domenica 5 luglio 2009

Il resistibile ritorno delle gabbie

Inserto di Liberazione del 5 Luglio 2009

Le cosiddette “zone salariali”, più tardi chiamate “gabbie salariali”, furono introdotte in Italia con l’accordo interconfederale del 6 dicembre 1945. Si stabilivano 4 zone produttive nel nord, con una differenza di reddito tra la prima e la quarta del 14%. Il 23 maggio 1946 un nuovo accordo estendeva le “zone” anche al resto d’Italia. Lo spirito era quello della ricostruzione e della necessità di lasciarsi rapidamente alle spalle l’immane tragedia bellica. Nel Sessantotto, quel meccanismo che era diventato nel frattempo una trappola - visto che impediva a due lavoratori dello stesso settore, della stessa azienda, della stessa età e con la stessa qualifica, ma che operavano in due territori diversi, di percepire lo stesso reddito -, fu eliminato sotto la pressione di scioperi e mobilitazioni. Oggi è tornato d’attualità, sostenuto dalla Lega che ne vorrebbe il ripristino, mentre già le condizioni contrattuali e gli stipendi vedono nella realtà una forte sperequazione tra il nord e il sud del paese.

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Nel privato esiste già un divario tra le retribuzioni del nord e del sud

Le "gabbie" della Lega specchio dell'Italia

Piergiovanni Alleva
L'espressione "gabbia salariale" è nata negli anni '60 nel corso della vittoriosa lotta sindacale per il superamento, nei contratti collettivi nazionali, di tariffe differenziate per zone territoriali, e aveva una connotazione polemica ed un significato peggiorativo, ma non è la prima volta che un epiteto coniato con questi fini viene rovesciato nella sua valenza (si pensi a "sanculotto" o "vietcong"). Potrebbe accadere anche questa volta se a quella espressione si annette l'idea che al nord i salari dovrebbero essere più alti rispetto al sud perché al nord la vita è più cara.
In vero uno slogan di questo genere potrebbe attecchire con fulminea rapidità tra la classe lavoratrice del nord Italia, oppressa ed impaurita dalla crisi economica e sarebbe quanto mai pericoloso perché sicuramente capace di rivestire di apparente buon senso ed equità, pulsioni torbide, egoiste e separatiste. Sarebbe però uno slogan falso che descriverebbe uno scenario solo immaginario, ancorché da molti istintivamente creduto reale, perché in realtà nel settore del lavoro privato esiste invece un forte e crescente divario, già oggi tra le retribuzioni reali del nord e del sud Italia, pur nella generale miseria della condizione retributiva dei lavoratori italiani ormai agli ultimissimi posti in Europa. La commessa milanese che non riesce più, con i suoi 1200 euro mensili a pagare 600 euro di affitto o di mutuo e a vivere decentemente con il residuo, invidia forse la collega di Catania che in questa città paga un affitto di soli 200 euro, ma ignora che lo stipendio di quest'ultima raramente supera i 500 euro mensili.
Perché esista questo divario retributivo è presto detto: perché al sud il Ccnl è spessimmo disapplicato, perche infuriano il lavoro "nero" e quello "grigio", perché è di fatto assente la contrattazione aziendale, perché sono molto rari anche i superminimi individuali. Un sostenitore della "gabbie salariali" potrebbe però obbiettare che bisognerebbe allora rendere effettivamente vincolante il contratto nazionale senza consentirne l'evasione né a nord né a sud, ma che poi le tariffe minime da esso previste dovrebbero essere articolate per zone salariali geograficamente identificate. E' però agevole replicare che è la stessa configurazione del contratto collettivo nazionale, come definita dall'Accordo Interconfederale del 1993, ed ancor più "dall'Accordo separato" del 15 aprile 2009 a non consentire una soluzione o proposta di tal genere: perché quegli accordi hanno attribuito al contratto nazionale di lavoro una funzione di sola garanzia, neanche completa, del valore reale dei livelli salariali già esistenti e non più quella - tipica un tempo del contratto nazionale - di distribuzione degli aumenti di produttività ovvero della nuova ricchezza prodotta.
