domenica 31 maggio 2009

Perché l’Occidente non capisce Al Jazeera

Donatella Della Ratta
giornalista, autrice di Al Jazeera. Media e società arabe nel
nuovo millennio, Mondadori, Milano 2005

La relazione complessa fra il mondo occidentale e la rete televisiva
araba Al Jazeera, sotto i riflettori globali dal post undici settembre, è venuta
formandosi, in questi anni, attorno a una reazione piuttosto che
a un’interpretazione. Nel clima di forte emotività seguito agli attentati
alle Twin Towers, coloro che hanno accusato questa televisione di mobilitare
al terrorismo, come quelli che l’hanno citata ad esempio di libera
espressione contro le pressioni incrociate dei governi americano e
arabi, hanno entrambi dimostrato di reagire ad Al Jazeera invece che
provare ad interpretarla. Nel tentativo di classificare Al Jazeera pro o
contro qualcuno o qualcosa, si è venuto così a svilire il ruolo che la rete
sta giocando nelle società arabe e nel complesso globale.
Il rapporto fra il mondo occidentale e Al Jazeera si è così costruito
su un iniziale livello di polarizzazione immediatamente travasata sul
piano dei contenuti, come se questi oscillassero fra l’apertura all’Occidente1
e la presa di posizione violenta nei confronti delle sue politiche
e dei suoi valori.
Due considerazioni smentiscono questa supposizione: prima di tutto,
la centralità del tema “Occidente”. Dall’analisi dei palinsesti della rete
risulta evidente che il cuore delle narrative di Al Jazeera non è certo
l’Occidente, quanto piuttosto il mondo arabo2. In secondo luogo, le
modalità con cui questo tema viene affrontato. Se si guarda, ad esempio,
la copertura informativa di eventi come le elezioni presidenziali
Usa del 2004, è evidente che la strategia del canale non va in direzione
di attaccare, quanto piuttosto di spiegare. “From Washington” (Min
Washington), programma di approfondimento dalla capitale americana
condotto da Hafez Al Mirazi, è infatti, rispetto ai talk show incendiari
che hanno reso famosa Al Jazeera in tutto il mondo arabo, una tra2
smissione pacata che tende ad analizzare piuttosto che ad alzare polemiche3.
L’intelligente strategia editoriale non applica il modulo televisivo
del talk show aggressivo (efficace nel mondo arabo, da sempre prigioniero
di un’informazione dominata da tabù e silenzi obbligati) alle
trasmissioni sulle elezioni Usa, che vanno piuttosto comprese e inquadrate
nei meccanismi della cultura politica americana. Inoltre, un’indagine
effettuata nel 2002 dalla Gallup (società americana leader nel
campo delle opinion poll) rivela che, su un campione di spettatori televisivi
di nove diversi paesi arabi, il pubblico della rete qatarense è più
aperto e favorevole all’Occidente4.
Quello che emerge dai contenuti di Al Jazeera non è dunque una visione
“anti”, ma piuttosto una visione “diversa” dalla narrazione occidentale
al cui monopolio siamo culturalmente abituati. E forse a disturbare
è proprio il fatto che la rete legga alla luce dei suoi propri valori
gli avvenimenti della contemporaneità. È l’affermazione su scala globale
del punto di vista arabo, fino a poco prima assente, che spiace tanto
da rivoltarlo in negativo e definirlo “antiamericanismo”; quando invece
si tratta, in positivo, di “arabismo”.
Il misunderstanding sui contenuti condiziona fortemente il primo
impatto con Al Jazeera, ma a un livello più profondo è piuttosto la questione
della forma della rete che impedisce di interpretarla nella sua
reale dimensione di fenomeno innovativo per le società arabe e per il
sistema mediale globale. Nella forma di Al Jazeera, l’analista abituato
ai parametri “occidentali” in uso nello studio dei media5 intravede una
serie di ambiguità: nella sua struttura, che si fonda sull’indipendenza
editoriale e sulla dipendenza finanziaria; nella sua natura “filosofica”
di media libero, ma privo di attributi giuridici che fissino, al di là del
tempo e dello spazio, questo principio; nel suo essere tribuna mediale
aperta e democratica, laddove la società di cui è espressione è invece autoritaria.
