domenica 20 settembre 2009

Marc Augé: «Non dobbiamo temere le frontiere: sono porte da varcare, non barriere»

Marc Augé Etnologo e antropologo del mondo contemporaneo
Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è "Il metrò rivisitato"

Guido Caldiron
«Non ho mai smesso di prendere il metrò, mai smesso di essere parigino (...) Vent'anni dopo, dunque, non si tratta semplicemente di un ritorno nel metrò, quanto di una fermata, di una pausa, di un colpo d'occhio retrospettivo per cercare di fare il punto su cosa è cambiato». Marc Augé, tra gli intellettuali europei più attenti ai mutamenti delle società, delle metropoli e della cultura spiega così il senso del suo viaggio nei sotterranei di Parigi compiuto con Il metrò ritrovato (Raffaello Cortina, pp. 80, euro 8,00) a vent'anni dalla sua prima, storica, indagine raccontata in Un etnologo nel metrò (Elèuthera). Augé che ha partecipato nei giorni scorsi al Festivaletteratura di Mantova sarà tra i protagonisti del Festivalfilosofia che si svolgerà tra Modena, Carpi e Sassuolo a partire da venerdì e che quest'anno è dedicato al tema della "comunità". L'intervento di Augé, centrato sull'idea di "frontiera", è in programma sabato alle 11.30 in Piazza Garibaldi a Carpi.

L'edizione di quest'anno del Festivalfilosofia è dedicata al tema della "comunità", una sorta di "parola maledetta" del Novecento che oggi sembra essere tornata molto in auge. Come la si può usare?
Quello di "comunità" è un concetto che viene utilizzato sempre più spesso anche se non credo abbia sempre un centenuto altrettanto evidente. Mi spiego: si parla di comunità etniche, gli ebrei, gli arabi e via dicendo, di questo o quel paese; si parla di comunità a proposito delle preferenze sessuali di ciascuno, la comunità omosessuale; per estensione di parla anche della comunità docente o di quella scientifica a proposito dei gruppi di insegnanti e di ricercatori; infine c'è la Comunità europea... Insomma, mi viene il sospetto che questa non sia la parola migliore per pensare gli individui all'interno della società. "Comunità" significa che chi ne fa parte dovrebbe condividere con gli altri determinati elementi, ma non credo che questo basti a definire dei gruppi coerenti. Piuttosto il termine è spesso utilizzato in maniera molto pericolosa per descrivere degli insiemi a tutto tondo che si confrontano con insiemi altrettanto chiusi e definiti. In realtà se si guarda bene nessun tipo di comunità è invece così coerente al proprio interno e così valida come punto d'osservazione verso una società. Appare chiaro che come anche "identità" e "cultura", altri due termini molto in voga, il riferimento alla "comunità" serve perciò prima di tutto a negare la voce ai soggetti, agli invidui. Si dice guardiamo alle comunità per sminuire il valore e i diritti dei singoli esseri umani.

Al festival lei interverrà parlando della "frontiera" che a suo dire non rappresenta però un limite quanto piuttosto un'occasione di scoperta. Come è possibile?
E' semplice, proprio perché cerchiamo di partire dall'individuo piuttosto che dalla comunità dobbiamo interrogarci su cosa rappresenti oggi l'idea di "frontiera". Infatti, accanto a un mondo fatto di comunità si parla da tempo di un mondo globale senza più frontiere: le frontiere esisterebbero solo tra gruppi definiti, coerenti e formati da simili. Si tratta ovviamente di una rappresentazione della realtà davvero molto rischiosa e inquietante. Proprio per questo si deve partire da una definizione della frontiera. Dal mio punto di vista una frontiera non rappresenta in alcun modo una barriera, bensì una sorta di strumento di passaggio e una soglia da cui guardare dentro qualcosa. Si dice che esistono delle frontiere tra le lingue, ma questo non impedisce che si passa da una lingua all'altra. La nozione di frontiera ci serve perciò non tanto per delimitare il campo della ricerca intellettuale, quanto piuttosto per rendere possibile il riconoscimento dell'"altro". Sono abituato a partire sempre dal punto di vista dell'individuo e mi sembra che in questo senso la frontiera sia il luogo simbolico nel quale può avvenire l'incontro e la scoperta degli altri. In questo senso la frontiera ci offre l'occasione di parlare degli individui e del futuro, piuttosto che di presunte collettività fittizie e del passato.

