mercoledì 16 settembre 2009

Tajikistan, tra islamismo, repressione, emigrazione e traffico di droga

La stretta sul movimento salafita e le tiepide operazioni anti-droga per accreditarsi presso la comunità internazionale

Giuliano Battiston
Dushanbe
Alla moschea di Zarafshon, nella periferia di Dushanbe, capitale del Tajikistan, sono pochi quelli hanno voglia di parlare. Dopo gli arresti che il 23 giugno hanno portato in carcere quarantatré frequentatori abituali di questo edificio semplice e ordinato, incluso il leader spirituale Mullo Sirojiddin, i sospetti verso le facce sconosciute sono ovvi. Le bocche restano cucite e gli sguardi torvi. Perlomeno in un primo momento. Perché dopo qualche giorno di tentativi e mediazioni, di "annusamenti" reciproci e accertamento di credenziali, le barriere iniziali vengono meno. E qualcuno si mostra perfino ansioso di raccontare la sua verità. Che è opposta rispetto a quella presentata dal governo tajiko, secondo il quale in queste stanze il principale movimento salafita del paese, divenuto illegale all'inizio del 2009 per decisione della Corte suprema, avrebbe fomentato le divisioni interreligiose, propagandando idee estremiste. Un reato punibile fino a 12 anni secondo l'articolo 189 del codice penale.
Per Guliev Mamadsho, che nonostante la giovane età sostiene di aver già passato dei periodi di studio nelle madrase del Pakistan e dello Yemen, l'operazione del governo «è tutta una montatura, una mossa politica per screditarci. Noi non facciamo altro che seguire le regole del profeta, reclamando una coerenza tra quanto si predica e quanto si fa». L'obiettivo polemico di Guliev, che all'esterno della moschea ha allestito un piccolo chiosco dove vende testi sacri, profumi e incensi, non è solo il presidente Emomali Rakhmonov, ma il Consiglio dei clerici, l'istituzione che in Tajikistan rappresenta ufficialmente i musulmani. Per Guliev si tratta «di un gruppo di uomini che cercano solo potere e denaro, disinteressati ai bisogni della gente, a cui chiedono somme enormi per officiare matrimoni e funerali». Mentre il Consiglio dei clerici guarda al movimento salafita come a un virus pericoloso, che diffonderebbe idee estranee alla tradizione locale, rimasta finora sufficientemente impermeabile alle rigide interpretazioni prevalenti in Arabia saudita. Una posizione che ricalca quella del governo tajiko, che negli ultimi tempi pare voler seguire le politiche già adottate dal confinante regime di Islam Karimov, il despota uzbeco che ha fatto della repressione indiscriminata dei movimenti musulmani un suo cavallo di battaglia.
Poche settimane fa, per bocca dei suoi portavoce, il presidente tajiko Rakhmonov ha ribadito di non tollerare nel paese nessun movimento integralista. E negli ultimi mesi ha intensificato la demolizione degli edifici di culto. Secondo Ulugbek Nurmamad, un venticinquenne che abita nel quartiere che si nasconde dietro la moschea di Haji Yakoub, le scelte del presidente possono anche essere animate da buone intenzioni, «ma i modi sono sbagliati e controproducenti». Le idee predicate nella moschea di Zerafjson sarebbero infatti davvero pericolose, ma le politiche di Rakhmonov non farebbero altro che spingere sempre più persone, specie i giovani, verso l'integralismo: «se ci toglie il diritto di essere musulmani, di pregare, di seguire le nostre regole, di incontrarci liberamente con i nostri fratelli, è ovvio che molti si spingano verso forme intransigenti». E a pensarla così sono in molti a Dushanbe. Il presidente Rakhmonov, però, sembra convinto della strada scelta. Anche perché preoccupato per l'apparente ritorno nel paese di militanti islamisti intenzionati a sfidare l'autorità centrale. Con le armi.