Su questi attributi apparentemente contraddittori si basa la
fragilità, e allo stesso tempo la forza di Al Jazeera, visibili se si prova ad
analizzare questa televisione nello specifico contesto politico e mediale
del mondo arabo, piuttosto che inserirla dentro cornici maturate in
ambiti culturali occidentali.
Proviamo a riflettere su una delle questioni centrali nell’interpretazione
ambigua che l’Occidente tende a dare di Al Jazeera: la confusione
negli assetti proprietari della rete fra finanziamento “pubblico” e
statuto privato. Al Jazeera introduce infatti un concetto piuttosto dissonante
per gli analisti occidentali: quello per cui è possibile dichiararla
canale indipendente e commercialmente orientato, mentre finanziariamente
rimane nelle mani del governo. Il capitale di Al Jazeera deriva
da una sovvenzione dello stato, che non è possibile nemmeno definire
pubblica, poiché non viene generata da una tassa versata dai cittadini
su modello del canone, ma discende interamente da risorse economiche
allocate dal governo. D’altra parte, la prima precisazione che
va fatta riguarda la difficoltà, dentro un modello di stato rentier (come
sono quelli del Golfo)6, nel distinguere fra il patrimonio della famiglia
reale e il patrimonio dello stato. Questa differenziazione è infatti piuttosto
sfumata, poiché introdotta tardivamente nel contesto locale – soltanto
nel 1950 – su pressione esterna e non a seguito di una domanda
interna7. La presenza del governo (cioè della famiglia reale) dentro Al
Jazeera non si traduce solo nel finanziamento diretto al canale, ma anche
nella posizione occupata dentro il consiglio di amministrazione
della rete, e nella metodologia con cui i suoi membri vengono selezionati.
Il presidente del canale è infatti Sheikh Hamad bin Thamer Al
Thani (membro della famiglia reale), mentre i restanti sei consiglieri di
amministrazione vengono scelti fra personalità ed esperti di media –
non necessariamente qatarensi – direttamente dal governo8.
Con un simile assetto proprietario e finanziario, è facile che l’indipendenza
editoriale di Al Jazeera venga messa in discussione. Al Jazeera
sarebbe infatti una televisione di proprietà del governo, finanziata
dal governo, con un consiglio di amministrazione scelto dal governo, e
però allo stesso momento pretenderebbe di esserne editorialmente slegata.
Un paradosso a cui è difficile credere, e infatti sono in molti ad
aver accusato Al Jazeera di essere liberale e aperta su tutto, tranne su
quello che coinvolge direttamente il Qatar: la situazione dei diritti
umani nel paese, la discriminazione degli espatriati rispetto alla popolazione
autoctona, le elezioni legislative promesse eppure mai realizzate,
i legami commerciali con Israele e, soprattuto, la massiccia presenza
militare e commerciale degli Stati Uniti sul suolo nazionale9. Al Jazeera
si difende dicendo che il Qatar subisce un trattamento simile agli altri10,
ma per il fatto di essere poco popolato e geopoliticamente meno
“pesante” di vicini come l’Arabia Saudita, gli viene assegnato di conseguenza
meno spazio televisivo.
Eppure, la coerenza sulla scelta de “l’opinione e l’opinione contraria”
(lo slogan della rete) è una strategia che rende Al Jazeera indipendente
editorialmente dal governo che la spesa, facendo guadagnare a
quest’ultimo, di rimando, prestigio e visibilità. Il vantaggio è reciproco,
poiché la vetrina aperta da “parlamento satellitare”, che trasforma Al Jazeera
nel “paese” più democratico del Medio Oriente, fa gioco al paese
reale, diventando strategia di diplomazia pubblica nelle mani dello stato
del Qatar. D’altra parte, per aver dato i natali a quest’innovativo
“strumento di marketing”11, il Qatar è ormai «prigioniero di se stesso»12,
nel senso che non può sottrarlo così facilmente dall’arena pubblica dove
l’ha scagliato. In un certo senso, il Qatar ha l’obbligo di mantenere
in vita Al Jazeera. E il paradosso che ne consegue è che Al Jazeera non
può fare a meno del Qatar, il quale a questo punto è la sua garanzia di
libertà: ovvero «il canale non può assolvere alla funzione che gli è stata
demandata dalle autorità dell’emirato se la sua indipendenza editoriale
non viene rispettata»13.
