sabato 14 febbraio 2009

«Mannaggia alla miseria» Tra i nuovi schiavi a Eboli

In 700, marocchini, si spezzano la schiena per 25 euro al giorno. Ma sono fantasmi

Stefano Galieni
San Nicola Varco non poteva avere collocazione più evocativa. Una località "fantasma" fra Eboli e Battipaglia, lungo la statale 18, nel mezzo della Valle del Sele. Terra fertile che produce tutto l'anno, d'inverno carciofi e finocchi, in primavera le fragole e poi pomodoro pregiato. Terra ben coltivata, ai campi si alternano le serre, il lavoro non manca e di braccia ne servono, soprattutto per i lavori più faticosi, quelli di raccolta. Qualche masseria, una stazione dove non ferma alcun treno e poi "loro". Loro sono circa settecento lavoratori marocchini, per lo più ragazzi fra i 16 e i 25 anni, i veri invisibili ma fondamentali abitanti di S. Nicola Varco.
Lo scenario è surreale: una strada che si inoltra nei campi, un casale diroccato, pozzanghere, poi costruzioni fatiscenti, rappezzate con tavole, metallo, plastica, copertoni usati per tenere fermo ciò che funge da tetto. Passano ragazzi, chi in bici, chi con vecchi scooter, i fortunati in automobile. Il paese più vicino sorge a 7 chilometri, tanti per fare un po' di spesa. Tutti salutano Anselmo Botte con un cenno o con un sorriso. Anselmo, sindacalista Cgil, qui è conosciuto come il "sindaco sanatoria", cerca di aiutare tutti, da anni. Non con la carità ma con l'apertura di vertenze. Si informa e segue le singole storie personali, le mille vicende di fatica e di difficoltà che ognuno di loro vive. La sede del sindacato di Battipaglia è un punto di raccolta. Poi capitano le emergenze, capita che freddo e umidità rendano impossibile la vita nei locali ricavati da quello che resta di un mercato ortofrutticolo rimasto sulla carta, quattordici gli ettari di terreno destinati a ospitarlo, parzialmente edificato negli anni '80, 36 miliardi di vecchie lire inutilmente spese.
Fabbricati ormai a pezzi, una lunga distesa di box e due enormi magazzini utilizzati come servizi igienici.
Gli insulti del tempo non hanno risparmiato infissi e tramezzi, alle finestre fogli di nylon o plexiglass al posto dei vetri, e poi improvvisate pareti divisorie. Poco per resistere alle intemperie, senza riscaldamenti o corrente elettrica, e allora il sindacato è intervenuto anche distribuendo centinaia di sacchi a pelo, perché è impossibile costruire relazioni e prospettive se si è lontani anche dai bisogni primari. L'impatto visivo è desolante: una sola fontanella di acqua potabile, ciuffi di erba crescono accanto a cataste di immondizia, ci vuole tempo per comprendere come un ambiente così inospitale abbia in realtà un suo ordine. In uno spazio si è attrezzato un piccolo negozio: abbigliamento e scarpe sportive sono i prodotti esposti; un soffio di vento trasporta il profumo del pane. Alcuni dei ragazzi hanno messo in piedi un piccolo forno, focacce alte e fragranti, vendute a basso costo. E poi quattro distinti locali adibiti a bar (c'è anche la corrente grazie ai gruppi elettrogeni), una moschea, quello che consente di andare oltre la sopravvivenza fisica. Il rapporto con la Asl garantisce adeguata assistenza sanitaria ma spesso non basta. Ci si ammala di lavoro, facilmente, ci si sfibra rapidamente quando si trascorrono 10 ore al giorno alle raccolte (quella dei finocchi è la più faticosa). Le cure prestate dagli ospedali a volte non sono ben comprese da chi ne usufruisce. Ahmed (il nome è fittizio) ci mostra il referto che gli diagnostica un'ulcera alla caviglia. Esibisce certificati e fasciatura con un sorriso complice e un po' furbo, quello di chi attende una conferma. Dopo la visita è stato "adescato" da un avvocato che gli ha prospettato la possibilità di ottenere il permesso di soggiorno. Ahmed non sa se crederci. Anselmo, aiutato nella traduzione da un ragazzo che parla un ottimo italiano, gli consiglia di non prendere impegni e di non cacciare un euro. La diagnosi non garantisce un permesso di soggiorno (Ahmed può essere curato anche nel proprio paese) e il legale potrebbe essere uno dei tanti sciacalli pronti ad approfittare del bisogno di una speranza.