Il 15 maggio scorso, nella valle di Rasht, duecento chilometri a est della capitale, il governo ha lanciato l'operazione Kuknor (Oppio), destinata secondo le dichiarazioni ufficiali a combattere il traffico di droga e sradicare le coltivazioni d'oppio. In Tajikistan, però, tutti si dicono convinti che dietro quest'operazione ci sia il tentativo di catturare Abdullo Rakhimov. Conosciuto anche come Nullo Abdullo, leader dei gruppi di ispirazione islamista che durante la guerra civile (1992-97) combatterono contro le forze governative radicate nel nord e del sud del paese, Rakhminov è stato uno dei pochi comandanti a rifiutare gli accordi di pace firmati nel 1997. Continuando a sfidare il nuovo governo con frequenti incursioni dalle basi in Afghanistan. Catturato nel 2000, pare sia riuscito a lasciare il paese anche grazie all'aiuto del "leone del Panjshir", il comandante Massud. E oggi diverse fonti sostengono che, insieme a un nutrito gruppo di militanti armati, sia tornato in Tajikistan. A Tavildara, cuore delle operazioni "anti-droga" dell'esercito tajiko, nessuno ammette di averlo visto. Davlatkadam è un semplice contadino, che vive non lontano dal ponte che unisce il paese alla strada sconnessa, unico collegamento stradale tra Khorog, capitale della regione autonoma del Gorno-Badakhshan, e Dushanbe. Seduto nel patio di casa, dice di non saperne niente: «qui di certo non è passato. Però è vero che da qualche tempo di militari in giro se ne vedono molti più del solito. E ogni tanto la notte si sente qualche sparo. Ma sa com'è, siamo abituati da queste parti. Gli spari non ci preoccupano più di tanto», sostiene divertito.
I colpi d'arma da fuoco, intensificati negli ultimi mesi, non sembrano preoccupare neanche Nazarshoev, con cui viaggio nel lungo tragitto tra Dushanbe e Khorog, e che sta tornando a casa, «nel Pamir» - sottolinea orgoglioso per rimarcare la diversità dal resto del paese -, dopo aver lavorato a lungo a San Pietroburgo. Come i tanti suoi coetanei che ogni anno emigrano in Russia o in Kazakhistan, contribuendo con le loro rimesse al 40 per cento del prodotto interno lordo del Tajikistan, tra i venti paesi più poveri al mondo. Le sue preoccupazioni oggi sono altre: «Di quest'operazione non so niente. Dopotutto ho altro a cui pensare - afferma -. In Russia le cose si sono fatte difficili. Oltre all'atteggiamento ostile dei russi, c'è il fatto, ancora più grave, che il lavoro comincia a scarseggiare. E i russi lo reclamano per sé. Non sono l'unico ad esser dovuto tornare a casa». Come testimonia tra l'altra una stima recente, secondo cui a partire dagli ultimi mesi del 2008, contestualmente alla crisi economica che ha investito le economie mondiali, le rimesse dei lavoratori emigrati sarebbero scese del 50 per cento. Piuttosto che garantire un lavoro ai tanti giovani del Tajikistan, un paese in cui l'età media è 21 anni e circa il 35 per cento della popolazione è sotto i 14 anni, Rakhmonov pensa invece ad assicurare i privilegi della sua famiglia, che possiede partecipazioni in settori economici strategici, a fare piazza pulita dei potenziali avversari politici nelle elezioni del prossimo febbraio, e a dimostrare la propria buona volontà di fronte alla comunità internazionale. A dispetto delle minacce dei talebani, che hanno ammonito il governo di non permettere il transito di rifornimenti militari per le truppe americane in Afghanistan, il ministro degli esteri Hamrokhon Zafiri di recente ha confermato la volontà dell'esecutivo di appoggiare gli sforzi della comunità internazionale per combattere i talebani e Al Qaeda. Una volontà che, secondo molti osservatori, deve passare per un più attento controllo dei 1300 chilometri di confine con l'Afghanistan.
Viaggiando per le zone di confine del Badakhshan o del Wakhan, dove solo il burrascoso fiume Pyanj divide i due paesi, l'operazione appare però una chimera. Che Rakhmonov cerca di vendere come realtà agli occidentali: lo scorso maggio, in un messaggio televisivo, il presidente ha lodato l'agenzia statale per il controllo del traffico della droga, encomiandone il lavoro. E ha suggerito di ospitare nel 2011 una conferenza internazionale sul tema, sotto l'egida delle Nazioni Unite, proprio a Dushanbe. Per ora le risposte della comunità internazionale sono tiepide. E i mille e trecento chilometri di confine con l'Afghanistan, che nel 2008 ha prodotto 7.700 tonnellate di oppiacei, rimangono pressoché sguarniti. Osservati, con sguardo pigro e svogliato, da qualche imberbe soldato tajiko.

Liberazione 19/08/2009, pag 6

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