Le frontiere tornano però spesso nella sua riflessione come elementi che strutturano il mondo frutto dei processi di globalizzazione di questi ultimi decenni: non le frontiere tra le culture e i paesi, ma quelle che continuano ad attraversare ogni singola società. Vale a dire?
L'esempio che faccio spesso riguarda l'accesso all'educazione. Più che le differenze tra gruppi o comunità mi sembra molto significativa quella che mette a confronto le chance che possiede la figlia di un professore di Harvard e il figlio di un contadino afghano: l'una ha di fronte a sé ogni tipo di possibilità, l'altro non è ha probabilmente alcuna. E' tutto ciò, questa profonda disparità non ha nulla a che fare con la loro cultura, invertendo i ruoli si invertirebbero anche le possibilità... Ci sono delle barriere che limitano l'accesso al sapere, all'educazione e, ovviamente anche a molte altre cose. Dovremmo essere in grado di trasformare queste "barriere" in "frontiere" permettendo a tutti il passaggio da una condizione all'altra, da una chance all'altra. In questo l'educazione è la base da cui partire, per tutti. Credo rappresenti una sorta di apprendistato delle frontiere, la base da cui apprendere come si fa a varcare la porta che ci introduce a ciascuna cultura. Per questo l'accesso all'educazione rappresenta una delle sfide principali del mondo globale di oggi.

Parlando di "comunità" con un intellettuale parigino non si può evitare di citare il dibattito che da tempo caratterizza la società francese, dove alla crisi del modello di integrazione repubblicana sembra essersi sostituita una particolare attenzione al "fatto comunitario". Lei è tornato recentemente a visitare il metrò della capitale a vent'anni dalla sua prima indagine: che cosa ha trovato da questo punto di vista?
E' evidente che nel metrò di oggi non si può che cogliere una diversità etnica maggiore rispetto a vent'anni fa. Ci sono molti più asiatici, africani e via dicendo. Il metrò di oggi ha, per così dire, una popolazione sempre più varia e mista. Ma sostenere che si tratta dei rappresentanti di altrettante comunità sarebbe una vera aberrazione: ho studiato e viaggiato abbastanza in Africa per poter dire che cosa siano le vere differenze tra i gruppi umani. No, una cosa è la voglia degli individui di definirsi come gruppo, e penso alle tante culture giovanili che crescono in una metropoli, altra cosa è il percepire queste come "differenze" fondanti qualcosa. Per quanto ho detto fin qui credo si sia capito che io non credo che le comunità esistano davvero nella realtà e siano piuttosto un comodo alibi per non affrontare i temi posti da ciascun individuo.

Parlando di questi temi è difficile non pensare alla crisi delle banlieue: che cosa non ha funzionato nei grandi spazi urbani sorti attorno alle metropoli francesi?
Si tratta di una situazione complessa e gli elementi che andrebbero analizzati sono molti. Una cosa che mi sento di dire è che intanto si deve uscire da una rappresentazione delle periferie costruita sulla base di facili cliché: le banlieue non sono la giungla oltre la porta di casa, questa specie di mondo spaventoso che sta intorno a noi e di cui non possiamo che avere paura. Oggi sembra che ci voglia più coraggio per andare a Sarcelles, banlieue di Parigi, che nella savana o nel Sahara. Decisamente una cosa ridicola. Ciò detto, i problemi sono molti: sul terreno economico, del lavoro, ancora una volta dell'educazione. La politica dell'urbanistica pubblica francese, fin dagli anni Settanta, ha puntato a far vivere tutta una parte della popolazione, la più disagiata, nelle stesse zone, e questo non ha certo reso le cose più facili. Sul fondo c'è però il fatto che ai giovani cresciuti in queste zone la Francia non è stata molto spesso in grado di offrire un percorso educativo degno di questo nome: non si è cercato di farne dei cittadini come tutti gli altri a partire dalla loro educazione. Ed è da lì che si deve ripartire ora per cambiare le cose, non certo dalle politiche repressive e del controllo sociale.

Liberazione 16/09/2009, pag 12

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