A causa di quest’apparente paradosso, il problema reale di Al Jazeera
non è tanto l’indipendenza editoriale – che le è garantita “d’ufficio”
per assolvere la sua funzione di strumento della diplomazia qatarense
– quanto quella finanziaria.
Nonostante il periodo di sovvenzionamento del canale da parte del
governo dovesse avere termine a cinque anni dal lancio, nei fatti questo
non è mai avvenuto. Ancora oggi, a nove anni dalla messa in onda
del primo programma di Al Jazeera, la rete è legata al finanziamento
governativo per la sua sopravvivenza. In questa situazione, è naturale
che molti osservatori si chiedano come è possibile che un canale diventato
ormai un brand globale – il quinto più famoso al mondo14 –
possa versare in una situazione economica così fragile da essere ancora
alle dipendenze finanziarie di quello stesso soggetto che, all’atto della
nascita, aveva stabilito un tempo preciso per il singolare “prestito”. Secondo
le leggi di mercato, un canale che ha collezionato scoop globali
e venduto le sue immagini ai network del mondo intero dovrebbe essere
un canale che guadagna. Secondo le leggi di mercato, una rete fondata
su obiettivi commerciali, che dopo nove anni di attività non si sostiene
economicamente, dovrebbe trovarsi in bancarotta o chiudere i
battenti. Ma la situazione di Al Jazeera, piuttosto ambigua agli occhi di
un analista occidentale, trova la sua ragion d’essere nella particolarità
del mercato arabo. La principale spiegazione si chiama Arabia Saudita:
il paese controlla l’andamento della pubblicità panaraba e, per motivi
facilmente identificabili – la libertà che i programmi della rete dimostrano
nel trattare le politiche dei regimi del Golfo, specialmente quello
saudita – Al Jazeera da anni soffre di un «embargo di fatto»15, le cui
conseguenze in termini di raccolta pubblicitaria e, perciò, anche di indipendenza
finanziaria, sono considerevoli.
Questa tendenza è evidente se si analizza la tabella con i ricavi pubblicitari
fornita dal centro studi panarabo Parc: nel 2003 i ricavi pubblicitari
sono poco più di 39 milioni di dollari, mentre nel 2004 arrivano
a circa 49 milioni di dollari. Una cifra comunque irrisoria, se paragonata
al suo successo globale e alle sue potenzialità, e che comunque va intesa
sempre “esclusi gli sconti”16. Ma è soprattutto la natura delle inserzioni
pubblicitarie su Al Jazeera ad essere spia del malfunzionamento
del mercato pubblicitario panarabo, i cui grossi investitori multinazionali
sono controllati, attraverso le filiali locali, dall’Arabia Saudita. Fra il
2003 e il 2004, tra le prime quindici marche che promuovono i propri
prodotti su Al Jazeera, soltanto la Kinder è una ditta internazionale e si
trova, fra l’altro, al quattordicesimo posto17; mentre i principali inserzionisti
della rete sono quasi tutti locali, spesso legati a imprese governative,
come Q-tel, Qatar General Petroleum o Qatar Gas18.
I grandi brand dell’advertising internazionale sono scarsamente presenti,
con piccoli investimenti che fra l’altro diminuiscono fra il 2003 e
il 2004. Una conseguenza indiretta, ma significativa, della copertura
della guerra all’Iraq, “sgradita”, oltre che all’Arabia Saudita, anche agli
Stati Uniti19.