Insomma se oggi la funzione del contratto nazionale è solo quella di fornire una modesta garanzia anti-inflazionistica, sarebbe assurdo pensare che questa garanzia debba essere ancor minore in certe zone territoriali. Il vero è che la funzione di distribuzione della nuova ricchezza prodotta è invece attribuita da quegli accordi - almeno sulla carta - alla contrattazione aziendale e proprio nulla impedirebbe alle Rsu delle aziende del nord, (le quali sicuramente possono "spendere di più") di rivendicare e ottenere contratti aziendali più favorevoli di quelli che possono esser conclusi nelle aziende del sud, dove, per il vero, se ne concludono pochissimi o nessuno.
Si vede chiaro, allora, come la polemica "leghista" sui salari uguali in territori dove la vita è più cara e meno cara sia completamente astratta e pretestuosa, con riguardo al sistema di contrattazione collettiva voluto dal Governo e dalla Confindustria: il contratto nazionale non riguarda più il problema dei differenziali salariali perché svolge solo una funzione di protezione anti-inflazionistica, mentre con la contrattazione aziendale sicuramente i lavoratori del nord potrebbero ottenere (e spesso già hanno) una condizione salariale migliore di quella del sud.
Qual è allora la vera questione politica ? Che la Lega Nord non è affatto un partito di difesa degli interessi dei lavoratori, bensì dei datori di lavoro piccoli e meno piccoli, e dunque non auspica per nulla una contrattazione aziendale al nord più intensa, aggressiva e tale da consentire ai lavoratori di fronteggiare al meglio l'aumento del costo della vita, (certamente non fronteggiato adeguatamente dal contratto nazionale). Pretende, dunque, che il potere di acquisto aggiuntivo ai lavoratori del nord venga non dai loro datori di lavoro ma, magari, dalla fiscalità nazionale attraverso sgravi fiscali che in definitiva sarebbero pagati anche dai lavoratori del sud. Per questo scopo ci si inventa la favola di stipendi uguali al nord e al sud per poi chiedere un miglioramento delle condizioni del potere di acquisto dei lavoratori del nord (in sé giusto, ma non solo per loro) e non però nei confronti dei datori di lavoro cui spetterebbe invece di pagarlo.
Si può dire anche di più: è noto che l'accordo del 15 aprile 2009 solo apparentemente incentiva la contrattazione aziendale, perché lo strumento unico dell'apparente incentivazione è dato da sgravi per aumenti salariali di tipo incentivante contrattati a livello collettivo aziendali, ma validi anche - questo è il punto - per quelli erogati a mero livello individuale.
Ciò significa che quello che veramente si vuole è solo la contrattazione individuale tra datore di lavoro e lavoratore, entro la sottile cornice di una contrattazione nazionale di mera garanzia anti-inflazionistica, con il lavoratore costretto a negoziare -se può- direttamente con il datore senza nessuna mediazione sindacale.
Anche in questo scenario, come si comprende la condizione del lavoratore del nord sarebbe molto migliore di quella del lavoratore del sud, ma è proprio questa logica di confronto e competizione tra poveri che deve essere rifiutata.
La grande questione salariale va affrontata a nostro avviso a partire dalla necessità di un plafond di salario sufficiente con standard addirittura europeo, perché ciò è imposto logicamente dall'esistenza di un mercato unico. Salva, poi, una contrattazione integrativa capace di coglier le punte di produttività delle imprese attraverso una effettiva generalizzazione della contrattazione aziendale e limitazione invece dei superminimi individuali, attraverso lo strumento del riservare unicamente al salario contrattato nazionalmente o aziendalmente con le organizzazioni dei lavoratori ogni misura di defiscalizzazione.

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Nate nel dopoguerra furono messe in discussione con i contratti del 1969

