute di come i media occidentali dipingono gli arabi e viceversa, per capire se si possa collaborare oltre gli stereotipi. O, al contrario, se proprio i media siano "le armi di distruzione di massa del nostro secolo", come recita il comunicato stampa. A giudicare dalla piega che prende l'incontro si propende per la seconda ipotesi. La sala zeppa di telecamere e di fotografi ascolta sonnecchiando il discorso di apertura del Summit, tenuto dal Cancelliere tedesco Gerhardt Schröder, ma si risveglia di soprassalto quando, partiti capi di Stato e diplomatici, si entra nel vivo del dibattito. "Vorrei chiedere ai giornalisti occidentali, specialmente a quelli americani, di smetterla di darci lezioni sulla libertà di stampa", puntualizza Hamdi Qandeel, notissimo volto della televisione egiziana. Mentre Tim Sebastian, conduttore del popolare show della Bbc Hard Talk, prova a ribattere: "E voi arabi quanto vi sforzerete di capire le sfumature delle opinioni occidentali?". Il clima si surriscalda e volano le accuse. Tra il pubblico c'è anche Nima Abu-Wardeh di Dubai tv. Fa subito notare al collega inglese che, citando i massacri della popolazione irachena sotto il regime di Saddam Hussein, ha "volutamente tralasciato" le morti civili prodotte dalle sanzioni delle Nazioni Unite. Un tipico esempio di notizia "riportata in modo parziale", commenta. A poco vale l'equilibrio super partes di Robert Menard, direttore di Reporter Sans Frontieres: "Anche la stampa libera deve avere la consapevolezza di poter essere strumentalizzata e di potersi dunque ritrovare a fare della propaganda", dice, aggiungendo poi una domanda che gela la sala: "E però vorrei anche sapere in quale Paese arabo si rispetta davvero la libertà di stampa. E come si fa a chiedere ai giornalisti di essere credibili se i governi non gliene danno i mezzi?". Menard cerca infine la conciliazione. "Se vogliamo riuscire ad avere un dialogo dobbiamo smetterla di parlare di media occidentali e di media arabi. C'è differenza fra Bbc e Fox News, così come ce n'è fra Al Jazeera e la televisione algerina". In queste poche parole c'è il nocciolo della questione, e anche il tratto che ha caratterizzato questo Summit: il campanilismo dei media. Gli occidentali difendono i loro come se esistessero media occidentali tout court, così come gli arabi sembrano colti da un improvviso impeto di solidarietà interaraba. Ne consegue che le parti continuino a giudicare i media non per il loro operato, ma per l'appartenenza all'uno o all'altro schieramento. Intanto il pubblico abbandona l'obiettività di circostanza e festeggia apertamente tutte le prese di posizione antiamericane degli oratori. La corrispondente del Times inglese, Janine Di Giovanni, dichiara, sconfortata: "Doveva essere un "meeting of minds" e invece sembra un match di tennis". Altrettanto combattuto il capitolo che riguarda il consolidamento delle tv satellitari arabe. A tesserne le lodi - nemmeno tanto a sorpresa - è Peter Arnett, ex corrispondente Cnn ora a Baghdad come free lance, prima liquidato dalla Nbc per aver criticato gli americani poi assoldato da Al Arabiya per commentare il conflitto in Iraq. "Gli Usa hanno creato il giornalista embedded perché hanno capito che dovevano fronteggiare la concorrenza nelle news, quella araba in primo luogo. Nel 1991 io ero l'unico giornalista rimasto a Baghdad a coprire la guerra. Stavolta i reporter sul tetto dell'hotel Palestine erano 37. E io l'unico americano!". La sorpresa, quella vera, viene invece dalla platea araba, prima stretta attorno ai "suoi" media per difenderli dal "nemico" occidentale, poi pronta a scannarsi non appena si affronta il capitolo Al Jazeera. Ahmed Al Rabae, editorialista kuwaitiano, ci va giù pesante. "Le tv satellitari arabe hanno giocato un ruolo chiave nel peggiorare la situazione in Iraq sia prima che durante la guerra. E continuano, persino ora che avremmo bisogno di stabilità". Parole che sembrerebbero pronunciate da un portavoce della Casa Bianca piuttosto che da un "fratello" arabo. "Se i media ufficiali arabi hanno paura dei governi, beh, allora le tv satellitari hanno paura del pubblico, e fanno di tutto per compiacerlo". Annuiscono le teste del Golfo sedute in prima fila. Mentre Youssef Ibrahim, ex corrispondente del New York Times, contesta apertamente: "Le televisioni satellitari hanno finalmente detto agli arabi parole non dettate dai governi. È la stampa la vera spazzatura. I giornalisti saranno anche bravi, ma i giornali che pubblicano i loro articoli sono ancora fortemente sotto pressione". Altre teste annuiscono, ma stavolta nell'ombra delle ultime file. In mezzo, i giornalisti occidentali che a un certo punto iniziano a chiedersi dove sia l'oggetto del contendere: Al Jazeera. Apriamo il dépliant del Summit con i nomi degli oratori. Niente. Scorriamo velocemente la lista dei partecipanti, ancora niente. Torniamo allora da Mohammed Al Mansoori, il manager del Press Club, con la domanda da un milione di dollari. Perché tutti parlano delle tv arabe e della più famosa in Occidente qui non c'è traccia? "Abbiamo preferito invitare le grandi firme della stampa araba, sono nomi molto noti nella regione", continua un po' titubante. Telefonata a Doha, Qatar, sede centrale di Al Jazeera. Risponde Jihad Ali Ballout, portavoce della rete: "Quello di Dubai è un evento ben frequentato, agli organizzatori auguriamo buona fortuna". Gentilezze formali, tensione sostanziale. Contrariamente a quanto possono immaginare gli spettatori occidentali, infatti, Al Jazeera non è benvoluta nei Paesi arabi. I Paesi del Golfo sono in continua tensione con un Qatar che si allontana sempre più dalla politica del Gulf Cooperation Council, rompe i rapporti diplomatici con i kuwaitiani, accusa l'intoccabile Arabia Saudita di favorire il Bahrain, prepara la Costituzione e libere elezioni, firma un accordo di difesa militare di 50 anni con gli Usa. E di questa spregiudicata strategia Al Jazeera è accusata di farsi portavoce nei suoi programmi, che non risparmiano invettive pesanti contro i leader del Golfo, "ladri" e "imbroglioni". Con buona pace del giornalismo indipendente, al summit accuse e controaccuse sono tutte politiche. Tanto che dal pubblico una ragazza sui 20 anni, voce decisa, velo in testa e badge "media student" sul vestito domanda: "Se dovessimo prendere esempio da questo dibattito, come faremmo a non diventare strumenti di propaganda?". (Foto dell'agenzia AFP/De Bellis)