La situazione provocata dal boicottaggio pubblicitario genera un altro
grande paradosso: Al Jazeera viene finanziata dallo stato del Qatar
non soltanto direttamente, attraverso il “prestito” che continua ad erogare
al canale, ma anche indirettamente, coprendo il vuoto pubblicitario20
con la promozione di prodotti e servizi nazionali, spesso legati al
governo stesso. Di fatto, il governo controlla le due principali fonti di
finanziamento del canale, cioè il sussidio pubblico e la pubblicità.
A questo punto è facile sospettare che il vantaggio a sponsorizzare
una rete in perenne perdita economica, oltre a quello già sottolineato
di immagine, sia di natura politica e ideologica. Eppure quello che oggi
appare essere Al Jazeera è un progetto di sviluppo, con un’immediata
ricaduta politica. Il Qatar sembra essersi dato come missione quella
di fornire, attraverso i media, gli strumenti per educare la società allo
sviluppo “democratico”, pur rimanendo questo un disegno predisposto
in maniera autocratica. Il punto che risulta difficilmente comprensibile
ad occhi occidentali è come possano nascere media liberi – con
il compito di educare e di promuovere lo sviluppo – da una società che
non è libera. Difficilmente si riesce, cioè, a comprendere come un media
originato da un regime autoritario, e non da un impulso della società
civile peraltro debolissima, possa contribuire in direzione di un’apertura
democratica. L’unica funzione politica che si viene così ad assegnare
“d’ufficio” ad Al Jazeera è quella mobilitativa, intesa nella sua
accezione populista (e negativa) di agitazione delle masse verso l’inasprimento
dei caratteri antidemocratici e in direzione del sollevamento
contro il modello “democratico” dell’Occidente. Questa paura, spesso
espressa dai critici di Al Jazeera, nasce da un’incomprensione culturale:
l’impossibilità di concepire che un media nato da un gene autoritario
sviluppi semi democratici. Eppure, per analizzare il possibile impatto
della rete qatarense come di tutto il broadcast panarabo sulla società
regionale, è necessario scrollarsi di dosso questa convinzione maturata
in un ambito culturale e sociopolitico, quello occidentale, estremamente
differente: e accettare che «i canali satellitari arabi sono molto
più che un semplice mass media: possono essere agenti di cambiamento,
e il loro ruolo è in molti sensi imparagonabile a quello dei media
occidentali»21.
Ciò significa, in concreto, che i canali all news arabi, Al Jazeera in testa,
potrebbero prendersi carico di alcune delle funzioni che tradizionalmente
vengono ricoperte dai partiti. Alcune, ma non tutte: poiché,
per far lavorare la funzione mobilitativa dei media arabi in direzione di
un’apertura democratica delle società e dei governi, c’è bisogno di istituzioni
che agiscano, che portino avanti programmi politici, che galvanizzino
azioni politiche. Se non esiste contraddizione nell’integrarsi,
dentro i palinsesti di Al Jazeera, della funzione informativa (caratterizzata
dal tentativo di essere equilibrata e pluralista) e di quella mobilitativa
(che deve educare e attrarre, per spingere all’azione partecipativa),
a condizione che la prima mantenga caratteristiche di apertura a
diversi punti di vista, il vero problema resta però l’assenza di una sponda
istituzionale. Se cioè la funzione mobilitativa di Al Jazeera resta una
funzione soltanto suppletiva, mentre manca la possibilità di tradurre la
mobilitazione virtuale in un contesto istituzionale fatto di atti e organismi
concreti, allora il rischio è che la mobilitazione satellitare resti
chiusa fra gli schermi e le parabole o che si dispieghi in una direzione
pericolosa. Ed ecco come la potenzialità iniziale che i media arabi funzionino
da agenti di cambiamento democratico può risolversi in un
nulla di fatto, addirittura aggravando la situazione.
Eppure, l’assenza di istituzioni garanti che il dibattito iniziato da Al
Jazeera in tv si trasformi in azione e partecipazione politica reale, non
è certo imputabile alla rete. Di fondo, Al Jazeera è e resta soltanto una
televisione. Ed è proprio questo il punto: non si tratta di differenze culturali,
quanto della natura stessa della televisione, della sua forma tecnologica
e della sua struttura finanziaria, che orientano il mezzo ad
una funzione spettacolare piuttosto che partecipativa. Lo ha sottolineato
molto bene, nei suoi studi sulle società dei media di massa, il sociologo
francese Guy Debord: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano
le condizioni moderne di produzione si presenta come
un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente
vissuto si è allontanato in una rappresentazione», mentre, di converso,
«la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello
spettacolo. (...) La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale
»22. Secondo le riflessioni di Debord, dunque, è la natura spettacolare
dei media di massa, prima di tutti proprio della televisione, a far retrocedere
la partecipazione nella sfera virtuale della contemplazione, piuttosto
che in quella dell’azione concreta. Ma questo sarebbe un problema
di tutti i mass media – implicito nella loro stessa natura – e non
una questione ideologica o culturale relativa ad Al Jazeera. «Andare oltre
la dimensione dello spettacolo», come lo studioso Jon Alterman23
augura ai canali satellitari arabi, sarebbe un’operazione forse contro natura
per la televisione, ancora di più se si guarda ad un trend globale
che, al contrario, tende ad accentuarne le caratteristiche spettacolari.
In quest’ottica resta preziosa la proposta dal sociologo Mohamed
Zayani: analizzare l’impatto di Al Jazeera sulla sfera pubblica24 e sulla
formazione di un’opinione pubblica panaraba, piuttosto che concentrarsi
sulle possibilità di portare la democrazia attraverso i media.
Esportare la democrazia con i media potrebbe essere un procedimento
fuorviante, poiché confonde la natura spettacolare del mezzo con quella
partecipativa. Ma se Al Jazeera non può cambiare direttamente le politiche
arabe, potrà senz’altro avere un impatto sulle modalità con cui
queste vengono percepite e dibattute nella sfera pubblica, esercitando
su di essa un’azione in direzione di un auspicato dinamismo.

1 Useremo il termine “Occidente”, ben consapevoli che è una generalizzazione (cfr. E. W.
Said, Orientalism, Pantheon Books, New York 1978), per indicare sia le entità geopolitiche
dell’Europa e degli Usa; sia, allo stesso tempo, per far riferimento al complesso di valori di
cui queste si fanno simbolicamente promotrici davanti al mondo intero.
2 Circa il 73% della sua copertura giornalistica è centrata sul mondo arabo. Cfr. M. El-
Nawawy, A. Iskandar, Al Jazeera: How the Free Arab News Network Scooped the World and Changed
the Middle East, Westview Press, Cambridge Mass. 2002.
3 A questo proposito, Al-Mirazi ha sottolineato: «Questo è il mio stile. (...) È un’occasione
per la nostra audience di conoscere il sistema politico americano. (...) Vogliamo sapere
da dove vengono gli americani, perché prendono queste decisioni. Più educazione dai al tuo
pubblico, e più il tuo pubblico apprezzerà e capirà gli altri». L. Wise, Interview with Hafez Al-
Mirazi, in Transnational Broadcasting Studies On Line, 2004.
4 Cfr. Lydia Saad, Al Jazeera Viewers Perceive West Differently, Gallup Poll tuesday briefing,
23.4.2002.
5 Si fa riferimento a tutti quei parametri utilizzati nello studio dei media in ambito occidentale:
parametri, fra gli altri, di tipo economico (modello di finanziamento pubblico tramite
erogazione del canone da parte dei cittadini; modello di finanziamento privato mediante
pubblicità e sponsorizzazioni; modello misto pubblico-privato; modello di finanziamento
diretto da parte dell’utente per mezzo di abbonamento, pay-per-view, eccetera)
che implicano un certo assetto proprietario; ma anche a parametri giuridici, ovvero a tutto
il complesso di leggi che in Europa e negli Stati Uniti garantisce la libera espressione a mezzo
stampa e TV, l’indipendenza di queste dal governo, eccetera.