Le "zone salariali" sconfitte dalla solidarietà

Fabrizio Loreto
Le cosiddette "zone salariali", porzioni di territorio nazionale dove erano in vigore differenti minimi salariali, furono introdotte in Italia con l'accordo interconfederale del 6 dicembre 1945, siglato dalla Cgil unitaria e da Confindustria. L'intesa, valida soltanto per le province del Nord, è ricordata soprattutto per l'introduzione della scala mobile, il meccanismo automatico di adeguamento dei salari al costo della vita; tuttavia, essa prevedeva anche la fissazione di 4 zone, con una differenza di reddito tra la prima e la quarta del 14%. Il 23 maggio 1946 un nuovo accordo estendeva le "zone" anche al resto d'Italia.
Per comprendere appieno il significato degli accordi interconfederali del 1945-46, occorre posizionarli nel difficile contesto del secondo dopoguerra. Di fronte alla necessità di lasciarsi rapidamente alle spalle l'immane tragedia bellica, bisognava progettare con urgenza un percorso di ricostruzione - non soltanto materiale - che permettese al Paese di voltare finalmente pagina. A tale proposito, la scelta fortemente centralizzatrice operata sul piano contrattuale dalla Cgil era funzionale ad una accelerazione del processo di rinascita nazionale; Giuseppe Di Vittorio, leader di quella Cgil, era profondamente convinto che soltanto limitando le pressioni corporative presenti nel mondo del lavoro, anche a costo di frenare le spinte più radicali delle masse popolari, si potevano tenere insieme il Nord e il Sud, operai e braccianti, lavoratori e disoccupati, giovani apprendisti e vecchi pensionati. Da tale convinzione scaturirono alcuni accordi generali (sulle Commissioni interne, sui licenziamenti, sulla tredicesima, sulla cassa integrazione, ecc.) che limitavano l'attività contrattuale delle Camere del lavoro e riducevano l'autonomia delle federazioni nazionali, cui era sottratta la contrattazione dei minimi salariali.
Il periodo successivo, inaugurato dalla rottura della Cgil unitaria nel 1948, coincise con i "duri anni cinquanta", quando la guerra fredda estese i suoi effetti laceranti anche a livello sindacale. Il simbolo della divisione sindacale fu l'accordo separato sul "conglobamento" - non firmato dalla Cgil - che, tra le varie disposizioni prevedeva l'innalzamento delle "zone" da 4 a 13, con un ulteriore allargamento fino al 30% della forbice tra i salari.
La "ripresa sindacale", avviata nel pieno del "miracolo economico", migliorò i rapporti tra le Confederazioni, favorendo la firma di accordi più vantaggiosi per i lavoratori. Il 2 agosto 1961 le "zone" tornarono a ridursi, diventando 7, con una differenza salariale del 20%. Esisteva una "zona zero", che comprendeva i territori di Genova, Milano, Roma e Torino (con indice pari a 100); nelle zone 1, 2 e 3 (con gli indici, rispettivamente, a 97, 95 e 92) si trovava la gran parte delle province del Centro-Nord (unica eccezione era Napoli, in zona 3); nelle zone 4, 5 e 6 (indici: 89, 84.5 e 80) si trovava la gran parte delle province meridionali e insulari.
Di fronte ad una crescita della ricchezza nazionale senza precedenti, ottenuta però con gravi sacrifici da parte dei lavoratori - in gran parte emigrati e con salari da fame -, la divisione dell'Italia "a fette" appariva sempre più intollerabile. Eppure, difficilmente il quadro avrebbe subito modifiche sostanziali, se non fosse sopraggiunto il Sessantotto, cioè quel movimento radicale e antisistema, antiautoritario e anticapitalista, che vide come protagoniste le giovani generazioni. Di fronte alla contestazione studentesca e operaia, il sindacato - non senza difficoltà - cercò di recuperare e fare propri alcuni temi della rivolta, a partire dall'adozione di metodi più democratici nei processi decisionali e di una linea più egualitaria.
Fu così che, a partire dalla primavera del 1968, parallelamente all'altra grande battaglia sulle pensioni, iniziò la vertenza per l'abolizione delle cosiddette "gabbie" salariali, che impedivano a due lavoratori dello stesso settore, della stessa azienda, della stessa età e con la stessa qualifica, ma che operavano in due territori diversi, di percepire lo stesso reddito. Cgil, Cisl e Uil disdettarono l'accordo del 1961 e iniziarono una lunga fase di trattative e di lotta, destinata a mutare i rapporti di forza tra gli attori in campo. L'autunno del 1968 fu il momento in cui il conflitto sociale nei singoli territori si fece più aspro; furono soprattutto i lavoratori del Sud a guidare la protesta, seguiti più tardi anche dagli operai del Nord, fino ad arrivare alle imponenti mobilitazioni delle "zone zero" (del triangolo industriale) che sancirono la definitiva maturazione del movimento.
La Confindustria oppose una tenace resistenza, convinta di interpretare le volontà delle piccole imprese del Sud, le quali avrebbero subito un evidente aggravio del costo del lavoro; in realtà, anche le grandi imprese del Settentrione sarebbero state penalizzate, perché l'innalzamento dei salari avrebbe rallentato il flusso di manodopera verso il Nord. Dopo alcune settimane di scontro serrato, la vertenza si sbloccò proprio a partire dal lato più "debole" del fronte datoriale, quello pubblico: il 21 dicembre 1968 l'Intersind accettava l'eliminazione graduale delle "zone", da realizzare entro il giugno 1971. A quel punto il Presidente di Confindustria Angelo Costa provò a mediare, offrendo soluzioni più morbide (4 zone e differenze al 13%, l'eliminazione delle prime due zone). Ma lo sciopero generale del 12 febbraio 1969 rappresentò un passaggio decisivo: l'8 marzo capitolava la Confapi, mentre il 18 marzo toccava a Confindustria, la quale riusciva a ottenere soltanto una maggiore gradualità nell'applicazione del provvedimento.
Il successo dei lavoratori e del sindacato era pieno e indiscutibile. La solidarietà mostrata dai lavoratori fu ampia, soprattutto da chi, come gli operai delle grandi aree industriali del Nord, nell'immediato non avrebbe guadagnato nulla dall'abolizione delle "zone". Il ruolo attivo svolto dal Ministro del lavoro, il socialista ed ex segretario della Cgil Giacomo Brodolini, fu molto importante. La vertenza ebbe un chiaro valore politico, riproponendo all'opinione pubblica la priorità della "questione meridionale" e mostrando una notevole carica combattiva dei lavoratori del Sud. Come ha scritto nelle sue memorie Ivo Jorio, all'epoca Segretario generale della Cgil dell'Aquila ( Appunti e spunti di un sindacalista di provincia. Riflessioni sul movimento sindacale aquilano e abruzzese , Ires Abruzzo Edizioni, 2007), «la battaglia contro le "zone salariali" non soltanto significò un fatto economico, ma liberò nel movimento forze nuove, soprattutto nel Mezzogiorno»: è un insegnamento, questo, che non va dimenticato, anche oggi che, con il pretesto di eventi "oggettivi" e "naturali" - si chiamino essi "crisi economica" o "terremoto" -, l'obiettivo resta sempre quello di penalizzare e dividere il mondo del lavoro.

