mercoledì 26 maggio 2010

In Italia duecento anni di rivoluzione passiva

Ieri come 150 anni fa emerge la debolezza delle forze politiche e sindacali

Alberto Burgio
Molte pagine dei Quaderni del carcere sono dedicate al Risorgimento e al processo unitario italiano. Gramsci vi formula giudizi forti e aspri, che non mancheranno di suscitare polemiche nei primi decenni del dopoguerra. Alessandro Pizzorno sosterrà che lo scontro tra Rosario Romeo e lo stesso Chabod (entrambi critici nei confronti dell'interpretazione gramsciana del Risorgimento) da una parte, ed Emilio Sereni, Giorgio Candeloro ed Ernesto Ragionieri dall'altra (ma si potrebbero fare anche i nomi di Renato Zangheri, Aurelio Macchioro e Luciano Cafagna) costituì «il maggior dibattito storiografico italiano del dopoguerra». E' un giudizio condivisibile, e il fatto non dovrebbe sorprendere data la stretta correlazione istituita da Gramsci tra Risorgimento e arretratezza italiana, un tema, quest'ultimo, centrale anche nelle discussioni storiografiche del secondo Novecento.
Ma andiamo con ordine. L'attenzione dei Quaderni per il processo unitario italiano obbedisce in prima battuta a ragioni di carattere generale. Gramsci è convinto - e lo teorizza - che la riflessione sulla storia sia cruciale per la politica. Non c'è buon politico che non sia anche un buono storico; non c'è possibile intelligenza politica se non vi è conoscenza critica degli accadimenti. Non solo per banali ragioni di ordine genetico (non occorre essere inveterati storicisti per sostenere che il presente discenda dal passato), ma anche per più problematiche considerazioni di ordine teorico e metodologico. Il passato, secondo Gramsci, offre un variegato arsenale di esperienze che permettono di costruire schemi concettuali e modelli analogici preziosi per l'elaborazione di comparazioni storiche a loro volta indispensabili al ragionamento politico. In parole povere: capire cos'è successo in passato serve a decifrare il presente e a formulare previsioni sul futuro in quanto si verificano situazioni tipiche, costellazioni di fatti e situazioni in qualche modo ricorrenti. Per questo Gramsci è convinto che «scrivere storia significa fare storia del presente» e che «è grande libro di storia quello che nel presente aiuta le forze in isviluppo a divenire più consapevoli di se stesse e quindi più concretamente attive e fattive».
Alla base dell'interesse di Gramsci per il Risorgimento italiano vi è poi una ragione concreta, di merito. L'unità d'Italia, quando il fascismo conquista il potere, ha appena compiuto sessant'anni, Roma è capitale da appena mezzo secolo. Non è difficile intuire che tale infausto approdo sia almeno in parte conseguenza del processo unitario, delle sue forme, delle sue logiche di classe, dei problemi che non seppe affrontare e di quelli che contribuì ad aggravare. Non si può capire il presente (il fascismo) senza farsi un'idea precisa del passato prossimo (il Risorgimento): di questo Gramsci è convinto quando, nel carcere, si arrovella intorno alle cause del sopravvento delle forze reazionarie e della stessa «mancata difesa» da parte del movimento operaio.
Che cosa fu dunque il Risorgimento agli occhi di Antonio Gramsci? Fu la serie degli avvenimenti che consentirono alla borghesia italiana di unificare il Paese senza coinvolgere le classi popolari, il «popolo-nazione». O meglio: servendosi di esso, ma evitando accuratamente di inserirlo nel novero delle forze dirigenti, nel «quadro statale», e persino di «svilupparne gli elementi progressivi» allo scopo di «suscitare una classe dirigente diffusa ed energica». Risalta così subito a giudizio di Gramsci la fondamentale differenza rispetto al processo rivoluzionario francese, visto che i giacobini riuscirono a dar vita a una «compatta nazione moderna» in quanto ebbero invece il coraggio politico di allearsi col proletariato rurale e urbano nella lotta antifeudale.