La speranza si chiama infatti "permesso di soggiorno" o meglio, regolarizzazione.
La situazione dei 700 lavoratori di S. Nicola è infatti inchiodata a un pezzo di carta, le loro braccia servono, se se ne andassero l'agricoltura nell'area si perderebbe, la loro presenza non intralcia e non crea allarmi sociali, vivono lontani dai centri abitati, ma al 90% sono irregolari. Ogni tanto, si crea l'allarme, la minaccia di uno sgombero dettata dall'ennesimo progetto speculativo sull'area. L'idea partorita in Regione, proprietaria degli stabili, è quella di un polo agroalimentare per l'intera valle. Un polo che comprende prodotti e produttori ma non chi, su quella terra ci si spezza la schiena. Altre decine di milioni di euro destinati a finire nei meandri dell'affarismo immobiliare. Regolarizzare chi lavora, garantire il minimo sindacale, consentirebbe di abbandonare quei tuguri, permettergli un affitto e una residenza, mandare "qualcosa" di più a casa. La ricerca del profitto e l'ottusità delle leggi negano questa soluzione. Anselmo ha ripreso le storie individuali e la complessità di un contesto che per certi versi è unico nel Mezzogiorno. Sono pochi qui quelli che seguono la rotta dei raccolti spostandosi di regione in regione. Si lavora tanto, da primavera ad inverno inoltrato, un lavoro che potrebbe permettere stabilità ma che farebbe saltare le condizioni di neoschiavismo. A metà febbraio Anselmo pubblicherà "Mannaggia la miserìa" con l'accento sull'ultima sillaba, come lo pronunciano quei lavoratori, un libro che racconta i loro quotidiani drammi di sopravvivenza.
Quei lavoratori provengono quasi tutti dalle zone agricole interne del Marocco, da province come Beni Mellal, hanno un basso livello di istruzione e in Italia fanno quello che sanno fare, coltivare la terra. Vengono in cerca di un futuro migliore, di un salario per mandare soldi a casa, trovano un ghetto e uno stipendio da fame, 25 euro al giorno. La mattina percorrono il tratto di strada che li separa dalla Statale, i caporali passano in continuazione, a volte sono italiani a volte conterranei che li sfruttano. Passano con furgoni e station wagon, li caricano e li depositano nei campi di raccolta.
Si paga per lavorare e si deve sottostare alle condizioni dei caporali, opporsi o sfuggire sembra impossibile. Un ragazzino, 16 anni al massimo, corre fra le pozzanghere su un vecchio "Ciao", un altro su una bicicletta si barcamena con una enorme tanica di acqua che sembra sempre lì per cadere. In questi giorni non c'è lavoro per tutti e una parte dei ragazzi bighellona in piccoli gruppetti. Sono in molti ad aver voglia di parlare, ma non di lavoro, non oggi. In uno dei bar servono thè fumante e dolce, come si usa in Marocco, versato con maestria. Una sala piena di volti attenti, la tv con la parabola è ferma su "Al Jazeera" le immagini di Gaza, quelle vere, quelle che i media occidentali evitano di mostrare, fanno salire la rabbia. Difficile non cogliere un nesso fra il rancore per le condizioni di vita e di lavoro, l'apartheid vissuto sulla propria pelle perché il diritto è quello di esserci come braccia ma non come persone. E l'odio, per chi uccide in Palestina. Il fango dei campi a Gaza e quello del "ghetto" sono troppo simili. Hamid domanda cosa ne pensiamo della guerra, rispondiamo che quella non è una guerra ma un massacro. «Allora - ci chiede con forza - non lasciateci da soli».

Liberazione 30/01/2009, pag 20

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