lunedì 27 luglio 2009

Non piacerà a qualcuno ma Benjamin era marxista

In "Classe" Andrea Cavalletti rilegge il pensiero del grande filosofo tedesco

Gianluca Schiavon
Walter Benjamin ha studiato il tema della classe ribadendone il ruolo nella lotta politica e nell'interpretazione della realtà. Non stupisce che Andrea Cavalletti dedichi a ciò il suo ultimo saggio - Classe , Bollati Boringhieri, pp.137, euro 9,00). Cavalletti giunge a questo concetto avendo continuato a dissodare fruttuosamente il campo delle aggregazioni tra uomini per capirne il senso, le relazioni e, soprattutto, le strutture del dominio. La ricerca comincia dall'osservazione sulla folla rabbiosa, sulla massa chiassosa, dopo aver compreso, per merito di Giorgio Agamben, l'assoluta artificialità del concetto di popolo. Si tratta infatti di una categoria buona per chi scrive testi religiosi o costituzioni di Stati sovrani, riduzione all'unità di una somma di individui de-finiti, individuati dall'appartenenza ad un Deus absconditus o a un capo che agisce in sua vece sulla Terra. Il popolo è la normalizzazione della folla o, per meglio dire, è la folla stessa dopo la normalizzazione dei dispositivi statali. La domanda da cui il militante e il filosofo politico partono non è più solo come sottrarsi dai dispositivi di disciplina e di controllo, ma chi può recidere questi dispositivi. Ora se è pensabile una defezione assoluta come risposta individuale alla prima domanda, alla questione sul soggetto in grado di distruggere i dispositivi (normativi e psicologici) artefici della sicurezza e della paura la risposta sta nel titolo dell'ultimo libro di Cavalletti. Non una classe, ma la classe cui appartengono le donne gli uomini che si distinguono per partecipare alla valorizzazione del capitale dell'altra classe, quella antagonista. La folla non è quindi che una massa compatta di piccolo borghesi come ci ha insegnato Benjamin «tanto più compatta quanto maggiore è la pressione a cui esposta, tra due classi nemiche della borghesia e del proletariato». E' questa una massa eternamente nel panico che scarica la fobia nell'odio contro gli ebrei, nell'istinto dell'autoconservazione, nell'entusiasmo bellico oppure oggi, al tempo della piccola borghesia planetaria, nella mutilazione del corpo e della parola delle donne. Ma come si distingue allora la classe - o per chi scrive il soggetto della trasformazione - dalla massa all'apparenza simili? Ancora l'autore ricorre a Benjamin secondo il quale il proletariato è massa compatta solo «nella rappresentazione dei suoi oppressori» che smette di esserlo «quando passa all'azione» attraverso la solidarietà. «Nella solidarietà della lotta di classe viene soppressa [appunto] la morta, adialettica contrapposizione tra individuo e massa; per il compagno essa non esiste. Se decisiva è quindi la massa anche per la guida rivoluzionaria, la sua maggiore prestazione non consiste nel trascinarsi dietro le masse, ma nel lasciarsi sempre riassorbire in esse, per essere sempre di nuovo, per la massa, uno dei centomila». La classe è allora priva di un tipo carismatico mentre la massa si fonda sulla figura della guida, duce o führer. Questa è la fonte di ogni fascismo secondo l'autore del saggio volta a mascherare «la pura e semplice compressione nei nomi arcaici e indistinguibili di comunità, patria, lavoro, sangue, capo». Il riferimento al mondo arcaico appare particolarmente calzante perché ricorda il parallelo tra il leader carismatico del XIX e del XX secolo, tra Napoleone III eletto dal suo popolo imperatore e Hitler emerso dal suffragio universale reazionario nel 1933. Il proletariato è invece un prodotto della valorizzazione del capitale e dell'estrazione del plusvalore. La classe combatte contro la propria oppressione e in ciò diventa oggetto di conoscenza storica come il grande pensatore berlinese scrive nella XII tesi sul concetto di storia. La parte finale di questa tesi ricorda come questo soggetto storico andasse ricostituito contro la socialdemocrazia che si compiaceva di assegnarle «la parte di redentrice delle generazioni future. E così le spezzava il nerbo migliore della sua forza». Conseguentemente la classe «disapprese a questa scuola sia l'odio che la volontà di sacrificio. Poiché entrambi si alimentano all'immagine degli avi asserviti, e non all'ideale dei liberi nipoti». La classe lotta contro la socialdemocrazia, contro se stessa - in quanto vuole creare la società senza classi - così come contro lo storicismo. La classe lotta contro il tempo creando un nuovo calendario. La lotta infatti sospende il tempo anzi come dice Cavalletti - peraltro studioso di Furio Jesi - pone «il tempo di un giudizio messianico su un'epoca precedente». Il conflitto di classe assume quindi le forme della pura lotta: lo sciopero generale politico e a-rivendicativo, così come teorizzato da Georges Sorel amatissimo da Benjamin e apprezzato anche da Gramsci nel 1919. In questa forma di sciopero, scriveva Sorel, non trova spazio l'utopia «la rivoluzione appare come pura e semplice rivolta, e non c'è più posto per i sociologi, o per gli intellettuali che hanno scelto la professione di pensare per il proletariato». In un simile quadro il comunismo non è la secolarizzazione di una prospettiva di salvezza eterna. Il comunismo non proviene dall'attesa di nessun Messia: né da un messianismo profetico che depone sull'uomo tutta la responsabilità di aver tradito le parole fulminanti del profeta né dal messianismo apocalittico cioè dall'attesa della redenzione dopo la catastrofe . Benjamin descrive il comunismo il 6 maggio 1936 in una lettera a Gershom Scholem. Di tutte le espressioni possibili «il mio comunismo evita soprattutto quella di un credo di una professione di fede». Anzi «un'espressione drastica e non infruttuosa dell'impossibilità che la routine scientifica attuale offra uno spazio per il mio pensiero, che l'economia attuale conceda uno spazio alla mia esistenza […] il comunismo rappresenta per colui che è stato derubato dei suoi mezzi di produzione interamente, o quasi, il tentativo naturale, razionale di proclamare il diritto a questi mezzi, nel suo pensiero come nella sua vita». Volendo esprimere un giudizio su un saggio così denso non si può non cominciare col dire che Cavalletti ha due meriti: citare con ampiezza e dovizia i testi benjaminiani e inserire altrettanti rimandi alle opere alle quali lo stesso pensatore berlinese si riferisce. Deriva un affresco davvero completo del Benjamin filosofo marxista e militante rivoluzionario. Il libro allora lo riposiziona nel contesto storico dei principali pensatori comunisti d'Europa (Brecht, Lukács, Adorno) e lo ricolloca nella temperie post rivoluzione russa e contemporanea all'ascesa nazista. Non apprezzerà il libro di Cavalletti chi ha interpretato Benjamin come un pensatore suggestivo al quale far recitare i ruoli più eclettici del precursore della lotta non-violenta ghandiana o del cantore di un messianismo depresso.

Liberazione 23/07/2009, pagina 12

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