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Gli accordi separati sottoscritti da Cisl e Uil aprono la strada al peggio

Rischio balcanizzazione per i diritti nel lavoro

Barbara Pettine
I metalmeccanici vanno al rinnovo del contratto su due diverse piattaforme. Da una parte il testo della Fiom che chiamerà le lavoratrici e i lavoratori ad esprimersi con il referendum sul rinnovo del solo biennio economico, dall'altra la piattaforma di Fim e Uilm, che, disdettando in anticipo un contratto firmato unitariamente solo 18 mesi fa e valido fino a dicembre 2011, hanno deciso di presentare un'ipotesi di rinnovo «in coerenza con quanto previsto dall'Accordo interconfederale 15 aprile 2009», operando uno strappo netto con la Fiom e tutta la precedente esperienza contrattuale.
«Poche chiacchere: facciamo il contratto» è lo slogan che la Fim ha scelto per la sua campagna di comunicazione. Sui volantini si legge che il rinnovo del contratto (parte normativa e parte economica) è stato da loro voluto per tutelare i lavoratori con «regole certe, misurabili e verificabili». Ma quali siano queste regole Fim e Uilm non lo dicono, anzi tacciono volutamente alcuni importanti clausole contenute negli accordi del 15 aprile e del 22 gennaio 2009, che rappresentano il quadro normativo entro cui le due organizzazioni hanno scelto di esercitare il ruolo negoziale. La loro piattaforma contrattuale non sarà sottoposta a referendum dei lavoratori, sarà votata dai soli iscritti alle due organizzazioni (che insieme sommano meno del 20% dei lavoratori della categoria). Questa piattaforma, nei suoi non detti, contiene norme che funzionano come quei pericolosi virus che si insinuano nei nostri computer e, senza che noi ce ne accorgiamo, incominciano ad attaccare dall'interno i file e l'architettura del sistema, fino a distruggerli completamente. Attenzione! «poche-chiacchere-facciamo-il-contratto» nasconde al suo interno un virus che porterà con sé la possibile frantumazione del sistema contrattuale basato sul contratto nazionale, su diritti acquisiti ed esigibili in modo uguale per tutti i lavoratori. Il virus distruttore si chiama articolo 5. dell'Accordo separato del 15 aprile 2009 e, prima ancora, si chiamava articolo 16 dell'Accordo quadro firmato il 22 gennaio con Governo e parti datoriali, accordi non sottoscritti dalla Cgil e non sottoposti al voto dei lavoratori.
Vediamo come è strutturato il virus.
L'articolo 16 dell'accordo quadro del 22 gennaio recita «per consentire il raggiungimento di specifiche intese per governare, direttamente nel territorio o in azienda, situazioni di crisi o per favorire lo sviluppo economico ed occupazionale, le specifiche intese potranno definire apposite procedure, modalità e condizioni per modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria». Certo, l'italiano è piuttosto contorto ma il significato è esplicito.
I contratti nazionali che saranno rinnovati secondo il sistema definito dall'accordo separato del 22 gennaio 2009, saranno chiamati a regolare le modalità con cui sarà possibile derogare a livello territoriale o aziendale a quanto stabilito nel contratto stesso. L'art. 5 dell'accordo con Confindustria del 15 aprile, poi, specifica ulteriormente i criteri sulla base dei quali sarà possibile esercitare il diritto a derogare. Sono indicati: «l'andamento del mercato del lavoro, i livelli di competenze e professionalità disponibili, il tasso di produttività, il tasso di avvio e di cessazione delle iniziative produttive, la necessità di determinare condizioni di attrattività per nuovi investimenti». Cioè praticamente tutto. In applicazione di tale clausola sia in aziende/aree in crisi che in aree/aziende in sviluppo, si potrebbero concordare minimi retributivi e parti normative inferiori a quelli previsti dal Ccnl. Per esempio in un mercato del lavoro in sofferenza per l'alta disoccupazione, si potrebbero concordare modalità di contratti a termine o di apprendistato o interinali ben oltre i tempi massimi e con retribuzioni inferiori al contratto e senza maturare mai alcun diritto alla stabilizzazione.
