martedì 17 febbraio 2009

La fortuna dei "Quaderni" nel subcontinente

GiustificaL'India postcoloniale élite contro subalterni

Marianna Scarfone
Il Collettivo dei Subaltern Studies nasce alla fine degli anni Settanta quando un gruppo di storici - più tardi si definiranno "accademici marginalizzati" - decide di dare vita ad una collana da pubblicarsi in India, Subaltern Studies. Writings on South Asian History and Society , di cui usciranno, tra il 1982 ed il 2005, dodici volumi.
Gli storici dei Subaltern Studies intendono dare spazio nella nuova storiografia indiana a soggetti che da essa sono sempre stati emarginati, scardinando la posizione di acritica centralità di cui godono i gruppi dominanti nelle storiografie "élitiste", di matrice colonialista o nazionalista, valorizzando invece il tessuto autonomo di relazioni e modalità che definisce lo spazio politico subalterno. Propongono una riflessione sistematica e approfondita su tematiche legate all'«attributo generale della subordinazione», declinabile in termini di classe, casta, età, genere, professione: un'indagine - per dirla con le parole di Ranajit Guha, uno degli ispiratori del collettivo - che attraversi «la storia, gli aspetti politici, economici e sociali della subalternità, le attitudini, le ideologie e le credenze - ovvero la cultura che informa tale condizione».
Al centro del progetto storiografico, intrinsecamente politico, vi è il concetto di "subalterno", inteso, come del resto da Gramsci stesso, come capace di comprendere, quali soggetti della trasformazione, oltre gli operai "metropolitani", tutti coloro che vivono «ai margini della storia». Attraverso questa categoria viene tematizzata la relazione dialettica tra dominanti e dominati, tra élite che con ogni mezzo aspira all'egemonia e massa subordinata - nel contesto coloniale doppiamente sub-ordinata: all'autorità indigena tradizionale e al potere coloniale - che in idiomi peculiari esprime il proprio senso comune e tenta di sovvertire l'ordine imposto dall'alto.
Ispirati dalla lettura dei Quaderni , nella Selection inglese del 1971, questi storici si attengono all'indicazione metodologica fornita da Gramsci secondo cui lo "storico integrale" deve impegnarsi a cogliere «ogni traccia di iniziativa autonoma da parte dei gruppi sociali subalterni», dal momento che la storia di questi gruppi che abitano le periferie di un presunto centro politico economico ed epistemico risulta «necessariamente disgregata ed episodica», tende ad essere cancellata e manipolata dalle narrazioni prodotte dalle classi dominanti per sostenere il proprio progetto egemonico.
L'applicazione di categorie mutuate da Gramsci a circostanze e dinamiche storiche precise, risulta particolarmente acuta ed efficace nelle riflessioni di Ranajit Guha, membro più anziano del Collettivo e antesignano nell'analisi della "coscienza contadina" e delle sue manifestazioni caratteristiche, della società rurale e dei soggetti che la costituiscono, e di Partha Chatterjee, più giovane di una generazione, studioso del nazionalismo e del suo rapporto con le forme di sapere-potere occidentali, del ruolo dell'élite borghese liberale-progressista nella realtà indiana e delle resistenze opposte al suo progetto egemonico normalizzatore da parte dei gruppi subalterni.
Nella riflessione di Guha affiora prepotentemente il tema dell'egemonia. Per egemonia Guha intende quel «concetto dinamico» che rappresenta l'articolazione storica concreta del potere tale per cui, nel quadro della dialettica dominio/subordinazione, nella composizione organica del dominio, la persuasione ha un peso maggiore della coercizione.
Egli sostiene che l'élite coloniale prima e quella nazionalista "indigena" in seguito abbiano entrambe fallito nel generare «un consenso attivo e volontario (libero)», presupposto ineludibile per una compiuta egemonia, ed abbiano entrambe fabbricato ad hoc, con la complicità delle storiografie conniventi, un'egemonia spuria, che mascherasse i mezzi violenti e repressivi (arroganza e discriminazione razzista; intimidazione, ostracismo sociale e violenza fisica) su cui i due regimi hanno fondato il loro dominio, un dominio senza egemonia.
Chatterjee analizza la transizione dallo Stato coloniale allo Stato nazionale postcoloniale in termini di rivoluzione passiva, «la forma politica in cui […] la borghesia [può] giungere al potere senza rotture clamorose» e attraverso la quale lo sviluppo nazionale del capitale può prodursi senza risolvere la tensione insita nel discorso nazionalista, indiano nel caso specifico, che, nel tentativo di costituirsi come discorso diverso rispetto a quello colonialista occidentale, resta «prigioniero della struttura di potere che intende ripudiare».
La trasformazione politica che il movimento nazionalista indiano si propone è limitata, "molecolare": esso non intende trasformare radicalmente le strutture del governo inglese, né erodere in maniera significativa il potere delle classi dominanti precapitaliste. La strategia messa in campo, fondata sull'appropriazione dell'azione politica dei gruppi subalterni, produce un modello di politica nazionale in cui i subalterni sono mobilitati ma non partecipano: lo Stato nazionale postcoloniale incorpora i ceti subalterni nello spazio immaginario della nazione ma li tiene a distanza dallo spazio politico reale del potere dello Stato.
Chatterjee, nella sua analisi della rivoluzione passiva in una realtà non europea, distingue «tre momenti ideologici necessari» a delineare la forma paradigmatica del pensiero e della politica nazionalista e li applica al caso indiano. Dopo l'avvio e prima della maturità, ossia il compimento della rivoluzione passiva, che pur lascia sospese le contraddizioni tra il capitale e il popolo, tra uno Stato che si proclama rappresentativo ed una popolazione che non si sente rappresentata, la fase centrale è quella della manovra. In questa fase il discorso e la pratica nazionalista mobilitano l'elemento popolare attraverso un'azione di propaganda, al fine di costituire con esso il blocco storico per la rivoluzione passiva del capitale, portando in questo modo al massimo sviluppo la tesi grazie all'inclusione più o meno forzata in essa di una parte dell'antitesi, secondo la definizione gramsciana di rivoluzione passiva. È il Gandhismo, secondo Chatterjee, con le sue aspirazioni ambigue, a porre le basi per l'ideale inclusione di tutto il popolo nella nazione, in realtà, negli sviluppi dello Stato nazionale, per la sua concreta esclusione. Già Gramsci aveva descritto il Gandhismo come una teorizzazione ingenua e a tinta religiosa della rivoluzione passiva; probabilmente questo è il punto di partenza per l'analisi di Chatterjee, che riesce a svolgere esaustivamente l'idea di traduzione della categoria interpretativa di rivoluzione passiva nel contesto indiano, in Gramsci appena accennata.
Categorie e concetti elaborati dal filosofo sardo forniscono dunque agli storici dei Subaltern Studies, che intendono proporre un'alternativa percorribile al marxismo ortodosso, fortemente eurocentrico, chiavi interpretative per leggere la realtà e la società indiana, per cogliere i conflitti e le contraddizioni che ne permeano il processo storico.

Dalla relazione "Gramsci in India: i Subaltern Studies"

Liberazione 10/02/2009, pag 13

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