giovedì 10 settembre 2009

«Thatcher e Berlusconi, liberisti col consenso delle masse»

Stuart Hall teorico degli studi culturali

Giorgio Baratta
e Derek Boothman
Negli anni Settanta e Ottanta lei diede un nuovo slancio all'analisi delle egemonie utilizzando il concetto di "populismo autoritario" per qualificare ideologia e pratica di Margaret Thatcher. Negli anni Novanta, all'epoca di Craxi, Franco Fortini cominciò a parlare del pericolo di "fascismo democratico" in Italia («qualcosa di non ancora mai visto»). Quanto conta per lei quest'approccio analitico, nel caso sia di Thatcher che di Berlusconi: è ancora attuale per l'analisi dell'egemonia?
Molti in Inghilterra vorrebbero tornare all'idea di populismo autoritario, ma non sono totalmente convinto che quest'espressione sia adeguata al momento attuale. Allora io avevo acquisito consapevolezza di una serie di dimensioni nuove della lotta egemonica, così da coniare il paradosso od ossimoro rappresentato dal connubio tra autorità e popolare. In effetti, nelle sue pratiche la signora Thatcher operava a partire da un senso politico che riteneva germinato nel decennio precedente e che richiamava la nozione gramsciana di "popolo" o meglio di "popolare". Thatcher si rivolgeva a tutti con parole semplici, parlava di economia in termini di spese familiari. Il suo intento era trasferire il senso di crisi che aveva elaborato con questo orientamento "popolare" in un modo particolare di governare. Ma da questo punto di vista era un'autoritaria, pronta a usare il linguaggio della forza. Qualcuno ha riassunto la politica di Thatcher con l'espressione "libero mercato, stato forte". Il populismo autoritario è il connubio tra popolo, autorità e mercato. E' un'immagine del sentire comune. Sono tutti lì al supermercato, il problema è quanto e che cosa si può comprare: un problema di tutti i giorni, che permea la comprensione spontanea degli individui, direbbe Gramsci. Come si affronta una questione del genere suscitando consenso e nel contempo articolando le soluzioni all'interno di un regime politico che viene da un centro forte nello Stato? A questa domanda rispose il populismo autoritario della signora Thatcher.

Pensa che la situazione ora sia diversa?
Penso di sì, anche se non so bene come. Gramsci si chiederebbe: c'è stato un mutamento o siamo ancora all'interno della stessa congiuntura? Questa domanda è sempre la premessa fondamentale, dal punto di vista gramsciano.

Come considera Berlusconi in questo contesto? I suoi capisaldi sono senz'altro di matrice autoritaria.
Credo che Berlusconi sia un esponente esemplare del populismo autoritario. Non avrei dubbio ad applicare a lui quella mia vecchia formula, in particolare per il legame fortissimo che egli stabilisce tra media, sport, intrattenimento ecc., quali ingredienti essenziali per governare uno Stato negli interessi di queste stesse attività. Da questo punto di vista non sono convinto che Brown sia un populista autoritario. Vedete quindi che il concetto specifico vale solo in determinate situazioni, pur essendo comunque di aiuto nell'analizzare la congiuntura attuale. Bisognerebbe però indagare il consenso popolare ai cambiamenti economici, ciò che Gramsci considera la struttura fondante per un'analisi congiunturale, la quale è complicatissima e varia da una società all'altra.

Brecht ha detto una volta che il concetto di popolo ha acquistato un'ambivalenza tale che forse è meglio non usarlo più. Lo stesso Gramsci usa molto più volentieri "società civile" che "popolo", che ha valenza ora positiva, ora negativa; è un concetto estremamente mobile e precario, destinato a sciogliersi in una diversa configurazione. Per Gramsci la società civile è il futuro del popolo. Il "ritorno" al popolo, e pertanto il populismo, oggi, è un dato regressivo. Di segno diverso è il concetto di "popolare", soprattutto quando Gramsci lo usa in connessione con "nazionale".
Sono perfettamente d'accordo. Anch'io vedo troppe ambivalenze nel "popolo", mentre ritengo molto preziosa la nozione di "popolare". Sono due cose affatto diverse. Voi fate giustamente riferimento al "nazionale-popolare". Ci sono distinzioni importanti da fare, ma per Gramsci "nazionale-popolare" non è solo un modo tramite cui riferirsi alla nazione: è una costruzione, o meglio il momento unitario di una costruzione, senza la quale non si sarebbe potuta affermare una nuova fase storica, una nuova congiuntura. Voglio chiarire quest'aspetto anche per differenziarlo dall'uso che si fa, strumentale, di "popolo": concetto estremamente scivoloso. Si vede subito che se un politico vuole essere ambiguo e dice: «tutto il popolo pensa…», in realtà vuole dire: «io penso così e voglio che gli altri dicano quello che penso io... voglio raggiungere una legittimazione del consenso popolare». Questo è un segno dell'egemonia. Quando parlo di "populismo autoritario", mi riferisco non al popolo britannico di allora, ma al modo in cui la sig.ra Thatcher operava sul "popolare", nel senso che si proponeva di spingere il "popolare" verso destra, alla luce di una strategia "nazionale-popolare" il cui obiettivo era di "mercificare la Gran Bretagna".

Oggi dovremmo parlare di "inter-nazionale-popolare", che è il terreno demografico-culturale della globalizzazione, attraversato da una venatura profonda: la diaspora. Non è certo un caso che il "populismo autoritario" italiano di oggi abbia sferrato una grande offensiva contro il popolo delle diaspore a partire dal decreto sulle impronte digitali ai bambini dei rom e delle famiglie nomadi. Siamo in aperto razzismo e ci chiediamo quale possa essere un'appropriata lotta egemonica contro questa onda. Ci chiediamo anche: l'interculturalismo, o multiculturalismo, rende obsoleto o comunque modifica lo schema nazionale-popolare, che continuava a operare nella stagione del populismo autoritario?
I musulmani non rinunceranno alla loro religione, non rinunceranno al loro sentirsi diversi, ma se devono divenire parte della società britannica l'essere inglese deve cambiare e loro devono adattarsi. Il processo è complicato. Il multiculturale sta dappertutto. Attraversi New York e un quarto della gente parla spagnolo, vai a Parigi nei sobborghi e scopri che sono nord-africani, vai a Manchester e la metà delle persone sono nere, vai a Bradford e la metà è di origine asiatica.
La globalizzazione mette tutto in connessione, le multinazionali connettono i poveri che guadagnano un dollaro al giorno nel terzo mondo con i grattacieli di Manhattan. Si è aperto un territorio nuovo e diverso. Non dico che Gramsci non abbia niente da dire a tale proposito, ma poiché i suoi concetti sono stati elaborati all'interno dello schema nazionale, mi chiedo come possiamo noi trasferirli nel nostro contesto più globale. La relazione della Sardegna con l'Italia può considerarsi la stessa di quella dei Musulmani rispetto a Bradford? Non lo so, ma è questa la domanda. Il punto è se ho ragione a dire che la globalizzazione mina la forma sociale nata col thatcherismo. Il populismo autoritario non ha affrontato queste domande. Personalmente sono arrivato alla questione della globalizzazione negli anni Novanta, quando cominciavo a intuirne le conseguenze.

Liberazione 12/05/2009, pag 13

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