Nel caso italiano pesò dunque l'angustia corporativa della classe borghese, la sua vocazione proprietaria, il costante disprezzo per il «metodo della libertà», stando al quale la costruzione del nuovo richiede che «tutto uno strato nazionale, il più basso economicamente e culturalmente, partecipi ad un fatto storico radicale». Il punto-chiave, secondo Gramsci, consistette nella (mancata) riforma agraria. Non avere nemmeno preso in considerazione un diverso assetto (allargato) della proprietà fondiaria costrinse il processo unitario entro ferrei vincoli di classe, imponendo alla modernizzazione italiana di compiersi entro il quadro sociale ereditato dalla «vecchia società» aristocratica. Prevalevano elementi di continuità, in un processo rivoluzionario gestito dall'alto, secondo il modello che, com'è noto, Gramsci definisce di «rivoluzione passiva».
Fu proprio l'argomento della riforma agraria ad attirare sull'interpretazione gramsciana gli strali della storiografia conservatrice (Chabod e Romeo) e dello stesso Croce, il quale accusò Gramsci di retrodatare alla metà del XIX secolo un problema sociale ed economico che si sarebbe potuto porre, al più, 30 o 40 anni dopo. Fatto sta che Gramsci legge criticamente il processo unitario su uno sfondo di lungo periodo che abbraccia «tutta la storia dal 1815 in poi» e che «mostra lo sforzo delle classi tradizionali per impedire la formazione di una volontà collettiva» assimilabile a quella volontà générale che in altri Paesi agì da protagonista nella costruzione della società e dello Stato moderno.
Questo tratto negativo avrebbe, secondo Gramsci, pesato nel lungo periodo, a valle del processo unitario. In primo luogo, cristallizzando il divario tra Nord e Sud («l'unità non era stata creata su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Sud nel rapporto territoriale città-campagna: il Nord era una "piovra" che si arricchiva alle spese del Sud, e l'incremento industriale era dipendente dall'impoverimento dell'agricoltura meridionale»). In secondo luogo, premiando la vocazione corporativa e reazionaria della borghesia italiana, che anche prima del fascismo avrebbe puntualmente fatto ricorso alla violenza coercitiva (si pensi alla brutale repressione dei moti siciliani e torinesi negli ultimi anni dell'Ottocento) ogni qual volta fosse stata sfidata dalla collera popolare.
Duramente Gramsci definisce «bastardo» lo Stato nato in tale dinamica storica. Ma l'idea di «rivoluzione passiva» chiama in causa anche le responsabilità della controparte democratica, la cui subalternità e inettitudine permise a Cavour e alla monarchia piemontese di dirigere il processo escludendone le classi subalterne e annettendosi militarmente il Mezzogiorno. Qui dovrebbe cominciare tutt'un altro discorso, forse il più importante per Gramsci e e per noi stessi oggi.
E' chiaro infatti che, pensando al Partito d'Azione, a Mazzini, Garibaldi e Pisacane, Gramsci pensa anche alle forze politiche e sindacali che di fatto si arresero senza colpo ferire alla reazione fascista nel dopoguerra. Come si diceva, la storia insegna a decifrare la politica. Le rivoluzioni passive di ieri aiutano a riconoscere le rivoluzioni passive di oggi. In verità, dovrebbero anche servire a prevenirle o a sventarle, ma raramente ciò accade. Noi stessi siamo chiamati in causa a questo riguardo, se è vero che - come sembra - quanto avvenne tra il 1848 e il 1870 non si è ripetuto soltanto settant'anni dopo con l'avvento di Mussolini, ma anche nei trent'anni che stanno alle nostre spalle e che hanno visto la brutale reazione capitalistica alle lotte operaie e sociali degli anni Sessanta del Novecento. E' almeno da due secoli che la storia italiana va avanti a forza di rivoluzioni passive, e se questo è in parte "merito" delle forze dominanti, è in pari misura responsabilità dei loro deboli e inconsistenti avversari.

Liberazione 23/05/2010, pag 14

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