Allo stesso modo la fragilità occupazionale di alcuni soggetti rispetto ad altri (penso alle donne, alle persone ultracinquantenni, ai lavoratori extracomunitari, ma anche ai giovani in cerca di prima occupazione), potrebbe essere invocata come condizione che necessita un abbassamento del costo del lavoro e quindi una diminuzione delle loro retribuzioni sotto i minimi tabellari. Anche tutte le parti normative relative al governo degli orari e dei turni di lavoro, alle trasferte o alla reperibilità, come quelle che riguardano il part time, lavoro festivo e notturno, potrebbero essere derogate in peggio per favorire la produttività o l'avvio di nuove iniziative produttive. Per le categorie a più alta qualificazione la tanto agognata non assorbibilità degli aumenti contrattuali, anche se realizzata nel contratto nazionale, potrebbe essere rimessa in discussione e annullata da una accordo a livello territoriale o aziendale. Diritti individuali quali permessi, malattia, diritto allo studio, aspettative per studio o lavoro di cura, potrebbero venir congelati o comunque diminuiti attraverso accordi territoriali, anche sancendo condizioni diverse tra soggetti di una stessa azienda o di uno stesso comparto produttivo.
Le modalità e le forme e gli ambiti in cui potrebbe essere esercitato il diritto di deroga sono così ampi (infatti gli accordi di riferimento parlano genericamente di istituti economici e normativi, quindi di tutte le parti del Ccnl) che senza fare particolare catastrofismo è possibile prevedere come conseguenza diretta della trasposizione di queste regole nel Ccnl, uno scenario di possibile balcanizzazione dei diritti individuali e collettivi, dei salari, degli orari, di tutte le condizioni che regolano la prestazione. Anche lo stesso diritto alla contrattazione aziendale potrebbe essere sterilizzato da un meccanismo di questo tipo in un'area territoriale in crisi o oggetto di piani di sviluppo come condizione per favorire nuovi investimenti o per creare condizioni di maggiore competitività.
Di tutto questo non parlano però i documenti di Fim e Uilm e nulla dicono di come le due organizzazioni intendano regolare nel nuovo contratto questo potere di deroga. O ritengono di potersi sottrarre agli obblighi in tal senso che la firma degli accordi separati del 22 gennaio e 15 aprile ha consegnato loro?
E' evidente infatti che proprio sul principio di derogabilità si fonda il nuovo sistema contrattuale auspicato da Confindustria e Governo in esplicita rottura di continuità rispetto al sistema precedente accusato di essere anacronistico ed eccessivamente centralizzato. Non a caso Ceccardi, nella sua relazione introduttiva all'Assemblea annuale di Federmeccanica, ha richiamato il tema della contrattazione individuale come elemento vitale per le politiche dell'impresa, lasciando ben intendere fino a dove deve spingersi il principio di derogabilità. Mi chiedo se Fim e Uilm portino alla discussione dei loro iscritti anche questo sistema di deroghe che è parte fondamentale del sistema contrattuale previsto dall'accordo del 15 Aprile, visto che non se ne trova traccia nella loro piattaforma.
Ma anche se gli iscritti a queste organizzazioni fossero coinvolti e condividessero proposte nel merito, altri interrogativi ben più gravi meriterebbero risposta. Può una minoranza imporre alla maggioranza un sistema derogatorio ? Può la disdetta ad opera di sindacati di minoranza far decadere il Ccnl sottoscritto insieme ad un'altra organizzazione, maggioritaria, ed approvato a seguito del voto referendario di lavoratrici e lavoratori? Quale condizione di certezza del diritto si viene a determinare per gli iscritti alle diverse organizzazioni sindacali e quale per la maggioranza delle lavoratrici e lavoratori non iscritti? Ma di che stiamo parlando?... Poche chiacchere: facciamo il contratto!!! L'accordo è a portata di mano, la democrazia è una perdita di tempo, lo stato di diritto un'illusione ottica e chi si dilunga in sterili congetture (chiacchere) un disfattista!

