sabato 14 febbraio 2009

Davos, la kermesse dei ricchi riuniti al capezzale della crisi

Salvatore Cannavò
Inizia Davos, il vertice dell'economia globale che vede riuniti i "potenti" della terra, dai banchieri ai capi di governi agli economisti compiacenti ma quest'anno non si fa festa. Al capezzale della crisi globale, infatti, la fulminante e massiccia propaganda a favore del liberismo a oltranza quest'anno deve fare i conti con le proprie contraddizioni e le proprie promesse mancate. Il liberismo è ormai rinnegato in ogni angolo del pianeta e soprattutto negli Usa dove la presidenza Obama sta cercando di rispondere alla crisi a colpi di intervento statale e di iniziative dall'alto - sulla cui qualità ed efficacia è presto per pronunciarsi. Ma, almeno ai nostri occhi, appare evidente che nessuno ha un'idea efficace per uscire dall'impasse in cui si trova il mondo intero. Le previsioni negative si rincorrono e si accavallano - ieri la diminuzione del Pil italiano era stimata a -2% oggi il Fmi la prevede a -2,5, domani non sappiamo. I piani di intervento si moltiplicano, come se gli Stati potessero ricorrere all'infinito a un debito pubblico che comincia ad annaspare, specialmente in Italia, dove i rendimenti scendono e i timori di non solvibilità serpeggiano (basti farsi un giro in qualunque agenzia di credito per rendersi conto dello stato d'animo generale).
Che i piani di stimolo governativi non basteranno da soli a rianimare l'economia mondiale, lo dicono gli stessi "guru" dell'economia liberale che si ritrovano a Davos. «Stiamo assistendo a un potente riduzione dell'impatto dell'America - dice Stephen Roach, presidente di Morgan Stanley Asia - ma i piani di stimolo monetario e fiscale non basteranno. I consumi resteranno asfittici e la disoccupazione salirà». Neppure "il massiccio piano" del presidente Obama riuscirà quindi da solo a far rimbalzare l'economia di Oltreoceano. Curiosamente la posizione è espressa in nome di una critica "liberista" al rischio di un eccessivo intervento statale e al ritorno del protezionismo. Heizo Takenaka, direttore del Global Research Institute, sostiene ad esempio che «va evitato un eccessivo attivismo dello Stato», come gli stessi aiuti all'industria automobilistica. «Se le big 3 di Detroit» saranno salvate con l'intervento dello Stato, secondo l'economista si tratterà di una sorta di «bancarotta pilotata». Trevor Manuel, ministro delle Finanze del Sudafrica afferma che «i pacchetti di stimolo sono una moda», ma finora non è stato fatto abbastanza per affrontare il punto cruciale, cioè come riequilibrare la crescita tra le varie aree geografiche. Per il turco Ferit Sahenk, presidente del Dogus Group, «è molto importante il ruolo del G20 e anche del Fmi nel travasare le risorse dai Paesi più ricchi agli emergenti».
Come si vede si tratta di una polifonia scoordinata e confusa che evidenzia appunto la mancanza di idee forti ed efficaci per uscire dalla crisi. Insomma, dopo il liberismo degli anni d'oro e il capitalismo globalizzato oggi assistiamo a uno stato confusionale avanzato dal quale possono essere generati mostri e conflitti epocali.
Il limite evidente dei piani di intervento, in realtà, è che non mettono in discussione in nessun modo la struttura del sistema economico e sociale. Quando va bene sono dei palliativi, un'assistenza caritatevole di cui la "social card" italiana rappresenta l'aspetto più comico e paradossale. Ma nel peggiore dei casi sono interventi salvifici di interi settori del capitalismo nazionale e globale che poca incidenza hanno sulle condizioni effettive di lavoro e di vita. Altrimenti non si spiegherebbe perché in una situazione di crisi e di necessità di iniettare liquidità e aiuti di Stato un governo come quello italiano sceglie di ammazzare il contratto nazionale con l'effetto indotto di spremere ancora i lavoratori e di ridurre sensibilmente il loro reddito disponibile. Un non sense sotto tutti i punti di vista ma non in un capitalismo che per salvare postazioni e rendite deve comprimere il salario.
Poche idee, dunque, e pericolose. Che non lasciano vedere spiragli. A meno che qualcuno non pensi che Obama indicherà una via d'uscita. Come fa, sul Manifesto di ieri, Rossana Rossanda auspicando, più che aspettandosi, che Obama rappresenti il volto di un capitalismo migliore di quello di Bush, alludendo a un "compromesso socialdemocratico" la cui azione di ricompattamento sociale possa fare del bene, sia pure indotto, su un proletariato disperso, confuso e bastonato. Difficile credere che andrà così e non perché il capitalismo, nei momenti di crisi, non possa introdurre una "variante di salvaguardia". Il punto è che questa variante equivale a un fattore esogeno dirompente. Dalla crisi del '29 si uscì veramente solo con la Seconda guerra mondiale e al prezzo di una "distruzione creativa". "L'età dell'oro" è stata garantita dalla ricostruzione e dalla crescita fordista aiutata proprio dal compromesso socialdemocratico. Dalla crisi petrolifera del '73 e poi del '79 si è però usciti con una batosta dolorosa inferta al movimento operaio internazionale - dalla Fiat ai minatori - e poi, ancora alla fine degli anni 80, con la sconfitta del secolo e la dissoluzione delle residue speranze di trasformazione. Anche l'ampliamento del mercato globale ai paesi dell'ex blocco comunista, ha permesso alla globalizzazione di prosperare. Oggi è difficile individuare il fattore esterno decisivo: l'economia "verde" sembra ancora poca cosa e la qualità e la quantità degli interventi statali sono limitate.
L'uscita sarebbe possibile solo con uno "shock" sistemico operato da una forza di alternativa, di dimensioni internazionali. Un'illlusione, per alcuni, un sogno per altri. A Belèm quella che per alcuni anni è stata definita "la seconda potenza mondiale" si ritrova nel Forum sociale mondiale. E' unincontro che non può ripetere i fasti di Porto Alegre ma sul piano del metodo e dei soggetti di riferimento, dimostra che la strada continua a essere quella. Un insieme di forze eterogenee accomunate da un critica radicale al capitalismo, dall'elaborazione collettiva, all'autonomia dai governi. Riuscirà a essere il Forum un detonatore, come lo fu al tempo di Porto Alegre? Lo vedremo nel prossimo periodo. Certo è che, di fronte alla mestizia di Davos, può essere utile ricordare che avevamo ragione quando cominciammo a costruire quel movimento e che quel lavoro non può essere gettato nel cestino.

Liberazione 29/01/2009, pag 5

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