mercoledì 16 settembre 2009

Caucaso, il giardino di casa di Mosca

L'annuncio di Putin: più militari in Abkhazia. In Inguscezia ucciso il ministro dell'edilizia. In atto la guerra per le vie del petrolio

Una polveriera che sta per scoppiare.

Matteo Alviti
Una polveriera. Stavolta i Balcani, o come sarebbe meglio dire, l'Europa sudorientale, non c'entrano. Non c'entra Francesco Ferdinando, né la Giovane Bosnia. La polveriera, oggi, è altrove, un migliaio di chilometri a est, sull'altra sponda del Mar Nero, fino al Caspio. Abkhazia, Ossezia del sud, Cecenia, Inguscezia, Daghestan. Tre repubbliche della Federazione russa, le ultime, e due autoproclamate repubbliche indipendenti, che per tutto il mondo, tranne la Russia e il Nicaragua, fanno ancora parte della Georgia.
Di ieri è la notizia, annunciata direttamente dal primo ministro Putin in visita in Abkhazia, che Mosca intende spendere l'anno prossimo 500 milioni di euro per rinforzare la sua presenza militare nella regione separatista. Dopo le guerra georgiano-abkhaze dei primi anni '90 e la russizzazione della provincia, Mosca intende oggi raccogliere i frutti di una politica a lungo praticata e che ha subito una svolta con la guerra russo-georgiana dell'anno scorso. L'Abkhazia ha un valore strategico notevole per Mosca, anche perché la nuova base navale che il Cremlino ha intenzione di costruire a sud di Sukhumi potrebbe diventare l'alternativa a quella attualmente dislocata su territorio ucraino, governato da un presidente, l'arancione Yushchenko, niente affatto amico.
Ma è possibile trovare un filo rosso che unisca la questione russo-georgiana con gli episodi di violenza sempre più brutali che stanno sconvolgendo negli ultimi mesi le regioni del Caucaso del nord? «La cosa che salta subito agli occhi», ci spiega Uwe Halbach, esperto per l'area del think-tank tedesco Stiftung Wissenschaft und Politik, «è la volontà di assicurare stabilità, benessere e indipendenza ad Abkhazia e Ossezia del sud mentre le vicine repubbliche di Cecenia, Inguscezia e Daghestan recentemente sono diventate sempre più instabili».
Più visibili, agli occhi dell'Occidente, sono stati i massacri cominciati con la seconda guerra cecena, nell'ottobre del 1999, anche grazie al lavoro della giornalista russa Anna Politkovskaya, uccisa proprio per i suoi reportage nell'ottobre del 2006. Meno noti i tanti omicidi, rapimenti, le violenze reciproche tra militanti musulmani, mafie locali, e rappresentanti dei governi corrotti e controllati dal Cremlino di Inguscezia e Daghestan. Le due repubbliche sono finite recentemente nelle cronache per i recenti gravi omicidi di alcuni attivisti per i diritti umani. Natalia Estemirova, dell'organizzazione russa Memorial - che ora ha chiuso la sede cecena -, rapita a Grozny il 15 giugno e ritrovata con un colpo al petto e uno in testa in Inguscezia. Zarema Sadulayeva, direttrice di Save the Generations, un istituto di carità per bambini, e suo marito Alik Dzhabrailov, rapiti in Cecenia l'11 agosto e abbandonati, crivellati di colpi, in un'auto. Poi i giornalisti, rimasti sconosciuti, morti per le loro denunce, come Malik Akhmedilov, ucciso sempre due giorni fa in Daghestan. Ma a morire sono anche politici di prim'ordine: ieri il ministro dell'edilizia inguscio Ruslan Amerkhanov è stato assassinato in un attentato a mano armata. Il 22 giugno il primo ministro inguscio Yunus-Bek Yevkurov è stato ferito gravemente da un'autobomba. Il 10 giugno il vicecapo della Corte suprema inguscia Aza Gazgireyeva è stato assassinato. Il 5 giugno il navigato ministro degli interni del Daghestan Adilgerei Magomedtagirov è caduto vittima di un attentato. Tutto questo accade nonostante ora, da quelle parti, i movimenti separatisti non siano più forti come negli anni '90 e nelle elezioni - sulla cui trasparenza è più che lecito dubitare - il partito di Putin raccolga sempre grandi successi.
La situazione è estremamente complessa e sembra impossibile attribuire fatti così diversi a un'unica regia. Non potrebbe tanto nemmeno il "re" ceceno Ramzan Kadyrov, che dopo l'inizio del ritiro delle truppe speciali di Mosca, lo scorso 16 aprile, e la fine del regime di sicurezza imposto nel 1999, sembra avere perso il controllo della situazione. Non potrebbero, certo, avere piena responsabilità le milizie di estremisti islamici che flagellano la regione. Seppure due organizzazioni, Sharia Jemaah e Rijad us Salihin, fondata da Shamil Basayev - terrorista ceceno ucciso nel 2006 -, che combattono per un emirato del Caucaso, hanno rivendicato in internet gli attentati contro i politici del Daghestan e dell'Inguscezia. Né le tante mafie locali che operano indisturbate, nella migliore delle ipotesi, se non in combutta con i poteri politici locali. L'ipotesi più probabile, conferma Halbach, è che queste realtà si muovano in una situazione di caos stringendo alleanze temporanee. Tutto accade in una situazione socioeconomica disastrosa, con la disoccupazione che in alcune aree ha ormai raggiunto il 50%, soprattutto tra i giovani. Giovani, senza lavoro e senza istruzione. Sono loro il futuro del terrorismo islamico locale.
In questo caos Mosca tenta di giocare al meglio la sua partita. Secondo Halbach sono tre i fattori complementari che concorrono a determinare l'interesse russo per l'area, tutti e tre, se presi singolarmente, sopravvalutati. Da una parte la questione, nota, del transito di oleodotti dall'Azerbaigian attraverso Cecenia e Daghestan fino al porto russo sul Mar Nero di Novorossiysk. In corso ci sarebbe una guerra per le vie del petrolio e del gas. La seconda ragione, molto connotata ideologicamente, sarebbe l'avanzata di Washington nell'area e la risposta di Mosca, che spesso va oltre la reale importanza strategica della regione, sia da parte russa che statunitense. La terza, anch'essa connotata ideologicamente, è il mantenimento della politica di potenza russa sulla regione. La Russia di Vladimir Putin, prima, e quella del presidente delfino Dmitri Medvedev - ancora sulla strada del difficile affrancamento dal re sole, che gli ha lasciato lo scettro del potere -, combatte da anni una guerra silenziosa per mantenere il controllo su quelle aree, poverissime eppure importanti.
Nel tempo gli obiettivi del Cremlino sono cambiati, spiega Halbach: se durante il governo Eltsin si scontravano almeno sei o sette strategie diverse per l'area, con l'era Putin le opzioni si sono drasticamente concentrate. Il che non vuol dire che ci sia ora un'idea chiara. «E' famoso l'episodio della delegazione georgiana in visita a Mosca, prima che peggiorassero i rapporti con il presidente Saakashvili, nell'estate del 2004. Quando i nuovi governanti eletti a Tbilisi chiesero cosa volesse il Cremlino per l'area, nessuno fu in grado di dare una risposta precisa».

Liberazione 13/08/2009, pag 13

Nessun commento: