venerdì 18 dicembre 2009

Case editrici, chi decide nella stanza dei bottoni

Amministratori, commerciali e presidenti: la mappa dell'industria culturale

Luca Canali
L'editoria sta diventando la cartina di tornasole della crisi generale, economica, etica, culturale del nostro paese. La recente Fiera della piccola e media editoria che si è svolta a Roma, ha suscitato riflessioni non estranee alla cosiddetta "rivoluzione neoliberista" e alla pseudodemocrazia capitalista fuori controllo (malgrado la presenza di numerosi "bocconiani" in varie sedi del potere mediatico), che vanno di pari passo con i danni provocati dalla insopportabile mediocrità dei nostri programmi televisivi. In proposito, Alessandro Baricco e Francesco Merlo (sulle pagine di Repubblica del 5 dicembre) hanno auspicato, soprattutto Baricco, una televisione di "qualità" che trasmetta in prima serata teatro e concerti. Ma Baricco dimentica che, purtroppo, alcuni anni fa, la causa dell'allontanamento del compianto Enzo Siciliano dal suo incarico di Direttore generale della Tv di Stato, fu l'aver voluto trasmettere in prima serata un'opera lirica, provocando un crollo pauroso dell'ascolto. Gli spettatori, una folla di persone scarsamente acculturate, non sarebbero dunque favorevoli all'aumento del contenuto culturale e artistico delle trasmissioni.
Lo dimostra un altro fatto anch'esso in apparenza "minimo", in realtà strepitoso, documentato dal Corriere della sera del 6 dicembre, nella pagina dedicata alla classifica dei libri più venduti: il libro Il tempo che vorrei di Fabio Volo - che non è nuovo a questi exploit -, uscito solo da una settimana, è balzato in vetta, schiacciando Dan Brown, Baricco e Ammaniti. Ma lasciamo parlare Volo (leggibile nella stessa pagina), che si esprime con una onestà baldanzosa e feroce (pregherei intellettuali e politici di leggere con attenzione queste righe): «Non ho uno stile letterario, forse non sono nemmeno uno scrittore. In Italia, con tutto quello che ho fatto e faccio - radio, tv, cinema - non capisco mai come mi vede la gente che compra i miei romanzi». Malgrado le sue parole, in sei giorni Volo ha venduto centomila copie. Nei giri promozionali che egli farà in tutta Italia occorrerà (avverte l'editore) addirittura prenotarsi per assistere alle presentazioni del suo libro «visto il pieno che egli fa ad ogni apparizione». Il segreto del suo successo? Una trama da mediocre fiction televisiva, vagamente patetica: il padre barista indebitato, poi malato di cancro, un'adolescenza non facile, un amore fragile, una fuga in città a cercare una difficile collocazione, una madre preoccupata dalle analisi mediche del marito, un'educazione umiliante. E lo stile? Risponde Volo: «Probabilmente mi viene dalla radio, dal modo di parlare con la gente». Ecco qui: con la gente: la gente che viene da una scuola scadente, dalle lunghe sere assonnate davanti al video che trasmette le solite storie di poliziotti, di violenza, di misteri, sempre gli stessi (Lucarelli basta! Torna a scrivere Almost blue !). Vi sono librai giustamente disperati per la concorrenza schiacciante delle grandi catene di distribuzione e vendita di libri. Ma non meno disperati i negozi di alimentari costretti a chiudere per la vicinanza dei supermercati. Ma l'editoria che c'entra? si chiederà. C'entra perché, chi decide nelle case editrici, anche nelle più potenti, non sono più i Direttori editoriali, ma i "commerciali", uomini che fanno il loro mestiere, vanno a consultare i registri delle vendite e cancellano i buoni libri che vendono poco, autorizzando la pubblicazione di quelli, anche brutti, o mediocri, ma che vendono molto. Ma come dar loro torto? Fanno il loro mestiere: i loro superiori (gli amministratori delegati, i presidenti etc.) forse li licenzierebbero se il bilancio finisse in rosso, e poi non sono neanche loro i capi perché ci sono i capi dei capi e i grandi azionisti segreti della holding, ma anche le banche. E allora gli Uffici stampa sgomitano, zufolano alle orecchie dei critici per ottenere o suggerire recensioni; e i recensori a loro volta contendono fra loro per ottenere le recensioni più prestigiose o quelle che a loro premono di più; da non dimenticare, le pressioni per avere il "passaggio" in radio o in televisione procurato da qualche amico influente, o da un amico dell'amico, o dalla "fidanzata" d'un sottosegretario, etc.
L'industria culturale, si dice. In realtà si tratta più di industria che di cultura. Ma in tutto ciò non c'è vera colpa, perché questa è la spietata legge del mercato, e non può essere altrimenti, la morale e la qualità non contano, conta il profitto, la casa al mare e in montagna, la vacanza a Cortina o Portorotondo, la fuoriserie, le costosissime cure per le malattie in cliniche di lusso private. Allora non vi sono colpe? No, perché è il sistema che è marcio e bisogna o accettarlo o cambiarlo con la lotta: la società non può avere al suo vertice un piccolo gruppo di straricchi, una base ove crescono sempre più disoccupazione e povertà, e al centro una parte d'una strana e composita borghesia disorientata, ma a sua volta incline a divenire cinica e vorace. Tuttavia anche questo, fuori da ogni considerazione morale, è il segno di una inquietante, e in fondo autolesionista, perdita di fiducia e solidarietà semplicemente umana. Allora viene in mente la famosa frase di Musil: «Non resta altro che fare la rivoluzione o urlare coi lupi».

Liberazione 18/12/2009, pag 9

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