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Leo Caroli
Segretario generale delle Cgil di Brindisi

«Al Sud i redditi sono già decurtati»

Fabio Sebastiani
La Lega propone le gabbie salariali ma al Sud di fatto i livelli salariali sono già bassi. Che cosa sta accadendo con l'accordo separato?
A Brindisi è stato appena rinnovato il contrato provinciale per i lavoratori agricoli, senza la firma della Flai Cgil. Nella provincia c'è una situazione diffusa di crisi. L'articolo 23 dell'accordo separato stabilisce che, di fronte alla crisi, in deroga da quanto previsto dal contratto nazionale si applicano livelli retributivi differenti attraverso una riparimetrazione del personale. Significa che che l'operaio qualificato viene declassato ad operaio comune. Le retribuzioni di ogni livello sono comunque ridotte. Questo articolo 23 in deroga a quanto previsto dal contratto nazionale ufficializza le gabbie salariali.

E quando finisce lo stato di crisi cosa accade, si torna come prima?
La cosa grave di questo meccanismo è che lo stato di crisi non viene certificato. Si tratta in realtà di una pattuizione. Non è previsto da nessuna parte un terzo soggetto, un ente istituzionale o un garante che accerti lo stato di crisi e quindi sappia dire quando ha un termine. Non solo, a questo regime di deroga possono aderire tutte le imprese, anche quelle illegali, cioè quelle che fino ad oggi si sono mosse nel nero. In questo modo si è di fatto costruita una gabbia salariale a Brindisi. E' una sorta di esperimento. Tutto questo perché il nuovo accordo separato ha introdotto il regime delle deroghe.

Una deroga che in realtà agisce come un bulldozer se non vado errato.
Intanto, va detto che questo accordo che contiene la deroga è in realtà un contratto integrativo pronviciale che riguarda un contratto già in essere. Si tratta quindi del secondo biennio. La sua efficacia dovrebbe decorrere dal nuovo contratto nazionale e non quando è in essere ancora quello precedente. Si apre un contenzionso che è non solo sindacale ma anche legale, e di natura costituzionale. Uno scenario complicato sul quale serve una riflessione approfondita.

Come intendete reagire?
Siamo pornti a mettere in campo anche azioni mirate. Se c'è la crisi deve essere certificata, altrimenti c'è una deriva della illegalità.

C'è il rischio che l'esperimento si estenda?
Questa operazione la stanno sperimentando a Brindisi. Ci stiamo interrogando sul pericolo che questo tipo di contratto venga esteso alle zone limitrofe. Siccome nelle altre province non hanno ancora firmato il timore è che a cascata forti dell'esempio brindisino qusto modello arrivi a diffondersi.