Com'eravamo. E come saremo Hamdi Qandeel da quarant'anni si occupa di informazione: ha visto nascere la tv egiziana all'epoca del presidente Nasser, ora assiste alla rivoluzione delle tv satellitari arabe dal di dentro. Il suo programma di approfondimento politico, Redattore capo, va in onda su Dream tv, canale satellitare egiziano che si è fatto un nome con controversi talk show su sesso, politica e attualità. Che grado di libertà di espressione c'è nei media arabi oggi? Un certo grado di libertà, maggiore rispetto al passato, soprattutto per quanto riguarda l'informazione televisiva. Ma non significa che siamo liberi di esprimerci, nemmeno nelle tv satellitari dette "indipendenti". In realtà sono sotto la pressione dei capitali privati che le finanziano e dei governi che le supportano. Comunque qualche tv all news ce la fa a sollevare questioni rilevanti e a dar spazio a voci prima soffocate. Com'erano le news nelle tv di Stato? Durante la guerra del 1967 lavoravo per la tv egiziana. Facevo il reporter, vedevo dal campo di battaglia che eravamo stati sconfitti, ma la radio continuava a dire che Israele avrebbe perso. Mi sono dovuto adeguare. A volte i militari ci suggerivano cosa dire, qualche altra volta noi giornalisti praticavamo l'autocensura. Come si potrà ottenere un grado maggiore di libertà di espressione nel mondo arabo? Sono scettico. La libertà è un valore che riguarda la società tutta, non solo i media. Il nostro problema, ma anche quello dell'Occidente, è l'autorità politica e il suo potere di interferire nella società civile. D. Della Ratta

http://dweb.repubblica.it/dweb/2003/10/25/attualita/attualita/090jaz37390.html

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