6 Per approfondimenti, si veda G. Crystal, Oil and Politics in the Gulf. Rulers and Merchants
in Kuwait and Qatar, Cambridge University Press, Cambridge 1995.
7 Cfr. op. cit.
8 Fonte: Al Jazeera Channel Media Relation Department.
9 Secondo Jihad Fakhreddine, analista della Parc, infatti «il punto più debole di Al Jazeera
è proprio la relazione ambigua che lega il Qatar con gli Usa, relazione che la rete evita
fortemente di toccare e affrontare nei suoi programmi». Intervista personale, Dubai, gennaio
2005.
10 In un episodio del programma “Without borders”, il 15 novembre 2000 il giornalista
Ahmad Mansour ha intervistato Hamad Ben Jassim, ministro degli esteri del Qatar, trattando
apertamente la questione dei rapporti fra il governo e Al Jazeera. Nel corso di altre trasmissioni
è stata anche affrontato il tema della presenza militare Usa, ma con un tono piuttosto
“neutro”. Cfr. O. Lamloum, Al-Jazira, miroir rebelle et ambigu du monde arabe, Editions
La Découverte, Paris 2004.
11 Cfr. N. Sakr, Satellite Realms. Transnational Television, Globalisation and the Middle East, I.
B. Tauris, London 2001.
12 O. Da Lage, intervista personale, Parigi, marzo 2005.
13 O. Lamloum, Al-Jazira cit.
14 Secondo una ricerca di Brand Channel, gennaio 2005.
15 Così nelle parole di Jihad Ali Ballout, portavoce della rete. Cfr. D. Della Ratta, Al Jazeera
la tv in onda dall’inferno, “Il manifesto”, 19.3.2003.
16 Fonte: PARC (PanArab Research Center), Ad revenues in PanArab channels 1996-2004.
17 Fonte: PARC, Ad spending on Al Jazeera 2003-2004.
18 Q-tel è al terzo posto, con 4,913 milioni di dollari; Qatar general petroleum company è
al quarto, con 4,163 milioni di dollari; Qatar Gas è al quinto, con 3,772 milioni di dollari;
Qatar Electric al settimo con 3,175 milioni di dollari; Qatar Airways al nono, con 2,309 milioni
di dollari; Qatar festivals al dodicesimo con 1,858 milioni di dollari. Fonte: PARC, Ad
spending on Al Jazeera, 2003-2004.
19 Non vogliamo sostenere un’intrusione diretta degli Stati Uniti negli affari pubblicitari di
Al Jazeera: si tratta, piuttosto, di un’autocensura o comunque della deliberata scelta degli investitori
di non legare i proprio prodotti all’immagine di un’emittente che ha trasmesso immagini
“controverse” come quelle degli ostaggi occidentali.
20 Il tempo dedicato alla pubblicità su Al Jazeera sarebbe scarsissimo: «Chi guarda Al Jazeera
per più di qualche minuto noterà immediatamente una delle principali differenze con
le altre reti all news: la quota bassissima di spot pubblicitari. Al Jazeera ha soltanto da 40 a
45 minuti di pubblicità al giorno, mentre Cnn ne ha 300 minuti». H. Miles, Al Jazeera. How
Arab TV News Challenged the World, Abacus, London 2005. Nel 2004 sarebbero scesi a soli
25 minuti giornalieri. Fonte: Moussa Nuseibeh, capo advertising di Al Jazeera.
21 K. Hafez, Arab Satellite Broadcasting: An Alternative to Political Parties?, in Transnational
Broadcasting Studies on Line, 13, 2004.
22 G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 1997.
21 Jon B. Alterman, The Key is Moving Beyond Spectacle, in “The Daily Star”, 27.12.2004.
24 Nel senso che attribuisce al termine Jürgen Habermas (public sphere). Per approfondimenti
si veda J. Habermas, The Structural Transformation of the Public Sphere, Cambridge Mit
Press 1989.

http://www.dominoloop.it/mediaorien/articles/occidente_aljazeera.pdf

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