Che grado di contaminazione ha questa esperienza della deroga nel territorio?
Nell'industria ci sono due esempi. Il primo è del settore industriale. Nei contratti nazionali non esiste la quattordicesima. Grazie alla contrattazione territoriale e aziendale in alcune realtà del settore della gomma plastica e chimica eravamo riusciti a conquistare questo istituto, non previsto, nel rispetto pieno della contrattazione integrativa. Cosa è accaduto a questo punto in queste aziende? In una in particolare, ha deciso di cambiare contratto nazionale di riferimento passando al metalmeccanico. Primo perché i livelli retributivi sono più bassi e, secondo, per togliersi questo istituto della quattordicesima. Anche in questo caso Cisl e Uil hanno firmato mentre la Cgil è rimasta da sola con i lavoratori che per sei giorni hanno presidiato i cancelli. Se in un settore importante come questo si arretra immaginiamoci cosa accade negli altri settori e nella rete degli appalti e delle aziende non sindacalizzate. Almeno nel novanta per cento delle imprese meridionali non c'è questa contrattazione aziendale.

Appunto, unan deroga nel lavoro regolare ha effetti devastanti comunque nell'ambito del lavoro nero.
Abbiamo a Brindisi degli insediamenti industriali importanti, soprattutto nel settore petrolchimico. Il 50% delle attività di manutenzione, non strettamente legate al core business è esternalizzato. Nelle gare di appalto mai in nessun bando viene citato il contratto di lavoro di riferimento né il numero di unità minime per garantire il servizio e il coefficiente di valutazione per gli strumenti tecnici. E quindi rimane un solo elemento di valutazione, il massimo ribasso.
Nel territorio sei costretto a fare la battaglia solo per conservare i livelli occupazionali. E quindi su tutto il resto non c'è possibilità di mettere bocca. Ti devi accontentare e basta. Manca la copertura previdenziale in caso di cessazione di attività e senza cassa integrazione. Anche questo va considerato. Quando si guarda ai salari delle persone occorre anche soffermarsi su questo aspetto ovvero sul costo del lavoro. Quando finisce l'appalto non c'è diritto a niente.

Veniamo al punto. Perché il Sud ha accumulato un così forte ritardo nei livelli di reddito da lavoro?
La mancata redistribuizione dei premi di produttività cioè la mancata contrattazione aziendale ha di fatto fermato le buste paga ai minimi salariali. Al Nord non c'è una fabbrica che non redistribuisca la produttività. Questo istituto, qui, semplicemente non esiste. Non c'è la contrattazione perché c'è la rete delle piccole e medie imprese in cui i lavoratori non sono sindacalizzati. Si tratta di imprese famigliari o comunque di piccole comunità in cui il controllo è totale. Occorrerebbe fare in modo che la possibilità di far lievitare questi salari da un lato preveda una maggiore presenza del sindacato e dall'altra parte consentire ai lavoratori di integrare il salario con un elemento retributivo. La questione non può essere risolta attraverso la sola contrattazione. Occore un intervento straordinario, magari attraverso il fisco.

C'è poi il grande tema del salario indiretto, ovvero la mancanza di servizi pubblici che costringe il lavoratore ad acquistarli dai privati.
Se a Brindisi ci sono due asili nido e la città ha centomila abitanti è chiaro che devo provvedere diversamente e quindi mi devo rivolgere alle strutture private. Se nella Asl l'assistenza domiciliare integrata per gli handicappati costretti all'immobilità non c'è sono costretto a pagare il servizio. La rete dei servizi sociosanitari non è ancora esigibile. Tutte voci che incidono sul salario.

Cosa pensi politicamente della proposta della Lega?
Sono scandalizzato perché quella proposta tende ad ufficializzare ed allontanare il Sud dal resto del paese. Ho una mia profonda convinzione: il contratto nazionale di lavoro rappresenta lo strumento attraverso cui nel valore del lavoro si realizza l'unità, non solo dei lavoratori ma dei territori e del paese. Ciò che tiene insieme il paese è la contrattazione collettiva.

Come pensi che debba regolarsi il sindacato?
Il sindacato deve fare di questo una battaglia identitaria. Se le cose precipitano perderemo tutti. In questi giorni a Brindisi hanno soppresso lo scalo merci delle ferrovie. Questo vuol dire che il sistema produttivo non è più collegato al resto del mondo. Se a questo ci aggiungi il fatto che la nostra zona industriale non è bonificata vuol dire che Brindisi si appresta ad uscire dalla crisi in condizioni più penalizzanti rispetto a prima. Tutti questi fattori non fanno che condannare il Sud e la proposta della lega vuol dire immediamtaente tagliare l'Italia in due.

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